Chi siamo
LO SVILUPPO ECONOMICO: LE RISORSE DELL’ITALIA
In collaborazione con Invitalia. Partecipano: Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico; Marco Ceresa, Amministratore Delegato di Randstad Italia; Ernesto Ciorra, Direttore Innovazione e Sostenibilità di Enel; Paolo Pandozy, Amministratore Delegato di Engineering; Sergio Solero, Presidente e Amministratore Delegato di BMW Italia Spa. Introduce Bernhard Scholz, Presidente di Compagnia delle Opere.
Lo sviluppo economico: le risorse dell'Italia
BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno a tutti. Prima di iniziare questo incontro, vorrei dare a nome di tutti noi un messaggio di vicinanza e di solidarietà alla popolazione di Ischia che è stata colpita ieri sera dal terremoto. I dati economici di questa estate parlano di un’inversione di tendenza. Abbiamo una crescita della produzione industriale, abbiamo una crescita dei consumi, abbiamo una crescita anche dell’occupazione, che è un dato molto importante. Però in questa inversione di tendenza non c’è nessun tipo di automatismo. Questa crescita iniziale ha bisogno di essere sostenuta, di diventare robusta e soprattutto duratura, perché l’economia italiana ha bisogno di crescere. Ha bisogno di crescere prima di tutto per creare occupazione per i giovani, ha bisogno di crescere per diventare più forte nella competizione internazionale, le nostre aziende devono irrobustirsi proprio, per stare di fronte a tante tematiche che avvengono dalle economie molto forti, dai paesi emergenti che stanno arrivando. E deve crescere anche per rendere il Welfare sostenibile e per affrontare il debito pubblico perché quanto finirà o diminuirà il quantitative easing della BCE, dovremo vedere come affrontare le conseguenze perché tendenzialmente gli interessi che dovremo pagare aumenteranno. Quali sono allora le risorse dell’Italia, quali sono le sue capacità per crescere, per sviluppare tutto il suo potenziale? Di questo parliamo e saluto in modo particolare il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, l’Amministrazione Delegato di Randstad Italia Marco Ceresa, Il Direttore di Innovazione e Sostenibilità dell’Enel Ernesto Ciorra, l’Amministrazione Delegato di Engineering Paolo Pandozy, e il Presidente e Amministratore Delegato di BMW Italia Sergio Solero. Iniziamo con l’esperienza di Engineering, una società italiana che ha avuto una crescita in un settore che sembra predominato dalle società anglosassoni, soprattutto americane, del Software e dei servizi dell’Information Technology. È stata una società che è cresciuta con acquisizioni, con partecipazioni da parte di alcuni fondi internazionali, oramai supera il miliardo di fatturato, conta 20 società consociate, ha 50 sedi distribuite in Europa, in America Latina, negli Stati Uniti. Paolo Pandozy è arrivato un anno dopo la fondazione, nel 1980 e ha guidato tutta la crescita di questo gruppo, che possiamo definire una crescita virtuosa in un mercato molto competitivo. Come penso lui dirà, fanno tantissimi investimenti in ricerca, in formazione e questa è una delle ragioni per la quale ha raggiunto il livello che oggi la dimostra come una delle società più grandi a livello europeo in questo settore. Hanno assunto nel 2015, 1000 persone di cui 300 giovani sotto i 30 anni. Questo è un dato che lui approfondirà, un dato che dice che quando un’azienda cresce riesce anche ad investire sui giovani. La mia domanda parte dalla Vision che voi potete anche leggere sul sito della società che dice: “Promuovere innovazione nelle organizzazioni, nei processi, nei servizi – adesso arriva la cosa interessante – con la passione, l’entusiasmo di un’azienda italiana.”. In cosa consiste allora, la passione e l’entusiasmo di un’azienda italiana?
PAOLO PANDOZY:
Grazie, buongiorno a tutti. Come accennava il dottor Scholz, io lavoro in quest’azienda oramai da 34 anni. Un periodo che corrisponde praticamente con l’ammodernamento del paese, la digitalizzazione del paese. Oggi si parla molto di digitale ma il digitale è iniziato negli anni ’70, con l’informatizzazione delle prime aziende, delle prime organizzazioni. Oggi in effetti ci troviamo ad un passaggio che non fatico a definire epocale, a un salto di qualità importante dovuto alla grande quantità di dati disponibili, per chi fa questo mestiere, per chi fa il nostro mestiere, e alla potenza degli algoritmi che oggi sono in grado di interpretarli e che messi insieme costituiscono quello che oggi tutti definiscono “Intelligenza artificiale”. Questo sta facendo veramente la differenza in tutti i settori del mercato: le banche, la pubblica amministrazione, la sanità, le Utilities e l’industria. Io vorrei soffermarmi in particolare sugli impatti che questa trasformazione può avere nel settore dell’industria e anche sulle paure che ci sono, che i robot possano sostituire gli operai, ma non solo gli operai, e quindi creare un problema ulteriore all’occupazione di questo paese. Vi faccio riflettere sul fatto che in questo paese i posti di lavoro si sono posti per il fenomeno opposto: noi sono ormai anni che perdiamo centinaia di migliaia di posti di lavoro perché le imprese si trasferiscono dall’Italia a paesi emergenti o del Terzo Mondo. Questo perché succede? Perché in un mercato globale la competitività diventa globale e le aziende cercano di trovare condizioni migliori di competitività. E l’hanno fatto senza innovare, però: hanno preso le fabbriche, le hanno spostate a mille chilometri di distanza, ma sono esattamente le fabbriche che avevamo 50 e 60 anni fa. E quindi hanno cercato condizioni dove il costo del lavoro era più basso e dove anche l’attenzione a fenomeni ecologici e di tutela dei diritti fossero meno stringenti. Sono fabbriche vecchie che sono andate in altre parti del mondo e così abbiamo perso posti di lavoro. Oggi abbiamo un’opportunità secondo me straordinaria, perché sicuramente un robot costa meno di un cinese, e quindi abbiamo la possibilità di far tornare la manifattura in Italia, cioè di invertire questo processo. Ma non è un’opportunità teorica, questo sta già accadendo. Sta accadendo in maniera sempre più forte, per un’altra questione: il mercato è cambiato in maniera importante non soltanto nella manifattura e non soltanto nella produzione ma in tutta la catena del valore, da quando si acquisisce un ordine, sempre più spesso attraverso un sito di commercio elettronico, a quando quest’ordine deve essere consegnato. E le fabbriche devono essere integrate all’interno di questo processo, dove il Time to Delivery diventa un elemento importantissimo. In questa logica, una fabbrica non può stare più a cinquemila chilometri di stanza, la fabbrica deve stare vicino ai mercati, europei e americani. E questo sta succedendo, in Italia anche: il cosiddetto fenomeno del Reshoring è un fenomeno estremamente positivo, che riattrae vicino ai mercati la manifattura. Non ci dimentichiamo mai (alle volte ce lo dimentichiamo) che l’Italia è comunque il secondo paese manifatturiero d’Europa, quindi in questo processo noi giochiamo un ruolo importantissimo. Dobbiamo però saperlo governare perché se non lo governiamo rischiamo che la manifattura torni in Europa ma non torni in Italia. Rischiamo che venga via dalla Cina, dall’India, come sta succedendo, ma non torni in Italia. Perché un’impresa possa tornare ad investire sono richieste, secondo me, principalmente tre condizioni. La prima: l’imprenditore cerca un fisco conveniente. E infatti già vediamo quali sono gli effetti delle agevolazioni fiscali poste dal Governo e in particolare dal Ministro Calenda sulla innovazione e la cosiddetta “industria 4.0”, gli effetti si vedono subito. Però questo non basta. Innanzitutto questo tipo di interventi bisogna che diventino strutturali, cioè l’imprenditore deve avere delle certezze. Ma bisogna anche lavorare sulla fiscalità generale. Cioè, noi ci troviamo all’interno di un’unica moneta, all’interno di un’unica comunità di stati, che legifera addirittura su quale dev’essere il diametro delle vongole, ma non è in grado di imporre condizioni equivalenti a livello fiscale. Quindi, se su questo non si lavora, si rischia che le imprese tornino scegliendo i paesi più vantaggiosi dal punto di vista fiscale ancorché vicini ai loro mercati. Secondo punto importante: uno stato che funzioni. E questo è un altro tema in cui purtroppo l’Italia rappresenta tutte le sue debolezze. Una pubblica amministrazione snella, che aiuti l’impresa a svilupparsi e non sia un ostacolo allo sviluppo delle imprese. Anche qui la digitalizzazione della pubblica amministrazione può fare molto, per rendere lo stato più efficiente nel rapporto sia con le imprese che con i cittadini. Ma moltissimo deve essere fatto ancora, siamo appena all’inizio, cioè la pubblica amministrazione, sia per i suoi processi, sia per la sua organizzazione, non è stata ancora minimamente scalfita da questa esigenza. E qui è il secondo punto debole. E poi arriviamo al terzo punto, che è quello che a me interessa di più perché è un problema con cui siamo portati a confrontarci quotidianamente: le competenze. Cioè, queste fabbriche per funzionare hanno bisogno di competenze diverse da quelle delle fabbriche tradizionali. E costruire delle competenze non è un processo breve, perché deve coinvolgere la scuola. Deve coinvolgere prima i formatori, che i ragazzi che devono essere formati. Qui la situazione italiana, consentitemi, è drammatica: noi siamo il paese che ha il minor numero di laureati in Europa e fra i peggiori dei paesi OCSE; e viviamo un paradosso incredibile perché siamo anche il paese in cui il laureato ha bisogno di più tempo per trovare un lavoro. In Germania, che è una realtà che conosciamo, usciti dalla scuola, dai cicli di formazione superiore o la laurea, entro tre anni lavora più del 90% dei giovani. In Italia un laureato, dopo tre anni trova lavoro nel 50% dei casi. Ma se è una risorsa scarsa, se sono così pochi, dove finiscono? L’altro fenomeno è che siamo ancora il paese che ha la maggiore percentuale del cosiddetto “Over skilling”, cioè dei laureati che fanno un lavoro che potrebbe fare un non laureato. Quindi, sono pochissimi, ci impiegano un sacco di tempo per trovare lavoro e trovano anche lavori sottoqualificati. È chiaro che questo fenomeno è drammatico, e lo dico per esperienza personale. Ricordava Scholz che noi dal 2015 ad oggi abbiamo assunto in Italia 1800 persone. Una fatica immensa, trovare persone che avessero le caratteristiche adeguate per fare il nostro lavoro, ed un investimento incredibile in formazione. Noi credo che siamo l’ultima azienda italiana ad avere una scuola di formazione residenziale, dove nel 2016 abbiamo investito 16mila giornate d’aula. 16mila giornate d’aula per formare i giovani e mantenere continuamente aggiornati tutti i nostri colleghi, tutti i nostri dipendenti. Che si aggiungono ai 45 milioni l’anno circa che l’azienda investe in Ricerca e Sviluppo, perché l’offerta sia sempre adeguata a quello che il mercato ci chiede. Il paradosso di questo paese secondo me sta in questo fenomeno: che un giovane va a scuola ed è seguito da un Ministero, quindi ci sono delle strutture che seguono questo giovane. Il giovane finisce la scuola, esce dalla scuola, esce dal liceo, esce dall’istituto professionale, esce dall’università, e finisce in un buco nero, nessuno ne sa più niente. Ci sono oggi in Italia, leggevo una statistica che il 30% dei giovani non studia più, non lavora più e neanche si cerca un lavoro. Io sono venuto qui ieri, è la prima volta che partecipo a questo evento e ho conosciuto dei giovani straordinari. Ho conosciuto volontari che oltre alla passione ci mettono competenza, ci mettono attenzione ai dettagli, bravissimi. Tutti questi giovani, se voi li guardate attentamente, trovate loro nello sguardo il dubbio: “Ma poi che farò?”. Son tutti studenti, tutta gente che studia, che ha fatto delle… però hanno l’incubo del futuro. Questi giovani, quando usciranno dalle università, qualcuno se li deve prendere in carico finché non trovino un lavoro, perché non è possibile che succeda quello che succede a noi, che quando troviamo finalmente un giovane preparato da assumere, ci accorgiamo che questo giovane erano anni che cercava lavoro. Noi sono anni che cerchiamo lui e lui sono anni che cerca noi? Non si po’ continuare in questa… mi verrebbe quasi da dire che il Ministero della Pubblica Istruzione e il Ministero del Lavoro dovrebbero fondersi, per garantire che i giovani vengano seguiti dal momento in cui escono dalla scuola al momento in cui vengono… non possono essere abbandonati! La risorsa che questo paese ha, abbondante, perché son giovani straordinari e, vi prego, guardatevi intorno durante queste giornate, che gioventù abbiamo! Non la possiamo disperdere in questa maniera. Bene, questi sono i temi che mi stava a cuore sottolineare, con uno spirito molto positivo: non bisogna avere paura dei robot. Noi tutti i giorni, faccio solo questo esempio poi chiudo, spero di stare nei tempi: il robot che incontriamo tutti i giorni, tutte le mattine, quando usciamo di casa da qualche anno e che usiamo spessissimo, si chiama Bancomat. Il Bancomat è un robot che ha sostituito il cassiere. Stupido, completamente stupido, quindi non ha nulla a che vedere con i robot di cui stiamo parlando. Ma voi pensate che il numero dei cassieri sia diminuito per il Bancomat? O meglio, che sia diminuito il numero degli addetti alla distribuzione del denaro? No, è aumentato. Perché? Perché il Bancomat è uno strumento che ha una produttività immensa rispetto al cassiere, lavora 24 ore al giorno tutti i giorni l’anno, lo trovate negli aeroporti, ha creato al suo intorno un indotto di persone che lo fanno funzionare, il cui numero è superiore al numero dei cassieri che sono stati sostituiti, ma fanno un mestiere completamente diverso. Non è più un mestiere quasi automatico, fanno mestieri molto più intelligenti. Quindi, concludo solo dicendo che l’automazione, la robotica non possono che far bene a questo Paese, se non altro perché possono invertire il processo di depauperamento delle nostre filiere manufatturiere che si stavano spostando progressivamente dall’altra parte del mondo. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Grazie a Paolo Pandozy. E arriviamo al tema dell’innovazione, ne parlerà Ernesto Ciorra, che prima di entrare nel gruppo Enel ha lavorato in diverse società di consulenza dedicate proprio all’innovazione e alla credibilità, di cui una ha fondato anche lui. Ha insegnato anche innovation management in diverse business school, e ha lavorato insieme a diversi master. Essendo lei anche poeta, come ho letto, le faccio la domanda in un modo artistico: per fare innovazione, occorre una creatività particolare o l’innovazione è qualcosa che è possibile per tutte le aziende in un modo sistematico? Occorre il genio, o tutti noi possiamo contribuire a innovare in un modo duraturo le nostre imprese?
ERNESTO CIORRA:
Buongiorno, e grazie per la domanda. Diceva Paul Valéry che il primo verso lo dà Dio, ma tutto il resto è pura fatica. Riprendendo il poeta, Edison diceva che ok, l’intuizione vale l’1% e il resto del 99% è sudore, fatica. Allora sì, l’innovazione può anche derivare dal genio, ma può essere strutturata, può essere favorita, esistono ecosistemi come Paesi interi che sono più innovativi di altri, pensiamo a Israele, pensiamo alla Silicon Valley o pensiamo al Bangalore, laddove il primo istituto italiano per la tecnologia è di qualche anno fa, il primo istituto indiano per la tecnologia è di quasi settanta anni fa. Quindi, è chiaro che si può investire per creare un ecosistema. Qual è il ruolo di una grande azienda? Allora, io ho qualche slides qui, ma prima di iniziare volevo condividere una battuta, una riflessione che è nata l’altro giorno in un bar a Roma, i Romani sono spesso molto dissacranti, anche perché sono abituati a grandi capi di Stato che arrivano, al Papa, le massime autorità, e quindi sono abituati anche certe volte a scherzare un po’ sulle cose importanti. Io sono andato dal barista e gli ho detto: “sai, quello che tu erediti dai tuoi padri, te lo devi riguadagnare” perché è una frase che a me piace molto. Lui mi ha guardato e mi ha detto: “A Dottò mi padre m’ha lasciato solo li puffi!” Al di là della frase che è straordinaria, due stimoli. Il primo: questi giovani non è che stanno ereditando dei posti di lavori certi, una economia che tira quella che hanno trovato loro, una grande crescita e opportunità di risparmio, perché se non c’è lavoro, risparmio non c’è. Allora dobbiamo anche pensare, secondo stimolo, che questa frase è vera ma possiamo fare di più di quello che abbiamo ereditato. Perché alla fine, nel suo piccolo, il barista mi ha detto: “io ho chiuso il buffet di mi padre o mo’ ciol bar”. Quindi possiamo fare molto di più, possiamo migliorare sul tema dell’inquinamento. Possiamo avere una società con minori infiltrazioni criminali, possiamo avere una società con maggiori posti di lavoro. Quindi io dico che la frase è bella, ma pensiamo che possiamo fare di più, ancora di quello che abbiamo ereditato.
Qual è il ruolo della grande azienda? Oggi i giovani si trovano senza lavoro. Dire che possiamo assumere tutti è ipocrisia, è bugia. Noi possiamo dare una grande mano, e lo stiamo facendo, ai giovani di talento che altrimenti emigrerebbero per crearsi start-up e fare co-sviluppo tecnologico. Noi stiamo prendendo decine di ragazzi e li stiamo portando a lavorare con start-up in Israele, start-up in Silicon Valley, stiamo presentandoli a fondi di venture capital americani che stanno dando a loro soldi. Perché? Perché sanno che dietro c’è una grande azienda che è interessata ai loro prodotti, alle loro tecnologie ai lori servizi e che vuole fare sviluppo tecnologico con loro. Quindi loro danno soldi con una certezza del player industriale vicino. Questo io penso sia il ruolo delle grandi aziende che purtroppo hanno un grande limite, hanno persone che conoscono bene il loro lavoro e quando conosci bene il tuo lavoro sei limitato, perché pensi che le cose vadano fatte sempre così, allo stesso modo, che le tecnologie funzionino sempre in quel modo, finché arriva uno che conosce poco del tuo business e fa le cose in maniera completamente diversa e crea un nuovo modello di business, tipo Airbnb, Uber ecc. Vi farò un piccolo giochino adesso, vi inviterei tutti quanti a farlo con me, mi alzo per farlo meglio insieme, quindi inviterei anche i relatori a farlo. E’ una somma matematica, una somma, non è una cosa complessa. Vi inviterei a dire ad alta voce il risultato di questa somma: 1.000+40+1000+30+1000+20+1000+10 quanto fa? Perfetto, tutti avete detto 5.000 chi ha detto 5.000 alzi la mano? Io la prima volta che ho fatto questo gioco, ho detto 5.000. Non bleffate, non fate queste robe strane, alzate la mano non è un simbolo fascista, ok? Quelli che hanno detto la verità hanno alzato la mano, gli altri non l’hanno alzata, ma hanno pensato 5.000. Le menti più veloci, quelle che imparano più velocemente, dicono 5.000. Il risultato di questa somma è 4.100. Ora ipotizzando che l’età media qui sia di 36 anni, 30 anni di matematica buttati. 30 anni di matematica in cui uno ha studiato le equazioni, non dico cose complesse, e non è in grado di fare questa roba che un bambino di seconda elementare non avrebbe sbagliato, perché lui l’avrebbe fatta piano, piano, non sarebbe stato veloce come voi, non avrebbe imparato la regola dominante di questa somma che è aggiungi 1.000 e avrebbe usato la matematica. Voi invece avete imparato una regola dominante e per risparmiare tempo l’avete applicata anche quando non dovevate farlo. Perché 40+30+20+10 fa 100, 4.100 ma il vostro cervello ha imparato la regola dominante, aggiungi 1000 e per semplificarsi la vita ha detto 5.000. In dieci secondi io ho cancellato trent’anni di matematica, perché ho imposto una regola dominante alla vostra routine mentale. Ora, pensate quanto le aziende piallano il cervello delle persone che tutta la vita, dieci anni, vent’anni, trent’anni, fanno le cose allo stesso modo. Non la stessa cosa eh? Ma dicono: il mercato dei taxi funziona così, il mercato delle macchine funziona così, il mercato dell’automobile funziona così, il mercato del trasporto aereo funziona così. Quindi si privano la facoltà mentale di pensare diverso. A che servono i giovani? A che servono gli startupper? Non hanno questo tipo di regole dominanti nella mente. Conoscono la tecnologia ma non conoscono il business. Grandi, possono dirmi come quella tecnologia può essere applicata nel mio business. Non conoscono gli obblighi di legge o le cose che non posso fare, quindi inventano nuovi modi che, se sono utili per la società, diventano un modo per cambiare anche le norme. Pensiamo a Uber, si può essere pro o contro, sicuramente è qualcosa che sta aiutando i tassisti a diventare più bravi nel servire i clienti. Pensiamo il B&B. Allora il senso di questo gioco è: abbiamo bisogno come grandi aziende dei giovani che ci danno delle menti fresche e non dobbiamo necessariamente assumerli, e non possiamo necessariamente assumerli, aiutiamoli a diventare imprenditori. Voi potete dire: lo dici te che sei un manager e c’hai lo stipendio a fine mese. Io ne ho fatte tre di aziende e le ho vendute tutte e tre, quindi, diciamo, un po’ di esperienza ce l’ho. Cosa avrei voluto dall’altra parte? Una grande azienda che mi aiutasse a lavorare, un fondo che ci mettesse dei soldi (e non che mi chiedesse la casa che vale 10 a fronte di un prestito che vale 6), e avrei voluto una semplificazione del sistema legale, che in parte è stata già fatta, quindi sul piano politico secondo me è stato fatto tanto per gli startupper. Bisogna che le grandi aziende si muovano, ma si possono muovere anche portando fondi e facendo incontrare competenze complementari. Noi stiamo facendo lavorare aziende italiane insieme ad aziende israeliane per fare prodotti che da soli entrambi non avrebbero potuto fare. Allora, un giovane può dire: no, io penso che sia impossibile. Per noi non è impossibile perché i giovani vedono altri paradigmi non avendo quelle regole mentali in testa. Questo per voi che cos’è? Provate a dirmi cosa sembra. Qualcuno dice un papero, un cigno. Qualcun altro ci vede un coniglio. Se lo guardate da destra è un coniglio, se lo guardate da sinistra è un papero. Allora, buona parte della innovazione che non si può fare, non si può fare perché la gente ha dei paradigmi mentali in testa che la bloccano. Noi abbiamo lanciato un programma interno culturale che si chiama No more excuses, perché è pieno di scuse nelle aziende. Non si può fare perché costa troppo, non si può fare perché la ICT non può farlo, non si può fare perché c’è un vincolo legale. Oppure sì, lo faremo ma dopo Natale, poi dopo Pasqua, poi dopo le vacanze estive. L’avrete sentito: dopo la convention, dopo il Meeting di Rimini. Ok, tutto dopo. Oppure, nel mio settore l’hanno già fatto e no ha funzionato. Perfetto, un modo per riprovarci. Allora, i nostri limiti mentali sono il nostro principale limite, i giovani non ce li hanno. Però, voi avreste dato i vostri soldi in prestito a questi soggetti qua? Questa è Microsoft. E’ il nucleo fondatore di Microsoft. Sembrano in preda a droghe strane tipo LSD e roba del genere. No. Li vedete quelli in alto a sinistra? Quello al centro? Hanno un sorriso semi post-rave. In realtà questo è il nucleo fondatore di Microsoft. Quello in basso a destra ha fondato l’MS-DOS, quelli in alto sono quelli di Office, quindi Mister Excel, Word, Power Point e Access, quello in basso a sinistra è Gates. Grandissima azienda, se non avesse trovato un fondo che gli dava dei soldi non ci sarebbe. Pensate che Bill Gates era fallito. Due anni prima aveva fondato un’altra azienda con il signore in basso a destra, che voleva fare rilevazione dei dati in autostrada per fare politiche di geo marketing (pensate quanto erano innovativi) e quella azienda è fallita. Ora, in Italia se uno fallisce è morto sul piano civile, non può dopo andare da un fondo a chiedere soldi. Allora, questa è una piccola riflessione che condivido con voi: provarci, provarci, provarci. Un po’ come a Rimini in discoteca: se mai ci provi, mai ci riesci. Ora, è un fatto fisico. Uguale con le aziende succede. I nostri sono terrorizzati perché la mamma gli dice: scusa, ma che ti fai l’azienda tu? E se poi fallisci?. Traduco: e se poi sei morto civile? E allora non lo fanno. Capite, anche questo è rivoluzione culturale, è un modo per aiutare i giovani. Senza soldi, ma in questo caso cambiando certe regole. Impossible is nothing. Io qui ho un piccolo video che riguarda un ragazzo che era considerato disabile, a cui è stato detto che non sarebbe mai stato normale. Il video, spero che si veda. No, il video non c’è. Mi dicono che l’avevano provato ma, come vedete, le persone sono sempre meglio delle tecnologie, più affidabili. Il ragazzo comunque si chiama Lionel Messi e il video (lasciate questa slide se no sembra che faccio pubblicità all’Adidas) è il video che fa vedere che Lionel Messi è nato con un grave disturbo ormonale per cui tutti gli dicevano che non sarebbe mai stato in grado di fare il calciatore, anzi, non sarebbe mai stato un bambino normale. E’ per questo che andava curato in maniera massiva, è per questo che ha accettato la famiglia di trasferirsi a Barcellona. Oggi sapete bene che Messi è uno dei principali, se non il più grande giocatore esistente, ma tutti gli hanno sempre detto: non ce la farai mai. Ecco, molti giovani si sentono dire, in primis dalle famiglie: non ce la farai mai a diventare un imprenditore. Dobbiamo lavorare già da lì a spingerli ad essere imprenditori. Perché non c’è posto per tutti nelle grandi o nelle piccole aziende, ma noi abbiamo una classe imprenditoriale piccola e media che è il vanto dell’Italia nel mondo. Noi parliamo di startup, ma sapete che i professori degli Stati Uniti con cui parlo mi dicono: ma come è possibile che voi siete così bravi a creare tecnici, a creare Tchnogym, a creare Tod’s, a creare Armani, a creare Prada, a creare Dolce&Gabbana? (e potrei continuare così per un bel po’). Creare un ambiente collaborativo e connesso in Italia e all’estero è quello che noi stiamo cercando di fare. Quella che noi chiamiamo open Italy. Open Italy vuol dire connettere le startup italiane, le grandi di aziende italiane con quelle internazionali per lavorare insieme e per trovare soluzioni innovative. Noi abbiamo fatto circa, non scherzo dicendo circa 1.600 aziende startup nel mondo. Circa 400 le abbiamo incontrate e abbiamo tante collaborazioni attive, abbiamo portato soldi in Italia da investitori americani e investitori israeliani, e soprattutto stiamo ibridizzando tecnologie italiane con quelle straniere. Questo per noi è essere open. Vorremmo che anche altre aziende lo facessero, per aiutare concretamente le aziende italiane. Per noi sono una fonte di ispirazione (e qui ho quasi finito) i sustainable development goals: sono gli obbiettivi delle Nazioni Unite fissati per migliorare l’umanità. Ne abbiamo adottati quattro. Quattro di questi: l’educazione, portare accesso all’energia a chi non ce l’ha…E ci siamo dati degli obiettivi quantitativi: un milione e mezzo di persone a cui portare accesso all’energia. Creazione di valore con le comunità, due milioni di beneficiari. Ci siamo dati degli obiettivi concreti e li stiamo conseguendo. Non perché siamo buoni ma perché crediamo che dove c’è una grande minaccia per l’umanità c’è anche una grande opportunità per fare business. Ci sono un miliardo e passa di persone senza accesso all’energia. Lavorare per portare accesso all’energia vuol dire trovare soluzioni tecnologiche per un miliardo e passa di persone, creare nuovi mercati. Per questo ci servono startupper, non persone che la pensano come noi e che siano limitate come noi dalle competenze che possiedono. Open Italy per noi è l’approccio che stiamo spingendo, coinvolgendo aziende grandi e medie, istituzioni (che sono altamente collaborative, devo dire, a livello locale e centrale) università e centri di ricerca, innovatori indipendenti, persone che ci scrivono tutti i giorni, ambientalisti, che hanno un ruolo fondamentale se vogliamo pensare di lasciare un mondo migliore e non solo di ricomprarci o riguadagnarci quello che abbiamo ereditato, perché abbiamo ereditato tanto inquinamento. Se guardiamo dagli anni settanta ad oggi l’Italia è peggiorata nettamente, noi non vogliamo soltanto ricomprarci quello che abbiamo avuto. NGO e altre associazioni, finanziamenti nazionali ed europei (che ci sono e noi aiutiamo anche gli startup a trovarli) e startup: questi sono gli elementi di un ecosistema che chiamiamo open Italy, che va interconnesso con open USA, open Israel, open Spain e tante altre nazioni che hanno scelto di essere aperte con un grande ecosistema. Io chiudo con questa frase: non abbiate paura del futuro perché il futuro siete voi. Cioè, il futuro lo possiamo decidere ogni giorno. Noi, la mattina quando ci svegliamo se siamo arrabbiati per cose futili o se siamo felici a dispetto di quello che ci accade. C’è un bellissimo video di un professore americano che aveva tre mesi di vita, che si chiama “L’ultima lezione”, vi consiglio di guardarlo, che ha scelto di essere felice in quegli ultimi tre mesi. Se ha scelto lui sapendo che aveva solo tre mesi possiamo farlo noi tutti i giorni e io lo faccio ogni giorno come Enel come persona e come cittadino italiano. Grazie. Per i giovani che hanno paura e che pensano che non ce la faranno mai e che c’è il rischio che vada male, noi abbiamo lanciato in Enel un programma che si chiama My best failor. Condividere gli errori fatti, perché si può imparare dal condividere gli errori fatti. Avevo un ultimo video (e qui ho chiuso io), spero che si veda almeno questo.
Video
Provateci, provateci, provateci, come ho detto prima per Rimini, e se qualcuno vi dice che non ce la farete fregatevene.
BERNHARD SCHOLZ:
Potrebbe anche essere un messaggio non solo individuale ma anche collettivo: che se ci mettiamo insieme possiamo anche fare qualcosa di molto interessante e molto affascinante. Come facciamo a far incontrare ai giovani che non fanno startup ma che vogliono entrare nelle grandi aziende una possibilità di lavoro? Come aiutiamo le persone a formarsi in un modo adeguato? Queste sono domande che vorrei porre a Marco Ceresa che è entrato in Randstad nel momento in cui è approdato in Italia nel 1999. Essendo Randstad in quaranta paesi del mondo avete anche un bel paragone che vi permette di leggere meglio la situazione in questo paese.
MARCO CERESA:
Bene, grazie. Buon giorno a tutti. Prima di tutto, oggi si parla di crescita e credo che nel breve periodo l’Italia sia in un momento di crescita, perché viene da una crisi piuttosto profonda e dopo una crisi normalmente avvengono appunto dei momenti di crescita. Nel lungo periodo invece pensiamo che l’Italia abbia tante risorse per poter far bene. Se penso anche al settore primario, quello della agricoltura, abbiamo una terra molto fertile che dà il via ad una filiera, quella alimentare, che ci ha fatto conoscere nel mondo. Proprio in questi mesi inizia un investimento molto interessante a Bologna, questa Fico, che è la filiera italiana contadina che vuol proprio dimostrare come l’Italia sia un attore importante nel mondo dell’alimentare. Ma anche nel settore merceologico e nella produzione noi in Italia abbiamo delle aziende molto importanti che andranno verso l’espansione verso l’estero, per cui abbiamo tutti (se pensate anche al turismo) i componenti per poter crescere. C’è però un’unica forza che è contro la crescita dell’economia in Italia, che iniziamo a conoscere oggi ma conosceremo sempre di più in futuro. Questa forza è la crisi demografica. Ci sono sempre meno persone che sono nate nel nostro paese: pensate che per due persone della mia generazione che usciranno dal mondo del lavoro (e succederà nei prossimi dieci anni) ci sarà solo una persona che potrà sostituirci.
Nella mia generazione nascevamo in un milione di bambini all’anno. Negli ultimi anni sono nati, nel 2016, 485.000 bambini, per cui meno. Il problema è che di questi 480.000 bambini, 250.000 sono le bambine e le bambine sono le madri tra trent’anni, per cui tra sessant’anni la popolazione che potrà lavorare sarà un quarto di quella che lavora oggi. E il numero delle persone che lavorano, moltiplicato per la loro produttività, dà il prodotto interno lordo. E questo è, secondo noi di Randstad, il problema su cui dobbiamo lavorare nel lungo periodo, cioè dobbiamo riuscire a mettere al lavoro il maggior numero di persone perché solo così, oltre ad aumentare la loro produttività, riusciremo a contrastare quella che potrebbe essere la decrescita economica. Allora, come lo facciamo in Randstad. Prima di tutto andiamo nelle scuole ad orientare i ragazzi, andiamo fin dalle scuole medie, poi negli istituti tecnici, nei licei e nelle università. Quest’anno abbiamo toccato 3.000 scuole e iniziamo non a dire loro quello che loro dovrebbero fare, ma li facciamo ragionare su quelle che sono le loro attitudini, quello che loro potrebbero fare per essere contenti, ma soprattutto per usare i loro talenti. Da giovane io pensavo di fare il farmacista. Qualcuno mi ha detto “Guarda che non sarai felice di essere chiuso dentro in un negozio”. E lì mi ha fatto ragionare e ho poi deviato verso studi che mi hanno portato a fare questo lavoro.
Oltre all’orientamento, abbiamo iniziato a costituire degli istituti tecnici superiori. Istituti tecnici superiori che servono proprio per formare quelle persone in linea con quelle che sono le esigenze delle aziende, esigenze delle aziende che mutano molto velocemente, per cui al di là dello studio, è importante dare delle competenze in maniera veloce e gli istituti tecnici superiori, secondo noi, servono proprio per trovare quelle persone che servono alle aziende per crescere. Una volta che abbiamo formato queste persone anche con i fondi formatec, poi li introduciamo nel mondo del lavoro, nelle aziende e la cosa su cui (io non riesco a capire perché il mondo che vivo è diverso), noi oggi abbiamo più domande di lavoratori, di professionisti che persone disponibili, perché c’è una differenza tra quelle che sono le competenze che le aziende chiedono e quelle che sono le competenze che le persone offrono. Ma le competenze sono di due tipi: un tipo è la competenza hard (quella che si può imparare a scuola, per cui saper l’inglese, saper programmare dei programmi informatici e così via), ma molto importante è anche l’attitudine di queste persone. Ecco perché noi di Randstad pensiamo che è molto importante conoscere i ragazzi fin da giovani, perché dobbiamo riuscire a spiegare a loro quelle che sono le attitudini che le aziende cercano al loro interno. Cosa sono queste attitudini? Sono ad esempio, la capacità di lavorare in gruppo, non più come singola persona, la capacità di capire quello che il cliente interno ed esterno può avere, anche l’approccio mentale alla richiesta delle aziende. Questo perciò è un po’ il nostro lavoro: riuscire a preparare le persone a sostenere quello che è il futuro della propria professione.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie mille. Infatti è un dato interessante che sono 200.000 posti di lavoro che non trovano copertura e sono tornitori, saldatori, cuochi, ingegneri, mecatronici, che dice di una mismatch tra preparazione e attesa
MARCO CERESA:
Assolutamente. Qui, mi stavo dimenticando: un’altra parte molto importante è la preparazione delle persone che vengono da altri paesi. Abbiamo un esperimento interessante con un cliente perché lavoriamo procuriamo le persone per un magazzino (difficile trovare persone che lavorino di notte in determinate città), allora abbiamo trovato queste persone che non sono persone originarie italiane e le abbiamo formate culturalmente per cui abbiamo un interprete culturale perché un conto è far venire le persone e non aiutarle, un conto è far venire le persone e seguirle, dare anche a loro quello che è l’approccio giusto culturale al lavoro e tutto questo ci ha portato a vedere un cambiamento di queste persone che sono diventate assolutamente dei cittadini modelli. Perciò non possiamo lasciarli soli.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Non esiste una macchina tedesca, che non abbia una componentistica italiana molto importante. E questo dice che due paesi manifatturieri in Europa, che sono l’Italia e la Germania, sono interdipendenti. Non possiamo separare questi due paesi dal punto di vista economico. E questo vuol dire che uno ha bisogno delle risorse dell’altro e quindi all’interno dell’Europa (non solo a livello mondiale, ma prima di tutto a livello europeo) abbiamo una sfida reciproca dove un paese sfida le risorse dell’altro. E quindi la domanda che vorrei porre a Sergio Solero, essendo lui amministratore delegato di BMW Italia, conoscendo bene questi meccanismi: come si pone oggi di fronte anche alle sfide di una nuova tecnologia della digitalizzazione, questa reciproca valorizzazione?
SERGIO SOLERO:
Bene, buongiorno anche da parte mia. Questa è una bellissima domanda e per provare a portarvi nel futuro (perché vi vorrei parlare di presente, ma soprattutto di futuro), vi ho portato un brevissimo video che ci darà un’idea di quali sono i grandi cambiamenti che il mondo automotive in generale sta affrontando proprio in questi giorni. Prego dalla regia.
Video
Ecco, come avete visto è un breve video di due minuti che certamente non è uno spot commerciale, ma è un video, come avete letto nell’ultima diapositiva, che è stato lanciato dal gruppo BMW l’anno scorso entrando nei prossimi cento anni, come abbiamo voluto celebrare il compleanno i primi cento anni del gruppo, quindi guardando al futuro e comunicando qual è la strategia del nostro gruppo, di trasformazione, appunto, della nostra azienda. E vi posso dire ormai lo leggete sul giornale, che quasi tutti i gruppi automotive si stanno concentrando sulle tecnologie che avete visto in questo video. Stiamo parlando di una trasformazione enorme, probabilmente la più grande trasformazione che il comparto automotive abbia mai vissuto. Molti CEO di aziende automotive ormai dicono che i prossimi dieci anni porteranno innovazione molto superiore a quella che l’automotive ha vissuto nei passati cento anni.
Ecco, il gruppo BMV li ha riassunti in quattro assi, dall’acronimo inglese ACES. Parliamo di A come autonomo (quindi guida autonoma); C come connected o autoconnessa all’internet delle cose; E come elettrificata e S dall’inglese shared, quindi condivisa.
Si tratta di tre trend tecnologici, i primi tre ed uno più un trend d’uso: le nuove generazioni sono molto più aperte alla condivisione, alla sharing economy che non al possesso.
Bene. Diceva prima il dr. Scholz soprattutto a livello europeo le filiere industriali sono fortemente collegate connesse tra paesi e paesi e in particolare tra Italia e Germania. E se negli anni novanta il 50 o 60% del valore aggiunto di una automobile veniva dalla meccanica e quindi dalla componentistica di base, spesso sviluppata all’interno della stessa azienda automobilistica, oggi siamo mediamente al 70% e i trend ci dicono che arriveremo intorno all’80%. Quindi capite quanto sta diventando più importante “fare sistema” perché questo avviene, perché alla meccanica è entrata l’elettronica e sempre di più stanno entrando le tecnologie che vi raccontava il video. Abbiamo annunciato l’anno scorso insieme all’annuncio della nuova strategia del gruppo la creazione di un consorzio di lavoro aperto a tutti a tutti quelli che vogliono salire a bordo, per creare una piattaforma per l’auto autonoma del futuro. L’abbiamo fatta il gruppo BMW insieme a Intel, insieme a MOBIL-I, che è un’azienda israeliana che costruisce sensoristica (che è leader nel mondo nella sensoristica, ch poi è stata acquisita da Intel) e proprio in questi giorni è stato annunciato che primo altro grande gruppo automotive che è salito a bordo di questo Consorzio è proprio FCA e anche questo vi fa capire quanto sia importante “fare sistema”.
Ma tornando ai contenuti di oggi, c’è molta Italia in ogni BMW, in ogni Mini, in ogni Rolls Royce e in ogni motocicletta BMW. Vi do qualche dato che sicuramente il Ministro conosce molto bene anche lui, anche per il suo pregresso e non solo per il suo lavoro attuale.
Parliamo di acquisti in Italia o di export italiano dal settore componentistica automotive. Dati A. N. F. I. A dell’anno scorso: 20 miliardi di euro. Contro 14 di import, quindi siamo molto forti.
Bene, in questi, 3,9 miliardi vanno in Germania: BMW acquista 1 miliardo 750, inclusi 600 milioni prodotti all’estero da aziende italiane. Quindi abbiamo una quota di mercato sull’export verso la Germania del 30%. Per chi conosce il mercato Automotiv in Italia, è una quota ben superiore rispetto alle nostre quote commerciali, perché? Perché il gruppo BMW che lavora, come ben sapete, su segmenti premium, cerca fornitori che lavorino nell’eccellenza e proprio in Italia trova questa capacità. Nelle piccole, medie aziende italiane trova la tecnologia, la leadership tecnologica nella lavorazione dei materiali e in alcuni componentistiche tra l’altro proprio i dati che sono usciti nei giorni passati sui primi sei mesi, evidenziano come questo comporto sia uno dei comparti trainanti in questo momento per la crescita delle esportazioni e del PIL, del prodotto interno lordo italiano. Ed eccoci quindi a una grandissima sfida da raccogliere, l’Italia come Paese e come comparto industriale deve andare decisa verso la mobilità del futuro. La mobilità di oggi non sarà quella di domani, quindi necessariamente non possiamo ad esempio perdere il treno dell’elettrico, ma per fare questo, oltre alla lungimiranza degli imprenditori italiani che devono credere nella necessità di riconvertire le proprie aziende a nuove tecnologie, devono anche credere nella necessità di investire, di formare e soprattutto di assumere giovani nativi digitali. Lo diceva Ciorra prima, l’importanza di avere anche competenze nuove. Oltre a tutto ciò il Paese necessita di infrastrutture, di città digitali, di parcheggi interconnessi, di punti di ricarica per auto elettriche o ibride plug-in. C’è la necessità quindi di una visione chiara di cosa saranno i mezzi del futuro e di quali trasformazioni, soprattutto in ambito urbano ma anche autostradale, e anche ovviamente di politiche energetiche, sono necessarie per preparare il nostro Paese a questo grandissimo cambiamento. La necessità per le piccole e medie imprese italiane quindi di convertire i loro attuali sistemi produttivi a prodotti innovativi, da fornitori di componentistica per motori diesel e benzina, per parlare chiaramente, a vetture elettriche e elettrificate connesse con il resto del mondo da meccanica ad elettronica e sensoristica. Per darvi un’idea, BMW già oggi, per rinnovare commesse a fornitori, non solo in Italia ma a tutto il mondo, fa un assistancement chiaro per capire se l’azienda è orientata al futuro, se l’azienda ha politiche di innovazione che la porteranno a scollegarsi dal passato e a lanciarsi nel futuro. Qui mi permetto di sottolineare la responsabilità condivisa, sicuramente il ruolo del governo e delle istituzioni ma anche delle grandi imprese, delle confederazioni, dei sistemi formativi italiani e del comparto produttivo italiano come sottolineavo prima, che devono sapere guidare, promuovere, incentivare questo cambiamento lavorando insieme con obiettivi comuni. Serve indubbiamente coraggio, coraggio di guardare avanti e aiutare a spingere il cambiamento e di non aspettare, aspettare certamente in questo caso sicuramente non aiuterà perché porterà il nostro comparto produttivo automotico ad essere obsoleto. Cosa serve praticamente? Serve innovazione, formazione, innovazione in ricerca e sviluppo, serve un collegamento più forte tra sistema industriale tra le scuole professionali e l’università. Io spesso da ingegnere del Politecnico di Milano mi faccio una domanda, ce la siamo fatta anche tra alunni coinvolti dai vertici dell’Ateneo a discutere del rinnovamento dei percorsi di studio e a rivedere e a migliorare, renderli più attinenti a quello che, diciamo, il mondo del lavoro poi richiede. Come è possibile che un Paese che ha fatto del suo class più importante al mondo, io ho vissuto all’estero, ho vissuto in Germania, in Spagna, a Singapore, tutti ci riconoscono per essere inventori, per avere l’inventiva abbiamo nomi incredibili non solo del grande passato, non solo Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, abbiamo i Marconi, i Fermi, abbiamo i Natta, abbiamo inventato la plastica al Politecnico di Milano. Abbiamo Rubbia, abbiamo grandissimi nomi, come è possibile che non siamo più capaci di inventare? Come è possibile che in questo Paese, che è il Paese in Europa con il più alto numero di piccole e medie aziende non sia possibile creare il brodo primordiale per far sì ce si possano creare quelle start-up digitali, che l’innovazione di oggi, che è molto nel mondo digitale, non possa nascere? Open Italy è sicuramente una idea eccellenza di cui Enel è uno dei patrocinatori, noi siamo saliti a bordo da subito come azienda internazionale ma creando, pensando e credendo di poter aiutare anche questi trend a nascere in Italia. Ieri ho sentito parlare presidente Tajani e mettere tra le tre priorità dell’agenda europea la creazione di posti di lavoro e in particolare per ridurre la disoccupazione giovanile ancora molto alta in vari paesi europei tra cui l’Italia. Bene, ecco alcuni campi dove il privato può investire ma il pubblico deve indirizzare, deve supportare, deve aiutare, deve motivare e deve creare le condizioni al contorno. Allora ben vengano iniziative quali il piano nazionale industria 4.0 con supporti agli investimenti ricerca e sviluppo, quali super ammortamento, iper ammortamento. Io personalmente sono convinto che uno dei grandissimi problemi del nostro Paese oggi sia stata la mancanza di investimenti importanti negli ultimi dieci anni. Ovviamente c’è anche un po’ i nostro modo di fare, tante volte il modo italico gattopardesco di far finta di cambiare tutto per non cambiare niente, anche questo certamente non ci sta aiutando, in un mondo che sta cambiando molto velocemente. E concludo dicendo che oggi questo grande Paese, l’Italia, ricco di risorse umane soprattutto, ha bisogno innanzitutto di credere di poter cambiare tornando ad essere un motore dell’innovazione come è stato per migliaia di anni e parlando del settore che rappresento, che sia un motore pulito, sostenibile, che restituisca ai nostri figli, nel minor tempo possibile, un mondo migliore di quello che abbiamo ereditato dai nostri padri. Questo è il grande compito della nostra generazione da padre di tre figli ne sento personalmente il peso. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Allarghiamo la domanda, perché allora le aziende tedesche vogliono decisamente componentistica italiana? Perché Enel è leader mondiale nella green energy? Perché una società come Enel riesce ad espandersi a livello internazionale rimanendo fortemente radicata come azienda italiana? Perché una IBM viene a investire nel suo centro di ricerca a Milano? C’è qualcosa di particolare. Se noi no prendiamo coscienza di questo non sappiamo neanche cosa vogliamo valorizzare. Da quando il ministro Calenda è arrivato alla guida del ministero si è ricominciato a parlare di politica industriale, ma di una politica industriale completamente diversa di quella dei tanti tanati anni precedenti, dopo un break di vent’anni dove non se ne parlava neanche più, e quindi vorremmo sapere quali sono le sue intenzioni, i suoi piani che nell’industria 4.0 si sono già dimostrati nel contenuto e nel metodo per valorizzare tutto questo potenziale che oggettivamente c’è che però in qualche momento sembra anche un po’ troppo addormentato.
CARLO CALENDA:
Grazie, grazie mille per avermi invitato. Io ero venuto due anni fa come vice ministro a parlare di internazionalizzazione. Internazionalizzazione e innovazione sono due cose che stanno insieme, sono molto vicine e hanno anche alcune caratteristiche similari, lo dirò fra un secondo. Escono tante facce diverse dell’Italia perché l’Italia non è una cosa sola, ha dentro dati, molto contradditori, ha dentro storie molto contraddittorie,. Un dato per tutti: noi abbiamo, l’anno scorso, ancora di più quest’anno, fatto il record delle esportazioni, 417 miliardi l’anno scorso, in crescita dell’8% quest’anno, eppure questa eccellenza non si scarica sul Paese reale, perché? Perché riguardo al numero di imprese e un numero di territori ancora troppo limitato. Allora io prendo questo esempio perché d’estate, che è il periodo di dibattiti inutili la cosa su cui ci si diletta appunto a dibattere è la seguente: siccome abbiamo avuto dei dati positivi in termini di Pil e produzione industriale e export, il paese ha la crisi alle spalle o no? Per il governo la risposta è sì e per l’opposizione la risposta è no. Io penso che bisogna partire da questo dato perché se no la gente è confusa. Non abbiamo superato la crisi perché la crisi si supera quando si recuperano tutti i punti di Pil, tutti e tutti i posti di lavoro che si sono persi durante la crisi. E questo non sminuisce il lavoro fatto dal governo. Io faccio il ministro dello Sviluppo Economico e avrei tutti gli interessi del mondo di dire che le cose vanno in maniera luminosa e straordinaria, eppure penso che proprio una retorica eccessivamente ottimista crea e costruisce meccanismi di sfiducia. Noi abbiamo ancora sei punti di Pil da recuperare rispetto al pre-crisi e abbiamo ancora un numero di posti di lavoro tre i 3e 400.000 da recuperare rispetto al periodo pre-crisi. E finché questo non avviene noi dobbiamo sentirci in uno stato di continua e costante emergenza perché se no il rischio è quello di abbassare la guardia e di ricominciare a parlare di mance elettorali e di scorciatoie che non esistono a partire da quella del reddito di cittadinanza. La prosperità si crea con il lavoro e con gli investimenti. Allora la seconda domanda che mi pongo è: perché l’Italia che ha tutte queste eccellenze è stato il paese più colpito in assoluto durante gli anni della crisi. Nessun paese ha perso un quarto della propria base manufatturiera. E’ colpa dell’euro,è colpa della Cina , è colpa di entità altre fuori. Io penso che forse molte di queste cose hanno avuto degli effetti positivi e negative come tutti i grandi fenomeni. Ma è colpa in primo luogo del fatto che i venticinque anni precedenti l’industria, la produzione e il lavoro sono sostanzialmente scomparsi dall’agenda politica. Questo era il paese dei ristoranti pieni, di gente che stava bene, dove le banche non avevano problemi e potrei andare così. Quindi la risposta è: la crisi non è alle nostre spalle. Abbiamo meglio ma va meglio un gruppo di aziende e dunque di lavoratori. Un gruppo di territori e quindi una porzione del paese ancora troppo limitata. Primo punto: quindi bisogna continuare ad investire sul lavoro, sulla produzione e quindi non privilegiare, come sempre abbiamo fatto, rendite e patrimoni. Per la semplice ragione che quando non si investe su lavoro e produzione, il lavoro e la produzione mancano. Non ci vuole Pico della Mirandola.
Secondo elemento: dobbiamo investire e sono d’accordo con le presentazioni precedenti perché gli investimenti, non solo perché sono crollati in Italia durante la crisi, forse la cosa più pericolosa di tutte. Ed è per questo che io sono voluto ripartire da là col lavoro di industria 4.0. Ma c’è un punto in più: noi stiamo affrontando il veloce cambiamento tecnologico e chiamiamolo così culturale che l’umanità ha affrontato. Un cambiamento in atto circa dal 1500: la rivoluzione scientifica e la globalizzazione. Ma non è mai accaduto così rapidamente. E io lo dico con grande rispetto di tutte le aziende che operano nella tecnologia. Ho lavorato alla Ferrari, ho lavorato a Sky, quindi aziende tutte piuttosto tecnologiche. Attenzione a presentare la tecnologia così come abbiamo presentato la globalizzazione come un processo semplice che porta benefici per tutti e che non ha controindicazioni perché non è così. Nessun processo epocale è un processo lineare. semplice, univoco. Ogni processo epocale al contrario chiede governance forte e investimenti. Richiede politiche che siano consistenti nel tempo per molto tempo. Perché rischiano di essere estremamente punitive. Io questo lo dico perché penso che radicata è oggi nel nostro paese soprattutto nella componente del paese che non sta vincendo la paura di questo fenomeno e non la percezione che essi sono anche grandi opportunità, ma soprattutto la paura che essi siano talmente incontrollati, talmente rapidi e talmente veloci, per cui è impossibile prevedere e gestire le conseguenze. Faccio un esempio: l’intelligenza artificiale è un tema gigantesco, ma non è un tema linearmente positivo. Io non credo che nessuno di noi oggi sia in grado di dire se questo tema, quello dell’intelligenza artificiale, semplicemente sarà un progresso o porrà anche dei grandi problemi, e se noi facciamo finta di spiegarlo, di raccontarlo come un tema che è de plano, semplice, positivo per tutti, noi incorriamo esattamente nello stesso errore che abbiamo fatto con la globalizzazione. Ve lo ricordate all’inizio della globalizzazione, quando il racconto era «Non ci saranno problemi, vinceranno tutti. Il mondo diventerà piatto, diventerà tutto democratico, diventerà tutto con culture e stili di consumo occidentali»? Non è successo, non poteva succedere. E oggi ci ritroviamo a gestire una globalizzazione, che da un lato ha fatto uscire un miliardo e duecento milioni di persone dalla povertà, dall’altro ha fatto crescere l’export italiano a record, ma ha anche fatto scomparire interi settori industriali che davano lavoro a tanta gente. Allora, essere capaci di governare questi fenomeni e investire per governarli è fondamentale. Arrivo alla questione della politica industriale. Io quando sono arrivato al Ministero, venendo dal mondo delle imprese, consideravo il termine “politica industriale” con uno scetticismo gigantesco. In Italia la politica industriale è stata tradizionalmente il seguente paradigma, ha seguito il seguente paradigma: tre direttori generali in Ministero si incontrano, chiamano un gruppo di professori universitari e decidono che l’Italia diventerà eccellente nel settore della chimica; a quel punto decidono che solo chi opera nella chimica riceverà dei contributi e questi contributi faranno sì che l’Italia diventerà leader nella chimica rapidamente. Risultato: l’Italia non diventa leader nella chimica, vengono buttati migliaia e migliaia di vecchi miliardi e quello che succede è che questo va sulla fiscalità generale. È quella idea di politica industriale dirigista, che a questo Paese ha fatto un male straordinario, in particolare a partire dagli anni Novanta in poi, e che io ho cercato, anzi credo di essere riuscito a estirpare dal mio Ministero spiegando ai direttori generali che se erano in grado di prevedere quale settore e quale tecnologia avrebbe vinto, avrebbero dovuto dimettersi e andare a fare gli imprenditori. Non è il lavoro del governo fare le scelte per le imprese, non è il lavoro del governo decidere quale delle tante tecnologie di industrie 4.0 prevarrà: non lo è, perché il governo non lo sa fare; non lo è, perché quando prova a farlo (come è stato in passato), il governo non spende i soldi, non è in grado neanche di spenderli (io nel mio Ministero ho trovato 10 miliardi di euro di incentivi a bando non spesi, che sto cancellando progressivamente; conto di arrivare alla fine dell’anno ad averne “solo”, si fa per dire, 2 miliardi e mezzo). Ora, come abbiamo costruito questo impegno su industria 4.0? l’idea è questa: lo Stato premia gli imprenditori che investono, questa è la discriminante, e lo fa sulla base delle scelte tecnologiche che gli imprenditori fanno nel loro settore di appartenenza, nel loro settore di appartenenza. Perché vedete, questo è il secondo elemento. Noi siamo il Paese, si diceva prima, delle piccole e medie imprese; abbiamo fatto una legislazione io credo buona, ma spetta a voi il giudizio sulle start up, però io ho un problema su questo tema delle start up: qualcuno mi deve spiegare perché una piccola e media impresa che investe nel tessile non ha la dignità di una start up, mentre se investe nel digitale ha la dignità di una start up. E questo meccanismo non coglie un fatto profondissimo, che con l’industria 4.0 manifattura e digitale si avvicinano, per cui tutti i settori sono innovativi. E, di nuovo, non sta al governo dire quali sono innovativi e quali non lo sono, per la semplice ragione che chi non sarà innovativo nel fare il tessile o nel fare nell’agroindustria, non sarà. Quindi neutri tecnologicamente, neutri settorialmente, automatici, fiscali: vai dal tuo commercialista e li usi, a me non mi devi chiedere autorizzazioni, non mi devi chiedere bolli e non devi fare domande. Questo meccanismo è potente in termini dimensionali. Si accompagna a una ristrutturazione profonda del Fondo centrale di garanzia, che garantisce circa 22 miliardi di credito alle imprese e che ho voluto ristrutturare in modo che si garantissero solo le imprese che investono e solo quelle che hanno un rating intermedio; perché prima quello che succedeva era che l’80% di garanzia dello Stato si dava anche ai rating più alti. Vi faccio una domanda: secondo voi, quando tu dai l’80% a un rating, ipotizziamo, tripla A, a chi stai dando i soldi, all’impresa o alla banca che lo presenta? E ovviamente la banca tende a presentare quella o quella che non può assicurare? Allora vedete, questo pacchetto che abbiamo messo insieme e che è un pezzo di una strategia più alta, più grande che va col salario di produttività, anche col Job act che è stata, a mio avviso, una riforma fondamentale fatta, e che costruisce un meccanismo per il quale ritorna al centro il mondo dell’impresa e dell’iniziativa privata, che in Italia per tante ragioni è stato visto per lungo tempo con grandissimo scetticismo. Ora noi abbiamo la prova che così non è. Certo, questo non postula il fatto che le imprese siano migliori antropologicamente, gli imprenditori… non mi interessa: c’è un dato, che nell’economia di mercato lo sviluppo lo costruiscono le imprese private. Non c’è un’alternativa a questo, non c’è un altro modo di costruire sviluppo se non quella di metterle in grado di investire e di assumere. Ecco io penso e spero che questa strada rimanga. Adesso nella prossima legge di bilancio ci confrontiamo con un problema che è un problema enorme. Noi abbiamo due temi: quello dell’occupazione giovanile, di cui si è molo parlato e che ha due gambe, una gamba di competenza (cioè la costruzione delle giuste competenze) e una gamba che ha a che fare col costo del lavoro, che in Italia rimane molto molto alto; e sarà il focus, come avete sentito dal Presidente del Consiglio, della prossima legge di bilancio. Continueremo a lavorare, quindi rafforzeremo gli incentivi di industria 4.0, monitorando però a settembre prima cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato. Quando abbiamo fatto il Piano, io ho insistito affinché nel Piano fossero indicati obbiettivi quantitativi, per verificare se i soldi che abbiamo messo sopra hanno funzionato per davvero, cosa non è andato, cosa va cambiato. Dopo aver fatto questa verifica, siamo disponibili a rafforzarli e ad aggiungere il tema della formazione, che rimane centrale: la formazione in azienda. Permettetemi su questo di dire una cosa. La digitalizzazione della industria e della manifattura è per l’Italia un’opportunità grande per due ragioni: la prima è perché le piccole e medie imprese che devono crescere sentiranno meno il peso, in qualche modo con l’aumento dell’efficienza, dell’economia di scala (questo non vuol dire che devono comunque continuare a crescere); il secondo elemento è quello che dicevo prima, rientrano le produzioni, possono rientrare le produzioni manifatturiere da fuori, perché ovviamente la variabile del costo del lavoro diventa una variabile inferiore – però è anche vero che spiazzerà un pezzo di lavoratore, così come la globalizzazione ha spiazzato un pezzo di imprese. E noi non lo dobbiamo negare questo, lo dobbiamo affrontare ora. Per questo metteremo un potente credito di imposta sulla formazione all’interno delle aziende nella prossima legge di bilancio. L’obbiettivo è quello di incominciare a prevenire questa cosa che succederà. Perché vedi, nel settore bancario è pur vero che i bancomat hanno probabilmente creato un indotto, ma se tu ti vai a vedere i numeri complessivi del settore bancario sono numeri che hanno colpito in maniera fortissima quei lavoratori: lavoratori che spesso hanno un età che rende loro difficile il ricollocamento. Ed è per questo che la formazione preventiva è di straordinaria importanza. Concludo, non vi voglio tediare troppo. Tutto questo si incastra in un momento in cui ritorna prepotentemente alla ribalta intorno a noi, vicino a noi, più lontano o più vicino, anche molto vicino, il nazionalismo economico; l’avete visto in alcuni dei dossier che ci siamo trovati ad affrontare. Diciamo che anche i cugini più vicini ogni tanto si dimenticano delle professioni di europeismo, quando compriamo qualche azienda. E questo non vuol dire che noi chiuderemo le frontiere signori, perché l’anno scorso l’Italia ha fatto più 40% in attrazione di investimenti, noi li dobbiamo far venire gli investimenti non respingerli. Se qualcun altro pensa di volerli respingere, io penso che quella non sia una manifestazione di forza bensì una manifestazione di debolezza: manifestazione di debolezza a cui si risponde con un bel no tondo, ma è cosa diversa rispetto a quella di chiudere le frontiere. Però noi andiamo in un mondo che si fa non solo più sfidante, non solo veniamo con questo carico di tanti anni di disinteresse sul lavoro e sulla produzione (che secondo me è anche una questione etica, non è probabilmente solo una questione economica o politica), ma noi andiamo anche in un crocevia della storia dove vedete l’Occidente sempre più frammentato, forse è il momento di più alta frammentazione dell’Occidente. Questa è una cosa importante che noi teniamo a mente, che dobbiamo tenere a mente: perché l’Italia da un lato deve mantenersi appunto aperta, dall’altro deve diventare assertiva, dev’essere cioè in grado di essere forte, dev’essere in grado di essere forte quando si dice no, come dicevo prima, dev’essere in grado di essere forte come abbiamo fatto noi, pur essendo favorevoli al libero mercato: quando abbiamo per primi in Europa detto no al market economy status alla Cina, che avrebbe distrutto le produzioni italiane. Perché essere favorevoli al libero mercato non ha niente a che vedere col subire le disuguaglianze e un campo da gioco che non è piatto: l’abbiamo fatto per tanti anni, adesso non c’è più spazio di tolleranza da questo punto di vista di un millimetro. E dirlo non vuol dire essere protezionisti, ma vuol dire rendersi conto che appunto il campo è più duro, è più accidentato. Per questo con i colleghi di Francia e Germania abbiamo mandato in Europa la proposta di poter estendere il potere di Golden power, ovvero il potere di scrutinio e di divieto delle acquisizioni fatte dai Paesi extra UE quando hanno a che fare con settori ad alta intensità tecnologica e quando l’obbiettivo può essere, come in effetti in alcuni casi è stato, prendere i brevetti per spostarli semplicemente in un altro Paese. Su questo noi dobbiamo imparare a rafforzarci. Allora vedete, l’insieme di questo quadro, io penso, ci dice che manifattura, scienze della vita (dove l’Italia è molto forte), turismo e cultura (che per me sono un tutt’uno) sono grandi driver di sviluppo, il mercato. Per questo, quello che facciamo noi, quello che è il nostro DNA crescerà in maniera esponenziale, ma allo stesso tempo cresce in modo esponenziale la difficoltà di affrontare i cambiamenti rapidi e la difficoltà di confrontarsi con sistemi in azione che sono, diciamo, più assertivi, sembrano più pronti a misurarsi in maniera non collaborativa. Allora il nostro Paese deve avere la capacità e la forza di costruire progetti di lungo periodo, industria 4.0 ma anche la strategia energetica nazionale che uscirà a settembre: essere capace di spiegare che questi fenomeni sono fenomeni complessi, uscire dalle categorie dell’ottimismo e del pessimismo, che sono categorie che non vogliono più dire assolutamente nulla e di cui la gente si è totalmente stancata, perché le considera come sono, ovvero categorie della politica e non del mondo reale, e cercare di lavorare su una categoria diversa che è quella del realismo, di essere consapevoli di quello che va fatto. Io penso che questa possibilità il nostro Paese ce l’ha e che una cosa molto importante la faranno i corpi intermedi. Questo è un Paese che lavora attraverso i corpi intermedi: quello che facciamo al governo non si scarica nel Paese reale se i corpi intermedi economici, culturali e politici non hanno la capacità di costruire insieme un percorso di crescita. Se lo facciamo, se parliamo il linguaggio del realismo e se sappiamo individuare quello che io chiamo un “Piano industriale di lungo periodo” per questo Paese, allora i dati ci dicono che l’Italia ce l’ha un futuro di prosperità, ma non è né regalato né affidabile allo Stellone d’Italia, ma solo al sudore e al lavoro degli Italiani, che peraltro hanno dimostrato di saperlo fare. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Ringrazio il signor Ministro. Penso che sia diventato evidente che un’economia è sempre basata su una cultura: c’è una coscienza, una coscienza di quello che abbiamo ricevuto e di quello di cui siamo capaci, e abbiamo visto che l’Italia è capace di fare tante cose. Colgo anche l’invito di lavorare insieme, di costruire insieme. Ma per lavorare insieme bisogna avere un credo comune, bisogna avere una convinzione comune: bisogna saper condividere i punti sui quali si lavora insieme. Lì la questione dell’autocoscienza, che è stata richiamata da lei e anche dal Primo Ministro quando è stato fra noi domenica, è importantissima, perché altrimenti si cercano gli alibi, si cercano le scuse, si cercano le scorciatoie e non si fa ciò che si può fare: guardare con realismo ciò che abbiamo ricevuto, perché questo, nel caso italiano è un realismo che non può non portare a un’audacia. Perché se noi sentiamo le testimonianze di questa mattina e se guardiamo tante altre esperienze italiane, realisticamente dobbiamo riconoscere che c’è un potenziale enorme che può essere valorizzato dalle imprese, dagli imprenditori, dai manager, dai corpi intermedi e anche dalla politica, in un modo, come abbiamo sentito questa mattina, che non dirige ma valorizza. Mi permetto, prima di chiudere, di invitarvi personalmente a sostenere questo Meeting con una vostra donazione, che potete dare ai centri dove c’è scritto “Dona ora”, perché, come abbiamo visto anche questa mattina, il Meeting è un luogo importante per promuovere il dialogo e la comprensione in un mondo sempre più complesso: dove persone si possono incontrare, condividere e possono confrontarsi su temi anche difficili. Perché la complessità o viene affrontata o diventa fonte di populismo, su questo non c’è alternativa: il Meeting vuole il dialogo, la comprensione, la condivisione e vi chiedo a ognuno di voi di fare quello che può per sostenere che questa esperienza possa andare avanti. Grazie a tutti voi che siete questa mattina.