LO STATO DELLA GIUSTIZIA

Lo stato della giustizia

24/08/2011 ore 19.00 Partecipa Michele Vietti, Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Introduce Paolo Tosoni, Presidente della Libera Associazione Forense.

Partecipa Michele Vietti, Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Introduce Paolo Tosoni, Presidente della Libera Associazione Forense.

 

PAOLO TOSONI:
Buonasera a tutti, un benvenuto da parte del Meeting e della Libera Associazione Forense a questo incontro, anche quest’anno in tema di giustizia. Un saluto particolare e anche un ringraziamento al nostro ospite che vado a presentare, Michele Vietti, Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, già in passato Sottosegretario alla Giustizia, avvocato di professione; dico questo anche perché, proprio gli incarichi che ha rivestito e la professione che ha svolto e che svolge, anche se temporaneamente è sospesa, ci permettono un dialogo un po’ a 360 gradi sui temi della giustizia, quindi non solo in qualità di Presidente del CSM, ma anche di avvocato, di allora Sottosegretario della Giustizia. Inizierei con una considerazione, prendendo anche spunto, peraltro, da un’intervista che ha rilasciato al Corriere della Sera qualche giorno fa: nel momento che stiamo vivendo, nel contesto di crisi, della fatica che le famiglie, le imprese, i cittadini stanno vivendo, perché ci interessa parlare di giustizia? Cosa ci interessa parlare della riforma, dei processi? Abbiamo altri problemi. Non è così, si sottovaluta o non si conosce spesso il forte impatto, anche economico, che un malfunzionamento della giustizia ha sull’economia, ma non solo, sugli equilibri politici di un Paese, di una democrazia. E quindi, siccome so che questo è un tema di cui recentemente si è parlato – sapete che Mario Draghi a maggio, parlando delle priorità del nostro Paese, ha messo la giustizia civile tra le otto priorità per affrontare la crisi; che a seguito dell’intervista rilasciata dal Presidente Vietti, il giorni successivo, mi sembra, il nuovo Ministro della Giustizia ha fatto un’apertura proprio sul fatto che se si devono affrontare delle emergenze in quel campo non ci si può tirare indietro; che il Presidente Napolitano qui al Meeting ha sottolineato con auspicio che ci sia questa volontà nell’interesse del Paese di fare la riforma della giustizia -, ebbene, proprio su questo volevo chiedere e partire, parlando del processo civile di cui peraltro Vietti è un esperto anche professionalmente: come mai questo processo civile non funziona? Due anni fa c’è stata l’introduzione di un rito che voleva accelerare la possibilità del processo civile, in realtà sappiamo tutti che ottenere giustizia in tema civile ha tempi biblici, che ci sono 5 milioni di processi arretrati pendenti e allora, che impatto ha questo nell’economia di un Paese? Quali possono essere delle soluzioni che permettano di ottenere giustizia e quindi di investire, di avere fiducia in questo Paese? Con quest’ultimo nota bene: spesso abbiamo assistito a interventi urgenti o apparentemente urgenti che in realtà hanno creato solo problemi di sistema. E quindi la riflessione è: ha senso intervenire in modo urgente o ha senso mettersi finalmente a ragionare e cercare di fare una riforma condivisa, completa, sistematica? Cosa ne pensa? Presidente Vietti.

MICHELE VIETTI:
Mi ha chiesto molte cose insieme, provo a dipanare un attimo la matassa degli interrogativi. Anzitutto grazie al Meeting per l’invito, all’amico Paolo Tosoni per questo gioco delle parti in cui mi provoca a dare qualche risposta su questa materia così delicata e così importante. Vedete, io nei giorni scorsi sono stato vittima di un atteggiamento contraddittorio, perché da un lato vedere che per un mese i giornali non parlavano più di giustizia mi ha un po’ rasserenato, perché chi come me presidia una frontiera molto delicata, in cui si scaricano le frizioni, le tensioni tra il potere giudiziario e gli altri poteri, vive sempre di vedetta, sempre nel timore che qualche spezzone incendiario appicchi il fuoco. E quindi vedere che gli interessi si spostavano altrove e si parlava di economia, di crisi economica, da un lato mi aveva un po’ alleggerito, però, per la verità, contemporaneamente mi ha anche un po’ preoccupato, perché io sono assolutamente convinto che la giustizia sia un capitolo del più ampio volume dell’economia, cioè, la giustizia non è una variabile indipendente dell’economia, non è una questione che riguarda i magistrati, gli avvocati e la polizia giudiziaria e basta, la giustizia non è un rito che si celebra in templi per addetti ai lavori che non ha poi ricadute sulla vita reale, no, la giustizia è uno snodo fondamentale del sistema economico di un Paese, perché la giustizia è un elemento di competitività del sistema. Un Paese in cui la giustizia funziona, cioè in cui si danno risposte ai cittadini, alle imprese, alle loro domande di giustizia in tempi certi e in modo prevedibile, è un Paese competitivo. Il nostro purtroppo non lo è, perché le risposte di giustizia arrivano tardi e spesso arrivano anche in modo imprevedibile. Tu hai citato il governatore Draghi, il quale nella sua relazione annuale ha ricordato che noi stiamo al 157esimo posto, su 183 Paesi, nel cosiddetto doing business, cioè nella graduatoria della Banca Mondiale sull’affidabilità del sistema concorrenziale, anche per le nostre carenze sul funzionamento del sistema giudiziario. E sempre Draghi ci ha ricordato che il cattivo funzionamento della giustizia civile vale un punto di PIL; ora, un punto di PIL è più o meno 22-25 miliardi di euro, cioè la metà della manovra che è stata varata la settimana scorsa. Dunque stiamo parlando di qualche cosa di straordinariamente rilevante da un punto di vista economico, perciò io credo che nel momento in cui dibattiamo su come uscire dalla crisi, su quali misure adottare per fronteggiare le difficoltà economiche in cui versa il nostro Paese, non sia assolutamente improprio parlare di giustizia. Anzi, io mi spingo un po’ più in là. Così come qualcuno dice “beh, la crisi certo, è un handicap, è una penalizzazione, però può diventare anche un’opportunità”, perché forse in momenti di crisi si possono fare cose che in condizioni ordinarie non si riuscirebbero a fare, e qualche aspetto in questo senso è contenuto nella manovra, qualche iniziativa coraggiosa e ardita anche sulla riorganizzazione complessiva dello Stato c’è, bene, io dico allora: perché non approfittare della crisi, se è vero come è vero che la giustizia è un elemento fondamentale per ridare competitività al Paese e la competitività è un elemento fondamentale perché ci sia la crescita, la cui mancanza tutti lamentiamo? Perché non approfittare della crisi anche per adottare alcune misure in tema di giustizia, e in particolare in tema di giustizia civile, che aiutino la ripresa del Paese, che aiutino la competitività, che aiutino il Paese a essere più concorrenziale? Perché vedete, la concorrenza non è soltanto, come potremmo pensare, una concorrenza tra gli operatori economici, oggi la concorrenza nel mercato globale è anche concorrenza tra gli ordinamenti. Cioè, oggi, nel mercato libero e globale, i capitali vanno ad allocarsi là dove trovano delle regole più flessibili, più garantite, che diano affidamento sulla loro certezza, sulla loro incoercibilità, che se qualcuno le viola viene sanzionato. E dunque, le regole, cioè i sistemi ordinamentali, sono un elemento fondamentale della competitività, della concorrenza. Un buon ordinamento giudiziario è un buon valore aggiunto di un Paese dal punto di vista della sua competitività, e questo se ha un buon sistema giudiziario, ha una capacità attrattiva degli investimenti non solo interni, ma anche esterni. Se io non ho la garanzia che in un Paese, se ho un credito, lo possa recuperare in tempi certi e con una ragionevole probabilità di riottenerlo, se incappo in un fallimento, se so che non ne posso uscire in tempi ragionevoli e salvaguardando i miei crediti, come si può immaginare che io vada a fare investimenti in quel Paese? O come si può immaginare che l’imprenditoria di quel Paese possa essere messa in condizioni di parità e di concorrenza rispetto agli imprenditori che invece godono di sistemi in cui la risposta di giustizia è celere e tempestiva? Allora, io sono convinto che la crisi, e la risposta emergenziale data con la manovra alla crisi, debba coinvolgere anche la giustizia; sta passando un treno, il treno della manovra, che è stata incardinata proprio in queste ore al Senato, io penso che sia necessario agganciare al treno della manovra anche un vagone che riguardi la giustizia. Non stiamo mischiando materie eterogenee. Se posso, un pensiero personale, visto che tu hai citato la mia esperienza di Sottosegretario: io nel 2005 feci introdurre nel decreto competitività, che era un decreto a natura strettamente economica, una delega al Governo a fare la riforma del diritto fallimentare, che poi felicemente portai – felicemente spero, lo diranno gli operatori, ma il giudizio è abbastanza positivo – portammo in porto nel 2006, grazie a una delega inserita nel decreto competitività, cioè un decreto che era di materia strettamente economica. E in quel modo abbiamo modificato le norme del fallimento, che erano ancora rette da un regio decreto del 1942, cioè da regole vecchie più di sessant’anni. Abbiamo risolto tutti i problemi? No, i fallimenti hanno ancora degli intoppi, certo, soprattutto nella misura in cui hanno dei contenziosi si innestano sul processo civile ordinario e quindi lì vanno a finire sul binario morto; ma certamente le possibilità oggi o di prevenire o di risolvere un fallimento con accordi extragiudiziari tra i creditori, sono enormemente aumentate. Bene, quella soluzione la facemmo proprio agganciando un vagone che riguardava una materia strettamente giuridica, come il fallimento, a un decreto economico. Oggi quel treno passa, io dico: attenzione, non perdiamolo. Io che cosa ci metterei in quel vagone? Lo dico subito, almeno due cose importanti; la prima: la revisione delle circoscrizioni giudiziarie. Mi spiego, fuori del tecnicismo: noi abbiamo in Italia 1590 uffici giudiziari, abbiamo 165 tribunali, di cui 63 hanno meno di 15 magistrati, cioè hanno meno del numero che viene considerato indispensabile perché un tribunale possa funzionare nel rispetto anche delle causa di incompatibilità, che è 20. Bene, 63 su 165 sono sotto i 15. Abbiamo 220 sezioni distaccate di tribunale, abbiamo 845 uffici di giudice di pace; complessivamente abbiamo 3000 edifici di edilizia giudiziaria, per cui il Ministero della Giustizia rimborsa a 850 comuni quasi 300 milioni di euro l’anno. Il tutto per produrre un risultato tardivo, un risultato che ci fa condannare dall’Europa perché non rispettiamo la ragionevole durata, un risultato che, nella percezione comune di qualunque cittadino, è un risultato inefficiente. Allora, il primo provvedimento è: i magistrati sono una risorsa limitata, dovrebbero essere 9000, abbiamo 1300 vuoti di organico, cioè abbiamo 1300 magistrati in meno. Allora noi possiamo immaginare di distribuire il numero ridotto e limitato di magistrati che abbiamo, i pochissimi dipendenti (c’è il blocco delle assunzioni nel settore della giustizia da quasi dieci anni)? Non abbiamo ufficiali giudiziari, possiamo pensare di distribuire queste risorse preziose in modo irrazionale sul territorio, sulla base di una geografia giudiziaria che risale agli stati preunitari? La geografia dei nostri tribunali e delle nostre corti d’appello è quella degli stati preunitari. Ora, stiamo festeggiando l’unità, la festeggiamo con orgoglio quest’anno, e credo che dobbiamo tutti un grande ringraziamento al capo dello Stato non solo per le sue lezioni su tante materie, ma in particolare per il grande impulso che ha dato alla coscienza collettiva di questo appuntamento del 150° anniversario. Però guardiamo avanti, non possiamo pensare che questioni campanilistiche, interessi localistici continuino a impedire una razionalizzazione della distribuzione di queste risorse, anche perché tra un po’, non avendo la materia prima per coprirle, queste sedi rimarranno inevitabilmente ancora più oberate di disfunzione di quello che sono. Io qui voglio dare atto ai magistrati che su questo, magari non su tutto, ma c’è una loro disponibilità apprezzabile, perché voi capite che abolire dei tribunali per i magistrati vuol dire abolire posti di presidente di tribunale e posti di procuratore della repubblica. Allora, togliere sessanta, ottanta, cento tribunali vuol dire togliere 160, 200 uffici direttivi. Ma, a parte il risparmio che si fa in termini di edifici, qui è un problema di massa critica: se io non ho una massa critica sufficiente, la mia risposta di giustizia è inadeguata e nei tempi e nella qualità, perché io non posso neppure avere la specializzazione, dove ho meno di 15 magistrati come faccio ad avere la specializzazione dei magistrati? Avrò magistrati che devono fare il boia e l’impiccato, che devono fare civile e penale, che devono fare un po’ una cosa e un po’ un’altra, quando oggi la domanda di giustizia è una domanda qualificata, che ha bisogno di una risposta qualificata. Io lo dico da piemontese: il Piemonte ha 17 tribunali. Obiettivamente, è una cosa priva di senso, ma basta guardarsi intorno, non è che gli altri non abbiano di che lamentarsi, l’Abruzzo ne ha 8, la Sicilia ha 4 corti d’appello, una accanto all’altra. Non è possibile non mettere mano a una revisione. Io credo che l’emergenza che stiamo vivendo, se maturiamo la consapevolezza che la giustizia è un elemento di competitività del sistema economico, può indurci a, anche tenendo conto che c’è una revisione del sistema complessivo dell’organizzazione dello Stato, della riforma delle province, dell’accorpamento dei comuni, anche a mettere mano alla riforma della geografia giudiziaria. Io personalmente sono per lasciare come sede del tribunale la sede del capoluogo di Provincia, trasformare in sezioni distaccate quelle infraprovinciali, cosicché l’ufficio giudiziario rimane, non si priva la città, il paese, il territorio di un riferimento all’ufficio, ma evidentemente non abbiamo il problema di nominare il presidente del tribunale, il cancelliere capo, il procuratore della repubblica, e tutta la struttura che è collegata ad un tribunale, sia che stiamo parlando del tribunale di Roma o del tribunale di Milano, sia che stiamo parlando del tribunale di Mistretta – ovviamente con tutto il rispetto per Mistretta -, ma quando si chiama tribunale io debbo dargli la stessa struttura, e io non sono in grado di dargliela. Allora, questa è un’emergenza che a mio parere dovremmo assolutamente affrontare, la seconda è quella del processo civile: il processo civile va assolutamente accelerato. Voi sapete che noi siamo al primo posto delle graduatorie delle condanne della Corte europea per irragionevole durata del processo, non dobbiamo pensare solo al processo penale, perché i giornali, il dibattito pubblico si occupa sempre e solo del processo penale. Ma, in realtà, le persone normali come voi nella vita non avranno mai a che fare con un processo penale – me lo auguro, ovviamente – ma avranno certamente a che fare con un processo civile, avranno a che fare con uno sfratto, avranno a che fare con una causa condominiale, avranno a che fare con un recupero di credito, con un’impugnazione di una delibera di un’assemblea, bene, tutti i cittadini normali, inevitabilmente, soprattutto se svolgono delle attività, hanno a che fare col processo civile. Allora è qui innanzitutto il problema, lasciamo un attimo da parte i violenti scontri, che diventano anche scontri tra poteri, intorno al processo penale, concentriamoci sul processo civile: il processo civile perché non funziona nonostante le riforme che tu ricordavi? Perché noi abbiamo un rito rigido uguale per tutte le cause, sia che stiamo parlando di una causa di valore minimale, sia che stiamo parlando di una causa che ha un valore di miliardi di euro. Allora, bisogna introdurre una riforma – lo dico in parole molto semplici – in cui si dia al giudice e agli avvocati la responsabilità di calibrare la durata del processo, in relazione alla natura della causa e alla materia del contendere. All’inizio della causa giudice e avvocati fanno il calendario del processo e stabiliscono quando comincia e quando finisce, tenendo conto del principio della ragionevole durata e tenendo conto del valore della controversia e della complessità della controversia. Dopodiché, se non si rispettano i termini, è chiaro che per il magistrato può scattare una responsabilità disciplinare, e questo sarà un problema del Consiglio farla valere, possono scattare dei termini di decadenza che possono anche essere dei termini perentori, cioè dei termini che, se scadono, non c’è più santo che tenga per recuperarli, e anche l’avvocatura deve essere coinvolta in questa responsabilità, in un dialogo franco in cui ciascuno si assume la propria responsabilità. Anche l’avvocatura deve farsi carico del fatto che celebrare un processo in tempi ragionevoli, non è un interesse del magistrato o viceversa. L’interesse dell’uno e dell’altro è quello di farlo durare il più a lungo possibile, ma è un interesse del cittadino e dunque è un interesse del Paese, e su questo tutti devono essere chiamati alle loro responsabilità. Allora io credo che su questo vagone giustizia, che agganciamo al treno della manovra, un intervento sulla geografia giudiziaria e un intervento su un processo civile accelerato potrebbe avere buoni risultati.

PAOLO TOSONI:
Grazie. È ovvio che si potrebbe approfondire molto la tematica: c’è un arretrato, come lo si smaltisce, c’è un problema della mediazione con tutti i conflitti che ci sono stati, però cerchiamo di fare una “carrellata di problematiche” per avere degli spunti di riflessione. Hai parlato di responsabilità dei magistrati e degli avvocati, hai parlato, accennando al processo penale, di grandi conflitti, di scontri tra poteri, eccetera. Riguardo proprio alla funzione, all’incarico istituzionale – mi permetto di darti del tu per la lunga amicizia che ci lega – ci chiediamo: il CSM, che sicuramente in questa situazione conflittuale faticosa, che da anni il Paese subisce, perché poi questo blocca le riforme, inasprisce i toni, è un nodo non da poco, è un punto fondamentale di questa situazione, il CSM a cosa serve? Funziona così com’è questo meccanismo, che provocatoriamente mi sento di dire è in mano un po’ alla logica delle correnti, per cui cane non mangia cane, per cui si vedono negligenze, abusi, che di fatto, se non quando sono gravissimi, non vengono puniti, oppure nel tempo vengono lasciati andare…? Insomma, sia per i compiti, le funzioni che ha, sia per l’organizzazione, la composizione, sia per, ripeto, la posizione così cruciale che ha, nei confronti della funzione di controllo della magistratura, soprattutto disciplinare ma non solo, della distribuzione degli incarichi, della funzione forse un po’ esagerata che si è attribuita nei pareri un po’ oppositivi nei confronti delle proposte di governo, il CSM funziona? Cosa ne pensi?

MICHELE VIETTI:
Raccolgo la tua provocazione e, come dire, con la consapevolezza che anche il CSM ha una responsabilità. Ce l’ha ricordato il Capo dello Stato quando ci siamo insediati, di fare anche noi un esame di coscienza e di cercare di adeguarci alle esigenze attuali. Tu dici la responsabilità, cioè… il Consiglio Superiore è, come dire, l’organo che deve sovrintendere anche alla responsabilità dei magistrati e per questo dispone anche del giudizio disciplinare. Teniamo conto, prima di vedere le criticità, che il CSM è una geniale invenzione dei padri costituenti, i quali, uscendo dal fascismo, si trovarono di fronte al delicato problema di rendere la magistratura autonoma e indipendente rispetto agli altri poteri. Non era sempre stato così. Certo, il fascismo ha visto molti episodi in cui la magistratura in realtà, sia per l’ordinamento giudiziario vigente allora, l’ordinamento Grandi, sia per il contesto politico, era fortemente condizionata dal regime, era fortemente dipendente dal potere esecutivo. Ora, i costituenti avevano ben chiaro, aldilà delle soluzioni tecniche che furono dibattute in sede di assemblea, che volevano una magistratura che non fosse dipendente dal potere esecutivo, che non dipendesse dal Governo, ma che traesse la sua imparzialità dal fatto di essere autonoma e indipendente. Come fare a rendere la magistratura autonoma e indipendente, e quindi a sganciarla dalla dipendenza dall’esecutivo? Creare un organo di governo autonomo dei magistrati, composto in parte dai magistrati e in parte da eletti del Parlamento tra categorie particolari, professori universitari di diritto e avvocati, e affidare a questo organo il governo della magistratura, laddove per “governo della magistratura” si intende tutto quello che riguarda la vita del magistrato, da quando entra in servizio a quando progredisce in carriera, a quando viene nominato a un ufficio direttivo, a quando fa un illecito disciplinare e deve essere sanzionato, a quando deve fare la formazione permanente, tutto quello che riguarda la gestione dei magistrati. Invece, l’organizzazione del servizio giustizia, in base alla Costituzione, all’articolo 110, è stata riservata al Ministro, quindi il Ministro guardasigilli si deve occupare del servizio, dell’organizzazione del servizio giustizia mentre il governo autonomo si deve occupare della gestione dei magistrati. Detto così, è perfetto. In pratica, è complicato, perché voi vi immaginate un automobile che ha due volanti, con due persone alla guida? Come dire, c’è il rischio che non sempre la direzione sia convergente. C’è il rischio di sfasature. E, nella pratica di quello che è successo in questi anni, certamente queste sfasature ci sono state. Però io continuo a pensare che l’intuizione dei costituenti sia stata giusta e che l’esistenza di un organo di rilievo costituzionale – perché è la Costituzione che attribuisce questa funzione al Consiglio Superiore -, l’esistenza di un organo di rilievo costituzionale che governi la magistratura sia una buona ricetta. Ovviamente dipende, come sempre, dagli uomini, perché poi le buone idee camminano sulle gambe degli uomini e dunque dipende da come il Consiglio interpreta il suo ruolo, da come lo mette in pratica. Il Consiglio ha fatto sempre tutto bene? No. Certamente le preoccupazioni, diciamo, di un eccesso di influenza correntizia che tu hai richiamato sono fondate. La magistratura è organizzata in correnti. Fin qui io non mi scandalizzo, nel senso che, se la corrente è un’aggregazione di pensieri affini sulla politica giudiziaria, lo trovo assolutamente condivisibile. È normale che anche tra i magistrati – come ci sono avvocati che aderiscono alla LAF – ci siano magistrati che possono aderire a “Un età per la costituzione” o a “Magistratura indipendente” o a “Magistratura democratica”. Se è una scelta di affinità di idee, di valori, di prospettive, di soluzioni per i problemi della giustizia; se viceversa la corrente diventa un ufficio di collocamento, allora non sono d’accordo. Qualche episodio in questo senso, e forse anche più di qualcheduno, c’è stato. Deve essere vigile la nostra attenzione, perché il correntismo non inquini la funzione alta a nobile che il Consiglio Superiore deve avere. Dunque, sì affinità ideali, no contiguità, coperture, raccomandazioni, vie privilegiate, protezioni, perché tutto questo non và. Allora, cosa fa il Consiglio? Ma, tu dici, il magistrato risponde, non risponde… guardate: anzitutto, il Consiglio Superiore non ha un’azione disciplinare in proprio, cioè non può fare lui l’azione disciplinare. Qualcuno ogni tanto, quando capita qualche episodio che va sul giornale, di qualche magistrato che fa qualche azione particolarmente clamorosa, dice “ah, perché il Consiglio non interviene?”; il Consiglio non ha la possibilità di avviare l’azione disciplinare. L’azione disciplinare contro i magistrati la avvia il Ministro o il procuratore generale presso la Cassazione. Il Consiglio Superiore è solo il giudice dei magistrati, e questo bisogna chiarirlo, perché se no ogni tanto sento delle grandi invocazioni “intervenga il Consiglio, intervenga!” sì, ho capito, intervenga, ma noi l’azione disciplinare non la possiamo promuovere. Facciamo solo i giudici, non facciamo i pubblici ministeri nei confronti dei magistrati. L’azione disciplinare, il giudizio disciplinare si è molto irrigidito, negli anni. C’è stata una riforma nel 2006, sono state, come si dice, tipizzate, cioè sono state individuate in modo preciso le mancanze disciplinare dei magistrati e, non vi tedio con i numeri, ma dal 2006 al 2010 il numero di azioni disciplinari contro i magistrati è continuamente cresciuto, e il numero delle sentenze di condanna, più quello delle sentenze per cui non si dà luogo a provvedere, perché il magistrato è uscito spontaneamente dall’ordine giudiziario per prevenire, per evitare la condanna (che quindi vanno equiparate alle sentenze di condanna), sono ormai superiori alla metà delle azioni svolte. Nessuna categoria professionale ha un numero di azioni disciplinari e un numero di sentenze di condanna pari a quelle dei magistrati. Si può fare di più? Certo, si può fare di più. Il Consiglio è impegnato perché il fronte disciplinare è un fronte che va presidiato con grande rigore. Noi abbiamo bisogno di avere magistrati che non solo siano ma appaiano imparziali, perché l’imparzialità è il requisito fondamentale di un magistrato. Perché la Costituzione ha scelto di non far eleggere i magistrati? Perché ha ritenuto che un magistrato eletto potesse essere un magistrato di parte, un magistrato condizionato dal consenso, mentre il magistrato non deve essere condizionato dal consenso, dunque non viene eletto. Deve rispondere solo alla sua coscienza e alla sua professionalità, e deve essere assolutamente imparziale. Deve essere imparziale nei suoi comportamenti, nelle sue frequentazioni, nelle sue esternazioni, che devono essere fatte attraverso i suoi provvedimenti e non attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Su questo, su questo dobbiamo essere molto chiari, perché chi vuole fare le esternazioni ha tante altre professioni per farle, così come chi vuole fare politica, a mio parere può farlo (anche un magistrato che sceglie di andare in politica può farlo), ma se, come io credo, non può esserci un magistrato se non è imparziale, una volta che ha scelto la politica non può più tornare indietro: non credo che si possa ammettere che un magistrato possa tornare, dopo che ha avuto un impegno di parte, a fare il magistrato. Allora, ovviamente nessuno immagina di limitare i diritti costituzionali, come il diritto all’elettorato passivo che anche i magistrati hanno, ma, una volta scelta quella strada, se si torna indietro, si tornerà certamente nei ruoli della pubblica amministrazione ma secondo me non più facendo il magistrato. Così come non credo che sia accettabile che un magistrato vada a fare l’assessore in una giunta comunale, provinciale o regionale, nel territorio dove ha esercitato la giurisdizione, perché questo non fa bene all’imparzialità della giurisdizione. Purtroppo il Consiglio Superiore si è trovato a dover dare un’autorizzazione a un magistrato, che ha fatto recentemente questa scelta in una giunta comunale di recente costituzione e si è potuto soltanto lamentare con il Parlamento, perché non c’è una legge che lo vieta. E, in mancanza di una legge che lo vieti, il Consiglio da solo non può impedire scelte di questo genere. Ma noi abbiamo chiesto che il Parlamento rapidamente faccia una legge, che è una legge di due righe, in cui si ponga fine a questa possibilità. Allora, tutela dell’imparzialità attraverso la garanzia dell’autonomia, ma soprattutto, se vogliamo leggere il ruolo del Consiglio in chiave moderna, io credo che il Consiglio Superiore, oggi, debba essere una specie di certificatore di qualità dei magistrati. Quando dico questa frase, qualche magistrato storce il naso, perché parlare di certificazione di qualità la considera un po’ sminuente rispetto all’alta funzione della magistratura. Premesso che io considero quella della magistratura la funzione più alta e più nobile di un Paese, perché decidere cioè che è giusto e ciò che non è giusto, decidere chi ha torto e chi ha ragione, decidere della libertà delle persone, decidere dei beni delle persone è certamente una delle funzioni più alte… forse solo la politica, intesa nel senso più nobile, cioè di forma più alta della carità, è una funzione più alta. Ma certamente questa è una funzione altissima. Il magistrato incarna il volto dello stato, il magistrato è colui che applica la legge generale e astratta al caso concreto, è colui che fa il presidio della legalità, e Dio solo sa se in questo Paese c’è bisogno di presidio della legalità, perché qualche volta, nella polemica contro i magistrati, noi ci dimentichiamo anche che questo è un Paese dove, purtroppo, la tentazione di violare le regole è sommamente diffusa. Poi ciascuno di noi vede sempre la violazione delle regole fatta dagli altri, tende a non guardare mai quella che fa lui, ma purtroppo la tendenza a violare le regole in questo Paese è molto diffusa, e si comincia dal violare la piccola regola e si arriva alla criminalità organizzata. Allora, in un Paese come questo il ruolo della magistratura non può mai essere messo in discussione, neanche se ci sono magistrati che sbagliano, perché ci sono magistrati che sbagliano, certo. Bisogna evitare che lo facciano, certo. Però, vedete, i magistrati sbagliano anche altrove: avete letto i giornali di oggi e avete letto che il procuratore distrettuale di New York ha ammesso che aveva sbagliato ad arrestare Strauss-Kahn, e ha chiesto al giudice di non processarlo, ha chiesto al giudice di rilasciarlo e mandarlo assolto. Ora, io credo che vada apprezzato questo atteggiamento, soprattutto quando la posizione del pubblico ministero ha avuto un’eco mediatico così grande. È stato coraggioso questo pubblico ministero, perché di fronte all’eco mediatico che l’arresto di un personaggio di quel calibro aveva avuto e di fronte agli effetti che aveva avuto sulla carriera di quella persona, che, ricordate, era il presidente del fondo monetario internazionale e il possibile aspirante alla presidenza della Repubblica francese, carica da cui si è dovuto dimettere, ebbene, il pubblico ministero di fronte all’inattendibilità verificata della vittima testimone, ha chiesto al giudice di non procedere, ammettendo di aver sbagliato, evidentemente. Allora, i magistrati sbagliano, sì, sbagliano dappertutto, però questo non ci deve mai far perdere il rispetto per una funzione che è una funzione insostituibile. Perché voi non potete mica immaginare che esista una comunità civile in cui non ci sia l’esercizio della giurisdizione, in cui non ci sia il giudice. Che cosa facciamo, ci facciamo giustizia da soli? Torniamo alla legge del taglione? Il presidio di legalità è la magistratura. Alla magistratura va il nostro rispetto, sempre, anche quando legittimamente, nelle forme civili, la possiamo criticare. Allora questa magistratura deve anche guadagnarsi la funzione così nobile che esercita. Cioè, il magistrato non può pensare che ha diritto a svolgere quel ruolo solo perché ha passato un concorso a 25, 28 anni. Perché non è che per il fatto di aver passato un concorso si sia legittimati a fare il magistrato bene per tutta la vita. Non è così. Così come io dico che il magistrato non va eletto e non deve dipendere dal consenso, il magistrato non si deve accontentare di dire: ho fatto il concorso e l’ho vinto. Il magistrato deve essere verificato durante la sua carriera attraverso un controllo di qualità. Come si fanno i controlli di qualità nelle aziende, così si devono fare i controlli di qualità ai magistrati. Allora, il nuovo ordinamento giudiziario ci dà degli strumenti, noi dobbiamo cercare di usarli bene. Ogni 4 anni si fa la verifica di professionalità sul magistrato, e deve essere una verifica seria, deve essere una verifica non formale, fatta sui pareri stereotipati che si riproducevano all’infinito in cui tutti erano Carnelutti. No, deve essere una verifica sulla produttività, sulla laboriosità, sull’adeguatezza professionale a fare quel mestiere. Quando si scelgono i dirigenti degli uffici, bisogna avere riguardo non solo alla preparazione giuridica, ma anche alle capacità manageriali, perché oggi dirigere un ufficio, e spero domani soprattutto se parliamo di uffici di medie dimensioni, medie o grandi dimensioni, esige anche dei requisiti organizzativi e manageriali. Il magistrato deve fare la formazione permanente, perché il diritto si evolve, i diritti si moltiplicano, le complessità delle questioni sono sempre maggiori. C’è un giudizio che ci viene dall’Europa, un diritto comunitario che ormai fa premio sul diritto nazionale e su tutto questo il magistrato deve dimostrare di essere attrezzato. Il magistrato deve rispettare la deontologia e la correttezza professionale. Il magistrato, se viola la deontologia, deve essere sottoposto al procedimento disciplinare, con un giudizio giusto, in cui siano garantiti i diritti della difesa, ma in un giudizio rigoroso, che sa che l’incolpato di quel processo è un uomo che uscito di lì giudicherà gli altri, e quindi i criteri a cui deve rispondere il giudizio disciplinare sono dei criteri, devono essere dei criteri particolarmente rigorosi. È sempre stato così? Forse no. Stiamo cercando di farlo di più e meglio? Sì, mi sento di dire di sì, e anche i numeri che abbiamo sotto mano lo dimostrano.

PAOLO TOSONI:
Prima di cambiare argomento, volevo lanciare questa ulteriore provocazione o riflessione, perché tutto quello che hai detto è assolutamente condivisibile e ha perfettamente descritto la delicatezza e l’importanza della funzione di un magistrato in una società. Proprio per questo mi chiedo – ma è uno spunto di riflessione, non è neanche … in parte tu hai già risposto, ma non è necessaria una risposta -se proprio per garantire questo, che l’autonomia e l’indipendenza alla fine non diventino irresponsabilità, la funzione altrettanto delicata di controllo disciplinare e di distribuzione delle funzioni degli incarichi direttivi del CSM forse non imponga oggi, in un CSM che deve essere più moderno, una rivisitazione della sua composizione. Perché quel meccanismo ideale delle correnti che tu hai descritto, nella percezione comune non corrisponde a quel meccanismo ideale, ma corrisponde alla degenerazione. E questo è un meccanismo, secondo noi, che va combattuto. Come? Ci vogliono anche una forma, forse, degli equilibri anche all’interno dello stesso CSM, modificati rispetto agli attuali. Potrebbero perlomeno creare un argine. È corretta questa interpretazione?

MICHELE VIETTI:
Guarda, non c’è dubbio che il problema esiste. Noi però dobbiamo tener conto sempre del ruolo del Consiglio, che è essere garanzia del governo autonomo della magistratura. Questo vuol dire che non possiamo alterare la composizione del Consiglio oltre una certa misura. Oggi 2/3 sono i magistrati, 1/3 gli eletti dal Parlamento. L’Europa, in varie dichiarazioni e documenti, ci dice che comunque la componente dei magistrati non può mai essere inferiore alla metà, cioè la garanzia dell’autonomia sta anche in una composizione che veda una presenza non minoritaria dei magistrati. Detto questo, si può pensare che la componente laica venga numericamente aumentata: non mi straccio le vesti. Certo, bisogna evitare che il condizionamento della politica, che passa attraverso la nomina di membri laici, attenti all’autonomia, che è il valore che noi dobbiamo preservare per garantire l’imparzialità, e dunque è un bilancino molto delicato. Qualcuno ha immaginato che una componente dei laici potesse essere eletta dal Presidente della Repubblica, magari anche qui tenendo presente una quota di laici e una quota di magistrati o di ex-magistrati. C’è però un problema, che il Presidente della Repubblica è il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, per cui attribuirgli un potere di nomina rischia di creare qualche difficoltà. Io credo che, in attesa di riforme che, se attengono alla composizione, sono riforme di rango costituzionale e quindi, come dire, non mi sembra che ci sia aria, in questo momento, di riforme che mettano mano alla Costituzione in materia di giustizia, però, come dire, in un auspicato futuro clima di collaborazione e di rasserenamento degli spiriti, io non mi sottraggo e non considero un tabù l’attuale composizione del Consiglio. Anche se penso che i problemi della giustizia oggi sono altri, sono quelli di cui abbiamo parlato all’inizio, sono la modernizzazione dei riti, la celerità delle risposte, la prevedibilità delle risposte, la capacità di tenere il passo del Paese. Cioè, noi dobbiamo sincronizzare gli orologi degli uffici giudiziari con gli orologi della società civile ed economica. Questo è il nostro problema, perché oggi negli uffici giudiziari non è che c’è l’ora solare, c’è l’ora lunare, e fuori abbiamo l’ora legale. Allora, tra l’ora lunare e l’ora legale dobbiamo cercare di far quadrare le cose. Questa mi sembra l’emergenza. Come dire, poi di tutto il resto possiamo discutere. La responsabilità civile dei magistrati, che è stata messa nel progetto di riforma, è un argomento molto delicato: nessun Paese europeo ha la responsabilità diretta del magistrato. Perché? Ma perché è evidente. Si dice: perché il magistrato non risponde se sbaglia, mentre il medico o l’avvocato o l’ingegnere rispondono? Ma è ovvio: perché il magistrato fa un mestiere particolare, che è quello di dare ragione all’uno e torto all’altro. Allora inevitabilmente ogni volta dà torto all’uno, quell’uno ogni volta sarà convinto di aver avuto torto in modo ingiusto, perché è molto difficile trovare qualcuno che si veda dar torto e dica: sì, è vero, avevo torto. Allora, se noi esponiamo il magistrato all’azione di responsabilità diretta della parte per questioni di interpretazione della legge o di interpretazione dei fatti, noi paralizziamo definitivamente il sistema giudiziario, perché ovviamente il magistrato, quando dovrà decidere, farà una giurisprudenza sempre difensiva, cioè tenderà o a non decidere o a eludere la decisione o a dar ragione alla parte più forte. È chiaro, perché ridurrà il rischio in proprio. Oggi la legge vigente si può migliorare, però la legge vigente prevede che il magistrato risponda in proprio, se l’errore dipende da un reato, cioè se si identifica in un comportamento che è reato. Se lo fa per dolo o colpa grave, risponde lo stato, cioè la parte agisce contro lo stato e lo stato ha l’azione di regresso contro il magistrato. Pari pari come succede per gli insegnanti. È la stessa situazione degli insegnanti. La responsabilità degli insegnanti la si aziona contro lo stato, che poi ha l’azione di rivalsa. Ma questa è la situazione che c’è in tutta Europa: Francia, Spagna, Germania, Portogallo. Tutti, con qualche sfumatura, hanno questo meccanismo. Nessuno ha l’azione diretta di responsabilità contro il magistrato, perché il risultato inevitabilmente sarebbe la paralisi. Ora, ci può piacere, non ci piace, ma così è. Vogliamo definire, dettagliare meglio le cause per cui si può agire in giudizio nei confronti della responsabilità del magistrato, ma inevitabilmente l’interlocutore deve essere lo stato. E poi lo stato farà l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato. Se no, ad ogni giudizio noi affiancheremo l’azione di responsabilità della parte soccombente o del condannato contro il magistrato, e poi la cosiddetta legge Pinto per irragionevole durata del processo, e quindi per ogni processo ne faremo tre. Non credo che questo vada nella direzione dell’accelerazione e del processo breve.

PAOLO TOSONI:
Un’ultima domanda, tenendo anche conto del tempo e della stanchezza di tutti, però è un tema cui teniamo molto, siamo sensibili, peraltro so che anche qui al Meeting ci sono dei carcerati. La situazione delle carceri in Italia è sotto gli occhi di tutti: sovraffollamento, dovuto anche alla custodia cautelare, ma quello che ci preme è che non è solo un problema di struttura, di sovraffollamento, che è sicuramente un problema, ma la percezione che noi abbiamo, anche con tutti i nostri amici che operano nelle carceri, è l’idea che il carcerato, diversamente da ciò che prevede la Costituzione, in realtà più di tanto non possa essere risocializzato, cioè non sia materiale umano nel senso buono, sul quale lavorare perché ciò che ha sbagliato possa diventare in realtà una fonte di ripartenza. Questa è una concezione che troviamo nella stragrande maggioranza degli operatori del sistema carcerario. Quindi ci sono i due problemi, il sovraffollamento e il problema di un vero, reale tentativo di applicazione dell’articolo della Costituzione, che richiede che la pena sia riabilitativa. Come affrontare… Quali possono essere anche in grande sintesi dei punti su cui intervenire?

MICHELE VIETTI:
Questo è un nervo scoperto del nostro sistema, come sapete bene anche qui a Rimini. Il Capo dello Stato ha ricordato questa drammatica realtà carceraria, invitando tutti ad assumere iniziative per cercare di porvi rimedio. Ora, dico solo due cose: c’è un problema a monte, cioè bisogna assolutamente uscire dalla logica per cui tutti i problemi di questo Paese si risolvono introducendo un reato. Tutti i governi, tutte le maggioranze di qualunque colore producono una quantità innumerevole di nuovi reati, di nuove fattispecie criminali. Si pensa che ogni criticità sociale economica si affronti introducendo un reato e questo, voi capite, produce un risultato paradossale: in un sistema in cui tutto è reato e in cui il sistema giudiziario è un sistema a portata limitata, cioè è un acquedotto che ha un diametro del tubo in cui entra una certa quantità d’acqua e non di più… – dice ma io vorrei fare entrare nell’acquedotto le cascate del Niagara, eh non si può, le cascate del Niagara se le voglio mettere nell’acquedotto si disperdono completamente all’esterno e fanno allagamenti, ma non riescono ad entrare nell’acquedotto e a diventare acqua potabile o acqua che produce energia, si disperdono -, allora usciamo da questa mentalità in cui continuiamo a inventarci dei nuovi reati. Io l’ho detto in conferenza stampa, io non sono contrario all’omicidio da incidente stradale, ma dico, facciamo una moratoria su tutti i reati, possiamo per un anno tutti quanti non mettere più nessun reato? Pensate che cosa si è fatto con l’immigrazione clandestina, dibattiti infiniti e il reato che doveva servire per allontanare più facilmente gli immigrati… ovviamente, come si era previsto, una volta che io li immetto nel sistema giudiziario io non allontano l’immigrato, ma allontano all’infinito il momento in cui io potrò fare il provvedimento amministrativo di espulsione, perché quando l’ho immesso nel sistema giudiziario, gli devo dare tutte le garanzie del sistema giudiziario… Quanti altri esempi potremmo fare? Dopodiché, più reati introduco meno il sistema processuale riesce a giudicarli e quindi meno condanne si fanno e dunque più si allontana la sanzione e l’irrogazione della pena. Contemporaneamente si continua ad abbreviare la prescrizione, le prescrizioni già sono state abbreviate con la cosiddetta CDL, poi c’è stato qualche altro tentativo di tagliarne ancora un po’…se continuiamo a far diventare tutto reato il sistema processuale non riesce a giudicarli e a condannarli, le prescrizioni si accorciano e i processi muoiono, alla fine è l’impunità per tutti. Ma è questo che vogliamo ? Io non credo, io non credo, io credo che noi vogliamo che i processi per i reati veri, quelli che destano allarme sociale vero, si facciano e che viceversa si sfrondi il sistema da tutta una serie di comportamenti che possono essere sanzionati in via amministrativa, che possono essere sanzionati in maniera pecuniaria, che possono vedere l’oblazione per cancellarli, che possono vedere l’estinzione del reato per comportamenti riparatori, che possono vedere l’archiviazione quando il fatto è irrilevante, cioè una serie di provvedimenti che evitino di intasare il sistema processuale penale. Questo, poi, è una delle ragioni del sovraffollamento delle carceri, soprattutto da parte di detenuti che ci transitano spesso e per brevissimo tempo, perché compiono reati che hanno pene molto brevi, ma nel momento in cui li abbiamo mandati in carcere, gli abbiamo dato l’opportunità di diventare criminali più professionali di quello che erano prima. E questo vale soprattutto per tipologie di carcerati come gli immigrati, come i tossico-dipendenti, che meriterebbero dei trattamenti quanto meno differenziati rispetto al delinquente comune. Situazione delle carceri: bisogna ricorrere in modo più massiccio alle pene alternative. Io ho molto rispetto per i vari Ministri, Alfano e anche il neo Ministro Palma, che ci raccontano ogni volta che costruiranno grandi e numerosi carceri, ma io questi grandi e numerosi carceri li sento annunciare da tanti anni e non li ho mai visti, anche perché costruire le carceri è un’opera complicata. Certo è stato un errore dismetterne e non costruirne per decenni, però la soluzione oggi, a breve, con 66-67 mila detenuti, con una capienza regolamentare di poco più di 40 mila, non può essere rimandata a babbo morto, poi costruiremo le carceri. Bisogna inevitabilmente ricorrere alle pene alternative alla detenzione, ridisegnandone le condizioni, in modo da mettere i magistrati di sorveglianza nelle condizioni di scegliere chi può scontare la pena fuori dal carcere, chi può scontarla facendo lavori socialmente utili, chi può scontarla ai domiciliari, chi può scontarla senza un intasamento carcerario che costringa i detenuti in condizioni di invivibilità. Io vi assicuro che da Sottosegretario ho visitato tante carceri e quello che si vede in carcere, veramente fa stringere il cuore, altro che funzione riabilitativa della pena come dice la Costituzione! Purtroppo non si riesce a farli lavorare come si dovrebbe, perché il detenuto dovrebbe poter lavorare, perché il lavoro è una modalità di riabilitazione, ma non ci sono le condizioni per poter lavorare, non ci sono le condizioni per poter avere educatori, per poter avere formatori, per poter avere quelli che fanno corsi e quindi si costringono questi detenuti ad una condizione di passività che, invece che riabilitare, non può che peggiorare la loro condizione. Allora, forse questa potrebbe essere un’altra emergenza da mettere sul vagone giustizia da attaccare al treno della manovra: una migliore ridefinizione delle condizioni alternative alla detenzione, in attesa di fare una seria e drastica depenalizzazione.

PAOLO TOSONI:
Abbiamo sentito alcuni spunti, alcuni tentativi, idee per riformare alcune situazioni e ovviamente con tutti i limiti che può avere un incontro di questo tipo, perché, ribadisco, bisognerebbe affrontare un problema alla volta e non basterebbe neanche un incontro, anzi… Però volevo ricordare a tutti una cosa che mi ha particolarmente colpito, perché quando sento un tentativo appassionato da parte degli esperti, da parte delle cariche istituzionali, di dare un contributo per migliorare il nostro sistema giustizia, mi viene in mente una frase che… una riflessione che ho letto in questi giorni nella prefazione ad un libro che è stato presentato qui al Meeting, che è Esperienza elementare e diritto, di Cartabia, Simoncini, Carozza e Violini. In questo libro, c’è una prefazione in cui Carrón, a un certo punto, dice: «il teorema “più diritti più giustizia”, viene puntualmente smentito dall’esperienza elementare di qualsiasi uomo» o dal sentimento di giustizia dell’uomo, che è un sentimento di giustizia infinita, infallibile e che neanche il miglior tentativo, il più nobile, il più appassionato di fare, creare sistemi che facciano giustizia, può soddisfare. Ecco, io credo che noi che operiamo nel mondo della giustizia, chi con incarichi istituzionali, noi professionalmente, ma chi ha a che fare comunque con questo mondo, con la giustizia, debba partire da questa coscienza, dalla coscienza di questo limite, che è paradossalmente una certezza, una certezza che si capisce dall’esperienza, dall’esistenza: l’esperienza di giustizia è più grande anche di tutti i nostri tentativi. Questa coscienza, a mio modesto avviso, può permettere a tutti noi di dare un contributo serio, appassionato e realistico al nostro sistema. E con questo ringraziamo sinceramente il Presidente Vietti e tutti voi del vostro ascolto. Buona serata

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

24 Agosto 2011

Ora

19:00

Edizione

2011

Luogo

Sala A3
Categoria
Incontri