L’INTRODUZIONE DEI GIOVANI NEL MONDO DEL LAVORO

Partecipano: Fabio Cerchiai, Presidente Atlantia Spa e Autostrade per l’Italia; Maurizio Del Conte, Presidente ANPAL (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro); Roberto Maroni, Governatore Regione Lombardia; Dario Odifreddi, Presidente Fondazione Piazza dei Mestieri. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Compagnia delle Opere.

L’INTRODUZIONE DEI GIOVANI NEL MONDO DEL LAVORO

BERNHARD SCHOLZ:
Buonasera, benvenuti a questo incontro su un tema urgente, importante e decisivo, L’introduzione dei giovani nel mondo del lavoro. Questa mattina, il Presidente della Repubblica ha sottolineato sia nel suo discorso sia nella risposta che ha dato a un giovane che la situazione è difficile ma l’occupazione dei giovani è uno dei problemi più importanti, più difficili: ha invitato i giovani al coraggio, all’audacia, ma ha invitato anche il Paese a entrare in un dialogo molto serio, molto costruttivo su questo tema. Questo incontro di oggi vuole essere un contributo. La disoccupazione giovanile fra i 15 e i 24 anni è leggermente scesa dal 41,2% dell’anno scorso al 36,9%, ma questa non è una consolazione perché dice, in sostanza, che la situazione non è cambiata. Abbiamo ancora due milioni di NEET, qualcuno dice che sono di più i giovani che né lavorano né studiano né cercano lavoro: è forse la cifra più sconfortante. Noi vogliamo affrontare questo tema partendo da quattro tipi di esperienze: un’esperienza riguarda una regione dell’Italia che si è impegnata molto nella formazione dei giovani, è la Regione Lombardia rappresentata dal Presidente Maroni; abbiamo l’esperienza di una grande impresa che opera a livello nazionale ma anche a livello internazionale. Questo aspetto è poco conosciuto ma le Autostrade per l’Italia lavorano anche in altri Paesi: ringrazio per la sua presenza Fabio Cerchiai che ne è il Presidente. E ascoltiamo non un’esperienza diretta ma una persona che avrà il compito di valorizzare tutta una serie di esperienze presenti nel nostro Paese: è la nuova Agenzia per le Politiche attive e del lavoro: il neo Presidente è il professor Maurizio Del Conte. E poi esistono in Italia diverse esperienze di formazione professionale rappresentata qua con l’esperienza della Piazza dei Mestieri dal suo Presidente Dario Odifreddi. E iniziamo direttamente con l’esperienza di Dario Odifreddi che dal 1997, quindi da tantissimi anni, è Presidente anche dell’associazione Consorzio Scuole e Lavoro, un’associazione che raggruppa 26 agenzie formative sul territorio nazionale: quindi non parlerà solo a nome della Piazza dei Mestieri di Torino ma anche di tante altre esperienze diffuse nel Paese. A lui la parola.

DARIO ODIFREDDI:
Grazie, Bernhard, buonasera a tutti. Alcuni dati sono stati citati nell’introduzione, tanti altri ne potremmo aggiungere ma la maggior parte di noi conosce bene la drammaticità del problema dei giovani, dell’educazione dei giovani, dell’occupazione, del loro inserimento lavorativo. E allora, davanti a questa che è una vera emergenza educativa del nostro Paese, non possiamo non porci la domanda su che cosa possiamo fare. In un incontro dello scorso anno qui al Meeting, con il ministro Poletti, su un tema analogo, la parola che più è stata ripetuta è responsabilità. Occorre mettere in gioco la responsabilità di tutti se vogliamo veramente affrontare questo tema, la responsabilità degli adulti, una responsabilità che è molto grave in alcuni momenti: soprattutto è molto grave questa inclinazione al pessimismo, questo continuare a ripetere “avrete un futuro peggiore di quello che abbiamo avuto noi”. Gli adulti devono incoraggiare, devono aiutare. E poi una responsabilità dei corpi intermedi, che vuol dire il sindacato, le associazioni di categoria che devono mettersi in gioco rinnovando la loro posizione. Infine, le istituzioni, ma su questo tornerò brevissimamente nelle conclusioni. E allora, se bisogna mettere in gioco la responsabilità, ognuno di noi deve provarci e la Piazza dei Mestieri nasce così: nel 2004 nasce a Torino, dal 2012 è presente anche a Catania. La Piazza dei Mestieri nasce perché siamo rimasti colpiti, feriti nel vedere tanti ragazzi, tanti adolescenti, tanti giovani che non trovavano una strada, che si perdevano, che non riuscivano a studiare, che abbandonavano la scuola o, terminata la scuola, non trovavano un lavoro. Ma la Piazza dei Mestieri, profondamente, non nasce da questa ferita ma da un’amicizia che dura ormai da oltre 40 anni, nata in un contesto molto familiare al Meeting, dall’avere incontrato l’esperienza di don Giussani, dall’essere stati affascinati, dal percepire – come si dice nel video della mostra dei 70 anni che abbiamo visto prima – l’uomo come esigenza di felicità e dalla certezza che questa esigenza si può perseguire, che non è un sogno della giovinezza, che è una cosa possibile per tutti. E poi, ultima caratteristica dell’origine della Piazza dei Mestieri: nasce anche da una grande contraddizione, forse la più grande delle contraddizioni, che è la morte. Perché uno degli amici, il nostro più grande amico, quello che era il leader della nostra amicizia di giovani universitari, che si chiamava Marco Andreoni – a lui è dedicata la fondazione Piazza dei Mestieri – è morto durante una gita in montagna con 400 amici: quella è stata la più grande sfida, perché c’era tutta la nostra ribellione davanti a quella ingiustizia. Eppure, stando davvero davanti a quella contraddizione, ci è stato più evidente che non si può vivere la vita senza spenderla, senza provare a spenderla per qualche cosa che valga, e che l’unico significato che la morte di quel nostro amico in quel momento e negli anni successivi aveva, era che si può costruire, che tutto il tempo ci è dato per costruire. Ecco, la Piazza dei Mestieri nasce così, nasce per una contingenza, perché ci è venuto in mente di fare questo sulla formazione e sull’educazione, ma nasce da una storia.
Alla Piazza dei Mestieri, che cosa si fa? Anche qui vado veramente in estrema sintesi perché queste realtà bisogna più che altro conoscerle, andarle a vedere, perché sono molto difficili da raccontare. Sostanzialmente, ci sono degli adolescenti che fanno il loro percorso di qualifica o di diploma professionale, studiano tre o quattro anni, e da noi su alcuni settori, recuperando la tradizione, la manualità e tutta la storia della tradizione del territorio piemontese. Nella Piazza dei Mestieri si impara l’arte pasticcera, l’arte di fare il barman, l’arte culinaria, tutta l’arte grafica che ha avuto in Piemonte una lunghissima storia, l’arte dell’acconciatura, dell’estetica, i mestieri della tradizione. Insieme a questi, i mestieri del futuro: nel 2009 nasce il primo Istituto Tecnico Superiore, l’ITS, nel 2015 nasce l’ITS nella filiera dell’agroalimentare. Perché recuperare il valore della manualità vale per tutto, per i mestieri tradizionali e per i mestieri più nuovi. Sono 3000 i ragazzi che a oggi sono usciti dalla Piazza dei Mestieri, la stragrande maggioranza di loro ha trovato un’occupazione coerente con il percorso per cui aveva studiato. Ogni anno, circa 700 a Torino e 800 a Catania vivono insieme questa avventura della Piazza dei Mestieri, che è incentrata su cinque caratteristiche.
La prima, quello che noi riteniamo più importante, è l’educazione alla bellezza. Solo il bello è capace di muovere, di attrarre e di mettere in moto: questo vale per noi ma vale in modo incredibile per un adolescente. Per questo, abbiamo voluto pensare ad un luogo bello anche nella ristrutturazione, nei locali. Ma anche il bello dell’arte: da dodici anni facciamo un concorso nazionale di poesie e di prosa per tutte le scuole d’Italia, promosso dalla Piazza dei Mestieri, un percorso di arte contemporanea per i giovani, 70 eventi culturali ogni anno, mostre, spettacoli teatrali, rassegne jazz. Sono tutti modi diversi di far emergere il bello, fino al bello del mestiere, al bello di un piatto ben fatto, al bello di una birra ben riuscita. E lo facciamo – è il secondo punto -, cercando di valorizzare il talento, perché la scoperta che abbiamo fatto in questi 12 anni è che in ogni ragazzo, giovane, adolescente, esistono dei talenti. Bisogna aiutarli, e l’aiuto più grande è aiutarli a dire “io”. Perché la cosa che impressiona di più è che questi ragazzi sembrano un po’ bulli quando sono in compagnia, ma in tanti casi c’è una inconsistenza, una difficoltà a sentirsi utili, importanti per qualcuno. In questo percorso di valorizzazione del talento che passa dentro lo studio, i laboratori, gli stage, in questo percorso imparano a ridire io, a sentirsi importanti, a liberare un’energia, a raggiungere risultati che sembrerebbero incredibili. Poi, terzo punto, li accompagniamo, dall’accoglienza – quando arrivano spesso con i genitori -, nell’orientamento, cercando di aiutarli a scegliere, nell’inserimento lavorativo. Questa è la cosa più importante, la grande alleanza tra l’educazione e il lavoro che non può essere astratta ma che bisogna mettere in gioco e alimentare.
Noi abbiamo iniziato, ed è un’esperienza – la parte più innovativa e forse unica della Piazza dei Mestieri -, pensando che a ogni attività educativa corrispondesse un’attività produttiva vera, che operasse veramente sul mercato. Per questo in Piazza c’è un ristorante, che è un normale ristorante, un pub, c’è una tipografia che vende al pubblico. I prodotti della Piazza dei Mestieri sono venduti normalmente nei canali di distribuzione, perché i ragazzi possano, durante il percorso educativo, fare veramente un’esperienza di lavoro, oltre a quella normale, dello stage. E’ quella che abbiamo chiamato la via italiana al sistema duale, un termine ormai diventato noto e usato anche istituzionalmente. Questo in Italia è decisivo perché la dimensione delle imprese è molto piccola, perché la cultura dell’alternanza è molto giovane e noi abbiamo bisogno che dentro gli ambiti educativi si possa fare esperienza di lavoro. Lo abbiamo fatto attivando reti, cioè cercando di coinvolgere tutto il territorio con tutte le scuole, prima a Torino e poi a Catania, con i soggetti che operano in modo particolare sul sociale con le imprese piccole – oltre 700 collaborano per le attività formative -, e con le imprese grandi sul tema della responsabilità sociale d’impresa, con il territorio e con le istituzioni del territorio.
E quindi, torno al punto che ho lasciato in sospeso prima: tutte queste esperienze – dalla Piazza dei Mestieri alle tante altre bellissime esperienze che ho seguito in questi anni, penso alle esperienze lombarde, il Consorzio Scuola-lavoro, gli amici di Cometa, di Aslam, di Galdus, penso anche alle esperienze eroiche del meridione, ad altre realtà come quelle del mondo salesiano, delle ACLI (saluto la nostra amica Paola Vacchina, Presidente nazionale di FORMAT, che raggruppa tutti gli enti di formazione professionale in Italia) – veramente ci provano, sono tanti punti di eccellenza. Ma, se emergenza è, c’è bisogno che le istituzioni si mettano in campo. E mettersi in campo vuole dire investire veramente nei sistemi educativi: bisogna che ci siano risorse investite nei sistemi educativi, bisogna che ci sia valutazione e bisogna che ci sia merito, affinché non siano sprecate e siano utilizzate. Bisogna che valorizziamo la tradizione, i mestieri e anche i mestieri innovativi. Guardate, parlano tutti del mondo 4.0, ma il mondo 4.0 creerà molte opportunità di occupazione se si sarà correttamente investito con tutti i sistemi educativi.
Poi c’è l’amico Maurizio Del Conte: speriamo che si apra in Italia, dove non si è mai aperto veramente, salvo alcuni casi regionali, il grande tema delle politiche attive, il grande tema dell’accompagnamento e dell’inserimento sul mercato del lavoro, perché solo questo porterà a compimento i tentativi, interessanti per certi aspetti ma ancora del tutto incompleti, del tema della Buona Scuola e del Jobs Act. Quello che quest’anno lancerei da questo palco del Meeting, è un grande Piano Marshall del nostro Paese sull’educazione e sul lavoro, che veda veramente tutti noi, a tutti i livelli istituzionali e imprenditoriali, impegnati: su questo ci giochiamo il futuro, la stessa possibilità di sviluppo, di competitività del nostro Paese. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, Dario. Torneremo dopo su due aspetti di quello che hai detto. Ascoltiamo adesso la testimonianza di una grande impresa, Autostrade per l’Italia che gestisce il pedaggio in Italia, Brasile, Cile, India e Polonia. Ha circa 7.000 dipendenti, se non di più. Però, la cosa che volevo sottolineare è un aspetto importante, in questo momento è uno dei più grandi investitori europei. Stanno investendo circa 22 miliardi di euro nello sviluppo della rete autostradale. Dico questo perché per creare occupazione bisogna investire e quindi rendere il Paese interessante per gli investimenti è una condizione fondamentale per creare occupazione. Perché qualunque giovane può essere molto preparato ma se non ci sono aziende che hanno posti di lavoro da offrire il sistema non funzionerà mai. Una economia buona è un bene per ognuno: lavorare bene, relazionare bene le imprese tra loro è un servizio anche ai giovani che cercano lavoro. Se no, entriamo nel dualismo di un business che da un certo punto di vista è sempre un po’ sporco: dobbiamo occuparci dei giovani. Sono due cose che vanno insieme. Fare bene un impresa, farla crescere bene, svilupparla bene è un bene per tutti. Fabio Cerchiai ha fatto una carriera che lo ha portato alla presidenza di diverse realtà, Assitalia, l’associazione Ania, UnipolSai: una carriera interessante perché ha cominciato facendo il “porta a porta” nelle Generali. Ascoltarlo sarà interessante perché è uno che ha cominciato, per così dire, dal basso, dal marciapiede, uno che incontrava le persone bussando alle porte, e che ha fatto tutto il percorso fino ai vertici di grandi aziende italiane. Cosa fa una grande azienda come Autostrade per sviluppare il talento di un giovane che cerca di lavorare bene?

FABIO CERCHIAI:
Sinceramente credo che lo faccia per il giovane, per sviluppare il suo talento e i talenti di coloro che lavorano nell’azienda, ma anche per se stessa: mi permetto di fare delle riflessioni come uomo di impresa, partendo da quello che è il filo conduttore della nostra grande manifestazione: “Tu sei un bene per me”. Ecco, da uomo di impresa, non da personaggio con sensibilità etica, mi sento di affermare che può essere il sottofondo, se non addirittura il punto centrale, della riflessione che un’azienda non può non fare, se vuole essere un’azienda di successo, se vuole essere un’azienda solida e durare nel tempo, nei confronti di tutti coloro che costituiscono il capitale dell’azienda, che non è fatto solo di risorse finanziare. È fatto, ancora prima e ancor più, di risorse finanziarie, di quello che si chiama capitale umano. Tutti sappiamo che il capitale richiede investimento, cioè capacità di rigenerazione, e non può esserci mantenimento e sviluppo del capitale umano di un’impresa solo con efficienti corsi di formazione o addestramento. Deve per forza passare anche attraverso il ricambio generazionale, che dà vitalità all’azienda: l’indicatore di vitalità è proprio la capacità per l’azienda di continuare a generare opportunità di lavoro favorendo anche l’ingresso dei giovani. È in pratica, ed in sostanza, in sintesi, riuscire a creare non soltanto un soggetto industriale vincente nella sua dinamica competitiva con le altre aziende concorrenti, ma anche un luogo in cui tutti insieme coloro che ci lavorano dentro, respirino un insieme di valori. Ho la fortuna di aver sempre potuto operare, anche da venditore “porta a porta”, in aziende che avevano un forte convincimento dell’importanza dei valori insieme all’importanza dei capitali, all’esigenza chiarissima di dover contribuire o comunque avere profitto. Non rifuggo dalla parola base del capitalismo aziendale. Dico quello che mi ha insegnato tanti anni fa all’università il mio mitico professore di economia aziendale: l’azienda di successo non è quella che massimizza profitto, è quella che lo ottimizza, cioè lo rende durevole nel tempo e compatibile con la crescita in azienda di un sistema di valori che ne garantiscono la capacità di tenuta nel tempo.
Cito una cosa che mi è capitata pochissimi minuti fa. Venendo a Rimini, mi ha raggiuto una mail della mia segretaria che mi trasmetteva la risposta che aveva dato a un nostro collega, ad un nostro collaboratore del tronco autostradale di Bologna, il quale diceva: “So che il Presidente oggi va al Meeting. Veda di ricordagli che 50 anni fa, alla vigilia di Ferragosto, è stato inaugurato il casello di Rimini Sud che ha consentito l’accesso di Bologna al mare”. Perché cito questa cosa? Perché, secondo me, è una testimonianza (e le testimonianze sono importanti) dell’aver creato in azienda un valore: un collega che non conosco neanche di nome ha sentito il desiderio che, in occasione di un intervento del suo Presidente, che lui non conosce se non in fotografia, ci si ricordasse quello che ha fatto la società Autostrade. Questo significa che l’azienda ha una sua vitalità, e questa vitalità è quella che ha permesso alle aziende di continuare a svilupparsi anche in epoche sicuramente difficili. Diceva prima Scholz, diceva prima anche Odifreddi, per un altro aspetto: è evidente che senza investimenti, senza un’economia che riprenda slancio, è difficile creare occupazione. È praticamente impossibile. Però io non credo che l’atteggiamento dell’impresa possa e debba essere quello di aspettare che arrivi la manna dell’intervento legislativo, piuttosto dell’occasione o dell’opportunità. Credo in un sistema di responsabilità comune tra aziende, Governo, responsabili, politici e social, che porta obbiettivamente l’interesse comune, attraverso cui l’azienda è veicolata su un driver di interesse, quello di mantenere e sviluppare l’occupazione. L’unica cosa che non ho mai fatto nella mia vita di manager aziendale è vedere migliorare i risultati aziendali riducendo l’occupazione. Perché obbiettivamente credo che il mantenimento di un certo clima sia un vantaggio economico, un vantaggio competitivo.
Allora, in questa responsabilità comune, pubblico e privato, Governo inteso in senso lato, politica e azienda, dobbiamo cercare di sviluppare, per quanto riguarda il Governo, un contesto educativo e legislativo favorevole. Lo ricordava Odifreddi prima, l’importanza di percorsi e di sistemi educativi che abbiano come missione predefinita il cercare di favorire l’occupazione, e quindi una predefinita mission occupazionale che si raggiunge attraverso vari strumenti quali l’apprendistato, il tirocinio, la compartecipazione dell’azienda allo sviluppo delle possibilità occupazionali. E in questa linea direttrice, il Gruppo che provvisoriamente presiedo ha fatto molto perché ha ritenuto che per questa strada si potesse diventare ancor di più un gruppo di successo. Pochi numeri, perché i numeri annoiano. Noi eravamo 5.250 dieci anni fa, siamo 14.500 oggi, nonostante gli anni di crisi, con una crescita interna, sviluppo della società Autostrade, ed esterna: acquisizioni, aggregazioni, Aeroporti di Roma. Pochi giorni fa, abbiamo vinto una gara, con nostra stessa sorpresa, perché dicono che in Francia non si vince mai, aggiudicandoci l’aeroporto di Nizza e della Costa Azzurra, con un piano industriale che è un piano di sviluppo, è un piano che fonda lo sviluppo, non tanto e soltanto sul capitale finanziario quanto della capacità aziendale del servizio e quindi del capitale umano che è il capitale che genera questo tipo di risultati.
Ecco, io penso che il legislatore possa fare molto, che stia facendo qualcosa ma che potrebbe fare anche di più: Jobs Act, la Buona Scuola, sono tutte iniziative che vanno nel senso giusto ma che potrebbero avere un’incisività ancora più efficace. Ma penso che anche le imprese possano fare e abbiano interesse a fare. Non tanto, non soltanto il dovere ma soprattutto l’interesse. Il gruppo Atlantia, con Autostrade per l’Italia e Aeroporti di Roma, lo sta facendo con successo e soprattutto con ritorno economico ed industriale da molti anni. Atlantia, per conoscenza, è un programma di partnership di varie istituzioni accademiche italiane, ha consentito in 5 anni l’erogazione di 180 borse di studio, più di un terzo delle quali si sono trasformate in assunzioni all’interno dell’azienda, e per gli altri due terzi in assunzioni in altre aziende. Quindi, danno comunque un contributo di tipo positivo. Tutto questo ha avuto un grosso sviluppo, da quando l’istituto del tirocinio è stato facilitato in termini legislativi: ci sono 276 giovani che negli ultimi tre anni hanno sviluppato un tirocinio in azienda, così come vi è un’intensa collaborazione con le scuole secondarie per favorire, soprattutto negli istituti Turistici e Aziendali, l’inserimento di giovani. E’ il caso di Roma, dove i diplomandi degli ultimi due anni degli istituti Turistici svolgono un’attività di ricevimento, accoglienza, informazione nei confronti dei 50 milioni di passeggeri che l’aeroporto di Roma registra.
Credo quindi che la possibilità di sviluppare il patrimonio umano di un’azienda sia enorme e che non si debba perdere nessuna possibilità per raggiungere questo risultato, sia facilitando l’inserimento dei giovani nelle aziende, quindi il ricambio generazionale, sia sviluppando le capacità che ci sono all’interno dell’azienda, e qui conta molto lo stile manageriale che è un’altra componente fondamentale. Noi abbiamo un Amministratore Delegato che dedica grande parte del suo tempo a incontrare e monitorare di continuo aspirazioni, problematiche e insoddisfazioni di alcuni giovani con potenziale: sono circa 140 i professional che sono stati individuati per un allevamento da vicino, in cui si cerca di costruire da subito i quadri manageriali di domani. Attenzione, sappiamo benissimo che, facendo questo percorso, prepariamo molti per andare a fare i manager in altre aziende, mano a mano che cresce la loro capacità e non trova spazi all’interno dell’azienda nella misura che loro si attendono. Inevitabilmente vanno altrove, ma questo non è negativo. E’ il ricambio: è come nell’organismo umano, al posto di questi ne arrivano altri e quindi è un ciclo continuo che bisogna favorire. Se si riesce a realizzarlo in termini positivi, corrisponde non soltanto a un dovere etico ma a un vero e proprio interesse economico e industriale. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie a Fabio Cerchiai. In una delle prime interviste che sono state fatte a Maurizio Del Conte, il giornalista ha detto: “Non ci è mai riuscito nessuno a creare un sistema efficiente per aiutare chi è disoccupato o perde il posto di lavoro a trovare un nuovo impiego”. Possiamo dire che è un’affermazione cinica, ma può anche essere una sfida perché l’ANPAL, questa Agenzia Nazionale delle Politiche Attive del Lavoro è stata prevista con il Jobs Act e ha cominciato ad operare: quale sarà il compito e quali sono le speranze che accompagnano questa Agenzia? Grazie.

MAURIZIO DEL CONTE:
Innanzitutto ringrazio davvero per questo invito. Sono un po’ emozionato ma sono anche molto contento di poter parlare a questa platea che so essere costituita soprattutto da giovani, quindi dal futuro del lavoro nel nostro Paese. La domanda naturalmente me la sono posta anch’io e la risposta me la do soprattutto sulla base di un convincimento, che i tempi sono cambiati rispetto al passato. Io non credo che nel passato lo Stato abbia mai davvero investito con convinzione nelle cosiddette politiche di attivazione verso una nuova occupazione, per la semplice ragione che nel passato noi intendevamo, o abbiamo inteso la protezione del lavoro come la protezione all’interno del rapporto di lavoro, cioè come il rimanere attaccati a un contratto di lavoro. E nel caso in cui sventuratamente questo contratto di lavoro si fosse sciolto per mille ragioni, prima fra le quali evidentemente una crisi, una riduzione del personale, la soluzione non era quella di trovare un altro lavoro ma di sostenere il reddito del disoccupato possibilmente portandolo fino alla pensione. Questo era lo schema nel quale abbiamo inteso affrontare il problema lavoro e il problema soprattutto della disoccupazione. Tutta la struttura era in fondo costruita su questa filosofia, che per certi aspetti ha garantito in passato un equilibrio del sistema, ma che oggi non è più in grado di garantire il medesimo equilibrio, fondamentalmente per due ragioni: la prima è che l’economia è cambiata, il modo di produrre è cambiato, i mercati sono cambiati e la protezione all’interno dei contratti di lavoro è una protezione illusoria. I giovani lo sanno molto meglio di noi, sanno benissimo che la loro carriera lavorativa sarà composta da una pluralità di contratti di lavoro, da una pluralità di fasi di lavoro. Quello che importa quindi non è attaccarsi a un posto di lavoro e portarselo dietro fino alla pensione, ma è la garanzia di poter passare da un posto di lavoro all’altro senza dover ricorrere alla consueta arma italiana della raccomandazione.
Perché non dovrebbe valere anche per il futuro questo metodo della raccomandazione? Perché in questo mondo così complesso, in questo mondo dove non ci si può permettere nemmeno il lusso di prendersi il raccomandato improduttivo, o abbiamo un sistema, un mercato, efficiente, in grado di prendere per il merito e quindi di far fruttare il valore del capitale umano, di cui si è detto poco fa – il Presidente Cerchiai lo ha più volte sottolineato -, oppure si fallisce. Questo vale nel pubblico e vale nel privato e questa è, a mio modo di vedere, un’evoluzione irreversibile, così come è impensabile che si vada verso un futuro in cui lo Stato potrà farsi carico del numero di disoccupati parcheggiati, inattivi nel sistema di protezione sociale, di ammortizzatori sociali ai quali era abituato nel passato. Non ci sono le risorse.
Ci sono quindi due dati strutturali che a mio modo di vedere fanno leggere quella domanda – come mai non è stato possibile farlo fino ad oggi e come potrebbe essere possibile in futuro – e ci pongono davanti a questa sfida nuova. Non possiamo non ragionare in questa prospettiva. Certo, possiamo anche fallire, se non saremo in grado di interpretare e di essere all’altezza di questa sfida. Il sistema, così come lo abbiamo immaginato nella riforma e così come lo vediamo ormai applicato in altri Paesi europei, in quelli che hanno saputo anticipare la sfida delle politiche attive rispetto a noi, è a un rischio fallimento che sarebbe insostenibile per il nostro Paese. Quindi, è una sfida che non possiamo permetterci di non raccogliere e di non vincere. Purtroppo, non è l’unica intervista quella a cui alludeva prima Scholz a proposito dell’ANPAL: devo dire che spesso i giornalisti mi dicono “sì, sì, va bene ma ce lo siamo già sentiti dire tante volte, perché dovremmo immaginare che non sarà un ennesimo fallimento?”. Io credo che ci siano oggi le condizioni culturali per capire il cambiamento e ci sia, lo sento da parte delle istituzioni territoriali ma anche delle imprese, la sensibilità rispetto a questo cambiamento. L’ANPAL, della quale sono, anch’io molto temporaneamente, il Presidente, è in fondo il risultato ultimo di questo progresso di pensiero, cioè l’idea che si debba creare una casa comune, nazionale, dove far confluire tutte quelle esperienze che sono maturate nei territori e dove si devono valorizzare le esperienze migliori per poterle rendere sistema su tutto il territorio nazionale. E’ esattamente il frutto di una consapevolezza, che o ci si porta ai livelli delle esperienze migliori su tutto il territorio nazionale, oppure una Italia a macchia di leopardo non è in grado di far tornare i conti nel complesso.
Noi siamo una Nazione inserita in un sistema europeo, che è inserito in un sistema di produzione e di commercio globale, non possiamo più permetterci il lusso di avere delle sacche di inefficienza come abbiamo purtroppo nel nostro Paese, in molti territori, proprio nei servizi che si danno ai disoccupati e alle imprese che ricercano lavoro. Perché noi pensiamo sempre al lato della cosiddetta offerta, cioè del lavoratore che cerca un posto di lavoro e non lo trova, ma guardate che c’è un grossissimo problema anche dal lato della domanda, cioè dell’impresa che cerca una professionalità e non la trova. È paradossale come in anni di drammatica crisi occupazionale – sono state ricordate prima alcune cifre – ci siano decine di migliaia di richieste di lavoro che non riescono ad essere evase nel nostro Paese, perché le imprese non trovano le professionalità. Non le vedono perché noi, molto banalmente, non abbiamo un sistema di circolazione delle informazioni sul mercato del lavoro nazionale, abbiamo un sistema frammentato per territori, le nostre imprese non vanno al di là dei confini regionali, con situazioni tra l’altro che talvolta vedono i confini della regione a qualche chilometro di distanza dall’impresa, eppure quell’impresa non sa che cosa succede al di là del virtuale confine regionale, per non parlare poi di aree. Purtroppo qui dobbiamo fare i conti con aree che soffrono già drammaticamente di un problema di sviluppo economico, come quelle meridionali, dove non solo non c’è l’economia reale, quindi non c’è la domanda, ma quella poca domanda che c’è non riesce ad essere espressa e ad essere visibile. L’idea dell’Agenzia, quindi, è molto semplice, è l’alleggerimento di un pezzo del Ministero che si sfila dalla struttura ministeriale, e soprattutto è la creazione di un sistema rete con soggetti che già esistono ma che devono essere valorizzati su tutto il territorio nazionale. Quindi, si parte certamente dalla rete dei servizi per l’impiego, i vecchi uffici di collocamento, tanto per intenderci, che devono essere riorientati proprio in questa funzione di andare ad intercettare le imprese e i lavoratori e a metterli in contatto, ma anche i soggetti privati, che numericamente sono più consistenti dei soggetti pubblici, che hanno una potenzialità enorme su tutto il territorio e che (dopo di me parlerà il presidente Maroni, che conosce benissimo questo modello, perché la Lombardia l’ha sperimentato da tempo) possono perfettamente integrarsi con il pubblico per dare più servizi, per dare più qualità, per dare più velocità di risposta a chi cerca e a chi offre lavoro.
L’Agenzia è l’idea di dare un riflesso nazionale alle esperienze migliori, ma soprattutto di creare un sistema che non lasci indietro nessuno, un sistema nel quale ciascuno è chiamato a svolgere il suo pezzo, ma per la prima volta non è lasciato da solo. Io credo che se riusciremo a creare questa rete, a partire, banalmente ma non così tanto, dalla infrastruttura informativa di cui il nostro Paese parla da circa vent’anni, ma che ancora non è stata realizzata, se noi riusciremo a creare questa rete, faremo un passo di modernizzazione del Paese straordinario. E credo che tra qualche anno potremo finalmente parlare di un mercato del lavoro che non ha niente di straordinario ma che è allineato alle migliori esperienze europee, in grado di competere e di portare le nostre imprese e i nostri lavoratori a potersi spendere con tutte le competenze che hanno, grazie anche ad un sistema che valorizza la formazione più di quanto non sia stato fatto fino adesso, e l’incontro tra la formazione e l’impresa più di quanto non sia stato fatto fino adesso, in modo da competere finalmente sul valore aggiunto, che l’unico modo con il quale un Paese sviluppato come il nostro può competere in un mercato globale, lasciandoci alle spalle finalmente per sempre quella tentazione di competere invece sul ribasso del costo dl lavoro, che è esattamente la via del declino del nostro Paese. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, professor Del Conte. Il presidente Roberto Maroni è stato dal 2001 al 2006 Ministro del Lavoro: durante questo mandato, è stata portata a compimento una delle grandi riforme delle normative del lavoro che è la famosa legge Biagi, quindi, quando è entrato nella Presidenza della Regione, nel 2013, aveva competenza e sensibilità già molto evolute rispetto a questi temi. Si parla del modello Lombardia, però ci sono due modi di intendere un modello: un modello che per forza deve essere applicato da altri o un modello che ha una valenza di confronto, di best practice, con il quale fare i conti per comprendere forse anche meglio la situazione. Questo tra l’altro vale, visto che Dario Odifreddi ne ha parlato, per il sistema duale: non possiamo prendere un modello di altri Paesi e introdurlo in Italia tout court. Ogni realtà deve trovare la sua modalità. Però penso che un confronto, un paragone sia utilissimo per scoprire in sé le proprie risorse migliori, per sviluppare la risposta al bisogno che c’è.

ROBERTO MARONI:
Grazie, sono molto legato a quella esperienza di Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Ricordo che proprio nell’agosto del 2001 venni invitato per la prima volta al Meeting come Ministro. Non avevamo ancora fatto la legge Biagi che è del 2003, Marco Biagi era già al lavoro e a novembre di quell’anno venne presentato il Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Era un’epoca completamente diversa. L’anno prima era stata fatta la riforma del Titolo V che stabiliva una competenza delle Regioni in materia di politica del lavoro, di politiche attive del lavoro, ma le politiche attive del lavoro, questo filone fondamentale per l’occupazione, erano assolutamente sconosciute. C’erano gli uffici di collocamento, c’era la burocrazia, c’erano le politiche passive del lavoro che funzionavano, ma si incominciò allora, tra il 2001 e il 2003, a studiare i sistemi, le iniziative per rendere le politiche del lavoro appunto attive, per aiutare i giovani a entrare nel mercato del lavoro, rendendo l’ingresso più flessibile attraverso i contratti a termine, attraverso contratti che poi sono stati modificati nel tempo. Ma l’obiettivo era quello, consentire l’aumento dell’occupazione femminine nel mercato del lavoro e consentire ai lavoratori anziani, pardon, ai lavoratori cosiddetti anziani, perché a 55 anni non si è certo anziani, di entrare e riprendere il lavoro dopo che erano stati espulsi per crisi aziendali, ecc. Da allora sono passati 15 anni e la domanda è: ha funzionato il sistema regionalizzato? Le Regioni hanno lavorato bene in questa direzione? Mi permetto di parzialmente dissentire con Maurizio Del Conte, quando dice non esistono le politiche attive del lavoro, non hanno affatto funzionato. Non è che sono in polemica con lui, ho messo anche la stessa giacca per dire che sono pronto a collaborare con la nuova Agenzia Nazionale, poi dirò quali sono i rischi. Non è vero che non hanno funzionato, hanno funzionato in alcune aree e in altre no: e io sono orgoglioso di dire che in Lombardia hanno funzionato, non lo dico per merito mio, io sono qui dal 2013, chi è venuto prima di me, dal 2003 in avanti, le ha fatte funzionare. E quando dico che il modello lombardo funziona, non lo dico perché sono Governatore della Lombardia, lo dico sulla base dei numeri, dei risultati. Le politiche attive del lavoro si possono misurare, come nelle aziende che, se funzionano, i risultati sono positivi, se i risultati sono negativi vuol dire che non funzionano. E in Lombardia funzionano, ho portato 3 slides da far vedere: questa è la prima, la disoccupazione giovanile. Ecco qua, in Italia il dato è del 40,3%, in Lombardia del 32,3%. I NEET, di cui si è parlato, in Italia sono stati il 25,6% in 9 anni, in Lombardia il 18,7%. Il tasso di abbandono scolastico in Italia è del 15%, in Lombardia del 12,9%.
Questi sono i risultati ad oggi, vuole dire che abbiamo lavorato bene, che il modello lombardo funziona. Su cosa si basa il modello lombardo? Su una serie di misure, di iniziative, di investimenti delle politiche attive del lavoro che sono un’azione congiunta non solo dell’assessore Valentina Aprea, naturalmente, ma della leale collaborazione tra la Regione, il Governo e l’Unione Europea. Abbiamo inventato un modello determinante nel far funzionare le politiche attive del lavoro: io ho dato all’assessore Aprea due deleghe, quella della formazione della scuola e quella del lavoro, per creare proprio il collegamento, quel sistema duale di cui parlava Dario Odifreddi che è il segreto del successo delle politiche attive del lavoro. Perché può funzionare? Ci deve essere una politica che deve andare bene al giovane studente e deve andare bene all’impresa presso cui il giovane studente poi, quando ha finito di studiare, andrà a lavorare. E questo funziona attraverso il metodo del sistema duale: durante lo studio lo studente va a lavorare nell’impresa. Si crea quel collegamento che consentirà poi alle imprese di assumerlo quando finisce la scuola di formazione professionale. È soddisfatto lo studente, è soddisfatta l’impresa, questo è il metodo che noi utilizziamo e che sta funzionando: Istruzione e Formazione tecnica superiore.
La slide successiva. E’ la sintesi delle azioni che facciamo: triplicati i percorsi formativi in 3 anni; 3 giovani su 4 hanno trovato un impiego entro 12 mesi dalla fine del corso; 9 imprese su 10 si sono dichiarate soddisfatte dalla preparazione dei neoassunti. Questo è fondamentale, perché sennò l’impresa, come ha detto Fabio Cerchiai, ne prende uno e dice: vabbè, tu che cosa hai fatto? Hai solo studiato? Dopo di che, ti devo insegnare a lavorare. Questo lo facciamo noi attraverso le politiche attive. 9 imprese su 10 sono soddisfatte della preparazione dei neoassunti. Vuol dire che la scuola forma bene ma che anche il sistema che noi usiamo – l’integrazione tra scuola e lavoro – crea questo livello di soddisfazione e questo vuole dire che i giovani trovano lavoro più facilmente.
Il modello lombardo di cui si è parlato: l’elemento fondamentale è quello della sussidiarietà. È uscito questo tavolo e io lo voglio sottolineare perché è un elemento che contraddistingue il modello lombardo e su cui temo che le politiche e i progetti che sono nella mente del Governo rischiano di fare danni. Mi ha fatto piacere sentire da Del Conte che il mondo privato sarà valorizzato. Non vorrei che questa Riforma costituzionale, su cui saremo chiamati a votare, referendum e tutte le iniziative in corso, crei a Roma un sistema che vede solo nel pubblico, nel sistema pubblico, il motore per attuare le politiche attive del lavoro. Sarebbe un ritorno al passato e soprattutto sarebbe un sistema che non può funzionare. La sussidiarietà, cioè la rete integrata di operatori pubblici e privati accreditati, è il pilastro fondamentale del modello lombardo che funziona. Privati accreditati, cioè valutati. Gente seria, strutture, imprese serie, che lavorano seriamente, messe in competizione tra di loro e messe in competizione col sistema pubblico che deve recuperare efficienza. Non può vivere di rendita, il sistema pubblico. Deve essere messo in competizione ma questa integrazione è fondamentale. Mi raccomando, Presidente, l’integrazione pubblico-privato è fondamentale.
L’ultima slide. Le due misure su cui abbiamo investito, anticipando anche le misure messe in atto poi dal Governo – ogni tanto il Ministro del Lavoro ci telefona: “Ah, mi è venuta questa idea, questa nuova iniziativa…”. E Valentina Aprea risponde quasi sempre: “Ah, guarda che noi l’abbiamo già fatta quindi ti posso dire se funziona o non funziona…” -,
la Dote unica Lavoro e Garanzia Giovani, su cui abbiamo messo tante risorse. Su Dote unica Lavoro abbiamo messo 200 milioni di euro, 110 dei quali dalla regione Lombardia; per Garanzia Giovani, 52 milioni di euro che sono il 35% della dotazione finanziaria nazionale di 178 milioni di euro. Con questo, non pretendo che il modello lombardo debba essere il modello nazionale. E’ una richiesta e una preoccupazione. La preoccupazione è, come ho detto prima, che questa riforma riporti tutto il tema delle politiche attive del lavoro ad una Agenzia nazionale – stavo per dire romana -, lo dico per esperienza, avendo fatto il Ministro dell’Interno e il Ministro del Lavoro prima: le agenzie nazionali che hanno sede a Roma rischiano di perdere di vista la prospettiva del territorio che è fatto di tante diversità. Il nord, la Lombardia, ha delle specificità che sono diverse rispetto a quelle che ci sono in Sicilia. Non dico che è meglio la Lombardia della Sicilia, me ne guardo bene, ma se non si tiene conto di queste diversità, che cosa succede? Si fa uno standard, una misura univoca per tutti che non funziona e soprattutto danneggia le Regioni che sono più avanzate da questo punto di vista, come la Lombardia. Ci frena, ci mette dei vincoli. Questo è il rischio e la richiesta che faccio è in linea con quello che ha detto il presidente dell’ANPAL, e cioè le buone pratiche.
Riflesso: l’Agenzia deve fare da riflesso nazionale alle esperienza migliori. Me la sono segnata questa frase. Riflesso nazionale delle esperienze migliori. Questo va bene, le buone pratiche, andare a prendere in ogni Regione quelle che sono le migliori pratiche, le buone esperienze ed estenderle, attraverso un sistema anche dei costi standard e attraversando il sistema della premialità. Tu lavori bene, ti premio, tu lavori male e interviene anche l’Agenzia, in sostituzione di quello che tu non riesci a fare come Regione. Se sarà così, funzionerà e noi saremo pronti a collaborare perché abbiamo tante buone esperienze, buone pratiche. Non pretendo che siano tutte da noi, ce ne sono tante in tante altre regioni, ma se è questo il metodo, allora ben venga l’Agenzia nazionale. Mi auguro che sia così, perché il ruolo delle Regioni, dei territori è fondamentale.
Concludo dicendo che è vero, la regionalizzazione ha creato anche problemi. 21 mercati del lavoro non sono una buona cosa per gli investitori esteri. Se scopo dell’Agenzia sarà creare un sistema omogeneo senza penalizzare le buone pratiche, allora funzionerà. Tu hai detto, Presidente: “C’è un’Italia a macchia di leopardo”. Spero che non sia un riflesso su qualche cosa che abbiamo sentito, tipo “smacchiare il giaguaro” o qualche cosa del genere, perché allora è meglio lasciar perdere. L’Italia a macchia di leopardo, valorizzare le diversità, le differenze che sono una ricchezza, creando un sistema che attrae investimenti dall’estero. Se questo è l’obiettivo e la finalità, la Lombardia c’è. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Mi permetto di fare una domanda brevissima ad ognuno dei partecipanti, che mi diano una risposta brevissima. Dario Odifreddi, il sistema della formazione professionale che tu rappresenti è in grado di valorizzare le diversità tenendo conto delle aziende che hanno collocamenti molto diversi, culturalmente e territorialmente?

DARIO ODIFREDDI:
E’ sinteticissima la risposta: sì, e qui non è la Piazza dei Mestieri ma il sistema della formazione professionale italiana. E’ certificato da tutti gli studi, penso agli studi dell’ISFOL: in questi anni è cresciuto enormemente il numero di ragazzi che si è rivolto al sistema della formazione professionale per trovare una strada. Io mi ricordo quando è nata la famosa legge Moratti del 2003, quando iniziava la formazione professionale. Tutti ci dicevano: non funzionerà mai perché c’è quella cosa che gli esperti chiamano asimmetria informativa. Le famiglie non manderanno mai un figlio alla formazione professionale. La storia ha dimostrato che non è vero, che è una cosa che funziona e che dà risposte, ha bisogno di tempo. Sono passati ormai più di dieci anni da quell’inizio ma funziona, per le famiglie è una risposta. Anzi, la domanda delle famiglie è molto più ampia delle risorse che sono disponibili. Se noi vogliamo vincere la sfida, torno al tema dei giovani che è decisivo, non solo perché è giusto il futuro dei giovani e dei nostri figli, è giusto perché è il problema di un Paese ma è decisivo proprio per il nostro Paese, per lo sviluppo di questo Paese. Se vogliamo farlo, dobbiamo avere una pluralità di strumenti in campo educativo: uno degli strumenti importanti in campo educativo è la formazione professionale. Questo mi pare oggi, anche nei tentativi pur buoni, per certi versi – penso alla Buona Scuola -, ancora sottovalutato. Credo che su questo dobbiamo veramente concentrare i nostri sforzi.
La risposta è si, è un pezzo di questo, la scuola è un pezzo di questo, la scuola paritaria è un altro pezzo, dobbiamo mettere insieme tutto questo perché sennò questa sfida non si vince, perché noi possiamo fare i sistemi anche del mercato del lavoro ma se perdiamo i giovani nel momento della loro massima espressività, perdiamo non solo la possibilità del loro inserimento ma del nostro successo.

BERNHARD SCHOLZ:
Fabio Cerchiai, come abbiamo detto, lei ha fatto proprio la gavetta, cogliendo in tempi molto diversi le opportunità, con tutte le fatiche che questo comporta. Quali sono oggi le fatiche e le opportunità per un giovane così come lei le vede dal suo osservatorio?

FABIO CERCHIAI:
Non sono molto diverse, a mio giudizio, di quello che erano ieri. C’è un’accentuazione di competizione, perché la qualità media dei giovani è medio-alta e quindi emerge al di sopra di certi livelli e significa non solo avere delle capacità ma mettere queste capacità al servizio delle opportunità. Le opportunità bisogna andarle a cercare. L’azienda individuale, singola, ha interesse a fornirle, però obiettivamente non ha illimitata capacità di offerta, e quindi ci vuole anche disponibilità a muoversi, l’importanza delle lingue, il lavoro all’estero, la ricerca su più mercati, l’esperienza di formazione anche professionale. Quindi, credo che le opportunità indubbiamente ci siano. È ovvio che il contesto economico continui ad avere un’importanza fondamentale. Se mancano – nel mio intervento di prima ho sottolineato quanto è importante il capitale umano -, manca una condizione necessaria. Se manca una singola azienda, c’è un’altra azienda, se manca il sistema Paese manca la possibilità di emergere e di vincere.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Professore Del Conte, sono stimati circa 200, 250 mila posti di lavoro che in questo momento non sono occupati e le persone che li potrebbero coprire non sanno di questa opportunità. Questo è solo uno dei tanti problemi di mismatch che abbiamo nella correlazione tra domanda e offerta. Domanda proprio terra terra: quando possiamo sperare, proprio in termini di tempo, di mesi, di arrivare a un sistema formativo che cominci a ridurre sensibilmente questi problemi?

MAURIZIO DEL CONTE:
E’ la nostra priorità, nel senso che il sistema informativo è la precondizione per far funzionare il disegno previsto dal Decreto legislativo 150. Noi stiamo lavorando, pur nella complessità, alla quale sono stato proiettato, di un Ministero, di un pezzo di Ministero che tra l’altro sta subendo una riorganizzazione perché, come dicevo prima, c’è stato questo distacco e quindi anche tutta una serie di complessità legate proprio al supporto informatico. Ma se dovessi dare un cronoprogramma, direi che sicuramente entro l’autunno avremo già un sistema informativo nel quale corrono una serie di banche dati che oggi non si parlano fra di loro.
Faccio solo un esempio: la banca dati percettori degli ammortizzatori sociali, tanto per intenderci. La NASpl, che sta all’INPS, oggi non è collegata con le banche dati che stanno nei centri per l’impiego, e quindi nei centri che stanno nelle province e nelle regioni. Il che significa che nelle province e nelle regioni non sanno chi percepisce la NASpl, o se lo sanno è perché manualmente ogni mattino si scaricano l file con degli accrocchi informatici “fai da te”. Quindi, questo tipo di infrastruttura è fondamentale, noi stiamo lavorando innanzitutto su questo: la costruzione di un’infrastruttura dell’informazione è un obiettivo primario. È inutile stare a parlare di tante chiacchiere se prima non abbiamo le basi e quindi spero davvero che in questi mesi che ci separano da Natale, avremo delle risposte concrete.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Presidente Maroni, noi abbiamo un doppio problema: da una parte una diffidenza verso il privato, dall’altra l’inefficienza del pubblico. La diffidenza rispetto al privato la lasciamo ad altri incontri. Possiamo sperare che gli apparati burocratici regionali, che ne hanno un po’ meno ma dipende anche dalle regioni, e quelli statali, realmente diventino più efficaci, anche per essere più di aiuto alle imprese e di conseguenza ai giovani che vogliono lavorare. O dobbiamo andare avanti a ripetere come un mantra che bisogna de-burocratizzare, semplificare, e poi ce lo diciamo di Meeting in Meeting senza che cambi molto?

ROBERTO MARONI:
E’ una bella domanda cui è difficile dare una risposta. Per la prima parte, la risposta c’è. Il settore privato è per la regione Lombardia, non solo ma soprattutto, un protagonista delle politiche attive del lavoro, e quindi noi continueremo a investire in questa direzione. Non vuole dire favorire il privato contro il pubblico o una lotta tra pubblico e privato, non esiste. Per noi l’obiettivo è creare un sistema efficiente per dare lavoro ai giovani, per fare in modo che i giovani, non solo i giovani ma soprattutto i giovani, trovino un posto di lavoro stabile. Il sistema privato in Lombardia funziona bene, è una delle due gambe fondamentali, quindi continueremo a investire su questo e, come detto, mi auguro che le riforme che si stanno ipotizzando a Roma non penalizzino questo settore. Non funziona cosi in tutte le Regioni? Benissimo, venite a vedere, caro Governo, come funziona in Lombardia, estendete questo modello ovunque. Funziona e si risparmiano anche soldi.
Il pubblico: qui è difficile dare una risposta perché sono in corso una serie di riforme. Quando venne fatta la legge Treu, che cominciò a realizzare la riforma del mercato del lavoro, poi la legge Biagi, vennero cancellate le strutture pubbliche, gli uffici di collocamento e vennero creati i centri per l’impiego. I centri per l’impiego sono gestiti e sono stati gestiti principalmente dalle provincie. Ora, voi sapete che la legge Delrio ha cancellato le provincie, o meglio, le provincie ci sono ma non hanno più il budget per fare funzionare anche i centri per l’impiego. Vedremo cosa succede con la riforma costituzionale – perché se passa, le provincie sono proprio cancellate dalla Costituzione -, che cosa succederà ai centri per l’impiego provinciali? Non lo so perché non è scritto. Li prenderà in carico la regione, li prenderà in carico qualcun altro, li prenderà in carico l’Agenzia nazionale? Non si sa. Questo è il dubbio. Io mi auguro che il servizio pubblico possa funzionare. Dubito che oggi si possa dire: certamente funzionerà. A maggior ragione, bisogna evitare di penalizzare il settore privato. Il principio della sussidiarietà verticale e orizzontale va applicato fino in fondo. Non dobbiamo aver paura del privato, parlo del sistema privato accreditato, quello che noi verifichiamo ha certi requisiti di capacità, di correttezza, di lealtà e di onestà. Se sarà necessario investire ancora di più nel settore privato, io sono pronto a farlo, se il pubblico non funziona. Tutto possiamo fare tranne un sistema che torni al passato e penalizzi le politiche attive del lavoro.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Io penso che la responsabilità di chi è intervenuto dia coscienza anche del fatto che il giovane che non lavora non ha solo un problema materiale ma ha un problema esistenziale. Mi sono ricordato quando il Presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, ha letto il messaggio del Papa, con la frase che dice: “Siamo chiamati a prendere coscienza che innanzitutto l’insicurezza esistenziale ci fa avere paura dell’altro”. Una persona che non lavora, che non si forma, è una persona che esistenzialmente diventa sempre più fragile e quindi sempre più esposta a delle crisi esistenziali che diventano poi anche crisi sociali. E quindi, lavorare per il lavoro, impegnarsi responsabilmente per creare lavoro con tutto se stessi, con tutte le possibilità che abbiamo, secondo me è una cosa che riguarda sia i giovani in quanto tali che i singoli giovani che abbiamo davanti.
Ringrazio molto i quattro interventi, Fabio Cerchiai, Roberto Maroni, Maurizio Del Conte, Mario Odifreddi, e vi invito questa sera allo spettacolo Un solo canto. Cantano Tosca, Tania e Mirna Kassis, che tra l’altro non sono sorelle, sono di due Paesi diversi. E’ un bellissimo spettacolo alle 21.45. Alle 19 c’è invece l’incontro personale con loro previsto come “Aperitivo con”, nelle piscine Ovest. Prosegue anche – secondo avviso – la campagna di fundraising. Noi vogliamo veramente incoraggiarvi a sostenere questo Meeting come la possibilità dio un incontro, di un dialogo, di confronto, che aiuta noi, ognuno di noi che partecipa ma aiuta anche il sostegno di una società civile che vuole essere competente, che vuole assumersi le sue responsabilità per rendere migliore questo Paese. Grazie a voi tutti e buona serata.

Data

19 Agosto 2016

Ora

17:00

Edizione

2016
Categoria
Incontri