Chi siamo
L’irriducibilità dell’uomo
Daniele Mencarelli, Scrittore e Poeta; Éric-Emmanuel Schmitt, Drammaturgo, Scrittore, Regista e Sceneggiatore. Introduce Alessandro Banfi, Giornalista.
Letture a cura degli attori Giampiero Bartolini e Matteo Bonanni.
Nelle figure e negli scritti della grande letteratura, di Etty Hillesum, Osip Ėmil’evič Mandel’štam, Primo Levi, Edith Bruck, e nelle testimonianze di due importanti autori, verrà messa a tema l’irriducibilità dell’uomo anche quando si trova a vivere nelle condizioni più disperate. Un incontro per tornare a scoprire la vera natura dell’essere umano coordinato dal giornalista Alessandro Banfi.
Con il sostegno di Fondazione Maddalena Grassi, Tracce.
L’IRRIDUCIBILITÀ DELL’UOMO
Alessandro Banfi: Buonasera e benvenuti a quest’incontro. Questa sera ci faremo avvolgere dalle parole perché siamo qui con due grandi scrittori che lavorano con le parole, ma che dimostrano quello che dice il titolo: l’irriducibilità dell’uomo. È un titolo ambizioso che parte da uno scambio di mail che abbiamo avuto quest’estate prima, organizzando questo incontro. Ragionando sulla guerra come inevitabile, gli scrittori della guerra, abbiamo riletto coloro che ci hanno raccontato il male dell’uomo. E io poi ho mandato una email al grande Éric-Emmanuel Schmitt, e la stessa email l’ho mandata all’amico e grande scrittore anche lui Daniele Mencarelli, e in questa email avevo messo una introduzione, una frase di Simone Weil, grande filosofa che mio padre mi fece amare quando ero un bambino, che dice così: “Dalla prima infanzia fino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. E questo anzitutto è ciò che è sacro in ogni uomo”. È una citazione che viene dal libro “La persona e il sacro”. La letteratura ci racconta questa invincibile domanda di bene. Partiamo da qui stasera. Un bambino malato di cancro scrive a Dio e racconta: è la prima lettura che stasera vi proponiamo da “Oscar e la dama in rosa “di Éric-Emmanuel Schmitt:
– Sai, Oscar, morirai un giorno, ma anche i tuoi genitori moriranno.
Ero stupito da ciò che mi diceva, non ci avevo mai pensato. Sì, moriranno anche loro, tutti soli e con il rimorso terribile di non esser riusciti a riconciliarsi con il loro unico figlio, un Oscar che adoravano.
– Non dica cose del genere, nonna Rosa, mi fanno venire il magone.
– Pensa loro, Oscar. Hai capito che stai per morire perché sei un ragazzino molto intelligente, ma non hai capito che non sei il solo a morire. Tutti muoiono. I tuoi genitori un giorno, io un giorno.
– Sì, però io passo davanti.
– È vero, tu passi davanti, ma con il pretesto che tu passi davanti hai forse tutti i diritti e il diritto di dimenticare gli altri?
– Ho capito, nonna Rosa, li chiami.
Ecco, Dio, il seguito in poche parole perché ho il polso stanco. Nonna Rosa ha avvertito l’ospedale che ha avvertito i miei genitori che sono venuti da nonna Rosa, dove abbiamo festeggiato il Natale tutti insieme. Quando i miei genitori sono arrivati ho detto loro:
– Scusatemi, avevo dimenticato che anche voi un giorno morirete.
Non so che cosa abbia sbloccato in loro questa mia frase, ma dopo li ho ritrovati com’erano prima e abbiamo passato una stupenda serata di Natale.
Alessandro Banfi: Grazie, Matteo Bonanni. Allora partiamo da qua. Sono con Éric-Emmanuel Schmitt, drammaturgo, scrittore, regista e sceneggiatore. Partiamo da questo brano e da questa sua riflessione molto conosciuta anche in Italia, un libro di grande successo “Oscar e la dama rosa”; è una riflessione sulla malattia del bambino, sul dolore innocente, ma anche sulla morte. E allora la prima irriducibilità dell’uomo è una domanda che sempre ci capita di farci: l’uomo non è ridicibile neanche alla sua stessa fine, neanche alla sua stessa morte?
Éric-Emmanuel Schmitt: Ho scritto questo testo “Oscar e la dama in rosa” poiché mi è capitato di accompagnare persone nella malattia e poi nel momento della morte, e mi sono reso conto che spesso reagivo male in questi momenti poiché non vedevo più la persona, anzi prima la malattia e poi la persona, vedevo la morte che incedeva lentamente, non vedevo la persona, e questo credo capiti a tutti di non essere più in grado di comunicare con qualcuno che è molto ammalato o che sta per affrontare il trapasso, perché siamo appunto assaliti dalla paura. Nella mia vita ho vissuto esperienze di questo tipo per lungo tempo, allora ho dovuto imparare a guardare sempre a vedere la persona malgrado la malattia e la morte. Per me la persona, questa entità unica, l’individuo è la cosa più preziosa, direi quasi che la vulnerabilità, la fragilità rendono l’individuo ancora più fragile. Quello che mi fa amare gli esseri umani è proprio il fatto che sono fragili. La vulnerabilità dell’altro amplifica l’affetto che posso nutrire per gli altri. E da quando anch’io so che non sono immortale e nemmeno gli altri lo sono, ebbene, amo di più. Non credo affatto che il pensiero della morte sia un pensiero deprimente, al contrario è un pensiero che ci arricchisce. Gli antichi filosofi dicevano che ogni giorno bisogna ricordarsi che si è mortali. Io credo che sia necessario cambiare la stessa frase ma per dire la stessa cosa in termini contemporanei, bisogna ogni giorno ricordarsi che siamo vivi, e vivi significa fragili. Questa fragilità la amo appassionatamente.
Alessandro Banfi: Io vivo in una città, Roma, dove la morte non è mai messa fra parentesi, una delle poche città nel mondo, secondo me, dove la morte non è ogni giorno cancellata, dimenticata, fatta scordare, dove sembra che non ci sia, come tante altre città frenetiche, belle, fantastiche. Ecco, e ringrazio Dio di questo, di questo ricordo. Allo stesso tempo due anni di pandemia e oggi la guerra sembrano dirci che la morte ci ricorda ogni minuto che l’uomo è cattivo, che l’uomo è finito, che l’uomo in fondo non ha significato nella sua vita.
Éric-Emmanuel Schmitt: Credo che in realtà nulla sia cambiato, semplicemente siamo più consapevoli oggi della nostra condizione rispetto magari ad altri momenti della storia. In alcuni momenti ci si dimentica che le nazioni hanno una storia, che si scontrano, ora ce lo siamo ricordato. Abbiamo vissuto nella pace, pensavamo che sarebbe andato avanti per sempre, ma per me nulla è nuovo in quello che sta succedendo, purtroppo. Credo che l’uomo in realtà non progredisca. La scienza va avanti, la tecnica, ma l’uomo no. Un uomo di oggi non è più morale di Platone o Aristotele o Immanuel Kant. Credo che l’uomo quindi non progredisca, e inoltre credo anche che il motore del progresso sia il male, vale a dire che è necessario che gli uomini scatenino delle apocalissi per improvvisamente fare in modo che le cose vadano meglio. Occorrono conflitti mondiali per creare le Società delle Nazioni, occorrono pandemie per sviluppare l’organizzazione mondiale della sanità, occorrono catastrofi ecologiche perché le persone diventino consapevoli del cambiamento climatico. Quindi credo che gli uomini nel loro insieme, come società, non vogliano in realtà il bene, vogliano evitare il peggio. Quindi credo che il motore del progresso non sia il desiderio del bene, ma la volontà di evitare il peggio. Quindi occorre sempre che succeda qualcosa di brutto affinché l’umanità possa progredire. Sono un ottimista tragico. Un ottimista tragico poiché il motore del progresso è il male, ma il male ci fa andare avanti, ci fa progredire.
Alessandro Banfi: Una grande inglese, Cicely Saunders, ha inventato gli hospice, proprio perché vedeva che i medici del suo tempo, del ‘900, quando un uomo non aveva più speranza di vita, era finito, era finito anche come paziente, lo ignoravano. Non esistevano allora le cure palliative e lei fece una battaglia per dimostrare che quella persona, anche se era segnato il suo destino, aveva ancora un valore, era ancora una persona, per stare alla sua prima risposta. Ecco, oggi c’è questa attenzione da questo punto di vista, anche se le legislazioni ci spingono verso la fine della vita vista come una decisione del singolo.
Éric-Emmanuel Schmitt: Credo che i medici svolgano un duplice ruolo: guarire quando possono, ma sempre prendersi cura, prendersi cura dell’altro e ritengo anche che ci siano momenti della storia in cui la medicina compie progressi tali che diventa quasi disumana. Oggi ci sono medici che leggono statistiche davanti a un individuo e dimenticando che hanno davanti una persona, e questo è estremamente grave. Il progresso della medicina non deve diventare il progresso della disumanizzazione della cura. Credo che oggi abbiamo tutto perché abbiamo una grande disumanizzazione perché la medicina diventa appunto molto tecnica, e quindi ci sono statistiche che la contraddistinguono, ci sono analisi che una volta non venivano realizzate, ma contemporaneamente ci sono anche dei rischi appunto legati alla disumanizzazione della relazione con l’altro. E quindi dipende davvero dalle persone. Ci sono medici oggi che sono sempre dei grandi umanisti, persone che sanno rivolgersi a un malato. E davvero le loro parole possono già fare bene, a volte queste parole guariscono, e questo mi sembra molto importante da ricordare. È per questo che ho scritto proprio Oscar e la dama in rosa, libro da cui avete ascoltato un estratto, perché il bambino non guarisce nel mio libro. E i medici, tutta l’équipe subiscono un fallimento terapeutico e il bambino insegnerà loro che anche se non guarirà comunque il bambino è lì e occorre prendersene cura perché è una persona. Quindi in un certo senso è il bambino che insegna a chi lo circonda a rimanere umani, rimanere in contatto con l’altro, con lui. Sono molto contento perché ad esempio oggi in Francia, quando si fanno studi di medicina, si legge questo testo, “Oscar e la dama in rosa”, proprio nell’ambito degli studi di medicina perché parla proprio del modo in cui il paziente, qui è addirittura un bambino, vive questo momento di cura e vive anche e appunto la sconfitta terapeutica, perché bisogna anche vivere queste fasi se non si è in grado di accettare queste forme di fallimento e di sconfitta non si può comunque vivere.
Alessandro Banfi: Non c’è l’happy end, ma c’è lo stesso un grande finale.
Éric-Emmanuel Schmitt: Beh, a volte le persone mi rimproverano di non aver fatto guarire il bambino alla fine e io spiego loro che io non sono un autore americano, che appunto fornisce un happy end. E quello che voglio mostrare con questa storia è che occorre saper essere malati poiché essere malati significa anche essere vivi, bisogna saper essere vivi malgrado la debolezza, la malattia: è questa la vera lezione, il vero apprendimento perché quando si è malati non sempre si guarisce. Inoltre per me Oscar è anche una metafora di tutti noi, lui non ha molto da vivere, solo qualche giorno, noi abbiamo mesi e anni, forse decenni, ma allo stesso modo comunque arriveremo a quel punto. Lei ci aspetta e quindi non si tratta di diventare forti per sconfiggere la morte, ma di accettare la finitezza della condizione umana, ma avere la forza anche di accettare questa debolezza. È per questo che non c’è un happy end, non c’è mai un happy end.
Alessandro Banfi: Grazie, grazie mille. Allora adesso passiamo a un’altra storia, a un’altra pagina che ci aiuta. Che grazie ai nostri bravi lettori, attori-lettori Giampiero Bartolini e Matteo Bonanni, entriamo dentro un’altra scrittura.
Dalla “Casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli: All’altezza della vetrata liberty stazionano due ragazzi. La madre tiene in braccio un bambino mentre il padre gioca con lui. Gli fa vedere la fontana del giardino interno. Intanto con smorfie, linguacce, fa ridere il figlio. Quando sono a non più di un metro da loro i due genitori si voltano e con loro il bambino. Il passo perde la cadenza, così come il respiro. Il piccolo avrà tre anni. A parte gli occhi, il suo viso non esiste. Al posto del naso, la bocca, ci sono buchi di carne rossa. Schiaccio gli occhi sul marmo del pavimento, gli sfilo a fianco senza più guardarli. Nel magazzino mentre preparo il carrello arrivo alla certezza di essere arrivato a saturazione. Basta con questo ospedale, con tutti i bambini malati, sciancati, informi, morti! Basta! Mi fumo una sigaretta, poi un’altra. Perdo tempo sperando che quei due ragazzi e il figlio sfigurato se ne siano andati. Le risate del bambino arrivano prima di tutto. Sono ancora lì! Ora però non sono da soli. Davanti a loro c’è una suora, è anziana, piegata in avanti, il suo viso sfiora quello tremendo del bambino.
– Tu sei il bello di mamma e papà, vero?
Prende una manina e la bacia. Lui, forse per il solletico, scoppia a ridere. La suora non avrà meno di ottant’anni, ha il viso paffuto, bianco come il latte.
– Allora non sei solo bello, sei pure simpatico! Ti piace così?
E ripassa la manina sulla sua bocca, il mento, per il piacere di lui. Poi la suora si drizza, guarda il padre, la madre.
– Ma non sentite che risata che c’ha? Questo dentro non ha l’argento, ha l’oro, l’oro vivo.
Lo bacia incurante del suo viso, di tutto, continua a spingere il carrello con secchi e scopettoni. Sono stordito, non riesco a capire, a decifrare. Ho visto qualcosa di umano e al tempo stesso straniero, come un rito proveniente da una terra lontanissima. Non riesco dentro di me a rintracciare strumenti per tradurlo nella mia lingua.
Alessandro Banfi: Grazie. Daniele Mencarelli, scrittore e poeta, ha scritto questa pagina autobiografica nel primo libro della sua trilogia “La casa degli sguardi”. E allora chiedo: quanto è umano cercare il bene laddove sembra negato?
Daniele Mencarelli: Parto dall’incontro con la suora perché l’incontro con la suora è l’incontro della mia vita. In fondo, anche i tre romanzi, questi tre romanzi autobiografici esistono per quella dismisura che la suora ha introdotto nella mia vita, cioè, una realtà che io ho sempre cercato senza saperlo, c’è una realtà più grande di me che rivela qualcosa, che è quella cosa che io stavo cercando. Rispetto al bene io ho sempre cercato il bene, citavi Weil “L’attenzione al bene è umana”, diciamo, l’ho sempre trovato nei luoghi apparentemente meno adatti alla produzione di bene. E mi viene in mente un grande poeta, io vengo dalla poesia l’ho detta con Éric abbiamo parlato, Camillo Sbarbaro, un grande poeta italiano che, secondo me, viene troppo spesso dimenticato, lui parla del vero male dell’uomo contemporaneo. Il vero male è la consuetudine e quindi essere talmente distanti dal bene e dal male, da non saperli neanche più riconoscere. A me vengono in mente delle situazioni che apparterranno senz’altro anche a tutti voi, in cui io sono una cosa che non aderisce, che non cerca, che non ambisce a nessuna delle due cose, né al bene, né al male, e su questo sono d’accordo con Éric quando dice che poi l’uomo ha bisogno di terribili sveglie, ha bisogno di momenti in cui il bene attraverso l’orrore, c’è questa strana relazione, l’uomo riesce a trovare il trionfo del bene spesso attraverso i lebbrosi, se pensi ai vangeli, attraverso il lebbroso noi riscopriamo il bene ma servono queste sveglie perché altrimenti il rischio è di iniziare sempre più a chiuderci dentro un appartamento più o meno lussuoso in cui ci raccontiamo come uomini che sanno farsi bastare quella consuetudine. Quello secondo me è il vero male di mediocrità della nostra epoca.
Alessandro Banfi: La negazione della felicità, la negazione della bellezza è diversa da come sembra, cioè non avviene attraverso una clamorosa cancellazione, ma viene appunto attraverso l’indifferenza, attraverso l’ignoranza, attraverso la lontananza.
Daniele Mencarelli: Sì. O attraverso questa …, in un articolo scritto qualche tempo fa ho parlato di dittatura della felicità. Perché in realtà questa consuetudine e quindi questa indisponibilità a vivere veramente la nostra fragilità è stata col tempo riempita, affollata di mille cose da comprare che promettono quel traguardo che è irraggiungibile, perché io non credo che l’uomo sia fatto per la felicità che oggi abbiamo in mente. L’uomo è fatto per abbracciare la sua fragilità e in quell’abbraccio per trovare quei momenti d’allegria, quei momenti di amicizia, quei momenti di gioia che permettono di andare avanti. Oggi abbiamo un’idea assolutamente tossica della felicità. Io incontro tanti ragazzi e parliamo della felicità come di una terra da raggiungere, piantare una bandiera e lì vivere per sempre. Gli happy ending stanno nei pessimi film americani, ma quelli sono happy ending però.
Alessandro Banfi: Ecco, però c’è qualcosa nella tua opera che ritorna sempre, è l’altro, cioè, alla fine questo bambino e quella suora sono, come dici tu, una sveglia ma sono l’altro, cioè, qualcosa che non ti aspetti, l’inaspettato, l’imprevisto.
Daniele Mencarelli: Diciamo, io non appunto, credo sia assolutamente connaturata all’uomo la ricerca del bene. Io lo cerco, lo trovo nei luoghi spesso meno adatti ma so perfettamente dove risiede il mio male e il mio male risiede dentro di me, è nel mio passo, dico in un mio libro, cioè quindi nella mia vita l’alterità, l’altro è stato sempre l’unico mezzo per non soccombere all’unico nemico che io conosca e che abbia mai conosciuto che sono io. Nel senso che il mio unico nemico, ho fatto tanti incontri e ho vissuto tanto, non conosco una persona che sa farsi più del male di me.
Alessandro Banfi: Proviamo a fare un altro passo, ad affrontare un altro tema anche se questa riflessione che tu hai fatto, in qualche modo, ci introduce al brano che adesso ascolteremo. Vi facciamo sentire un po’ di teatro, un pezzo di grande teatro di Èrich-Emmanuel Schmitt. Prego i due attori di prendere posizione. L’opera teatrale si chiama Il visitatore di Èrich-Emmanuel Schmitt.
– Mi lascia?
– Non ti ho mai lasciato
– Non la rivedrò più?
– Tutte le volte che vorrà. Ma non con gli occhi
– E come?
– Ero qui Freud, sono sempre stato qui, nascosto e tu non mi hai mai trovato e non mi hai mai smarrito. E quando ti sentivo dire che non credevi in Dio, sembravi un usignolo che si lamenta di non sapere la musica. Parta dott. Freud e porti con se quanta più gente può. Li salvi. Buonasera
– Ma io, ancora non ho capito… fermo la.
– Ho detto buonasera, Freud
– Non se ne parla!
– Che debolezza, Freud
– non penserà di uscire dalla finestra come un essere umano qualunque? Nemmeno fosse un ladro. Esigo che scompaia qui, sotto i miei occhi
– il dubbio, sempre il dubbio.
Si avvicina alla finestra e fissando Freud negli occhi fa in modo che quest’ultimo come mosso da un potere invisibile si scosti.
– Buonasera
Freud si scuote, corre a prendere la pistola del tavolo e con entrambe le braccia tese la punta sullo sconosciuto
– Guardi che sparo
– A sì?
– Sparo
– E come no? Se fosse il pazzo che è scappato stasera, quel Walter Robert Site o l’uomo che ogni pomeriggio fa una corte spietata ad Anna. Lei si ritroverebbe un cadavere? Una pallottola, un morto. Pensi dott. Freud, perdere fede e libertà nello stesso istante e finire in prigione per omicidio. È sicuro che il gioco valga la candela?
– Ho fiducia che lei non cadrà
– Si mantenga così allora. La fede deve nutrirsi di fede, non di prove.
– Ne ho abbastanza di essere preso in giro, ti comporteresti allo stesso modo se tu fossi il diavolo.
– Un dio che si manifestasse chiaramente come Dio non sarebbe Dio. Sarebbe al massimo il re del mondo. Io mi ammanto di oscuro, ho bisogno del segreto, sennò che cosa rimarrebbe a voi da decidere? Son un mistero Freud, non sono un enigma
– Non sono convertito
– Tu solo puoi convertirti, sei libero. È sempre l’uomo che fa parlare le voci
– Io non c’ho guadagnato niente
– Fino a stasera pensavi che la vita fosse assurda. D’ora in poi sai che è misteriosa.
Allora avete capito qual è il passo che affrontiamo ora. Fra le sue tante opere teatrali, devo dire Èrich-Emmanuel Schmitt ha fatto questo capolavoro. Fra l’altro, lo dico per chi non l’abbia mai visto, in Italia su Raiplay c’è un’edizione molto bella è recitata, è una pièce teatrale dove lei immagina che il grande Sigmund Freud riceva la visita di Dio sotto le vesti di un misterioso visitatore nella sua casa di Vienna, proprio alla vigilia del suo espatrio che come sapete avviene per sfuggire dall’invasione nazista. Ecco lei, così, ha sottolineato un’irriducibilità particolare che c’è in ognuno di noi ed è il desiderio di Dio. Non c’è ateo, non c’è Freud che non sappia che cosa sia questa sete di infinito.
Éric-Emmanuel Schmitt: Ho avuto l’idea di questa pièce una sera guardando la TV e c’era il telegiornale delle 8, quello che aggiorna sulle notizie della giornata, e quella sera ascoltavo col cuore, non con la mia intelligenza ed ero sconvolto da quello che stavo sentendo, tutti i fatti orribili che erano avvenuti nel mondo e ricordo che ero in lacrime alla fine del telegiornale e mi sono detto: se Dio guardasse il telegiornale delle 8 si deprimerebbe anche lui e subito dopo mi sono detto, se Dio si deprimesse chi andrebbe a trovare? Ho immaginato Dio sul divano di Freud e mi sono detto: sarebbe un incontro straordinario poiché Freud non crede in Dio e Dio non crede in Freud. Perché Dio non ha complessi di Edipo, non ha genitori, non ha inconscio, non ha impulsi, non ha censure e quindi mi sono detto, questi due esseri non condividono nulla e quindi hanno tante cose da dirsi ed è così che ho scritto questa pièce ed effettivamente è una pièce che ha al centro un interrogativo. Come credere in un mondo contrassegnato da così tanto dolore, male, ingiustizia? È l’interrogativo del male che ho voluto sviscerare. Sapete che in filosofia c’è la teodissea, cioè il processo di Dio e Freud quindi fa una sorta di processo a Dio, ma Dio replica e mi sono detto che ogni uomo potrebbe riconoscersi, sia chi è credente che chi non lo è. Contemporaneamente ogni uomo sarebbe stato obbligato ad ascoltare anche la parola dell’altro, quindi l’ateo avrebbe ascoltato la parola di chi crede e viceversa. Questo per me è importante sempre unirsi noi tutti come uomini intorno alle grandi domande poiché quello che condividiamo sono proprio delle domande perché siamo tutti siamo assaliti dalle stesse domande, perché viviamo, perché ce ne andiamo ogni giorno, dobbiamo amare, amiamo bene, amiamo male, siamo nel giusto o forse siamo nello sbagliato, siamo tutti assaliti dalle stesse domande ma ognuno di noi dà risposte diverse e queste risposte ci rendono unici e a volte anche creano opposizioni tra di noi e a volte queste differenze portano addirittura alla guerra e credo che la soluzione stia sempre nel risalire alla questione, alla domanda. È questa la fratellanza umana, essere fratelli proprio uniti da queste domande e l’umanesimo è proprio questo per me, quindi la condivisione delle stesse domande e siamo proprio uniti dalle nostre domande, dai nostri interrogativi, poi veniamo separati dalle risposte, ma gli interrogativi ci uniscono. È molto importante per me fare una distinzione tra il sapere e il credere, ed è proprio quello che avete sentito alla fine dell’estratto in cui il visitatore andandosene dice “Ebbene, tu non avrai certezze, tu sei libero, sei tu che sei libero di scegliere, di credere o di non credere” e questo è molto importante per me. Io credo in Dio, ma non confondo il credere con il sapere. Se mi venisse chiesto: Dio esiste? “boh” risponderei,” non lo so ma io credo di sì”. Se si pone la stessa domanda a un ateo risponderà: “Non lo so, ma credo di no” e si facesse questa domanda a mia madre lei risponderebbe “Non lo so e non me ne importa nulla”. Credo che siamo un po’ tutti agnostici in fondo, quindi, viene dal greco che significa appunto non so, ci sono degli agnostici credenti, come me, degli agnostici atei e degli agnostici indifferenti. Ma siamo tutti fratelli, segnati da questo agnosticismo poiché Dio non è oggetto di sapere, Dio non può essere scoperto alla fine di un ragionamento filosofico o matematico. Dio non può essere trovato dietro alla lente di un telescopio o di un microscopio, Dio non può essere, diciamo, dimostrato si può solo provare, sentire Dio, farne l’esperienza. Ecco perché per me è molto importante affermare: Non lo so ma credo che” e per me la fede è un modo anche per vivere l’ignoranza. Quando non credevo in Dio vivevo nell’ignoranza con angoscia, segnato da un’angoscia immensa. Ora che credo in Dio vivo nell’ignoranza sempre ma con una fiducia profonda e intensa. La mia fiducia non è segnata da dubbi, è immensa e potente ma non è un sapere. Io non posso comunicarla. Mi piacerebbe essere contagioso ma è impossibile e il visitatore riguarda proprio questo tema, siamo liberi di credere o di non credere ma non esiste argomentazione decisiva e determinante contro Dio o a favore di Dio.
Alessandro Banfi: Però un aspetto Éric che è un modo per raccontare l’incarnazione, l’amore dell’incarnazione. Lo stesso titolo Il visitatore Dio ci visita e ci lascia nella nostra libertà ma ci vuole bene. Una delle costanti delle sue opere, penso anche alla bellissima opera su Hitler che lei ha scritto, anche Freud è stato amato da Dio, e uno quando guarda quell’opera teatrale lo pensa e quando lei dice: Un Dio che si manifestasse chiaramente come Dio, non sarebbe Dio sarebbe al massimo il re del mondo, ma io sono venuto per la vostra libertà perché amo la vostra libertà. E quindi è un annuncio in realtà che in questa opera teatrale lei ha messo.
Éric-Emmanuel Schmitt: Io credo che Dio abbia creato gli uomini e il mondo per il motivo assurdo che fa fare tutto: per amore. È così. È questo amore che ci dà questa libertà. Dio non ha creato degli automi, noi non siamo degli automi, viviamo nell’ignoranza e nelle libertà e il rispetto di Dio per noi, e quindi per le sue creature sta proprio nel fatto di averci dato l’ignoranza e la libertà.
Alessandro Banfi: Grazie, grazie. Non c’è tema che non ci faccia discutere di più, non c’è tema che appassioni di più di questo, il tema ultimo, il tema, come diceva Schmitt, il tema che riguarda le domande del cuore dell’uomo. Allora facciamo un altro passo con Mencarelli, che anche lui si pone in modo diverso la stessa questione. Allora andiamo a leggere da Sempre tornare di Daniele Mencarelli un passo del suo ultimo libro.
Vorrei avere il coraggio di confessare ad Annamaria che cos’è Dio nella mia vita. Non proprio lui ma il desiderio di lui. Mi piacerebbe farle sentire cosa ho dentro, prenderle la mando dal volante e appoggiarmela al centro del petto. Dirle senza nessuna vergogna, lo è come se c’avessi dentro un cane che s’è perso il padrone, con quella nostalgia, come se c’avessi vissuto assieme e lo cerca ovunque. In certi momenti il profumo del padrone si fa più intenso, allora tutto diventa una presenza innamorata, ma sono lampi, bruciature di luce. In quell’istante vedo la mano che ha piantato gli alberi.
Ad Annamaria non direi proprio niente è altro adesso che mi schiaccia il respiro. Se ora mi ritrovo a pregare, se guardo il tettuccio della 126, ripetendo parole nella mente, non è per lei, ma per il terrore che quegli istanti altro non siano che un’illusione. Dio ti prego non farmi il torto di non esistere
Alessandro Banfi: Allora. Daniele Mencarelli qui racconta, nel suo romanzo, il suo ritorno a casa di un diciottenne; Annamaria è una delle persone che incontra. Lei non è credente eppure sente irriducibile questa esigenza di infinito. Quindi, come se a volte si rifacesse viva nella sua esistenza.
Daniele Mencarelli: È abbastanza involontariamente provocatoria come riflessione ma la vera domanda che ci dobbiamo fare è come amiamo. Nel senso che, nella mia vita, il confine naturale dell’amore è la domanda di senso dell’amore. Io amo qualcosa che morirà, ma il mio amore è istintivamente, è presente qualcosa di più grande rispetto, la dismisura del mio amore non c’entra nulla con la morte. E quindi la domanda abbastanza spudorata da fare è quanto e come amiamo. Perché io credo che la domanda di fede sia assolutamente connaturata alla misura dell’amore. Non esiste amore senza domanda di senso, secondo me, io a differenza di Éric, forse per presunzione, non riesco a vivere e ad abbandonarmi, questa parola meravigliosa, ad abbandonarmi a quella forma di ignoranza che mi permette di credere senza sapere. E per un altro motivo che, secondo me, oggi è importantissimo e ha una rilevanza civile per chi prova a raccontare il mondo. E in questo brano che è stato letto il ragazzo in fondo si lascia andare quasi a una preghiera. Però io credo…
Alessandro Banfi: Guardando il tettuccio di una 126
Daniele Mencarelli: Guardando il tettuccio della 126 di Annamaria, vede addirittura presente questa mano che ha piantato gli alberi. Però io credo che oggi, per stanare, io uso spesso questo termine, per stanare l’uomo rispetto al suo agnosticismo assolutamente naturale, sia più utile, e infondo la letteratura l’ha sempre fatto, raccontare, mettere in scena il niente. Io incontro tante scuole, sono stato magari in tante scuole di tanti di voi magari professori e alunni e io anche con i ragazzi o anche con i professori o anche con gli adulti agli incontri serali, io amo mettere in scena il niente, cioè io amo costruire quella vertigine senza senso che si chiama niente, quindi questa sfera che gira nel nulla come tutte le altre sfere che prende vita, adesso un’ultima tesi, perché un meteorite ha portato dell’acqua, questo essere monocellulare che da questo liquido primario inizia a progredire, a un certo punto prende conoscenza di se e nel giro di un tempo microscopico rispetto all’infinito si ritrova dentro una sala con migliaia di persone a parlare di tutto e niente. Attenzione, questa è l’origine, il destino è lo stesso quindi tutto quello che voi avete creato, i libri di Éric, i miei, tutta la musica, a me lo fa molto con la musica, tutta la musica che l’uomo ha creato, ebbene tutto un terribile squarcio di consapevolezza in qualcosa che in realtà non ha nessun senso, non l’ha mai avuto prima non lo avrà dopo. E mettere in scena questo niente in questi termini, farlo vedere il niente, è secondo me un modo per riaccendere quella ribellione naturale che parte dall’agnosticismo e che porta ad una ricerca sincera rispetto a Dio. Io credo che oggi serve il racconto del niente perché quello che oggi viene raccontato per niente è secondo me il racconto di mille rivoli cultuali di mille piccoli culti che in realtà ci riempiono, ci distraggono, ma che non sono assolutamente “niente” perché il niente è quella cosa lì, cioè il niente è quello è quell’abisso e l’abisso lo devi vedere e toccare. Diciamo, nella mia vita, dicevo prima che il mio più grande nemico nel mio passo, io non sono mai stato capace di sottrarmi a quella voce interiore maligna che ogni tanto cade, non so se dall’alto o dal basso, e che mette in scena di fronte ai miei occhi l’esistenza e l’esistente creato dal niente. Ed è questo che m’ha sempre fatto cercare in modo spesso assolutamente indisciplinato l’esatto contrario.
Alessandro Banfi: Quando parlavi di questa ricerca del niente, poi passiamo ad un’altra storia, ma quando parlavi di questa ricerca del niente mi hai fatto venire in mente quello che Schmitt diceva all’inizio della morte. È come un paragone a cui l’uomo contemporaneo cerca di sfuggire, no? Cerca di dimenticare, cerca di sottrarsi. L’altra cosa che mi hai fatto venire in mente è il commento che molti di voi conosceranno che il grande filosofo Emanuele Severino, che diceva sempre che per lui Leopardi racconta il solido nulla della vita.
Daniele Mencarelli: Esattamente, ma Leopardi secondo me è esattamente quell’uomo, quella sensibilità pendolare tra questi due sentire. È l’uomo dell’infinito, quindi l’uomo che sente il vento arrivare e quindi sente la presenza di Dio, ed è l’uomo della Ginestra; è questa compresenza di tutto e il niente
Alessandro Banfi: Facciamo un altro passo che, mi dispiace sia quello finale ma il tempo vola. Allora chiamo ancora l’attore che ci legge questo passo da un romanzo famosissimo di Éric-Emmanuel Schmitt, che è diventato anche un grande film: “Monsieur Ibrahim e i fiori del corano”
Polizia, aprite.
Alè è finita mi son detto ho raccontato troppe bugie, ora mi arrestano, mi sono messo la vestaglia, ho tolto tutti i chiavistelli. Di persona avevano l’aria molto meno cattiva di quello che avevo creduto. Mi hanno chiesto anche educatamente se potevano entrare. Anch’io del resto preferivo vestirmi prima di andare in prigione.
Nel salotto l’ispettore mi ha preso la mano e mi ha detto con tatto: “ragazzo mio abbiamo una brutta notizia da darle. Suo padre è morto”. Sul momento non so cosa mi abbia colpito di più, se la morte di mio padre o il fatto che il poliziotto mi desse del lei. Fatto sta che sono crollato a sedere sulla poltrona. “S’è buttato sotto il treno, vicino a Marsiglia”. Anche questo è strano, che bisogno c’era di andare fino a Marsiglia? Treni ce ne sono dappertutto, ce n’è altrettanti a Parigi se non di più. Decisamente non sarei mai riuscito a capire mio padre. “Tutto fa pensare che suo padre fosse disperato e che abbia messo volontariamente fine ai suoi giorni”. Mio padre che si suicida, ecco una cosa che non contribuiva certo a farmi sentire meglio, a questo punto allora preferivo un padre che mi abbandona. Altrimenti, almeno avrei potuto immaginarlo divorato dal rimorso. I poliziotti avevano l’aria di capire il mio silenzio, guardavano la biblioteca vuota, l’appartamento sinistro intorno a loro dicendosi che, uff.. tra poco se ne sarebbero potuti andare. “Chi bisogna avvertire, ragazzo mio?” Qua finalmente ho avuto una reazione appropriata. Mi sono alzato, sono andato a prendere la lista dei quattro nomi che aveva lasciato mio padre prima di andare via e l’ispettore se l’è messo in tasca. Trasmetteremo tutto all’assistenza sociale. Poi si è avvicinato a me con un’espressione da cane abbandonato, e io ho capito che stava per farmene una grossa. “Devo farle una richiesta delicata ora. Dovrebbe venire a riconoscere il corpo”. E qui è scattato l’allarme. Mi sono messo a urlare come se qualcuno avesse premuto il bottone. I poliziotti si agitavano intorno a me, cercavano l’interruttore, ma non c’era niente da fare, l’interruttore ero io e non riuscivo più a fermarmi. Monsieur Ibrahim è stato perfetto. Sentendo i miei strilli, è salito, ha capito al volo la situazione, e ha detto che sarebbe andato lui a Marsiglia a riconoscere il cadavere.
Alessandro Banfi: È un momento drammatico di questa storia perché questo ragazzo, questo Mosè consuma la sua amicizia con Monsieur Ibrahim al momento della traumatica notizia della morte del padre suicida, no? Ancora torna la fragilità umana, ancora torna la morte, ma c’è un fiorire in questa opera bellissima di Éric-Emmanuel Schmitt, c’è il fiorire di qualcosa che è già nel titolo anche, ma che è l’amicizia, che è il rapporto che è l’altro.
Éric-Emmanuel Schmitt: Sì certo, Mosè ha un padre che non era fatto per essere padre e Monsieur Ibrahim non ha avuto figli ma lui in realtà invece è nato per essere padre e Monsieur Ibrahim diventa il padre scelto per Mosè. E spesso nella vita succede proprio questo. Possiamo diventare padri putativi o madri putative per qualcuno che non è biologicamente nostro figlio oppure a volte diventiamo figli o fratelli quando non c’è un legame di sangue con qualcuno. È molto importante per me mostrare che l’amore si sposta, va al di là dei legami di sangue. Spesso il legame di sangue, può implicare solo fatica e abitudine, qualche giorno fa ho incontrato qualcuno che ho detto: beh “mia moglie ed io siamo sposati da 30 anni” e ho detto: “ma è amore o pigrizia?”. Bisogna che una relazione sia viva, forte ed è quello che mi piace raccontare nei miei libri. Al centro dei miei libri ci sono sempre incontri salvifici perché credo davvero che le nostre vite siano segnate dagli incontri e quello che anche nel libro di Daniele, quello di cui parlava, la vita è fatta di incontri. Che cos’è un incontro? Un incontro è qualcosa che segna un primo e un dopo. E noi tutti credo abbiamo avuto degli incontri nella nostra vita che hanno segnato un primo e un dopo e io cerco sempre proprio di raccontare questi incontri nei miei libri. E non ci sono ma eroi che si incontrano nei miei libri, ma ci sono sempre esseri deboli, ci sono sempre essere che si trovano in situazioni difficili ed è l’incontro che invece li fortificherà. Siamo deboli da soli, ma in due si diventa forti.
Alessandro Banfi: Grazie, visto che è l’ultima domanda che le faccio, vorrei che lei raccontasse questo episodio: la giornalista di Le Monde che viene a trovarla, Éric-Emmanuel Schmitt ha scritto un grande libro, edizioni San Paolo, in Italia “Il Vangelo secondo Pilato” e le ha consigliato di non dire apertamente di essere cristiano. Vuole raccontare questo al popolo del Meeting?
Éric-Emmanuel Schmitt: Sì, sì. Tutti gli intellettuali francesi, storicamente hanno sempre segnato una distanza dalla Chiesa e questo può essere stato utile in un certo momento, sia per gli intellettuali e anche per la Chiesa. Ma ora viviamo in un’epoca, in un mondo che sono diversi e prendere queste distanze non è più necessario, ma è rimasto nella mente degli intellettuali francesi un pregiudizio, come se un artista o un intellettuale non dovessero mai parlare né di Dio né di fede, tanto più se hanno fede, se sono credenti ed è un vero e proprio pregiudizio condiviso. Io sono filosofo di formazione e adoro distruggere i pregiudizi condivisi e quindi avevo scritto questo “vangelo secondo Pilato “che è un libro che racconta come cercare di sviscerare e far proprio la passione di Cristo: il punto di vista del narratore e quello di Pilato, quindi un romano politico pragmatico, che non ha nulla di mistico e quest’uomo crede di essere di fronte ad un enigma: un cadavere scomparso dalla sua tomba – perché il cristianesimo è questo, è la storia di un corpo che è scomparso – e quindi pensa di aver a che fare con un enigma e poi invece si rende conto che è di fronte a un mistero. Un enigma è un problema che ha una soluzione, un mistero, invece è un problema che non ha una soluzione, ma che fa riflettere che genera emozioni e che è dinamico per la vita dell’anima. Io amo solo i misteri è chiaro. Gli enigmi non mi interessano affatto. Quando leggo un poliziesco, ad esempio, alla fine sono sempre depresso perché la soluzione è lì, invece a me piace non avere la soluzione e quindi è il mistero che mi piace perché mi fa riflettere, provare emozioni, mi riattiva, vivifica, risveglia. Questa giornalista di Le Monde mi dice, beh lei è un eccellente scrittore, sarebbe meglio che non dichiarasse che è cristiano, e mi dice, altrimenti, appunto, sarebbe catalogato come autore cristiano. E io beh allora in questa categoria sono in ottima compagnia.
Alessandro Banfi: L’ultimo passaggio lo dedichiamo all’ultima lettura che fanno i nostri attori e la fanno entrambi e li ringrazio ancora, dico anche i loro nomi: Giampiero Bartolini e Matteo Bonanni. Viene da “Tutto chiede salvezza” l’opera di Daniele Mencarelli e, dobbiamo dirlo al pubblico del Meeting, da ottobre, Netflix dedicherà una serie basata su “Tutto chiede salvezza”.
Éric-Emmanuel Schmitt: Mi permetto di dire una cosa, ho letto questo libro che è davvero magnifico, beh il libro è sempre meglio anche se il film sarà bello, il libro è sempre meglio.
Alessandro Banfi: Allora a voi la parola Bartolini e Bonanni
– Guarda che te faccio vedè
– Si rimette a cercare qualcosa nel portafogli logoro, alla fine la trova, una fotografia bianco e nero, me la mette sotto gli occhi, una donna intorno ai 40, il bel viso scolorito dal tempo.
– Questa è mi madre
– Lo dice con un orgoglio ragazzino, fiero, poi qualcosa da dentro inizia a fargli male.
– Na mattina me fa: “Giorgio, mamma va ar mercato”, io stavo co nonno, non c’avevo manco 10 anni, passa n’ora, du ore… mamma nun torna. A sera ce chiama l’ospedale de Genzano
– Giorgio comincia a tirare su col naso. La mano ancora appoggiata sulla mia coscia inizia a sussultare leggermente.
– Io e nonno entramo all’ospedale. “Prennamolo da na parte”, inizia a urlare come un pazzo, se lo portano via. Io resto co l’infermiere che me chiede come me chiamo, de che squadra so. Io voio annà co nonno, così scappo e lo inseguo. Da lontano sento ancora che urla, io vado vicino, lui guarda dentro na stanza e poi entra…
– Giorgio sembra incapace di gestire il ricordo. Più che altro per lui quello che sta raccontando, non è un fatto che appartiene alla memoria, è qui, ora, sta accadendo dentro di lui.
– Allora pure io je voio entrà, ma n’infemrmeire me blocca. Poi n’arriva n’artro, da dentro sento nonno che no riesce a smette de piagne. Io c’ho quasi 10 anni, mica so un ragazzino. Io inizio a strillà de famme entrà, perché io devo vedè. E invece non l’ho più vista.
– Giorgio ha negli occhi la madre che gli negarono, io la vedo, in mezzo alle lacrime
– Nun se more così, senza avvertì nessuno. Senza nemmeno salutamme.
Alessandro Banfi: Alla fine ci innamoriamo tutti di Giorgio. È uno dei personaggi di questo libro cui alla fine vogliamo bene, perché tu riesci a comunicare questo, no?
Daniele Mencarelli: Éric prima parlava di fratellanza, di fraternità della bellezza di avere delle amicizie che diventano più forti della consanguineità. Cioè un fratello conosciuto per strada che è più fratello di quello di sangue. Per me Giorgio è stata una grande lezione, è stata una lezione sul destino, nel senso che poi l’umanità è composta da miliardi di persone, noi possiamo leggerci in due modi: o gli altri sono nel bene o nel male, soprattutto nel male il destino che noi riusciamo a scampare, e quindi Giorgio è quel ragazzino chiamato dalla lotteria del destino a scontare l’incubo di tutti i bambini del mondo e di tutte le ere, perdere la madre che esce e non torna più, oppure considerare il destino di Giorgio un elemento assolutamente consanguineo al mio destino, farlo diventare parte della stessa identica materia e per me Giorgio è stato questo, è stato quello che ha vissuto quello che non ho vissuto io, ma che avrei potuto vivere io, e rimane appunto questa grande lezione rispetto a quello che capita agli altri. Che cos’è? quello che scampiamo noi o è quello che non è toccato a noi, ma che riguarda comunque la nostra vita e continua ad esserlo?
Alessandro Banfi: Grazie. Una passione per l’uomo è il titolo di questa edizione e abbiamo visto due scrittori appassionati dell’umanità. Con questa passionaccia dell’umanità, che è qualcosa che contraddistingue la letteratura, anche quando ufficialmente le società, le culture, i pensieri dominati vorrebbero negare questa passione e stasera, credo, ne abbiamo visto una dimostrazione.