Chi siamo
L’ITALIA UNITA, STORIA DI UN POPOLO IN CAMMINO
L'Italia unita. Storia di un popolo in cammino
23/08/2011 ore 11.15 Partecipano: Giuliano Amato, Presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana e Presidente del Comitato dei Garanti per i 150 anni dell'Unità d'Italia; Maria Bocci, Professore Ordinario di Storia Contemporanea all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Marta Cartabia, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all'Università degli Studi di Milano-Bicocca. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.
Partecipano: Giuliano Amato, Presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e Presidente del Comitato dei Garanti per i 150 anni dell’Unità d’Italia; Maria Bocci, Professore Ordinario di Storia Contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Marta Cartabia, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.
Giorgio Vittadini
Nel Meeting aperto dal Presidente Napolitano, che ha
inaugurato la mostra sui «150 anni di sussi-
diarietà», non poteva mancare un incontro dedicato al tema
stesso di questa mostra: l’Italia unita, storia di un popolo in
cammino.
L’incontro approfondirà la ragione della mostra, partendo
dalla prima parte della storia d’Italia, per passare poi al momen-
to della Costituzione e arrivare a un giudizio sul significato
complessivo di questi 150 anni.
Che cosa ha tenuto insieme gli italiani?
di Maria Bocci
Il valore della mostra sui «150 anni di sussidiarietà» è innan-
zitutto quello di essere il frutto di un lavoro comune, che ha
coinvolto alcuni docenti e soprattutto molti studenti delle
università milanesi. Solo per le prime due sezioni (che ho curato
più da vicino e delle quali vi parlo oggi) si sono impegnati 26
ragazzi dell’Università Cattolica e dell’Università degli Studi
di Milano: con voglia di imparare e con la volontà di anda-
re al fondo delle questioni, senza accontentarsi di punti di
partenza superficiali e non verificati, questi studenti hanno
dimostrato una grande apertura e una curiosità intellettuale
non sempre diffuse negli atenei italiani.
La mostra è il frutto, dunque, di un confronto reciproco e
di continui approfondimenti che si sono prolungati nel corso di
un anno accademico e che hanno trasformato alcuni luoghi
della cultura milanesi, che a volte rischiano di essere semplici
distributori di titoli di studio, in una vera e propria comunità
universitaria, fatta di persone – docenti e studenti – capaci di
rischiare insieme, sino a proporre – rischiando, appunto – una
certa lettura della storia unitaria. Questo è per me il valore
aggiunto della mostra, ancor più importante dei risultati che
abbiamo «messo in mostra». Tutti siamo cresciuti, e non solo
dal punto di vista delle conoscenze che abbiamo acquisito:
abbiamo assimilato un metodo di ricerca utile per affrontare
il cammino della conoscenza, siamo stati disponibili a farci
provocare dai nodi problematici che abbiamo incontrato,
abbiamo capito che la «certezza», anche in storia, non è uno
slogan da sbandierare per paura di confrontarsi con un pas-
sato che, sempre, è altro da noi; e non è nemmeno il frutto di
un meccanismo predeterminato, che pretenda di applicare
al passato assunti ideologici incuranti di accertare la realtà
dei fatti. Semmai è un cammino conoscitivo affascinante, che
implica il coinvolgimento profondo di chi vuol conoscere e la
disponibilità a interrogarsi sullo spessore della realtà umana
nel tempo, perché accertare i dati e farsi domande sempre più
impegnative significa diventare capaci di dare le ragioni del
vero che cominci a scoprire.
È stato questo il nostro anno insieme, faticoso ma ricchis-
simo, che ha reso molto più fecondo il nostro modo di vivere
l’università. Naturalmente la preparazione della mostra ha
implicato un notevole lavoro di semplificazione, perché una
mostra può solo «indicare» un percorso conoscitivo. Dietro
le semplificazioni ci sono però alcune scelte, che dipendono
dalle chiavi di lettura con cui abbiamo ripensato alla storia
italiana.
È una domanda il nostro punto di partenza, forse non
del tutto consapevole agli inizi delle nostre ricerche, ma
che è emersa come l’orizzonte all’interno del quale ci siamo
mossi: che cosa ha tenuto insieme gli italiani? E che cosa ha
continuato a tenerli insieme nei 150 anni della storia uni-
taria; anni connotati, sì, da importanti traguardi politici ed
economici, che però sono stati raggiunti attraverso percorsi
non sempre lineari? Queste domande si impongono anche
perché questi stessi anni sono stati segnati da traumi pro-
fondi che hanno inciso nel vissuto collettivo: il fascismo, due
guerre mondiali e una guerra civile, il terrorismo e gli «anni
di piombo», ricorrenti crisi economiche e trasformazioni
sociali che non hanno sanato le fratture tra le tante Italie
che compongono il tessuto nazionale. Dunque, che cosa ci
ha tenuto insieme?
L’Italia viene da lontano
Non sono rare le ricostruzioni che raccontano la storia dell’Italia
unita come una collezione di occasioni mancate o di passi falsi
rispetto a una modernizzazione che, in altri Paesi, avrebbe
seguito vie ben altrimenti efficaci: a detta di molti censori del
«carattere» nazionale – e sono stati tanti, da Machiavelli sino a
oggi –, le vicende italiane non sarebbero che la conferma della
nostra identità di popolo in ritardo con gli appuntamenti più
importanti della storia degli ultimi secoli. Molti poi insistono
su spaccature e divisioni, o sui passaggi della storia unitaria
in cui più difficilmente ci si può riconoscere.
C’è però un dato di fatto: Italia significa molto, e non solo
dal 1861. E ce n’è un altro: gli italiani ci sono, e sono un popolo
ben riconoscibile. La constatazione è semplicissima, ma non
è poi così scontata. Ci fa percepire un dato storico che viene
dimenticato quando si fa coincidere l’identità nazionale solo
con la costruzione dello Stato unitario. Noi abbiamo voluto
tener conto di questo dato, che ci ha aiutato a non confinare
la storia italiana nella cornice temporale dei 150 anni, ma a
coglierne la ricchezza nel corso dei molti secoli in cui l’Italia
è stata, anzitutto, una forma di civiltà.
Proprio così inizia il percorso della mostra, che colloca la
storia dell’Italia unita all’interno di uno sviluppo storico più
ampio, del quale abbiamo bisogno per capire che cos’è l’Italia
e chi sono gli italiani. Il processo di unificazione nazionale si
è infatti innestato su una comune base di valori e di abitudini
secolari. C’è stata un’unità culturale nazionale; prima ancora
della nazione, c’è stata una civiltà millenaria, vera e propria
memoria dell’Europa, con un patrimonio di cultura ineguaglia-
bile. In lunghi secoli di storia l’Italia è stata però anche il Paese
dei mille campanili e delle cento città, e in ogni città, in ogni
borgo, il municipio e la chiesa, le botteghe artigiane e i dialetti,
un tessuto fatto di legami sociali e familiari, dentro ambiti di
vita amalgamati dal sentimento di un comune destino.
L’Italia è, insomma, un intreccio di appartenenze, tradi-
zioni e stili di lavoro, eccellenze tecniche e primati artistici; è
un mosaico di esperienze, linguaggi e identità, e 150 anni di
storia unitaria ce ne mostrano l’ultima propaggine che risulta
inspiegabile, però, se letta solo alla luce del processo unitario
ottocentesco, che racconta l’ultimo tratto dei molti mondi che
convivono nel Paese e che gli conferiscono un deposito storico
di incredibile spessore. Ma quali sono gli elementi unificanti,
quali le giunture che hanno tenuto insieme l’Italia nonostante
secoli di divisione politica? Esiste un patrimonio condiviso,
fatto di tanti elementi: il retaggio romano, fonte del diritto; e
poi l’amore per il bello e un fervore creativo che sono scaturiti
da un cristianesimo incarnato nella vita degli italiani. Vi è una
coscienza collettiva, che si è tradotta in responsabilità per i beni
affidati ai singoli e alle comunità, in capacità di condivisione
dei bisogni e delle preoccupazioni della gente, in una cura per
il prossimo non ostacolata da condizioni di esistenza spesso
assai precarie. In molti ne hanno goduto i benefici, gli ultimi
e i meno fortunati, gli stranieri e i lontani. La nostra civiltà è
stata anche questo: un mobilitarsi dal basso per rispondere ai
bisogni degli uomini.
C’è un fondamento che ha dato consistenza a questo mul-
tiforme patrimonio di civiltà: è quel terreno reso fertile dal
cristianesimo, intessuto di ideali e di pratica vissuta, di cui a
metà Ottocento hanno coscienza i padri della patria che, ad
esempio, fanno riferimento al neo-guelfismo, desiderosi di
dare una nuova struttura politica all’Italia, ma convinti che la
prospettiva unitaria debba costruire su quel fondamento; un
fondamento che agisce da collante fra le diversità italiane ed
è sostanziato dalla presenza della Chiesa nella società e da un
cattolicesimo popolare fatto di immediatezza e devozione, di
pietà per la condizione umana. Sono anche questi i tratti tipici
dell’italianità, tratti che hanno disegnato una comune vocazione
di fondo, fonte di legami di solidarietà e di vicinanza. Quella
degli italiani è una fede che si è radicata nella realtà, dentro
le fibre del tessuto sociale, e lo ha plasmato per renderlo più
ospitale e compassionevole, anche se, naturalmente, non sono
mancati momenti di smarrimento e periodi di oscurità. La
storia plurisecolare della penisola è, però, marcata da questa
carità messa in opera, fonte di una tradizione civica che si è
tradotta in iniziative educative, ospedaliere e assistenziali, che
per secoli hanno aiutato a rendere più sopportabile l’avventura
della vita comune.
150 anni di sussidiarietà: esperienze di vitalità sociale
È da questa prospettiva che abbiamo guardato alla storia
dell’Italia unita; ed è questa prospettiva che ci ha aiutati a
ripercorrere la storia di 150 anni di sussidiarietà. Nelle prime
due sezioni della mostra abbiamo cioè parlato di sussidiarietà
non nel suo significato più propriamente tecnico (il principio
di sussidiarietà, che si è chiarificato soprattutto a partire dalla
Quadragesimo anno, l’enciclica del 1931 con cui Papa Pio XI
ha messo in discussione lo statalismo fascista); abbiamo invece
cercato di individuare nella storia italiana, dal periodo pre-
unitario alla Seconda guerra mondiale, esperienze di vitalità
sociale significative e rilevanti, paradigmatiche di una società
vivace e capace di influire nella costruzione della casa comune.
Le fondamenta politico-istituzionali di questa casa comune
sono state poste dal Risorgimento, ma è stato poi necessario
un lungo periodo di apprendistato unitario, per consolidarle
nelle coscienze dei cittadini. Ci siamo dunque chiesti se tali
esperienze di vitalità sociale, che si concretizzano grazie al
dinamismo di gruppi di laici e religiosi attenti alle emergenze
della loro epoca, non abbiano interagito positivamente proprio
con il consolidamento civile dell’Italia appena unita.
I protagonisti della mostra, in fondo, sono gli italiani che,
in tanti modi, hanno contribuito con il loro lavoro e il loro
impegno a costruire un Paese migliore. Nelle prime due sezioni
della mostra incontriamo opere capaci di ripensarsi di fronte
alle nuove situazioni, uomini che hanno messo a frutto i talenti
ricevuti, persone che hanno saputo agire con la certezza che
il futuro potesse esser migliore e che, proprio per questo,
hanno fatto l’Italia. In molti settori della società, tante opere
e iniziative – sia pure partendo spesso dalla contestazione
dell’«Italia legale» creata dal Risorgimento – hanno cooperato
allo sviluppo del Paese e al miglioramento delle condizioni
di vita dei suoi cittadini. Il percorso che abbiamo ricostruito
potrebbe essere sintetizzato così: dalla denuncia – ben presente
in molti gruppi che abbiamo studiato (denuncia di quelli che
erano considerati gli esiti nefasti della Rivoluzione francese
e del liberalismo) – alla partecipazione, una partecipazione
che si è sviluppata grazie a una infinità di opere suscitate,
anzitutto, non da una prospettiva politica, ma dall’interesse
per le persone, dalla condivisione, dall’immedesimazione con
gli uomini del proprio tempo, dalla volontà di puntare sui
giovani e sull’educazione. Adoperarsi per il bene di tutti e di
ognuno: potrebbe essere questa la cifra distintiva del variegato
mondo sociale di cui abbiamo voluto dar conto, un mondo
che, nei fatti, ha contribuito a dare un fondamento più solido
all’Italia unita.
Abbiamo dunque scelto di valorizzare queste esperienze,
alcune delle quali sono state inserite nella mostra (altre le
troverete nel catalogo, di altre ancora – anzi, di moltissime
altre – non abbiamo potuto parlare, anche se sono importanti).
Non abbiamo voluto sottolineare le contrapposizioni, che pure
ci sono state e hanno segnato la storia unitaria, lasciandole in
sorte una certa fragilità; né ci siamo soffermati sui momenti più
conflittuali, o sulle critiche originate dai modi dell’unificazio-
ne, con l’accentramento, la breccia di Porta Pia e la questione
romana, il non expedit che ha tenuto molti cittadini cattolici
lontani dal Parlamento. Allo stesso modo, non abbiamo insi-
stito sulla contestazione dello Stato borghese che, da sinistra,
ha ulteriormente indebolito l’attaccamento di molta Italia di
popolo alle istituzioni.
Ci è sembrato più utile verificare come il «Paese reale» ha
contribuito (a volte suo malgrado) all’edificazione di una casa
comune più solida, perché maggiormente fondata nel tessuto
sociale e, alla lunga, più radicata nei cuori dei cittadini. E ci
siamo accorti che, in realtà, gli stessi contesti che hanno ali-
mentato una forte opposizione ideologica al «Paese legale» e,
per questo, sono dovuti passare attraverso momenti di grande
tensione (basti pensare agli scontri sanguinosi del 1898), con
il tempo hanno anche prodotto esperienze di condivisione
importanti per tutto il Paese, proprio grazie alle libertà civili
garantite dalla legge costituzionale dello Stato unitario.
È dunque la storia di una certa sinergia, difficile e non
scontata, tra società e Stato, quella che abbiamo raccontato.
Una storia che si è via via arricchita man mano che il Paese è
andato incontro agli effetti della modernizzazione economica
e sociale, quando le risorse della tradizione hanno dovuto
misurarsi con le nuove emergenze.
All’inizio del Novecento il cambiamento è alle porte e si
manifesta con le manifatture, l’industrialismo, l’emigrazione
e il pauperismo. Nella società si sviluppano allora strumenti
moderni per far fronte al nuovo: le mille associazioni e la
stampa, le scuole, gli asili e la formazione professionale, le
società di mutuo soccorso, le casse rurali, le leghe operaie e la
cooperazione. Una coscienza civile dal cuore antico si traduce in
forme nuove; in opere che – così ci è sembrato – sono state una
via alla cittadinanza, per diversi punti di riferimento importanti
per il popolo italiano. L’abbiamo verificato nell’impegno del
movimento cattolico e del movimento socialista, come pure in
certi ambiti dell’associazionismo borghese e nell’azione sociale
di alcuni soggetti economici rilevanti. Dalla nostra analisi risul-
ta che le reti associative distese sul territorio nazionale tra la
fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si sono orientate,
almeno come tendenza, verso la scelta di restare nel «sistema»,
quali che fossero i motivi di contestazione dei suoi indirizzi
di governo. L’uso delle libertà civili è diventato il tramite di
una volontà di partecipazione, prima nei municipi e negli
organismi locali, e poi nella più ampia vita pubblica. È stata
questa la strada che ha portato all’assunzione di responsabilità
da parte dei grandi soggetti popolari sin nella sfera politica,
una direttrice di marcia che ha significato un benessere più
diffuso per molti cittadini, ma anche la possibilità di rinnovare
la casa comune costruita dal Risorgimento.
Ai tempi del fascismo
Con la seconda sezione della mostra abbiamo voluto capire
che cosa ne è stato di un tessuto sociale così ricco in uno dei
momenti più difficili della storia nazionale, tra la fine della
Prima guerra mondiale e il consolidarsi della dittatura fasci-
sta. E abbiamo visto un mondo pieno di incognite, segnato
dall’instabilità politica e dalle ferite, non solo materiali, della
Grande guerra; e poi una società in fermento, imbevuta di
attese di rinnovamento che si sono concretizzate in diverse
proposte politiche e in azioni sociali di vario segno. I partiti di
massa del dopoguerra si radicano in quel tessuto sociale che
è uno dei fattori di maggior ricchezza della storia italiana. È
il caso del Partito Socialista, che si impone nelle elezioni del
1919 e lotta per l’instaurazione di una Repubblica fondata
sulla dittatura del proletariato.
È il caso del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, i cui con-
sensi vengono da associazioni cattoliche fiorenti, dal dinamismo
delle parrocchie e dal sostegno dei municipi guidati da giunte
bianche. La presenza cattolica nella società, già dispiegatasi
a molti livelli, si traduce ora in una proposta originale, che
immette nel circuito politico idee destinate a fare molta stra-
da, come la riforma agraria, il decentramento amministrativo
e la valorizzazione dell’ente locale. È soprattutto il partito di
Sturzo ad avere una visione sussidiaria, che punta sui corpi
intermedi, sul regionalismo e sul decentramento per costruire
uno Stato veramente popolare. Libertà, responsabilità, auto-
governo e pluralismo delle istituzioni sono le coordinate che
ne connotano il programma.
Il dinamismo sociale del primo dopoguerra si esprime poi
con lo sviluppo di nuovi luoghi aggregativi e con il rinnovamen-
to di strumenti già esistenti, tesi ad affrontare problemi sociali
sempre più gravi. Sindacati, leghe bianche e rosse, camere del
lavoro e case del popolo innervano una storia fatta di lotte e
fermenti, sintomo di vivacità sociale e di indubbia esuberanza
del contesto civile, ma anche di profonde lacerazioni, in cui
si incunea il nascente fascismo. L’ascesa di quest’ultimo, che
pure è frutto di quella stessa temperie in cui le contrappo-
sizioni ideologiche si sono radicalizzate, provoca però una
vera e propria svolta: nel progetto fascista, che si chiarisce
con il tempo, non c’è posto per la vivacità sociale, perché la
società, i suoi corpi e le sue organizzazioni, gli enti economici
e i luoghi dove si fa cultura sono solo ingranaggi funzionali
alla prosperità dello Stato fascista. È una sussidiarietà negata,
che comporta lo smantellamento delle reti associative e delle
organizzazioni estranee o alternative al regime.
Ancora una volta, tuttavia, alcuni soggetti sociali, sia
pure colpiti e ridimensionati, trovano il modo di interagire
con le contingenze politiche del momento, non limitandosi
a «tirare i remi in barca», ma cercando nuove strade per
non perdere la possibilità di continuare a essere un punto
di riferimento per gli italiani. Lo abbiamo verificato, ad
esempio, studiando l’evoluzione del vecchio movimento
cattolico, che ora diventa l’Azione Cattolica: mentre scom-
pare, colpita dal fascismo, la rete organizzativa che per più
di cinquant’anni ha innervato il movimento cattolico, l’Ac
acquisisce una vera e propria centralità non solo ecclesiale,
ma sociale: diffusa capillarmente nel Paese e rafforzata da
adesioni «di massa», è impegnata nei settori educativi, cul-
turali e assistenziali.
Ci ha colpito la Gioventù femminile, che ha prodotto, specie
nell’Italia meridionale, una sorta di «rivoluzione culturale»,
liberando le ragazze del Mezzogiorno dall’isolamento, anche
attraverso attività di formazione che hanno contribuito a com-
battere l’analfabetismo. E ci ha colpito l’Università Cattolica,
per la sua genesi dal basso: la Cattolica nasce come una vera
e propria «università di popolo», grazie ai molti contributi
economici che le vengono dagli italiani, anche poverissimi, e
che ne rendono possibile lo sviluppo. All’interno dell’Azione
Cattolica abbiamo poi visto maturare ambiti di aggregazione
a volte svincolati dal controllo della dittatura (nel caso del
movimento guelfo d’azione, addirittura con finalità antifasciste),
che ci è sembrato di dover evidenziare perché costituiscono
una delle eccezioni in un contesto sociale imbrigliato dalla
fascistizzazione che si impone dalla seconda metà degli anni
Venti.
La storia italiana fra le due guerre è allora anche la storia
di una continua tensione, più o meno accentuata, a seconda
dei periodi, tra un regime che palesa sempre più apertamente
le proprie aspirazioni totalitarie e alcuni soggetti che vantano
invece una loro originarietà di natura e di scopi, non del tutto
appiattibile all’interno dello Stato fascista. Settori cruciali
di questo confronto ci sono sembrati quelli dell’educazione
degli italiani e dei rimedi da porre in essere per far fronte
alla crisi economica degli inizi degli anni Trenta. Il percorso
della mostra racconta in parte questo confronto, sceglien-
do di soffermarsi non tanto sulle esperienze di antifascismo
dichiarato, ormai clandestine o costrette all’esilio, ma su quel
che ancora sussiste nel Paese al livello di ambiti culturali ed
educativi più o meno capaci di «resistere» allo statalismo
fascista, oppure di riflessioni teoriche che si paragonano con
i quesiti più sensibili dell’epoca, come quelli che concernono
il corporativismo. Certo, poco rimane del dinamismo sociale
che ha contrassegnato la storia dell’Italia unita. Ma la desertifi-
cazione operata dal fascismo non ha prodotto lo svuotamento
totale del tessuto sociale italiano. In alcuni ambiti della vita
collettiva sono rimasti margini di vitalità, importanti per la
ricostruzione del Paese dopo l’avventura totalitaria. C’è stata
a volte, prima della resistenza armata, una certa «resistenza
morale» al progetto totalitario, implicita e non ancora affiorata
alla coscienza di molti italiani, che però ha creato le premesse
per la svolta degli anni successivi.
Certo, vent’anni di dittatura hanno influito sulla storia ita-
liana e hanno segnato anche i segmenti di questa storia che noi
abbiamo studiato. Una certa tentazione statalista, ad esempio,
è innegabile e ben percepibile a diversi livelli dell’opinione
pubblica. Persino alcuni intellettuali cattolici hanno sviluppato
un confronto non sempre chiaro con il concetto di sussidiarietà,
proprio allora avanzato dal magistero pontificio ma non abba-
stanza metabolizzato né da una parte influente dei settori più
vicini alla Chiesa, né dall’agenda del dibattito politico.
Tuttavia, ciò che succede nel Paese dopo l’armistizio
dell’8 settembre dimostra che non tutto è stato distrutto.
Ci sono ancora risorse vive nel corpo sociale, risorse che,
spesso, hanno trovato riparo nelle braccia della Chiesa cat-
tolica. Nel crollo delle istituzioni cui il Paese ha assistito,
la Chiesa è rimasta un punto di riferimento credibile per la
popolazione e ha alimentato le riserve etiche che ispirano
la ripresa post-bellica. A contare sono soprattutto la capacità
di vicinanza alla gente, la difesa di ambiti di vita comune
sottratti al fascismo e la salvaguardia, al di sopra di tutto,
delle ragioni della pietà e della moderazione. Specialmente
durante la guerra, prima ancora che i gruppi politici anti-
fascisti possano tornare ad agire e si organizzi la resistenza
armata, si crea una rete estesa di aiuti a favore di perseguitati
e oppressi, cui contribuiscono laici, cattolici ed ebrei. Ci è
sembrato importante sottolineare questo aspetto concludendo
la seconda sezione, perché pensiamo che da questa intensa
attività di sostegno alla popolazione, che ha impegnato
persone che facevano riferimento a tradizioni ideologiche
e culturali anche molto diverse, si sia attinto un patrimonio
vitale di significati e valori, quanto mai prezioso per rifondare
la democrazia italiana.
La Costituente e la Costituzione
di Marta Cartabia
Prima di incominciare una carrellata delle scoperte che
abbiamo fatto nel periodo successivo, dove ci ha lascia-
to Maria Bocci, che ci introduce alla fase dell’Assemblea
Costituente della rinascita della democrazia in Italia, vorrei
anch’io sottoscrivere rapidamente le impressioni, ampiamen-
te positive, la gratitudine anche, verso chi ha ideato questa
mostra, ai tanti studenti che ci hanno sostenuto e sollecitati
durante tutto questo anno. Perché, per usare un’espressione
che è stata recentemente ricordata da Benedetto XVI nel
suo intervento all’Escorial ai giovani docenti universita-
ri, l’Università vissuta attraverso questa mostra, con altri
colleghi che qui sono presenti e tanti studenti, non è stata
semplicemente un’occasione di una trasmissione di un sapere
tecnico e professionalizzante, in nessun momento di questo
anno c’erano docenti che trasmettevano del sapere e degli
studenti che passivamente lo recepivano, è stata piuttosto
una ricerca condivisa, come diceva Benedetto XVI, animata
da una inesauribile tensione alla verità, di cui nessuno si può
impossessare ma che costituisce un motore, un’attrazione che
non si può arrestare. Questa è stata davvero l’esperienza di
reinterpretazione e riscoperta del nostro lavoro universitario,
fatta attraverso la mostra.
Un tempo di «crisi»
Se c’è una parola capace di descrivere in modo pertinente
il tempo in cui si trovò a operare l’Assemblea Costituente,
eletta al fine di elaborare la nuova Costituzione della neo-nata
Repubblica italiana dopo il referendum istituzionale del 2
giugno 1946, è la parola «crisi», in un duplice significato.
Nel suo discorso del 21 agosto qui al Meeting, in occasione
dell’inaugurazione della mostra per i «150 anni di sussidiarietà»,
il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlava del
nostro oggi come di un «tempo di crisi», di un «problematico
presente». Proprio come il tempo che stiamo attraversando
ora, anche il tempo della elaborazione della Costituzione
italiana è, infatti, un tempo drammatico, di grave difficoltà,
in cui crollavano antiche strutture sociali lasciando dietro di
sé macerie e rovine – come l’uso comune del termine «crisi»
suggerisce. Si è trattato di una delle molte «prove» che l’Italia
unita è stata chiamata a superare, come ricordava ancora il
Presidente Napolitano nel suo intervento.
Eppure, il tempo della elaborazione della Costituzione ita-
liana è stato anche il tempo di un nuovo inizio, un tempo che
ha segnato una frattura, una discontinuità: un tempo di giudizio
sul passato e un tempo di nuove opportunità – proprio come
l’etimologia greca del termine «crisi» suggerisce. Ecco allora
che ripercorrere quel tempo può essere di insegnamento per
ricercare le risorse che oggi, come allora, possono trasformare
la crisi in una opportunità, perché possa «la drammaticità
delle sfide del nostro tempo, rappresentare la molla che spinga
verso un grande sforzo collettivo come quello da cui scaturì
la ricostruzione democratica, politica, morale e materiale del
nostro Paese dopo la Liberazione dal nazifascismo».
Di che natura era la crisi di quell’epoca? Quali aspetti
investiva?
Ogni aspetto della vita sociale era travolto dalla crisi. Era una
crisi totale, di dimensione sociale, economica, internazionale,
politica e anche culturale (come vedremo tra breve).
Il tessuto sociale era stato sottoposto alla durissima prova
delle due guerre mondiali e da vent’anni di Stato fascista, che
avevano portato innumerevoli lutti e gravi perdite in ogni
famiglia e in ogni comunità.
La situazione economica era gravissima: dal 1939 al 1945, la
produzione agricola e industriale era dimezzata, tre quarti del
bestiame ucciso; la flotta mercantile era stata distrutta; danni
ingenti erano stati riportati da infrastrutture e abitazioni. Il
debito pubblico era più che triplicato, il reddito medio pro
capite era dimezzato, mentre il tasso di disoccupazione era
decisamente elevato. I prezzi al consumo erano aumentati di
circa diciotto volte.
Il contesto internazionale era incerto e lacerato: la Costitu-
zione italiana veniva elaborata negli anni in cui si definivano
le condizioni dei trattati di pace e si rimescolavano tutti i
rapporti tra Stati, fino alla spartizione del mondo in due
sfere di influenza dominate dall’Unione Sovietica e dagli
Stati Uniti. Più profondamente, le due potenze politiche
mondiali che si contendevano il primato mondiale erano
portatrici di teorie politiche ed economiche antitetiche, alle
quali corrispondevano diverse visioni dell’uomo, della società
e dello Stato.
Lo scenario politico interno era assai confuso, come tutti
i periodi di transizione dopo la fine di una dittatura – abbia-
mo tutti negli occhi ciò che sta accadendo in molti Paesi del
Nord Africa; il periodo di ben cinque anni (!) intercorso tra
il crollo del regime fascista (il 25 luglio del 1943) e l’entrata
in vigore della Costituzione italiana (il 1 gennaio 1948) fu un
quinquennio agitato, convulso e torbido. L’Italia era divisa in
due, con la monarchia che si era rifugiata al Sud e il fascismo
che tentava di sopravvivere al Nord nella Repubblica Sociale
italiana, mentre il territorio italiano era sostanzialmente sog-
getto all’occupazione di due diversi eserciti, con i tedeschi
al Nord e gli alleati al Sud. Seguirono i governi provvisori,
l’azione delle forze insurrezionali e partigiane, il contrasto
tra soggetti politici fra loro profondamente divisi – anche
sotto l’influenza delle potenze internazionali in conflitto –
che si contendevano il potere e il consenso dell’elettorato.
Dal punto di vista istituzionale, si susseguirono il periodo
della luogotenenza, due costituzioni provvisorie (1944 e
1946) e il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, che
segnerà la fine della monarchia e l’esilio dei membri di Casa
Savoia. Nel pieno dei lavori della Costituente, nel maggio
del 1947, si verificherà una grave «crisi di governo» che
determinerà la fuoriuscita del PCI dal governo De Gasperi,
seguita dall’approvazione del piano economico americano
Marshall di aiuto alla ricostruzione economica dei Paesi e
lo sviluppo di rapporti internazionali preferenziali con gli
altri Paesi occidentali.
È in questo contesto di profonda crisi sociale, economica,
politica e internazionale che l’Assemblea Costituente si trovò
a operare, in una composizione che riproduceva al suo inter-
no gli stessi rapporti di forza e gli stessi motivi di potenziale
divisione che dominavano la scena politica dell’epoca: dei 556
seggi a disposizione, 209 andarono alla Democrazia Cristiana,
229 ai partiti d’ispirazione marxista e 130 alle altre formazioni
politiche laiche, minori per entità numerica, ma rappresen-
tate da statisti di grande levatura – tra cui Benedetto Croce
e Vittorio Emanuele Orlando, per fare solo qualche nome
eminente. La DC era dunque il partito che aveva ottenuto il
maggior numero di seggi, ma se considerati unitamente il PCI
e il PSI superavano i democristiani. Nessuna di queste forze,
individualmente considerata, aveva però il controllo della
maggioranza dei seggi.
Astrattamente parlando, si davano tutte le condizioni per
un possibile fallimento o per un’impasse senza via d’uscita.
Eppure, come si accennava, questa «crisi» gravissima fu anche
«crisi» nel senso più profondo – cioè momento di giudizio sul
passato, per aprirsi a un nuovo inizio. Fu una crisi da cui nacque
un nuovo patto sociale, con elementi di originalità che tuttora
spiccano nel panorama costituzionale occidentale.
Dai lavori dell’Assemblea Costituente, infatti, che non
furono privi di tensioni anche aspre, uscì un testo ampiamente
condiviso – approvato con una amplissima maggioranza, pari
circa al 90 per cento dei voti (453 su 515 votanti), che inaugurò
per la storia italiana la fase della ricostruzione e l’inizio di una
vera e propria rinascita.
Senza idealizzazioni retoriche – giacché non mancarono,
come vedremo, ombre e incertezze, reticenze e ambiguità
di certo correggibili – la Costituzione italiana determinò le
condizioni perché la rinascita fosse possibile. Nell’insieme
oggi possiamo senz’altro affermare che, dopo oltre ses-
sant’anni di trasformazioni politiche e sociali profondissime,
la Costituzione regge tuttora di fronte alle sfide del nostro
tempo, diverse ma non meno drammatiche rispetto a quelle
dell’epoca.
Che cosa permise che da una crisi così profonda – una
catastrofe, si è detto – derivasse l’occasione di un cammino,
e ne emergesse una potenzialità di sviluppo? E ancor prima,
cosa permise di addivenire a un accordo costruttivo in un
contesto politico lacerato da divisioni e ostilità?
Una Costituzione di tutti, perché una Costituzione per l’uomo
Il compito cui erano chiamati i costituenti era davvero arduo,
anche per l’assenza di modelli culturali di riferimento. Ciò che
i costituenti avevano di fronte erano modelli e teorie politiche
che avevano mostrato la loro inadeguatezza. La crisi, oltre che
di natura economica, sociale, politica e internazionale, era
culturale e di vasta portata.
Anzitutto, inservibile – se non come modello negativo, da
cui distaccarsi e al quale opporsi – era la recente esperienza
dello Stato fascista e nazista, di impronta hegeliana, che aveva
condotto all’asservimento della persona allo Stato, portando
ovunque violenza, guerra, depressione economica e sociale,
soppressione della libertà e negazione del valore della digni-
tà della persona. Il «collante» antifascista svolse di certo un
ruolo significativo per creare un sostrato di consenso tra forze
politiche altrimenti profondamente divise. Tuttavia, la comune
matrice antifascista a poco serviva – se non come benchmark
negativo – per individuare costruttivamente gli elementi del
vivere comune.
Dove rivolgersi allora? Era pensabile un ritorno a modelli
precedenti?
La maggior parte dei costituenti aveva molto chiaro che
il modello precedente, quello dello Stato liberale e borghese,
figlio delle rivoluzioni di fine Settecento, seppur utile per
attingere ad alcuni princìpi dell’architettura istituzionale,
era insufficiente soprattutto nella parte relativa alla forma di
Stato – cioè ai rapporti tra società e istituzioni: se è vero che
quel modello esaltava l’individuo e la sua libertà – meglio la
sua autonomia – e istituiva alcuni presidi contro gli abusi del
potere, proprio l’individualismo astratto di quella società aveva
spianato la strada alle tensioni sociali e ai disagi che avevano
costituito il terreno di coltura delle forze sociali e politiche
che avrebbero poi occupato le istituzioni dello Stato fascista.
Lo Stato liberale aveva già mostrato i suoi limiti e un ritorno
al passato non sarebbe stato auspicabile.
L’alternativa, che si stava sperimentando nell’Est europeo,
di impronta socialista e collettivista, recava un errore eguale
e contrario a quello dell’individualismo liberale, perché risol-
veva il valore della singola persona nella collettività e nella
società, rendendola funzionale al corpo sociale e assorben-
dola in esso. Per quanto ci fossero forze politiche attratte da
quell’alternativa, anche quell’ipotesi non poteva essere presa
in considerazione.
Totalitarismo, individualismo e collettivismo erano i modelli
culturali disponibili e di tutti erano chiari limiti e contraddi-
zioni.
Da dove ripartire, dunque?
Occorreva ricostruire daccapo una base teoretica su cui
fondare l’intero edificio costituzionale. L’«architettura della
casa comune» – per prendere a prestito un linguaggio ricorrente
nei lavori preparatori della Costituzione – sarebbe venuta di
conseguenza, una volta individuato un solido fondamento
culturale.
Da dove ricominciare, dunque? Dalle istituzioni politiche?
Dall’assetto economico? Dall’articolazione territoriale? Dalle
strutture di garanzia?
Su tutti questi aspetti le ideologie dei costituenti erano divise
e contrapposte. Ma c’era un punto potenzialmente condivisibile
da parte di tutti, a fronte dei drammi di quell’epoca – l’unico
punto condivisibile davanti ai drammi di qualunque epoca –:
occorreva ripartire dal valore della persona umana, occorreva
partire dall’uomo. «Ciò che abbiamo in comune con l’altro
non è tanto da ricercare nella sua ideologia, quanto in quella
struttura nativa, in quelle esigenze umane, in quei criteri origi-
nari per cui egli è uomo come noi […] fra ideologie diverse ciò
che è in comune è proprio l’umanità degli uomini che portano
quelle ideologie come vessilli di speranza o di risposta» (don
Luigi Giussani).
In questo l’apporto dei cattolici fu assai significativo.
Come ha recentemente sottolineato Benedetto XVI nel suo
messaggio del 16 marzo 2011 al Presidente della Repubblica
italiana, in occasione dei 150 anni dell’Unità politica d’Italia:
«L’apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elabora-
zione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto.
Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e
di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non
c’è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presen-
tarono allo storico appuntamento con un preciso progetto
sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano […]. Da
lì prese l’avvio un impegno molto significativo dei cattolici
italiani nella politica, nell’attività sindacale, nelle istituzioni
pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della
società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla
crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo
Stato e di dedizione al bene comune e collocando l’Italia in
proiezione europea».
Quale fu dunque l’apporto originale dei cattolici, che offrì
la base per la costruzione di un positivo incontro e per l’avvio
di una collaborazione con le altre tradizioni di pensiero?
Per molti costituenti fu chiaro che la persona umana intesa
nella sua integralità doveva costituire la pietra miliare della
ricostruzione della società e delle istituzioni.
La Costituzione italiana fu ed è la Costituzione di tutti per-
ché è una Costituzione per l’uomo – come affermò l’onorevole
La Pira nel suo intervento in Assemblea Costituente l’11 marzo
1947. Attingendo alle concezioni tomistiche – secondo le quali
un assetto giuridico, quale è la Costituzione, deve essere pro-
porzionato all’assetto sociale e umano – proposero un progetto
giuridico il cui fondamento era costituito dall’uomo reale e
dalla realtà sociale in cui si svolge l’umana esistenza. Di qui
nacquero due fondamentali princìpi, che tuttora costituiscono
le fondamenta dell’intero edificio costituzionale, riassunti
sinteticamente nell’art. 2 della Costituzione:
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uo-
mo sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge
la sua personalità.
In queste brevi e sintetiche affermazioni sono contenuti due
elementi che contraddistinguono la tradizione costituzionale
italiana. In essi si condensano alcuni elementi di originalità,
che spiccano anche a confronto con altre esperienze costitu-
zionali occidentali.
Il primo consiste nella riaffermazione dell’anteriorità e
della precedenza ontologica della persona umana rispetto
allo Stato.
Il secondo, nella valorizzazione, fino ad allora inedita, del
pluralismo sociale.
Il primo punto è sancito giuridicamente con la scelta
– discussa, ponderata e consapevole – del verbo «riconoscere»
nel testo dell’art. 2: «La Repubblica riconosce» i diritti inviola-
bili della persona. I diritti umani non sono concessi, attribuiti,
o semplicemente garantiti dallo Stato, ma più profondamente
riconosciuti, perché la persona precede le istituzioni ontologi-
camente e assiologicamente. «Lo Stato per la persona e non
la persona per lo Stato» – come si affermò nella relazione
relativa ai rapporti civili – e su questo punto la convergenza
dei punti di vista fu totale. Per i cattolici era chiaro che questa
anteriorità si radica nel «valore trascendente della persona»;
altri – come affermò Togliatti – avevano una diversa concezione
della personalità umana, ma non esitarono a riconoscere la
necessità di affermare il valore assoluto della persona come
elemento fondante di tutta la costruzione costituzionale: «si
potrebbe dissentire nel definire la personalità umana; però
[…] il fine di un regime democratico [deve essere] quello di
garantire un più ampio e più libero sviluppo della persona
umana».
Il secondo punto, che costituisce un altro elemento di
grande originalità che tuttora spicca nel panorama europeo
e occidentale, riguarda la necessità di guardare alla persona
umana non in astratto, ma nelle concrete dinamiche delle sue
relazioni sociali: garantire la persona, porre al centro la persona,
sarebbe stato un vano auspicio, se non fosse stato accompagnato
dalla garanzia degli ambiti sociali e relazionali in cui si svolge
la sua personalità: di qui la seconda parte dell’art. 2, dove si
parla delle «formazioni sociali» dove si svolge la personalità
umana, che lo contraddistingue nettamente da quelle conce-
zioni individualistiche che oggi sono tornate a esercitare una
così grande seduzione nella cultura contemporanea. A poco
varrebbe garantire la libertà individuale se non fossero tutelate
le realtà sociali dove tale libertà si può esplicare. Basti osser-
vare che, mentre alcune carte dei diritti contemporanee sono
organizzate intorno a «valori astratti» – dignità, libertà, egua-
glianza ecc. – come è il caso della Carta dei diritti dell’Unione
Europea, viceversa la nostra Costituzione organizza i diritti
della persona raggruppandoli sistematicamente in riferimento
ai «rapporti», evidenziando così la dimensione relazionale
della persona: rapporti civili, rapporti etico-sociali, rapporti
economici, rapporti politici.
Da dove deriva questa originalità di pensiero costituzionale?
Puramente e semplicemente da uno sguardo intriso di grande
realismo sulla condizione umana. Con grande realismo, nel
pieno di un acceso dibattito relativo al ruolo delle istituzioni
religiose, di nuovo La Pira osservava: «Guardate in campa-
gna: cosa vedete in un piccolo villaggio? C’è il campanile, la
Chiesa, c’è il palazzo del Comune, c’è la scuola, c’è la camera
del lavoro, la casa del popolo; esistono tutte queste forme di
attività sociale. Esistono. Quindi una Costituzione pluralista,
la quale è il vestito di questa realtà concreta, deve per forza
tener conto di questa struttura sociale». 2
Una passione per l’uomo considerato nella sua realtà storica
permise, non senza passare attraverso incomprensioni e vivaci
discussioni, di raggiungere infine un accordo condiviso.
Aldo Moro nel marzo 1947: «Divisi – come siamo – da
diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici,
tuttavia noi siamo membri di una comunità, la comunità del
nostro Stato e vi restiamo uniti sulla base di un’elementare,
semplice idea dell’uomo, la quale ci accomuna e determina un
rispetto reciproco degli uni verso gli altri. […] Questa, ripeto,
non è ideologia di parte, è una felice convergenza di posizioni.
Io posso dare atto, come membro della prima sottocommissione,
che su questi punti non vi è stato mai alcun patteggiamento, per-
ché effettivamente da ogni parte si è andati, sia pure attraverso
la fatica di alcune iniziali incomprensioni, verso questo punto
comune nel quale veramente ci sentivamo uniti. […] Uno Stato
non è veramente democratico se non è al sevizio dell’uomo, se
non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della
persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali
nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali
essa integra la propria personalità. […] La società non è unica,
non è monopolizzata nello Stato, ma si svolge liberamente e
variamente nelle forme più imprevedute, soprattutto in quelle
fondamentali, che corrispondono più pienamente alle esigenze
immancabili della personalità umana».
Una Costituzione di compromesso, una Costituzione aperta al
cambiamento
Se il fondamento fu un elemento ampiamente condiviso, non
mancarono nelle articolazioni concrete del testo costituzionale
momenti meno adamantini. Luci e ombre, come si è detto nella
mostra sui «150 anni di sussidiarietà».
È stato spesso sottolineato il carattere compromissorio della
Costituzione italiana. L’accordo è stato raggiunto, molti hanno
osservato, a prezzo del cedimento di tutte le parti rispetto
alle proprie posizioni di principio. Se è vero che la politica in
generale è l’arte del compromesso, nel momento costituente –
si è detto – tale arte ha raggiunto la sua massima espressione.
Uniti in negativo da una netta opzione antifascista, e da un
comune accordo sulla necessità di scrivere una Costituzione
per l’uomo, su molte decisioni specifiche e concrete i partiti
presenti in Assemblea Costituente faticavano poi a trovare i
punti di contatto comuni per la costruzione del nuovo assetto
sociale. Di qui un compromesso costituzionale a tratti inde-
terminato che ha rinviato alla legislazione, all’azione politica
e in buona misura alla Corte costituzionale la responsabilità
di sciogliere i nodi rimasti irrisolti all’epoca dei lavori della
Costituente.
Questa osservazione coglie sicuramente alcuni aspetti veri:
soprattutto sul terreno dei rapporti economici e sociali, sul
quale si fronteggiavano visioni politiche antitetiche tra partiti
di ispirazione marxista, democristiani e liberali, le tracce del
compromesso indeterminato sono chiaramente visibili. Non
a caso una delle tre sottocommissioni incaricate di elaborare
il progetto di Costituzione – la III sottocommissione – fu
interamente dedicata ai rapporti economici e sociali, tale era
la rilevanza e la delicatezza politica di tali problematiche.
Osserviamo due esempi, assai significativi anche per il
momento presente.
In materia economica, la discussione era polarizzata intorno
a due concezioni di politica economica radicalmente opposte:
il Partito Comunista spingeva per la pianificazione econo-
mica e la relativa collettivizzazione dei mezzi di produzione;
all’opposto, liberali e democristiani sostenevano una opzione
basata su un’economia di mercato, semmai temperata da alcuni
correttivi. Dopo la bocciatura dell’emendamento Montagnana,
che segnò il rifiuto del primo modello basato sulla pianifica-
zione economica, i lavori portarono a un testo di impronta
chiaramente compromissoria, in cui a fronte dell’opzione di
principio per un’economia di mercato – «L’iniziativa economi-
ca privata è libera» (art. 41) – fanno da contrappeso i commi
successivi che stabiliscono i princìpi in base ai quali la libertà
economica può essere limitata e controllata: utilità sociale, fini
sociali, sicurezza, libertà, dignità umana, fino a consentire la
pubblicizzazione di interi settori economici, come previsto
dal successivo art. 42.
Questo risultato, salutato da alcune interpretazioni come
foriero di un nuovo modello economico – «l’economia sociale
di mercato» – si prestò in realtà a interpretazioni assai diverse
nel tempo: dominata da politiche di impronta keynesiana e da
una forte presenza statale nei servizi sociali e nell’economia
fino agli anni Ottanta, la successiva politica economica subì
una decisa virata, soprattutto al tempo del governo Amato e
sotto l’influenza dell’Europa di Maastricht, verso un modello
neo-liberista.
Un compromesso vi fu di certo, in materia economica; un
compromesso che produsse un articolato indeciso e se si vuole
ambiguo, che pure nella sua indeterminatezza è tuttavia carat-
terizzato da un alto grado di flessibilità, al punto da consentire
ancora oggi – anche a Costituzione invariata – di condurre le
scelte economiche necessarie per far fronte alle grandi sfide
epocali che il nostro tempo ci pone, a partire dalle politiche
di bilancio, fino all’impellente esigenza di liberare energie
sufficienti per rilanciare la produttività e la competitività.
Similmente, tracce di un compromesso irrisolto si hanno
nell’attuale art. 33 della Costituzione in materia di scuola. Mi
riferisco in particolare all’espressione «senza oneri per lo Sta-
to», inserito nel testo della Costituzione dopo l’affermazione
della libertà di enti e privati di istituire scuole libere non statali.
Nato da un’insolita alleanza tra i partiti di ispirazione marxista
e i partiti di ispirazione liberale, questo inciso è stato preso a
pretesto per perpetrare nel tempo la storica diffidenza dello
Stato italiano nei confronti delle scuole private. Una diffidenza
che inspiegabilmente non accenna a essere superata e che
costituisce una vera e propria anomalia italiana nel panorama
europeo e più in generale delle democrazie occidentali, gene-
ralmente assai più disponibili a riconoscere l’apporto culturale
(e il sollievo economico per lo Stato!) che molte scuole private
offrono alla società nello svolgimento del compito pubblico
primario di garantire l’istruzione e lo sviluppo culturale delle
giovani generazioni. Eppure quell’inciso, «senza oneri per lo
Stato», come emerge chiaramente dai lavori dell’Assemblea
Costituente, non era teso a vietare il finanziamento pubblico
alle iniziative private nel campo dell’istruzione. Il senso era
invece affermare che gli istituti privati non possono vantare
alcun diritto costituzionale a ricevere contributi economici da
parte dello Stato, lasciando impregiudicata la facoltà delle
istituzioni pubbliche di concedere contributi e facilitazioni
nello spazio del campo libero della politica che può interve-
nire secondo il proprio apprezzamento e secondo le proprie
disponibilità.
L’ambiguità della formulazione costituzionale, al di là delle
intenzioni dei costituenti, è stata utilizzata come un alibi per le
istituzioni politiche che lungo il corso dei sessant’anni di vita
repubblicana, qualunque fosse il colore politico del governo
in carica, sono rimaste costantemente e inspiegabilmente
fedeli alla scelta di non intervenire a sostegno delle esperienze
provenienti «dal basso» che apparissero meritevoli di inco-
raggiamento.
Ma anche in questo caso, come già si è osservato a proposito
dell’economia, l’indeterminatezza della formulazione costitu-
zionale significa anche flessibilità e apertura al cambiamento:
anche qui il testo – pur compromissorio – non impedisce che
oggi, in un contesto in cui il sistema pubblico di istruzione
attraversa una fase di obiettiva difficoltà, anche a Costituzio-
ne invariata, la politica possa mutare di segno e finalmente
riconoscere ciò che di positivo proviene dalla tenace iniziativa
della società italiana.
Il compromesso ci fu e dipese, storicamente, dalla impossibi-
lità di trovare un accordo più netto su alcuni punti. Quello che
qui sommariamente è stato richiamato in materia economica
e di istruzione ben potrebbe essere ripetuto in ordine ad altri
princìpi costituzionali, in materia sociale ad esempio – come
bene evidenziato nella mostra – e anche in riferimento alla
parte istituzionale della Costituzione.
Ma per quanto inintenzionale, il compromesso in un testo
costituzionale non è privo di virtù nascoste – prima fra tutte
la possibilità di lasciare ampi margini alla vita sociale e politica
di svilupparsi e autocorreggersi secondo le indicazioni che le
evoluzioni del contesto storico suggeriscono.
Il protagonista della Costituzione: il popolo
Queste ultime osservazioni sulle disposizioni di «compromes-
so» e sulla loro intrinseca flessibilità ci suggeriscono un’ultima
rapida considerazione, che non intende essere una «con-
clusione», ma piuttosto l’invito ad aprirsi a nuovi spunti di
riflessione.
Che cosa è la Costituzione? Qual è il suo ruolo nella vita
di una società, di un popolo?
Come ha efficacemente affermato un autorevole giurista,
oggi giudice costituzionale, Paolo Grossi: la Costituzione
«non è una carta che si impone dall’alto sulla società, ma è
in essa radicata […] è la cuspide emergente di un continente
per la massima parte sommerso [la società], da cui però quella
cuspide trae continuo nutrimento. Nella Costituzione, testo
ed esperienza, almeno nei princìpi fondamentali e nella parte
prima, vengono a fondersi».
La Costituzione non è un testo giuridico qualunque: essa
si colloca alle estreme propaggini dell’universo giuridico,
in continuo contatto con l’esperienza viva del popolo e
della società di cui essa costituisce l’architettura giuridica
fondamentale. Non è neppure un pezzo di antiquariato o
un semplice documento storico. Si tratta invece di un testo
il cui contenuto e le cui potenzialità sono continuamente
rimodulate alla luce dell’esperienza storica e della realtà
viva di una società. Per richiamare una famosa espressione
di De Gasperi: «La Costituzione non è un semplice libro o
un pezzo di carta; deve essere qualcosa di vivente. La Costi-
tuzione è vivente».
All’indomani dell’approvazione del testo costituzionale, la
necessità di un dialogo continuo tra testo e realtà viva della
società era chiara ai grandi giuristi del tempo. Approvata la
Costituzione, non si trattava di suggellare il lavoro apponen-
dovi la parola fine, ma di avviare una nuova fase di lavoro,
in cui il testo avrebbe preso vita nell’esperienza concreta del
popolo italiano. Così scriveva Piero Calamandrei nel primo
commentario alla Costituzione del 1950: «[…] una Costituzione
non basta da sé sola a difendere la libertà e a dare impulso al
progresso sociale, se non è animata dalla coscienza politica
e dalla volontà del popolo. […] Se il popolo italiano saprà
servirsene, questa sarà una Costituzione dinamica, che potrà
condurlo verso quella società più giusta, che molte delle sue
disposizioni lasciano sperare».
La partita costituzionale è dunque sempre tutta da giocare
non tanto – come è accaduto nel corso degli ultimi vent’anni –
ponendo il problema della revisione e della riforma costitu-
zionale, quanto per far parlare il testo e fargli esprimere tutte
le potenzialità che esso contiene. Certamente le istituzioni
politiche e di garanzia svolgono un ruolo essenziale in questa
partita. Eppure, come era chiaro ai grandi giuristi del secon-
do dopoguerra, il soggetto che può infondere vita al testo
costituzionale è anzitutto il popolo – di cui le istituzioni sono
costantemente chiamate a farsi interpreti.
Gli italiani, un «noi» da molto prima dello Stato unitario
di Giuliano Amato
Mi piace aggiungere la mia breve riflessione cominciando dal
punto di partenza che sia Maria Bocci che Marta Cartabia han-
no usato e che non è retorico: il fatto di avere visto il formarsi
di una comunità universitaria attorno al lavoro di ricostruzione
per la mostra dei «150 anni di sussidiarietà».
Il vero tema che noi italiani abbiamo davanti in questo
momento difficile della nostra storia, il vero insegnamento che
viene dai 150 anni di Unità, è il ritrovare il «noi», in vista di
qualcosa che valga la pena di fare insieme, per tutti. Dobbiamo
renderci conto che una società costruita soltanto sull’«io» cessa
di essere una società, quale che siano le aspirazioni di ciascuno
dei tanti io, fossero anche aspirazioni nobili. Una società è fatta
da tutti noi perché c’è qualcosa che ci unisce necessariamente
e profondamente; il titolo di questo Meeting – E l’esistenza
diventa una immensa certezza – sottolinea l’esistenza di tutti
noi, non che io esista e gli altri rimangano pure quelli che
sono e dove sono.
Il punto di partenza della nostra vicenda è la constatazione
del fatto che gli italiani erano un «noi» da molto prima che
qualcuno si mettesse al lavoro per dar loro uno Stato. Gli italiani
non hanno avuto bisogno di inventare nulla – o forse qualcosa
è stato inventato nel corso dell’Ottocento –, perché c’era una
cultura italiana che univa gli italiani, che andava al di là della
stessa lingua, che era patrimonio comune e che ha una singo-
lare continuità attraverso i secoli. Un patrimonio linguistico,
certo, ma c’era molto di più: c’era una Italia conosciuta come
tale, c’era l’arte italiana, c’era un tratto comune della cultura
degli italiani e c’era qualcosa che riguardava più in generale
tutti, ed è il sentimento di solidarietà davanti all’ingiustizia
del potere, che univa persone e gruppi – abituati a vedere
da anni un potere spesso estero, forestiero, governare le loro
terre – nel difendersene più che non nel difenderlo. Sorge
qui la giusta domanda della professoressa Bocci: come ha
potuto giocare il nostro patrimonio comune affinché stessimo
realmente insieme?
Oggi ci accorgiamo che non avere un passato che unisce
significa avere poco in comune; ma non avere un futuro che
unisce, fa sì che il passato comune non basti a tenere insieme,
anzi si cerca nel passato quello che divide, perché siamo noi
che scegliamo nel passato ciò che conta. E in base a che cosa
scegliamo nel passato – ciò che ci unisce o ciò che ci divide –,
decidiamo se vivere insieme il futuro o se viverlo divisi.
Allora, un Paese nel quale nel passato si trovano Petrarca e
Leopardi, Veronese e Antonello da Messina, tutti avvolti dallo
stesso valore, è un Paese nel quale si è deciso di stare insieme
anche per il futuro.
Questo a mio avviso è un elemento di fondamentale impor-
tanza e che ci spiega il senso del divenire, come ha detto
giustamente il Presidente Napolitano proprio qui. Dobbiamo
mantenere la consapevolezza del divenire del nostro essere
nazione, un divenire che ha momenti fondamentali. La nostra
è la storia di questo popolo in cammino, di italiani che hanno
costruito un futuro comune.
Il popolo italiano era già in cammino con i moti risorgimentali
– questa è una verità che spesso viene contestata, attribuendo
all’inizio del processo risorgimentale un carattere élitario –, cui
ha partecipato la popolazione urbana: credenti e non credenti,
parroci, sacerdoti e vescovi, tutti hanno contribuito al successo
dei moti in nome dell’Unità d’Italia.
Mi limito a ricordare gli anni 1948-1949, leggendo due
passaggi del racconto di Cristina di Belgioioso dell’avvio della
rivolta dei veneziani nel marzo del ’48, quindi coeva alle Cinque
Giornate di Milano. La Belgioioso dice che la cosa era partita
al grido: «Viva la Costituzione» e alcune signore ben vestite
si erano associate a questo grido, poi sentì una voce profonda
e risuonò il grido: «Abbasso il Governo» e ripetuto due o
tre volte «Abbasso il Governo» mosse una massa immensa
e compatta che invase tutte le calli ripetendo il grido. «Viva
la Costituzione» non tirava abbastanza evidentemente, ma
«Abbasso il Governo» sì, ecco le masse, lei dice, una massa
immensa e compatta, alcuni soldati croati spararono oltre
300 colpi, caddero solo un uomo e un ragazzino, si gridò al
miracolo, quel giorno c’era l’esposizione della Madonna della
Vittoria, Dio si dichiarava per Venezia il popolo non aveva
più dubbi.
Vedete come il sentimento religioso, è giustissimo questo
dirlo, fa parte comunque di ciò che anima, dei bambini si
misero a staccare le pietre della piazza e le lanciarono verso i
croati e l’Arsenale venne conquistato dalle masse. La «Gaz-
zetta» di Roma del 22 gennaio 1849 riporta l’andamento della
giornata per l’elezione della Costituente, vi faccio notare che
il Papa non l’aveva presa bene – a dir la verità – la Repubblica
Romana e tuttavia il popolo si accalcava alle porte dei collegi
si vedevano i consacrati alla fede di Cristo fra cui i parroci e
gli ordini mendicanti che con la povertà serbarono lo spirito
della primitiva Chiesa, le vie brulicavano di popolo e a Rieti
dove pure si votava, la votazione è riuscita numerosissima, il
Vescovo vi ha assistito e ha dato la sua scheda, ha ricevuto
numerosi applausi dall’affollatissimo popolo. Stiamo parlando
di una vicenda alla quale hanno partecipato gli strati sociali
più diversi, considerando che le barricate non le fanno i ricchi,
ma i poveri, perché è il classico modo della povera gente di
protestare per qualcosa e di difendersi. Le Cinque Giornate
di Milano riempirono Milano di barricate che non erano state
fatte da Carlo Cattaneo, che pure comandava la giunta di quei
giorni, ma dai popolani della città.
Anche i Mille e Garibaldi non avrebbero potuto da soli
conquistare il Mezzogiorno, se non si fossero uniti a loro oltre
30.000 volontari, che venivano da tutta Italia e dallo stesso
Mezzogiorno e che appartenevano a tutti gli strati sociali.
Rimane vero che c’erano due problemi: l’ostilità della Chiesa
in ragione del potere temporale (ci sono voluti diversi decenni
perché un grande cardinale e poi Papa Paolo VI, dicesse che
era stata la Provvidenza a liberare la Chiesa dal potere tempo-
rale, restituendola alla sua missione universale), poiché il Papa
del tempo era Pontefice e capo di quello Stato, quindi la sua
posizione era ostile e questo ebbe necessariamente un effetto
negativo sulle masse contadine, accentuando una distanza
che la gestione dello Stato unitario di per sé aveva contribuito
a creare, dando molto poco ai poveracci che vivevano nelle
campagne.
Una delle ragioni del successo del brigantaggio meridio-
nale, che i piemontesi capirono così poco, fu proprio il fatto
che c’erano molti giovani. È vero che Cristo si era fermato a
Eboli, e al limite prima dell’unità nazionale: quando le terre
nel Mezzogiorno appartenevano al clero, i parroci lasciavano
ai nullatenenti la libertà di coltivarne una parte e di ricavarne
i frutti. Quando le terre vennero tolte al clero e date ai ben-
pensanti, alla buona borghesia meridionale, questi tutt’al più
prendevano un fittavolo e migliaia di famiglie non avevano di
che vivere, e un povero giovane che conosceva lo Stato italiano
in quel momento ne desumeva che dallo Stato italiano gli era
stata tolta la possibilità di coltivare la terra e gli veniva imposta
una leva obbligatoria di sette anni. E come scrisse il deputato
Massari, che fece la relazione finale sul Mezzogiorno nel 1863,
quel povero campagnolo diventò brigante.
Ci vorrà del tempo perché si realizzi l’avvicinamento tra la
Chiesa e i contadini; intanto si comincia a offrire un futuro agli
esclusi e ai diseredati, sebbene non sia lo Stato a farlo, bensì
i movimenti che nascono nella società a favore degli esclusi
– fondamentalmente il movimento socialista e il movimento
cattolico-popolare, anzi cristiano-democratico inizialmente,
perché nasce prima una Democrazia Cristiana che dura poco
e poi il Partito Popolare, Murri e poi Sturzo, che passa attra-
verso il non expedit, questo dimostra che il mondo cattolico è
parte viva della società italiana, partecipa perciò dei problemi,
partecipa alla loro soluzione e, nonostante la concorrenziali-
tà, cattolici e socialisti finiscono per cooperare insieme alla
organizzazione degli esclusi e dei diseredati, e nel far sì che
vengano finalmente riconosciuti i diritti di chi non ha diritti,
che si regoli la giornata di lavoro, che quella di donne e bambini
non sia troppo lunga, che si arrivi a riconoscere l’invalidità e
la pensione.
Alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento il popo-
lo si allarga, gli esclusi entrano a far parte di una collettività
nazionale che in precedenza li aveva respinti e lo fa attraverso
formazioni intermedie, non lo fa subito attraverso lo Stato.
Quella che troverete, poi, nella Costituzione della Repubblica
non è una creazione soltanto di dottrina, ma è un raccogliere i
fili di una storia che si è venuta lentamente formando. In questa
fase c’è un allargamento del popolo italiano, perché comincia
a essere offerto un futuro anche a chi prima non lo aveva.
Passeranno anni prima di arrivare alla terza tappa, quella
di una grande divisione, perché – rispetto alle divisioni che ci
caratterizzano ora e di cui non sempre capiamo il significato –
nell’Italia post-bellica ci furono divisioni contrassegnate da
alternative di regime: un’Italia occidentale con un’economia di
mercato, o un’Italia che fuoriesce dall’economia di mercato per
entrare nel mondo del socialismo allora sovietico. Queste due
versioni dell’Italia partoriscono quella Costituzione comune
di cui parlava Marta Cartabia, si riconoscono in un futuro
che comunque dovranno attraversare insieme, e per il quale
stabiliscono regole che insieme dovranno rispettare; sanno di
avere la responsabilità comune di ricostruire l’Italia dopo gli
anni dell’autarchia, del fascismo e le distruzioni della guerra;
e offriranno ciascuno la disponibilità a questa causa nazionale.
Lo sforzo per uscire da una povertà diffusa, per uscire dall’ar-
retratezza, accomuna tutti, è appunto il patrimonio comune
degli italiani che si attiva in funzione del futuro.
Oggi l’Italia si può raccontare in due modi: leggendo le
pagine economiche e parlando di debito pubblico, di spese
da limare, di pensioni di anzianità da portare da quota 95 a
quota 97, di contributi di solidarietà, di tasse e di euro, di
mercati e di quant’altro, identificando così tutta una serie
di problemi. Ma l’Italia può essere raccontata anche in un
altro modo – che non va dimenticato nel trattare la tema-
tica economica –, che è quello di riuscire a capire perché
abbiamo perduto fiducia in un futuro comune e di quali
risorse abbiamo bisogno per ricreare questa prospettiva. Il
fondamento delle stesse difficoltà e dell’apparente insolubilità
delle difficoltà economico-finanziarie che abbiamo davanti,
è un problema civile e morale.
Ha ragione il Presidente della Repubblica quando dice
che non si può fare carico a un governo di tutte le difficoltà
che un Paese ha davanti. Certo, si possono trovare le ragioni
per i valori o i non valori che nel corso di questi dieci anni le
istanze governative in Italia hanno fatto prevalere; istanze che
hanno concorso a quel trionfo dell’individualismo immemore
degli altri di cui abbiamo ragione di lamentarci.
Sono decenni che le nostre vite sono state individualiz-
zate dai processi urbani, dall’organizzazione del lavoro, dal
cosiddetto post-fordismo, sono anni che le dottrine di cui è
in buona parte responsabile la cultura della sinistra politica
sui diritti individuali hanno interamente sostituito le dottrine
della solidarietà e del riconoscimento dell’altro, per cui sembra
che l’appagamento del mio io stia al di sopra di qualunque
altra esigenza.
Sono anni che la hubris dell’io ha finito per superare la
hubris delle teologie più estreme e quindi ha ragione chi oggi
dice che credenti e non credenti hanno un unico nemico, cioè
l’intolleranza nei confronti dell’altro, nei confronti dei modi
in cui l’altro organizza la propria vita.
C’è tutto questo e c’è, inesorabilmente, il problema demo-
grafico. Devo constatare che la coorte statistica cui appartengo,
quella dei settantenni, sta per diventare maggioritaria in Italia
e noi rappresentiamo un problema per i più giovani e per la
società italiana, perché la tensione verso il futuro da parte
degli ultrasettantenni non può essere la stessa che hanno le
giovani generazioni.
In questa situazione è fondamentale rimettere in campo le
risorse morali che abbiamo, per ridare forza a un «noi» che
guarda al futuro. In questo senso le risorse che la religione
fornisce sono tra le più preziose di cui una società si possa
avvalere, proprio per contrastare quell’io assoluto, per favo-
rire il riconoscimento dell’altro come parte essenziale della
certezza dell’esistenza, per costruire un futuro comune che
nell’immediato futuro sarà necessariamente comune a noi e ai
diversi che sono venuti a vivere con noi e che noi dobbiamo
avere la forza morale e l’intelligenza di riconoscere come fratelli
(ma più pensiamo al nostro io, più siamo chiusi nel nostro io
e meno facile sarà per noi farlo).
Questa dell’io è una malattia che non riguarda solo l’Italia,
ma sta segnando l’Europa ed è la ragione della crescita dei par-
titi chiusi nazionalisti, tendenzialmente xenofobi, che negano
le radici cristiane dell’Europa, al di là del fatto che esse siano
scritte o non scritte in un testo. Al contrario cristianità significa
– e ancora di più lo significa cattolicità, che deriva dal greco
katolicos – universale: e una religione che è universale non può
non riconoscere come partecipi della medesima umanità coloro
che provengono da altri Paesi e che vivono con noi.
Laura Balestra ha scritto sull’ultimo numero di «Civitas»
un bellissimo articolo su questi temi, ricordando che il Dio
che si incarnò nell’uomo dell’Occidente veniva dall’Oriente
(Gesù era di Nazareth); che la lingua dei popoli europei ha
una derivazione latina, ma la numerazione che utilizziamo è
araba; e che l’Europa è cresciuta accogliendo l’altro.
Noi abbiamo nel nostro patrimonio comune un’idea di
nazione che non è mai stata etnica, lo è diventata solo nella
fase più infame della nostra storia; noi abbiamo sempre vissuto
l’idea di nazione come casa comune, che accoglie tutti coloro
che condividono valori e aspettative.
Abbiamo bisogno di ridare futuro all’Europa, abbiamo
bisogno di ridare futuro all’Italia. Lasciate a quelli come me e
ad altri di occuparci esclusivamente di eurobond; voi giovani
avete sempre, diversamente dagli anziani, un sentimento di
solidarietà generazionale. Il giovane riconosce nell’altro giovane
il proprio eguale, coltivate questo vostro sentimento, allarga-
telo, fate in modo che questa solidarietà che nasce fra di voi
riesca a investire cristianamente chiunque altro sia sulla vostra
strada. Se riuscirete a fare questo, avrete creato le premesse
essenziali per ritrovare il futuro anche sacrificando una parte
del vostro presente. L’Italia e l’Europa che abbiamo davanti
sono quelle di un «noi» che non vorremmo mai vedere scisso
e in nome del quale vorremmo credere in una prospettiva,
anche rinunciando a qualcosa che altrimenti ci apparirebbe
irrinunciabile.
Giorgio Vittadini
Non possiamo diventare un Paese per vecchi.
Non è solo una questione demografica, ma anche un proble-
ma di atteggiamento: il giovane accetta di cambiare, come è
avvenuto con questa mostra.
Dalle parole del Presidente Napolitano e da quelle di Bene-
detto XVI emerge un’altra visione dell’Italia, senza contrap-
posizione tra una visione cattolica anti-unitaria e una visione
laica anticattolica. Il Papa e il Presidente della Repubblica
hanno aperto una strada per poter rileggere questo «noi»
di cui abbiamo parlato, una identità, un riconoscimento che
non è etnico, ma è fondato sull’esperienza ideale di un «io»
che diventa «noi», un’esperienza che è fatta di certezze che
collaborano e costruiscono.
È un grande messaggio per l’oggi, perché noi vogliamo
essere parte di questa gioventù culturale che accetta il com-
pito che ci ha indicato Giorgio Napolitano e che ha ripetuto
il presidente Amato: collaborare alla costruzione comune
con la certezza, con le certezze che il Presidente ci ha detto
di vivere, in funzione della costruzione comune e non della
divisione etnica o culturale, ma per edificare un futuro ancora
più grande di questi 150 anni.