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L’INNOVAZIONE CHE MUOVE LA STORIA
Partecipano: Davide Benini, Fondatore di Solidarietà Intrapresa; Franco Nembrini, Fondatore de La Traccia. Introduce Gigi Gianola, Direttore Generale Cdo.
L’INNOVAZIONE CHE MUOVE LA STORIA
Ore: 12.30 Arena Cdo for Innovation A5/C5
L’INNOVAZIONE CHE MUOVE LA STORIA
Partecipano: Davide Benini, Fondatore di Solidarietà Intrapresa; Franco Nembrini, Fondatore de La Traccia. Introduce Gigi Gianola, Direttore Generale Cdo.
GIGI GIANOLA:
Buongiorno a tutti, ringrazio davvero i nostri attori che ancora una volta in chiave molto originale hanno interpretato il tema dell’innovazione. «C’è qualcosa di nuovo eppure di antico»: è la poesia di Pascoli, L’aquilone, che ci ha accompagnato durante tutta questa settimana. Abbiamo ospitato in questo spazio decine di incontri, abbiamo parlato di realtà virtuale, abbiamo parlato di innovazione sociale, di come cambiano i ragazzi e di come cambiamo e dobbiamo cambiare noi. Abbiamo ascoltato testimonianze di uomini e donne di impresa, di insegnanti, di manager, di presidi, di professionisti nel marketing e di persone che nella loro vita hanno acceso la scintilla del cambiamento. Insieme, abbiamo provato a ripercorrere il filo della storia. Oggi invece mi trovo qui, ci troviamo qui con due amici: Franco Nembrini, che accoglierei con un applauso, e Davide Benini. L’incontro di oggi, essendo anche uno degli ultimi incontri che faremo nella nostra arena, vuole richiamare anche il titolo del Meeting di quest’anno. Dicevo prima che durante questa settimana abbiamo cercato di riavvolgere il filo della storia e il titolo del Meeting, “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. Con loro mi interessava sapere innanzitutto quali sono le forze che hanno mosso la loro storia. Quindi, partirei subito, visto il tempo ristretto che abbiamo, con Davide Benini, proprio per capire cosa ti ha mosso con l’opera che hai fatto.
DAVIDE BENINI:
Io mi occupo di persone disabili, attualmente abbiamo duecento ragazzi fra strutture residenziali e diurne e attività occupazionali. Di questi duecento, 83 vivono in un complesso di case a Castiglione di Ravenna, dove tra l’altro risiedo anche io con la mia famiglia. Poi abbiamo un’attività industriale che, grazie anche al lavoro e al rapporto con alcuni professionisti che abbiamo incontrato in questi anni, si colloca al terzo posto nell’Europa del Sud. Forse fa sorridere il fatto che, insieme ai miei duecento disabili, facciamo tendenza sul mercato ma pare che sia così. In questo complesso residenziale, entro la fine dell’anno, partirà una struttura residenziale che ospiterà 24 minori: è il frutto di un cammino iniziato con un gruppo di giovani incontrato quasi per caso, una decina di anni fa. Con loro è nata un’amicizia che sta prendendo dentro tutto, la complessità della vita e il bisogno. Per tentare di rispondere alla domanda, mi vengono in mente tante cose: vorrei provare a descrivere brevemente come ho iniziato. Ho incontrato il movimento, la Chiesa, da ragazzino, sono sempre stato dentro, di fatto: ero giovanissimo ma avevo la smania di essere autonomo, di essere libero, di non dipendere, per cui ho iniziato a lavorare subito. Però non capivo che cosa c’entrasse quello che avevo incontrato, quella intuizione di bello, con quello che facevo. Nel corso degli anni, ho incontrato l’esperienza dei Centri di solidarietà: mi aveva entusiasmato pensare, intuire che quello che avevo visto me lo potevo giocare nella vita, che tutto il lavoro, anche quello meno simpatico, quello più pesante, poteva diventare un’opportunità. Questo ha cominciato a mettermi in moto, a farmi giocare dentro quello che facevo, tanto da cominciare ad avere voglia di fare impresa. L’amicizia che vivevo con alcuni di loro faceva crescere la mia voglia di creare un luogo dove dare forma a questa intuizione, alla promessa di compimento, dentro il lavoro, che percepivo. Il primo tentativo di impresa, una gelateria, è nato per questo, perché desideravo che ci fosse un luogo che respirasse di tutto quello che avevo visto. E quando la malattia, dopo pochi mesi che avevo aperto la gelateria, mi ha letteralmente steso, tanto che non potevo più continuare a fare quella roba lì, ricordo che non avevo il problema di che cosa sarei andato a fare dopo ma chiedevo al buon Dio: «Senti, mi va bene anche lavare i piatti, ma fai in modo che quello che ho intuito non venga meno». Lui poi mi ha ripagato con una roba che non sto ad entrarci, che non avrei mai immaginato ma che era corrispondente fino in fondo a quello che sono io.
GIGI GIANOLA:
Grazie, Franco.
FRANCO NEMBRINI:
Per amore di brevità, ho chiesto all’amico Gianola di far vedere un breve video che mi ha colpito tantissimo, in ordine alla questione che ha posto: cosa vuol dire oggi il problema educativo, tutta ‘sta storia? Ma prima dico una cosa che mi ha colpito adesso. Non sapevo che tu avessi avuto a che fare con una malattia che ti ha steso e dalla quale sei ripartito. Mi colpisce perché anche la mia storia è uguale. Avevo 45 anni, più o meno, quasi cinquanta, mi è venuta ‘sta malattia che non dormo, una cazzata, mica una malattia vera: non dormo e quindi ogni tanto ho degli svarioni. Perché andare a insegnare la mattina alle otto senza aver dormito, quando ti addormenti mentre l’alunno che interroghi parla, non va mica bene. Quindi, ho capito che non potevo più insegnare e mi sono improvvisato imprenditore. La grande scoperta che ho fatto è questa: che la crisi, la fatica, il limite, quello che sembra contraddire la felicità, è in realtà quello che la muove, il grande motore che muove la storia, parafrasando il titolo del Meeting; muove la storia di ciascuno, la storia del mondo verso un bene grande, imprevisto, inaspettato, per cui adesso faccio la vita più bella del mondo. Credo di essere l’unico essere della terra che vive una perfetta coincidenza tra piacere e dovere. Provate voi, mi saprete dire se è facile. Ho chiesto di far vedere questo filmato perché è dirompente, mi ha impressionato tantissimo e c’è tutto il dramma dell’educazione oggi e di che cosa sia l’innovazione oggi in campo educativo: è un filmato delle Iene, del 22 o 23 aprile di quest’anno, su un episodio di bullismo a Lucca, lo ricorderete. Preciso solo una cosa: io vi faccio vedere quel che hanno fatto vedere le Iene, questo è un incontro pubblico, non vorrei che il Ministro mi dicesse: «Guardate che io avevo detto anche delle cose intelligenti!». Certo che avrà detto anche altro, in questo spaccato però mi sembra che emerga una grande verità che volevo farvi rilevare. Via.
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Puoi fermare un attimo, regia? Voglio solo dire questo: l’episodio è veramente bruttissimo, da condannare. Quello che mi ha folgorato, e non voglio assolutamente dire male né del Ministro, né del Provveditore o del Preside, è il fatto che si tratta di uno spaccato di quello che noi adulti viviamo davvero, cioè un’incapacità ad assumere le nostre responsabilità che i ragazzi siano così. A parte che abbiamo una grossissima responsabilità già nel fatto che siano così, ma quando sono così, il problema, è buttarli fuori? Quando il problema educativo si pone, si può dire: «Espellere, mandare via, cacciare, va sanzionato, ha rovinato l’immagine della scuola?». Ci siete? Io, quel ragazzino vorrei averlo come figlio, mi piacerebbe tantissimo avere figli così, perché nell’intervista brevissima che fa, si capiscono tante cose: avanti.
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Va bene, riprendiamo dall’ultima battuta che fa questo ragazzino. Gli dicono: «Ma allora, ti sei sentito un grande?». E lui: «No, mi sono sentito un grande coglione». Dice della sofferenza dei genitori, avete sentito, della sua vergogna, del suo essersi sentito una nullità. E il conduttore, il giornalista delle Iene, chiude il servizio con la battuta: «Forse, per questo ragazzino, quello che è accaduto servirà a qualcosa. Speriamo che sia un’occasione anche per la scuola che avrebbe dovuto educarlo». Ecco, io me lo porto nella testa, ce l’ho davanti, questo filmato, da allora, da mesi; e non riesco ad incontrare i ragazzi o a parlare di educazione se non richiamando a questo. Di che innovazione abbiamo bisogno? Abbiamo bisogno che nel rapporto tra adulti e ragazzi, figli e genitori si introduca l’educazione, la responsabilità della sfida educativa, perché se no stiamo perdendo una generazione. Quel ragazzino, che adesso verrà punito, eccetera, forse gli andrà bene perché la notorietà un po’ lo salverà. Ma quanti ragazzini così non trovano una strada e finiscono ad essere magari emarginati in una comunità di recupero, perché non hanno trovato adulti da guardare? Meglio, adulti che li guardassero, scommettendo sul fatto che ce la potevano fare, che il cuore che li muove, che gli fa fare i coglioni e le cazzate, c’è. Perché è vero che ha fatto la cazzata, ma perché la fa? Per una solitudine, per un’assenza di proposta, per un’assenza di possibilità. E tutta la nostra responsabilità, tutta l’innovazione che dobbiamo mettere in piedi, mi sembra sia rispondere a questo cuore dei nostri figli, dei nostri giovani, che è sano e che però è impossibilitato a venire fuori in tutta la sua bellezza. E questo è il nostro compito, però. Si capisce?
GIGI GIANOLA:
Grazie. Entrambi, nel vostro racconto, avete parlato del rapporto adulti e giovani, rispetto alla storia, quindi rispetto agli adulti di oggi. Proviamo a fare un passo rispetto al futuro. Il titolo del Meeting dice: «Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice». Però, anche dall’ultima provocazione di Franco, emerge che forse non è colpa dei giovani ma degli adulti. Però, oggi, un adulto, come si deve porre?
DAVIDE BENINI:
Questo pesca in un dialogo, in una discussione che abbiamo fatto poco prima di salire sul palco. In questi giorni mi è capitato, girando per il Meeting, di capire che, insomma, abbiamo una generazione di quarantenni, cinquantenni che sembrano dei coglioni. Se i figli sono così, vuole dire che qualcosa è venuto meno. Però, dall’altra parte, mi viene da contestarlo perché io sto incontrando una marea di ragazzi, di giovani, e vedo in tutti una grossa difficoltà, che probabilmente sarà anche dettata dalla mancanza educativa, da tutta questa fragilità che sembra abbiamo trasmesso. Però mi viene da pensare: trent’anni fa, non è che io avessi delle grandi opportunità, no? Forse c’era un pochino più di fiducia, però io non avevo nessuno. Fra l’altro, raccontavo a qualche amico prima di venire qui che in casa mia ho il ricordo di mio papà che faceva il contadino e lo faceva a padrone sotto il suo babbo. E non potete immaginare quanto ci ha sofferto. Per cui, a casa mia non si parlava di fare l’imprenditore, no? Lavoro sicuro, no? E non sono cresciuto in un ambito educativo che mi ha sollecitato a rischiare, anzi, esattamente il contrario. Però, a un certo punto ho avuto la possibilità di incontrare una roba talmente affascinante che non ho potuto non mettere le mani in pasta. Ora mi viene da dire: facciamo pure le analisi, diciamo pure che gli adulti sono messi così, pacchiamo pure ma rilanciamo anche sulla possibilità che se oggi i ragazzi vogliono e hanno la libertà di cercare, qualcuno che si mette insieme a loro c’è. Perché, vi giuro che sono anni che sto cercando di costruire relazioni e soprattutto offro opportunità per costruire cose, ma mi accorgo che siccome molto spesso abbiamo questa idea del fenomeno, se uno non è un fenomeno di suo, non esiste che si mette insieme ad un altro. Non esiste che provi a consegnarsi a qualcuno, che provi a fare un pezzo di strada insieme. Anche perché, l’altra cosa che ho sperimentato negli anni è che non sono diventato un figo, non ho tirato su una roba – che, fra l’altro, è un gioiellino fra profit e non profit in Italia – perché sono geniale, perché mi sono alzato una mattina e avevo la lampadina che si illuminava sulla testa. Mi sono messo dentro a dei rapporti, dentro a degli amici che mi hanno accompagnato nel tempo a scoprire sempre di più quello che fra le mani avevo e che potevo provare a giocare.
FRANCO NEMBRINI:
Sì, sono d’accordo. Si può dire anche in un altro modo, credo. C’è un problema di assenza di proposta e di debolezza dell’adulto, dai; questo ha segnato un po’ la nostra generazione, di arrivare a questa età un po’ sfiduciati, un po’ cinici. Dici ai figli: «Vola basso, accontentati», invece di lanciarli. Poi ci mancano le mamme che li tutelano da ogni fatica, da ogni dolore, vanno a iscriverli all’Università. La mamma, una roba che andrei lì col mitra. La mamma che iscrive il figlio diciottenne all’Università? C’è questo fenomeno. Ma il punto è: da dove ricominciare? Perché se no, diventa un circolo vizioso, gli adulti non ci sono, quindi… Il punto da cui ricominciare è una scommessa su un cuore, il titolo del Meeting! La scommessa su un cuore che, quando può, quando trova, quando qualcosa, tu le hai chiamate relazioni, io uso di solito la parola incontro, quando incontri qualcosa o qualcuno di vivo, risveglia in te quel che di meglio c’è. E tu ci provi, e ci provi col coraggio che hai, con gli amici che hai, con le difficoltà che hai. Ma in questo veramente colgo e rilancio la sua sfida ai giovani e ai ragazzi: è vero che c’è questa difficoltà, ma uno che ha le palle, l’adulto da seguire, il maestro da seguire, se lo cerca. E ve lo dico perché c’è un modo di stare davanti al mondo assumendosi una responsabilità che è possibile sempre, dentro a qualsiasi circostanza! Mia madre malata, pochi mesi prima di morire, sapendo di dover morire e non essendo mai uscita da Trescore Balneario, il paesello, per via dei dieci figli che ha tirato su, morta a 61 anni, cioè più giovane di me adesso di due anni, che mi sembrava così vecchia e invece so adesso che era giovanissima. Era a letto, moribonda, si faceva portare dalle amiche le lenzuola lise che pazientemente stracciava in striscioline, le arrotolava e preparava i cartoni delle bende da mandare alle missioni. Non è mai uscita dal paese, aveva fatto la terza elementare, non sapeva niente di niente ma sapeva tutto, rispondeva al mondo intero e alle necessità del mondo intero, tirando su dieci figli e facendo le bende per l’Africa, capite? Così si può essere tutti! Devi avere un maestro o qualcuno. Padri ce n’è pochi, cercateveli! Io ho fatto una volta una conferenza sulla paternità, valorizzando molto la figura del padre, raccontando le cose che alcuni di voi conoscono sul mio papà. Alla fine, viene un ragazzotto di trent’anni e mi dice: «Lei, professor Nembrini, fa presto a parlare, con un padre così sarei diventato santo anch’io. Invece mio padre non l’ho conosciuto, se è quello che ho conosciuto è ancora in galera, mia madre non le dico che mestiere fa». Era affranto, come a dire: «Io non ho avuto un padre». Io, d’istinto, sbagliando perché non si fa così, gli ho detto: «Ma scusa, quanti anni hai?». «Trenta». «E a trent’ani non ti sei ancora cercato un padre? Se non ce l’avevi o non funzionava quello che avevi, ma cercatelo, un padre!». Cercati un maestro, cercati un adulto a cui andare dietro perché poi, alla fine della fiera, siamo tutti padri putativi, eh! Di padre ce n’è uno solo! E ti è padre nella vita, chi ti fa sentire quella paternità del Padre nostro, il resto, se va bene, va bene, se non va bene, ti tiri su le maniche e la fai andare bene. Perché questa responsabilità di muoversi, chiamati dalla vita ad esserci, e perciò di scegliersi un padre da cui imparare ad essere dentro la vita, questo è possibile sempre, a tutti, si fanno le scuole per questo, quando funzionano, “La Traccia” è nata proprio da un impeto così, con tre muratori che avevamo incontrato. Si fanno opere come la sua, si fa il Meeting, si fa la Compagnia delle Opere, per questo. Questo mi sembra che sia possibile sempre e a tutti. Per dire che son positivino anch’io, eh! Mi diceva che faccio troppo lo sfigato, parlo male degli adulti: no, ce n’è per tutti!
GIGI GIANOLA:
Mi sorge ancora una domanda, sempre rispetto a questo tema e all’opera che hai fondato, alle opere che avete fondato, perché c’è un impeto iniziale che muove la storia ma poi ogni giorno ci si deve rimettere in gioco. E quindi, anche rapportandoci al tema: chi accende ogni giorno la scintilla del cambiamento? Cioè, quali sono poi le ragioni che ti permettono e ti stimolano ad andare avanti? Perché, vedete, un conto è il tema dell’inizio, poi ogni giorno bisogna sempre – da genitori, da lavoratori – riporsi delle domande. E quindi, rispetto alle vostre opere, chi tiene desta la scintilla del cambiamento e come ogni giorno vi approcciate a questo?
DAVIDE BENINI:
Io ho sempre fatto una cosa semplicissima, da trent’anni a questa parte, custodire quel punto di novità che avevo incontrato. Mi sono sempre preoccupato di più, magari anche ingenuamente, che permanesse quello stupore iniziale che mi aveva fatto rischiare piuttosto che di quello che avrei creato dopo. È ciò che ancora mi entusiasma, dopo trent’anni, perché quella promessa di compimento si è realizzata, nel senso che continuo a vivere oggi di quello stesso stupore, che ha una forma diversa da quello di trent’anni fa. Eppure mi ha fatto incontrare un po’ di giovani con cui ricominciare: fra l’altro, le loro sfide, le loro domande mi hanno costretto a rimettere in discussione tutto. Pensando proprio all’innovazione, io vedo che noi facciamo un grosso lavoro di rilettura costante della realtà e in qualche modo ci arriviamo. Penso solo all’attività industriale: siamo partiti a fare per conto terzi, non pensavamo di avere prodotti nostri che invadessero l’Europa, tanto meno il mondo. Oggi proviamo a invadere il mondo, però mi accorgo che non me ne frega niente di invadere il mondo se vengo meno a quella sfida, a quella promessa che avevo intuito, anzi, io continuo, nel fare, a ricercare quella risposta lì, quindi a rispondere al mio cuore.
FRANCO NEMBRINI:
Mi brucia tutte le risposte! Hai detto che si parte da un impeto iniziale: è così vero che vale per tutta la vita, si parte sempre da un impeto iniziale, un po’ come il matrimonio. Si parte da un impeto iniziale ma dopo, che cosa lo conserva? Perché l’inizio è proprio interessante, ha detto lui, è un’esplosione di verità, di passione, di vita che sembra non vedere – e forse è vero, per fortuna che è così – le fatiche che verranno. Perché se uno dovesse immaginare cosa lo aspetta, non si sposa, non fa figli. E invece c’è un impeto più forte di ogni possibile immaginato futuro difficile. Poi, il futuro difficile arriva davvero, le difficoltà arrivano, e tutto sembra negare quel punto di partenza, tutto sembra dividere, tutto sembra dividerti dagli amici, tutto sembra dividerti dalla donna che hai sposato. Se parti da un punto dove sono lì tutti e due, abbracciati nero su bianco che si giurano eterno amore, dopo dieci anni i due punti si sono come separati, è entrata una distanza. Cos’è che vince la distanza? Il perdono. Non so se è quello che hai detto tu, parlando dell’esigenza del mio cuore. La legge della vita è il perdono, Dio è misericordia. Allora, capisci che l’amore per la tua donna all’inizio era quella passione necessaria per partire, quell’esplosione di bene che ti fa mettere al mondo un figlio, prima di sapere se sarà bravo o cattivo, intelligente o un po’ scemo. È un impeto, è un impeto di vita che Dio ha messo nel cuore dell’uomo e nella natura delle cose: ma come quell’impeto si verifica poi nel tempo, come vince la divisione? In una misericordia, in un perdono. E allora, ti riunisci a tua moglie tutti i giorni, riscopri l’amicizia più forte di prima, ritrovi la solidarietà sul luogo di lavoro con i dipendenti, non perché fai lo sforzo politico di incontrarsi, riguadagnando la distanza e trovandosi a metà strada, quello lì si chiama compromesso e non funziona mai, se funziona è una rottura, perché vuole dire che per incontrarsi a metà ce ne hai lasciato giù metà te e metà quell’altro, non va mica bene. Ci si incontra perché ciascuno cammina verso la radice di tutto, cioè verso Cristo, e la distanza si riduce da sola. Là all’origine, ci si ritrova, senza bisogno di discussioni, di polemiche, di politiche o di contratti: tre volte esco io, due volte esci te, il bambino lo pulisco. È un perdono, la legge della vita, e allora la freschezza e la novità di ogni inizio si conserva e si approfondisce, si ripete, così che uno può ritrovare trent’anni dopo che ha fatto “La Traccia” e la va a visitare adesso, dopo che a un certo punto ne è venuto via. E la ritrovo più grande ancora dell’inizio, l’inizio che me l’aveva fatta fantastica. E così per il matrimonio, e così per i figli, che diventano grandi. Ma che bellezza è, e diventa veramente una possibilità di bene per tutti.
GIGI GIANOLA:
E nel tenere desto tutto questo – “le forze rendono l’uomo felice” -, nella vostra quotidianità con i dipendenti, con i collaboratori, con i disabili, in che rapporto stanno il tema della felicità e della libertà?
DAVIDE BENINI:
Si dice che non si può andare a lavorare da Benini perché è troppo esigente. Noi in questi anni abbiamo incontrato di tutto: in realtà, non ci sono condizioni particolari per venire a lavorare da noi, io però non ha mai negato alla gente chi sono, da dove nasco. Ho una casa gestita da persone che culturalmente sono lontanissime, che quando hanno iniziato a lavorare con me non avevano qualifica. Poi si sono qualificate e, andando fuori, sono ritornate dicendo: «Voglio stare con te perché capisco che lavorare con te è meglio». Non sono cambiate, ogni tanto mi attaccano sulla Chiesa. Io li guardo: «Tanto lavori per me, cosa sono io?». Per dire che non nego chi sono e invito costantemente la gente a stare su questa cosa, a sfidarsi con la ragione per cui un’opera è nata, per cui io vivo e faccio le cose. Tra l’altro, ho anche un gruppetto, vivo in una casa con ventitré ospiti, è chiaro che c’è anche gente che purtroppo mi incrocia la mattina a colazione, a pranzo, alla sera, che si deve misurare costantemente. Vi assicuro che non è una vita facile starci, starmi di fronte. D’altra parte, non chiedo loro di essere un’altra cosa da quello che sono, chiedo costantemente di guardare ciò che mi genera, perché ciò che mi genera è appunto quello che poi genera la vita con i ragazzi. Adesso ho anche un utente molto grave: spesso quello che conta non è tanto il risultato sull’ospite ma quanto chi c’è con lui regge l’urto di quella quotidianità. Per cui, loro sono costantemente chiamati a riguardarsi, a rileggersi, a fare sì che quella roba esista ma esista anche con la bellezza che io desidero. Se qualcuno di voi capitasse in giro per questi rioni di Ravenna, le mie case le nota, le notano tutti. Quando entrano, notano l’ordine, la cura, la pulizia. Io sto bene dentro il bello e ho desiderato per loro esattamente quello che desidero per me. Ma quello che desidero per me è prima di tutto di essere felice. Quindi, di confrontarmi anche con il cammino e con la storia che me lo rende possibile, fuori da questo, non avrebbe senso. Chiedo la libertà di confrontarsi con questa cosa alla gente che devo accompagnare anche a messa la domenica: non è che controllo se fanno la comunione ma chiedo loro di essere seri con quel gesto. Perché quella roba è casa mia, e se un domani a uno non interessasse più un luogo così, è libero di andarsene. Però io continuo a rimanere fedele a ciò che mi genera, che in prima battuta è l’esperienza del movimento.
FRANCO NEMBRINI:
Sì, è proprio così, lo sappiamo tutti, la felicità dell’uomo coincide con la libertà, la libertà vuole dire che tutto quello che vivi è condizione ma non ti condiziona in modo definitivo; libertà vuole dire che c’è un punto così solido che tutto quello che ti gira intorno, tutto quello che può accadere è amabile perché rende presente quel punto, ma è secondario perché potrebbe non esserci, e quel punto rimarrebbe. È il bambino che si spaventa se gli dici: «Vai in cantina da solo». Si spaventa perché cade e si fa male, e d’istinto non piange subito ma cade, si gira verso sua madre e se la madre fa un sorriso, lui si rimette a giocare, se la madre urla, lui scoppia a piangere, perché è una paura di non essere di nessuno, la paura che uccide la vita. Se tu sei di qualcuno, vada bene o vada male l’azienda, la crisi diventa una risorsa, un dolore diventa una ferita da cui nasce qualcosa di grande, come abbiamo sentito in questi giorni alla mostra di Giobbe, Dio bono, che roba è! Vuole dire che nessuna circostanza è contro di te, se in ogni circostanza cerchi quel rapporto che non viene meno. In questo senso, la fede è un grandissimo vantaggio. Allora la felicità è godere di questa libertà. E ne godi come? Facendo innovazione. Cioè, se il problema non è l’esito, non è tenere strette le cose, se no ti trema la terra sotto i piedi, tu senti aria di novità perfino economica. Adesso, io non m’intendo di queste robe qui, ma se mi dici che fai le scale e stai vincendo in tutto il mondo facendo scale, vuole dire che fai delle scale che una volta alla settimana ti inventi qualcosa di nuovo, se no non vinci, perché uno non ha paura di perdere niente. È la povertà il segreto della ricchezza, anche economica, è trattare le cose per quello che sono: strumenti per un’affermazione del bene grande che è la vita. Allora, hai il coraggio di cambiare, di rischiare insieme ad altri. Perché l’altra cosa che scopri, dal criterio con cui si fa il lavoro lì da lui, o con cui gli insegnanti fanno “La Traccia”, è che se la verità è questa cosa grande verso cui camminiamo insieme, dobbiamo arrivarci insieme; se la verità è quello che pensi te, e a volte capita perfino che tu abbia ragione, ma a che cosa serve nella vita avere ragione da solo, ma che tristezza è avere ragione da soli? Io preferisco avere torto con due amici, perché insieme abbiamo torto e ci correggiamo cambiamo strada, facciamo innovazione e la prossima volta andrà meglio. Ma avere ragione da soli veramente è una tristezza infinita. Allora, questo essere insieme per perdonarsi, liberi e liberi di rischiare perché non sei attaccato a niente se non a ciò che conta, mi sembra una sfida straordinaria, ripeto, di cui il Meeting dà grandissima documentazione ovunque.
GIGI GIANOLA:
Grazie, il tempo sta per terminare però permettetemi ancora una domanda. Siamo nell’area innovazione, in platea ci sono giovani e meno giovani, però, in questo complesso mondo di mix tra virtuale e reale, come la state vivendo voi e che messaggio date, diamo ai giovani qui in sala?
DAVIDE BENINI:
Quando prima ascoltavo Franco, mi veniva da dire: sentite il buon Dio che si è preso dodici sfigati per costruire la Chiesa. C’è proprio spazio per tutti, dobbiamo solo avere la voglia di scommettere su ciò che abbiamo incontrato, ciò che di bello abbiamo visto. D’altra parte, se non ripartiamo da lì, da che cosa possiamo ripartire?
FRANCO NEMBRINI:
Sulle tecnologie sono poco preparato, so di riuscire ad abbandonare anche il telefono, tra un annetto dovrei farcela. La cosa che capisco e che raccomando ai ragazzi, ma sono cose che credo che i ragazzi sanno, è che cominciano in Giappone e negli Stati Uniti ad avviare, ad aprire cliniche specializzate per dipendenti virtuali da strumenti tecnologici, perché sta diventando una malattia. Sia chiaro che c’è bisogno, sono mezzi fantastici, ma sono mezzi e strumenti. Qui bisogna che qualcuno abbia il coraggio di tentare una educazione allo strumento che forse non è ancora stata tentata in modo radicale, cioè c’è da disintossicarsi, c’è da razionalizzarne l’uso in ore e tempi e luoghi. Alla Silicon Valley, dove ci sono tutti quelli che si sono inventati queste cose, la scuola dei loro figli vieta l’accesso col cellulare e non hanno l’iPod e lavagne luminose, perché chi li ha inventati forse è più avanti a sapere come ci ridurremmo. Allora, io lancio solo questo appello semplicissimo, non da nostalgico, da uno che sa che dovrete farci i conti, dico solo: fateci i conti per davvero. Entusiasmarsi in modo acritico o demonizzarli non serve a niente, come ogni strumento va giudicato e usato per quello che è, per cui dosi di realismo massiccio, dosi di realtà che sappiano contemperare la realtà virtuale che da sola è veramente pericolosa.
GIGI GIANOLA:
Grazie, Franco, grazie, Davide. Prima di chiudere, permettetemi due avvisi. Primo: questa sera alle ore 19 nel salone Auditorium Intesa San Paolo A3, interverrà Muhammad Bin Abdul Karim Al Issa, Segretario generale della Lega musulmana mondiale, la più importante autorità islamica rappresentante mondiale di oltre cinquanta Paesi islamici. Sottolineiamo l’assoluta eccezionalità dell’evento in quanto il Meeting ospita il primo intervento in Italia del Segretario generale Al Issa. Il secondo avviso invece è questo: come ogni anno, anche quest’anno il Meeting l’abbiamo potuto realizzare grazie a degli sponsor, tutti i giorni abbiamo costi per sostenerlo, quindi vi invito, per chi non l’avesse ancora fatto, ad erogare qualche decina di euro nei punti che trovate sparsi in giro per il Meeting, sperando che possa esistere, e vogliamo che esista, anche nei prossimi anni. Serve il contributo di tutti. E prima di salutarvi, come in ogni mio intervento, rileggo una frase delle tante belle frasi che abbiamo realizzato qui nel nostro stand: «Ci sono forze che creano legami tra la bellezza delle radici e la fiducia nel futuro». Io penso che dal dialogo di oggi abbiamo provato a riannodare i fili della nostra storia per proiettarci verso il futuro. Quindi, grazie ancora a Franco e a Davide, e grazie a tutti voi e buon Meeting.
(trascrizione non rivista dai relatori)