“L’INCONTRO CON L’ALTRO: GENIO DELLA REPUBBLICA. 1946-2016”: LA POLITICA INTERNAZIONALE

Partecipa Michele Valensise, già Segretario Generale della Farnesina, Vice Presidente esecutivo Astaldi Spa. Introduce Massimo Bernardini, Giornalista e Conduttore televisivo.

“L’INCONTRO CON L’ALTRO: GENIO DELLA REPUBBLICA. 1946-2016”: LA POLITICA INTERNAZIONALE

MASSIMO BERNARDINI:
Buon pomeriggio e grazie di essere venuti. Proseguiamo il nostro cammino di approfondimento che sta accompagnando la nostra mostra “Incontro con l’altro: il genio della Repubblica”, inscritta dentro la linea del titolo del Meeting di quest’anno che è “Tu sei un bene per me”. Lo proseguiamo approfondendo il tema della politica internazionale, cioè oggi verificheremo se lo stile di “Tu sei un bene per me” è applicabile persino ad un contesto come quello del mondo, delle relazioni internazionali. Ad aiutarci, e siamo a lui molto grati, è l’Ambasciatore Michele Valensise, che oggi è qui con noi e di cui voglio raccontarvi brevemente il viaggio che in questi quarant’anni ha compiuto per il nostro Paese in giro per il mondo. E’ in carriera diplomatica dal 1975, è stato prima alla Farnesina, che è la sede del nostro Ministero degli Esteri, in Direzione Generale per gli Affari Economici, poi, nel 1978, ha incominciato ad andare all’estero, presso l’Ambasciata italiana di Brasilia in Brasile. Nel 1981 ha portato la sua esperienza all’Ambasciata italiana di Bonn, dal 1984 al 1987, durante la guerra civile libanese, è stato consigliere dell’Ambasciata italiana di Beirut, poi, rientrato a Roma dal 1987 al 1981, è stato il Capo della Segreteria del Sottosegretario agli Esteri Susanna Agnelli. E’ andato in seguito a Bruxelles, dal 1991 al 1997, alla Rappresentanza italiana alla Unione Europea per le relazioni con i Paesi mediterranei e balcanici e nel 1987 a Sarajevo, in qualità di Ambasciatore del nostro Paese in Bosia-Erzegovina. E’ stato inoltre Capo di Gabinetto del Ministero Dini, dal 2001 al 2004 portavoce del Ministro degli Esteri e poi, dal 2004 al 2009, Ambasciatore dell’Italia in Brasile. Dal 2009 è diventato Ambasciatore a Berlino e dal luglio 2012 al marzo 2016 è Segretario Generale del nostro Ministero degli Esteri. In tutto, quarantun anni di servizio diplomatico. Adesso costruisce ponti in un altro modo, perché è Vice Presidente della Astaldi, che è uno dei più grandi general contractor italiano, quindi l’ambasciatore Valensise in qualche modo ha visto il mondo e ha visto come è cambiato il mondo in questi quarantun anni.
Le faccio questa domanda: lo stile del “Tu sei un bene per me”, è stato usato dalla Repubblica Italiana in questi anni oppure no?

MICHELE VALENSISE:
Buongiorno a tutti, grazie agli organizzatori di questo bellissimo Meeting al quale ritorno dopo un anno, anche se in una veste leggermente diversa da quella dell’anno scorso. Devo subito dire che quando in primavera di quest’anno gli organizzatori del Meeting mi hanno chiamato per invitarmi a partecipare ad uno dei vostri incontri io, non per amore di una giornata estiva sotto l’ombrellone, ma per doverosa informazione, ho detto agli organizzatori che proprio in questa primavera avevo cambiato lavoro e che quindi forse sarebbe stato opportuno invitare qualcun altro al posto mio. In realtà mi sono dato la zappa sui piedi, perché gli organizzatori sono stati pronti e dire “benissimo vieni tu, così parlerai con maggior libertà, visto che non sei più Segretario Generale della Farnesina”. Io approfitterò di questa mezz’ora o quaranta minuti che abbiamo a disposizione per parlarvi con grande libertà, impegnando naturalmente solo la mia modesta persona, però non dimenticando il lavoro che ho fatto con grande passione e con grande soddisfazione per tanti anni, come ricordava Bernardini.
Devo dire subito che volendo parlare di politica estera, credo sia opportuno sgombrare il campo da un possibile equivoco, quello di considerare la politica estera un qualcosa di spaccato dalla nostra esperienza quotidiana o dalla nostra vita domestica. In realtà politica estera e politica interna sono state in questi settant’anni di Repubblica molto vicine, molto connesse e collegate l’una all’altra. Si può quindi parlare bene di politica estera anche collegandola allo sviluppo della nostra vita nazionale domestica. A questo proposito lasciatemi dire che sono appena arrivato a Rimini, ho fatto un salto alla bella mostra sui settant’anni della Repubblica, allestita qui di fronte e mi ha molto colpito la bellezza di alcuni video, e la bellezza di alcuni messaggi che sono evidenti in questa mostra. Ad esempio, per far capire quanto sia forte il legame fra politica estera e politica interna, mi ha molto colpito, nel primo segmento della mostra, una bellissima registrazione del discorso di De Gasperi, allora Presidente del Consiglio (1949), all’atto della sottoscrizione da parte dell’Italia del Trattato per l’Alleanza Atlantica. L’Italia entra a far parte della NATO nel 1949. De Gasperi deve spiegare a una parte politica consistente dell’Italia di allora, all’estrema sinistra, che quella è una scelta da difendere, nonostante una forte opposizione all’epoca di comunisti e socialisti e per farli accettare, dice che questo non è solo un trattato difensivo, quindi non ha una finalità bellica, non ha finalità guerrafondaia, come la propaganda soprattutto comunista andava ripetendo in quell’epoca, ma è soprattutto il presupposto per mirare al vero traguardo che abbiamo che noi italiani abbiamo di fronte, quello dell’Unione Europea. Nel 1949, parla di Unione Europea, De Gasperi, la qualcosa, conoscendo poi gli sviluppi della storia successiva, fa venire un po’ i brividi in termini di capacità di prevedere, profetizzare ed avere una visione di quello che doveva succedere nel nostro Paese. Altrettanto impressionante è la rievocazione dall’altra parte della barricata della maggioranza dell’epoca. C’è una registrazione del discorso successivo di Giancarlo Pajetta, autorevole esponente del PCI dell’epoca, il quale difende l’opposizione all’adesione alla NATO e ricorda qualche anno dopo che all’atto del dibattito parlamentare sulla adesione dell’Italia alla NATO, lui in rappresentanza dei comunisti e Nenni in rappresentanza dei socialisti non solo votarono contro, ma uscirono per protesta dall’aula parlamentare intonando l’Internazionale. Questo dà l’idea di quanto fosse polarizzata la situazione dell’epoca – parliamo dei primi anni della Repubblica -, vi dà anche una idea di quanto fosse saggia e lungimirante la adesione di un leader quale Alcide De Gasperi, tant’è vero che negli anni successivi prima i socialismi poi, in successione, i comunisti rientrarono nell’orbita occidentale, fecero anche loro la adesione dell’Italia alla Alleanza Atlantica e anche alla Comunità Europea. Agli inizi degli anni ’60 avemmo l’entrata dei socialisti al governo e quindi l’adesione dei socialisti a tutti gli impegni internazionali che l’Italia aveva assunto in quel momento. Passarono altri 10/15 anni, fino al momento che val la pena di ricordare brevemente, quando il leader del più grande partito comunista di occidente, Enrico Berlinguer, disse: “Io mi sento più sicuro sotto l’ombrello della NATO che non sotto quello del Patto di Varsavia”. Era il 1979 e da allora politica estera e politica interna in Italia si sposano, perché costruiscono una unità di intenti, danno alla politica estera italiana una legittimazione trasversale, da destra a sinistra, legittimazione che nel tempo si è chiamata in slang “bipartisan”. Tale politica ci è stata molto utile per dare autorevolezza e peso all’azione dell’Italia in Europa e nel mondo. Voglio dire una cosa molto semplice e cioè che sulle scelte di fondo, la scelta atlantica prima ed europea dopo, negli ultimi 45 anni, noi abbiamo avuto una sostanziale unità di intenti da parte delle nostre maggiori forze politiche. Ci sono state naturalmente delle sfumature, dei dissidi, come è perfettamente logico in qualsiasi democrazia, però gli obbiettivi di fondo e le strategie di lungo periodo erano delle strategie condivise da destra e da sinistra, dal centro-destra al centro-sinistra, il che, a mio avviso, e stato un elemento positivo.
L’elemento di solidarietà di fondo tra destra e sinistra, centro-destra e centro-sinistra è stato un elemento portante negli ultimi 45 anni, varrà sempre questo in Italia? Non è affatto detto, lo possiamo dire oggi nel momento in cui si affaccia sulla scena politica con una certa vivacità un movimento terzo rispetto al centro-destra tradizionale e centro-sinistra tradizionale, che è il M5S, che sia pure un po’ confusamente appare avere delle idee sulle direttrici di fondo della nostra politica estera che non sono affatto convergenti con quelle sulle quali abbiamo lavorato con un certo successo negli ultimi anni. Il M5S è molto critico sull’euro, tanto da volerne l’abolizione o il superamento, è palesemente critico nei confronti dell’Europa, anche se, fino adesso, con poca definizione degli obiettivi alternativi rispetto all’Europa e mi sembra piuttosto tiepido nei confronti dell’Alleanza Atlantica. Quindi abbiamo un settore non irrilevante del nostro firmamento politico che non si riconosce in scelte che, viceversa, sono state condivise ultimamente dai gruppi maggioritari fino adesso. Vedremo che cosa succederà, ma è un elemento da tenere presente. Un’altra cosa che vorrei dire in questa carrellata, ripensando ai 70 anni della Repubblica, è quella che si potrebbe definire l’oggetto della politica estera. A cosa serve una politica estera utile per il proprio Paese? Serve a promuovere, a difendere, a tutelare l’interesse nazionale. L’interesse nazionale è qualche cosa di profondo e radicato, supera e prescinde dalla normale alternanza di questo o quel Governo. Ci sono degli interessi fondamentali, strategici, che vanno al di là di questo o quel Governo, vanno al di là di questa o quella congiuntura politica. Come italiani facciamo abbastanza presto a definire almeno nelle grandi linee quali sono i nostri interessi nazionali. Innanzitutto abbiamo interessi alla stabilità della regione europea e mediterranea, nella quale la storia e la geografia ci hanno assegnato un bel posto, quindi un interesse a che il mondo, almeno il mondo circostante a noi, sia stabile. Abbiamo un interesse evidente e innegabile a che questo sia un mondo sicuro, nel quale gli individui, le famiglie, le imprese, i gruppi e le società, gli Stati, possano svilupparsi nel migliore dei modi, possano progredire nel migliore dei modi. Quindi un’esigenza di sicurezza. “Primum vivere”, dicevano i Romani, prima dobbiamo avere le condizioni necessarie per vivere e poi possiamo passare ai dibattiti sulla filosofia. Abbiamo un interesse, per come siamo costituiti noi in Italia, un interesse altrettanto evidente a che i nostri mercati siano aperti, non siano bloccati da blocchi fisici o tariffari o protezionistici. Siamo un Paese trasformatore, siamo un Paese produttore, siamo un paese esportatore, e quindi abbiamo bisogno di un ampio contorno di mercato libero intorno a noi, aperto e possibilmente poco condizionato, viceversa competitivo: perché nella competizione, poi, nonostante qualche distorsione interna, abbiamo sempre fatto vedere di esser capaci di farci rispettare nel mondo. Abbiamo l’interesse altrettanto forte e chiaro ad un dialogo con le culture diverse da di noi: l’Italia non è un Paese con tradizione imperiale paragonabile a quella di altri Paesi europei. L’Italia è un Paese che non solleva sospetti di agende nascoste quando si affaccia sul Mediterraneo, quando interloquisce con i Paesi africani. Abbiamo una capacità che è nel nostro DNA di trattare anche con Paesi diversi da posizioni paritarie, da posizioni di rispetto, di rispetto reciproco e quindi abbiamo interesse a che il dialogo tra culture, tra popoli diversi sia proficuo e sia garantito. Abbiamo un altrettale interesse a che il mondo circostante, parlo soprattutto del mondo meno favorito, cioè il mondo che una volta si chiamava in via di sviluppo, oggi si chiama il mondo emergente, che questo mondo emergente emerga, perché più emerge questo mondo più saremo in posizione di equilibrio, di stabilità e più attenueremo, se non elimineremo, le tensioni che possono venire da divari di sviluppo troppo marcati e troppo evidenti. Quindi un interesse a che le politiche di sviluppo procedano e si incrementino, così come è negli obiettivi, tra l’altro sanciti internazionalmente in sede di Nazioni Unite. Abbiamo infine un interesse a che le nostre comunità italiane nel mondo possano giocare un ruolo attivo. Ora, tutto questo lungo e spero non troppo noioso preambolo serve ad arrivare un po’ di più ai nostri giorni e a distinguere sostanzialmente, in questa carrellata di settant’anni di vita repubblicana, i periodi fondamentali. C’è un primo periodo che va dal 1946, data di fondazione della Repubblica al 1989, data della caduta del muro di Berlino e poi un secondo periodo che va dal 1989 ai giorni d’oggi. Qual è la differenza? Beh, io direi che una differenza più abissale nella scrittura o nella pittura di questi settant’anni non si potrebbe immaginare. Se avessimo dei colori a disposizione dovremmo dipingere la prima fase come blu e la seconda come rosso o la prima come rossa e la seconda come blu. Sono due mondi, due epoche, due modi di concepire anche la politica estera completamente diversi. Prima dell’89, come tutti sapete, anche se vedo che la platea è fatta da giovani, ma come tutti sapete, o molti ricorderanno, il mondo era regolato sulla base di un duopolio non scritto, il duopolio russo – americano. C’era un accordo tacito che si reggeva su quello che si chiamava una volta, quando eravamo più giovani, l’equilibrio del terrore. Ogni blocco, il blocco occidentale con gli Stati Uniti come capofila, il blocco orientale con l’allora Unione Sovietica come capofila avevano ciascuno degli armamenti micidiali, degli armamenti di distruzione di massa. Il fatto di possedere e di essere in grado di utilizzare questi armamenti contro eventuali prevaricazioni, contro eventuali mosse offensive da parte dell’altro, produceva una situazione certamente di rischio, di pericolo, perché quell’interruttore era facile da spingere, però paradossalmente, costituiva anche la premessa per una situazione di equilibrio. Siccome nessuno era folle né a Washington né a Mosca, quell’interruttore non fu mai premuto, e quindi questo mondo, seppur in maniera pericolosa, ebbe un equilibrio e una stabilità, anche se al prezzo per una metà del mondo, cioè per quella sotto il gioco dell’Unione Sovietica, piuttosto alto che era il prezzo della libertà in Unione Sovietica e nei Paesi che erano alleati, che erano collegati all’Unione Sovietica nel Patto di Varsavia. Tutta questa costruzione che grosso modo ha retto con degli sfridi, con degli attriti, ma sostanzialmente ha retto in maniera stabile, molto stabile per quarantacinque anni, tutta questa costruzione è improvvisamente, inaspettatamente, repentinamente venuta meno il 9 novembre 1989. Fino a quel momento noi eravamo abituati, gli analisti erano abituati a eleggere la Pravda, che era l’organo del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, che diceva sempre le stesse cose, che ripeteva sempre le stesse notizie. E i cremlinologi, come si chiamavano all’epoca, erano specializzati nel vedere se, negli articoli di fondo della Pravda, la parola “tuttavia” interveniva al settimo, all’undicesimo o a diciannovesimo rigo, perché a seconda della posizione della parola “tuttavia” ci poteva essere una sfumatura degna di essere segnalata o approfondita in Occidente. Questo per dire, forse in maniera un po’ scherzosa, che il mondo era veramente immobile da quel punto di vista. Tutto questo mondo, appunto come dicevo, nel novembre dell’89 scompare, sparisce: cade il muro, si disgrega l’Unione Sovietica, ritornano gli stati nazionali, gli stati già alleati dell’Unione Sovietica chiedono e ottengono subito il loro affrancamento dal gioco della egemonia di Mosca, la Germania, fatto impensabile per generazioni, si riunisce, si riunifica in maniera pacifica senza sparare un colpo di pistola. Il mondo cambia e cambia quindi anche la posizione dell’Italia. L’Italia era stata, fino al 1989, un alleato atlantico affidabile, disciplinato, che aveva contribuito anche in maniera autorevole e riconosciuta ad alcune svolte, ad alcune operazioni di grande rilievo, ne cito solamente una a titolo di esempio, brevissimamente: la decisione all’inizio degli anni ’80 di schierare anche noi italiani gli euromissili a difesa dell’Occidente contro l’offensiva militarista sovietica dell’epoca. Il mondo era cambiato, noi avevamo avuto sicuramente una rendita di posizione perché eravamo un Paese di frontiera e quindi eravamo un Paese in qualche modo coccolato dal grande alleato americano, che aveva interesse e attenzioni particolari a che le cose in Italia andassero bene, perché eravamo l’avamposto, l’ultimo avamposto prima della cortina di ferro. E tutto questo cambia, cambia rapidamente e qualcuno, subito dopo la caduta del muro, qualcuno acuto come era Beniamino Andreatta, che fu Ministro della Difesa e poi Ministro degli Esteri anche per un breve periodo, il compianto Beniamino Andreatta osservò, con parole molto significative, che se prima era sufficiente per un Paese come l’Italia appartenere all’alleanza atlantica per avere riconosciuto il proprio ruolo, dall’89 in poi non sarebbe stata più sufficiente l’appartenenza, essendo necessario l’impegno, una presenza qualificata, una capacità di proporre delle iniziative e di realizzarle anche in contesti non allineati con tutto il resto dell’alleanza atlantica. E noi in questo, mi sto avvicinando un po’ ai giorni nostri, noi in questo abbiamo sempre scontato, obiettivamente, il fatto di essere un grande Paese, un grande popolo, ma in fondo una media potenza, non siamo una potenza nucleare, non siamo una potenza uscita vincitrice dalla seconda guerra mondiale, non siamo una potenza che siede permanentemente in Consiglio di Sicurezza, a differenza ad esempio di Regno Unito e Francia. Insomma, siamo un Paese medio. Qualche giorno fa, il Presidente Amato, al quale riconosco finora assolutamente il copyright, ha detto una cosa divertente che vorrei riproporvi, sapendo che non ve la può dire lui perché c’è già stato qui, quindi non c’è il rischio che ve la ripeta lui. Lui ha, spiritosamente, esordito in un convegno sulla politica estera di essere un esperto di mezze misure, essendo la sua misura di scarpa il quaranta e mezzo. E allora ha detto: siccome porto il quaranta e mezzo, sono in grado di capire e apprezzare bene quello che può essere il significato di una media potenza come l’Italia. Media potenza come l’Italia è quella che, per farsi riconoscere, per farsi apprezzare, deve appunto ingegnarsi, deve dire qualcosa di sostanzioso. Per altri, viceversa, che sono comunque delle grandi potenze, non è necessario essere particolarmente creativi o ingegnosi, noi invece lo dobbiamo essere. E lo siamo stati, perché vedete, se si prendono in considerazione i venticinque anni, ventisette oramai, che ci separano dalla caduta del muro di Berlino, si vedono nella nostra politica estera anche delle cose ispirate a saggezza, a equilibrio, a lungimiranza. È chiaro, mi vorrei soffermare su questo, che il mondo oggi è un mondo globalizzato, è un mondo molto più interdipendente, un mondo sul quale si sono affacciati dei soggetti che fino a venti/venticinque anni fa erano relegati in posizioni marginali, pensiamo solo all’emergere delle nuove economie, a paesi come la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica. Una generazione fa erano messi in un angolo del mondo, oggi, viceversa, sono dei protagonisti a livello mondiale, con delle agende globali come sono le sfide di oggi. Quindi c’è stata una moltiplicazione di soggetti, che hanno popolato la scena internazionale fuori dai nostri confini, e all’interno dei nostri confini c’è stata una moltiplicazione di soggetti che hanno iniziato a far sentire la loro voce in termini di politica estera: la politica estera non è più un fatto esclusivo dei Governi, è un fatto che riguarda i Parlamenti, le opinioni pubbliche, le associazioni, le organizzazioni non governative, gli individui, le associazioni per i diritti umani, la stampa, le associazioni religiose, i gruppi religiosi, una pluralità di soggetti che ha dato quindi una ricchezza nuova al disegno complessivo della politica estera. Allora, se subito dopo la caduta del muro di Berlino noi abbiamo pensato per un momento con degli illustri storici, con degli illustri analisti e politologi che il mondo sarebbe diventato più semplice o più piatto, evidentemente ci sbagliavamo, perché il mondo non è diventato più piatto, non è affatto diventato più coeso, è un mondo nel quale, viceversa, gli attriti, le tensioni, e purtroppo anche le guerre si sono moltiplicate. Tutto questo ha anche uno sfondo che è bene non perdere di vista mai e che è il dato demografico, se ne parla forse meno di quello che sarebbe opportuno. Nel 1950 sulla terra c’erano 2 miliardi e mezzo di persone, oggi ce ne sono 7,3 miliardi e nel 2050, quando la maggior parte di voi frequenterà ancora il Meeting dell’amicizia e Bernardini ed io avremo altre occupazioni, nel 2050 saranno 9,7 miliardi. Quindi nell’arco di 100 anni, un brevissimo arco nella storia dell’umanità, la popolazione mondiale si sarà quadruplicata. Non era mai successo, da che esiste l’uomo sulla terra, una tale accelerazione, una tale moltiplicazione demografica non era mai avvenuta naturalmente. E, a corredo di questi pochi numeri che mi sembrava giusto ricordare, aggiungo solo un altro elemento, che cambia la ratio della popolazione nei Continenti: in Europa nel 1950 c’era il 21% della popolazione, tra dieci anni ci sarà l’8% della popolazione; in Africa nel 1950 c’era il 9% della popolazione, tra dieci anni ci sarà il 18% della popolazione. L’Europa va giù, l’Africa e gli altri Continenti vanno su. Allora, se questo è il mondo e io mi sto avviando quasi alla conclusione, quali sono le sfide di oggi? Guardate, vorrei entrare subito a piedi uniti nel piatto: la sfida di oggi forse è proprio quella del logo di questo incontro di quest’anno del Meeting dell’amicizia: “Tu sei un bene per me”. La sfida di oggi è quella di riconoscere le regioni di gran lunga prevalenti che militano a favore dello stare insieme piuttosto che lo stare divisi. Parlo innanzitutto dell’Europa: si potrebbe fare un discorso molto lungo, ma io dico, io penso con tutti coloro, con molti di coloro che si sono occupati di politica estera negli ultimi decenni, io penso che il destino dell’Italia sia da vedere in un destino comune con i nostri partner europei. Abbiamo avuto dei successi, molti, in parte dati per scontati; abbiamo avuto degli affanni, molti, soprattutto in questi ultimi anni, ma non c’è ragione che il numero degli affanni o delle insoddisfazioni, di cui oggi possiamo ragionare, faccia sì che noi dimentichiamo lo straordinario successo di un’operazione che non ha precedenti nella storia del mondo e che molti Paesi ci invidiano: la storia dell’integrazione europea. Credo che alla base di questo progetto straordinario, originalissimo, ci siano delle motivazioni che oggi noi abbiamo il dovere di non considerare lontane, remote, tramontate, obsolete; no, le motivazioni che c’erano all’inizio dell’avventura europea sono oggi altrettanto valide. Naturalmente vanno rivisitate, vanno attualizzate. Non dimentico mai una bellissima frase di Helmut Kohl che, quando in Germania l’opinione pubblica, molto preoccupata per l’introduzione possibile dell’euro, gli chiese: “Ma perché lei vuole per forza abbandonare il dolce Mark, – che era stato un pilastro dello sviluppo della Germania, della solidità, della stabilità e anche della fiducia della Germania del dopoguerra – perché lei vuole abbandonare il dolce Mark e creare questa nuova moneta strana, senza un Governo, incerta?” Kohl disse: “Io voglio l’euro perché mio fratello è morto in guerra”. E’ una frase straordinaria, perché fa vedere la profondità della motivazione di una generazione che aveva vissuto la guerra, che sapeva che le guerre possono scoppiare anche laddove sembrano impensabili – pensiamo solo a quello che è successo nei Balcani negli anni Novanta -, non voleva che il suo Paese, che il suo Continente attraversassero esperienze di questo genere nuovamente, vedeva viceversa nell’unificazione europea e nel simbolo, all’epoca, dell’unificazione europea, cioè nella moneta comune, il miglior antidoto, il più forte antidoto a tensioni ingovernabili, con tutto che la sua opinione pubblica era all’inizio molto scettica sull’introduzione dell’euro. Allora, che cos’è l’Europa oggi? L’Europa, non dimentichiamolo, è la prima potenza commerciale del mondo, il Paese dove esiste un concetto di welfare che ci viene ammirato, che viene inseguito da parte di molti Paesi; è il Continente che attrae evidentemente, e lo abbiamo appunto sotto gli occhi ogni giorno, è il Continente che se si presentasse unito anziché diviso in 28 alle Olimpiadi, vincerebbe il numero di medaglie d’oro più alto di tutto il torneo in ogni olimpiade. Allora, per non citare solamente Kohl, ma per dare anche la possibilità al grande Helmut Schmidt di essere citato in una assise così autorevole, è vero che Helmut Schmidt una volta disse: “Chi ha una visione è bene che vada dall’oculista”. Lo diceva per scherzare, perché di visioni lui ne aveva parecchie, e qui ci vuole, come stiamo cercando di fare noi in Italia in questo momento, un rilancio di visione europea, un rilancio di motivazione dei valori di fondo dello stare insieme, poi verranno gli aspetti finanziari. L’essenziale è mantenere la rotta e far sì che i Paesi dell’Unione Europea procedano, e procedano insieme ancor più oggi in un momento in cui si sente l’affanno della costruzione europea. Io personalmente sono molto contento e anche fiducioso del fatto che dall’incontro di oggi pomeriggio a Ventotene, un luogo mitico non solo per noi italiani ma per tutta l’Europa, per quello che Altiero Spinelli vi scrisse nel 1941, Il manifesto di Ventotene, cioè l’embrione dell’Unione Europea che abbiamo oggi, e io sono fiducioso che da questo tipo di incontri possa venire uno slancio nuovo. Non ci sarà nessun annuncio clamoroso stasera al Telegiornale, non vi preoccupate, però ci può essere un inizio, una reazione, un processo che faccia i conti con un’Europa in affanno, un’Europa che non può rischiare di perdere ulteriori pezzi, come purtroppo stiamo perdendo con l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. La Brexit non è una passeggiata, non vorrei affatto terminare questo incontro con una nota di preoccupazione, però credo che sia giusto, onesto dire che la Brexit è un colpo duro per l’Europa. L’Europa perde una parte importante di sé, che è l’Inghilterra, una parte che ci collega idealmente anche al mondo anglosassone, che abbiamo fatto di tutto in questi quaranta e più anni per tenere agganciato al nostro progetto. L’Inghilterra, il Regno Unito non è mai stato un partner facile, avendo lavorato e vissuto a Bruxelles tanti anni, avevamo l’impressione che ogni tanto i nostri amici inglesi avessero il piede fuori dallo sportello per cercare di frenare invece che per cercare di accelerare l’andatura di questo convoglio, che viceversa andava avanti, come è andato avanti con progressi, con integrazioni degne di essere considerate per quel che sono. Bene, l’Inghilterra ha deciso di uscire in maniera improvvisa, a mio avviso anche con una procedura un po’ singolare e, appunto, essendo un libero cittadino, posso dirvi anche che è piuttosto sorprendente il fatto che all’indomani del risultato del referendum sulla Brexit, referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito, ci siamo resi conto che i nostri bravi amici inglesi non avevano preparato nulla per questa eventuale uscita, tanto è vero che coloro i quali avevano promosso, e quindi vinto il referendum in maniera un po’ inaspettata e, direi, singolare, anziché mettersi a lavorare si sono dimessi. Meno male che non è successo da noi, diciamo, perché altrimenti ci avrebbero fatti un po’ fritti.
Un’ ultima notazione per cercare di essere un po’ concreti. Parliamo spesso di rilancio dell’Europa, di ritorno ai valori essenziali e di fondo, ma come si è fatta questa Europa, fino adesso, come si è costruita la libertà di circolazione, la moneta unica, il fatto che possiamo andare da un Paese all’altro senza passaporto, che possiamo spostare persone – i nostri figli studiano a Parigi o a Londra, poi ritornano, poi fanno un Erasmus – come si è costruita tutta questa realtà? La si è costruita, per essere tecnici per una volta, con quello che a Bruxelles si chiama il metodo comunitario. Il metodo comunitario è quello che regola il funzionamento di una società nella quale i soci, cerco di dirlo in parole semplici, i soci sono d’accordo nello stare insieme e sono d’accordo di assoggettarsi alle decisioni della maggioranza di quei soci, anche quando essi stessi soci non si riconoscono nella bontà delle decisioni assunte. E’ quello che si fa in qualsiasi società, è quello che si fa in una famiglia, è quello che si fa in un condominio, cioè un metodo comunitario: non sempre tutti i condomini sono d’accordo, però se ci sono 8/10 che son d’accordo bene, la facciata si ridipinge, e poi i 2 che non sono d’accordo alla fine non protesteranno troppo, diranno che non sono d’accordo, ma non protesteranno, non si opporranno. Questo è il metodo comunitario, e noi dobbiamo stare molto attenti perché quello che è in ballo in questa fase è il superamento, il depotenziamento del metodo comunitario. Il metodo comunitario passa necessariamente attraverso delle istituzioni comunitarie e passa attraverso una Commissione che dovrebbe essere propositiva, come vogliono i Trattati, che dovrebbe avere la funzione di proporre misure che sono sostanzialmente nell’interesse della comunità, nell’interesse del condominio, un buon amministratore di condominio ma con potere di iniziative. Allora, questo metodo lo dobbiamo preservare. L’alternativa a questo metodo, che si fa purtroppo sempre più strada in quest’epoca così difficile, almeno dal 2008 a oggi, dalla crisi finanziaria a oggi, il metodo alternativo al metodo comunitario è il cosiddetto metodo intergovernativo. Che significa? Significa che gli Stati organizzano il loro consenso sulla base del loro peso nazionale. Quindi creando dei blocchi a seconda dei loro interessi, che sono però degli interessi nazionali non sono degli interessi comuni e questo crea sfiducia, tensioni, sfiducie reciproche, veti e in sostanza un blocco del processo di integrazione. Quando sentite parlare di metodo governativo, fate una pausa, riflettiamo insieme su cosa significhi e cerchiamo di guardarcene. Una parola per finire: la politica estera è una successione di atti, di decisioni, di programmi, di iniziative che ci riguardano da vicino. E’ finita l’epoca in cui si immaginava la politica estera come qualcosa di esoterico, di fantasioso, distaccato dalla nostra realtà. Basta vedere quello che succede nel Mediterraneo, per capire quanto sia vicina alla vita, alla quotidianità di tutti noi la politica estera. Abbiamo quello che gli esperti chiamano un fire ring, un anello di fuoco di fronte le nostre coste, che va dal Maghreb per tutto il Mediterraneo, fino alla Siria, la Turchia, l’Iraq, l’Iran, fino all’Afghanistan. In questo anello di fuoco l’Italia è molto impegnata sul piano politico, sul piano della stabilizzazione, sul piano del dialogo con tutti i Paesi che ci sono vicini, anche dopo le delusioni delle “primavere arabe”. Cinque anni fa, noi abbiamo sperato che il Mediterraneo fosse in preda ad un virus democratico, che abbiamo salutato tutti con grande entusiasmo, poi ci siamo dovuti rendere conto, con la meritevole bellissima eccezione della Tunisia, che questo processo era molto laborioso, difficile, e con risultati molto contraddittori. Molti Paesi sono stati presi da successioni di rivoluzioni, colpi di stato, si pensi all’Egitto, tutt’altro che stabilizzato ancora oggi, con il quale abbiamo un problemino ancora oggi, dovuto a Regeni o meglio alla mancata soluzione del caso Regeni, ma che speriamo di risolvere con il loro aiuto che è indispensabile; abbiamo la Libia, che è ridotta ormai ad una sorta di Stato fallito, il che è molto preoccupante per noi italiani che ci stiamo di fronte, uno Stato fallito che produce terrorismo, migrazioni senza controllo, instabilità, rischi geostrategici per noi. Pensiamo alla Siria, all’Iraq, le immagini di questi ultimi giorni sono devastanti, un meccanismo che ancora non si riesce a comporre nonostante gli sforzi di tutti e anche gli sforzi italiani. C’è quindi un’area di instabilità. La politica estera italiana è passata in questi anni attraverso una scelta, l’opzione di privilegiare per quanto possibile lo strumento diplomatico del negoziato, del dialogo. Qualche volta un po’ indiscriminatamente qualcuno sia fuori dall’Italia sia anche dentro all’Italia fa appello allo strumento militare: andiamo a bombardare, ma bombardare chi innanzitutto e perché e con quale finalità? Non è vero che l’Italia non abbia una componente militare importante di difesa nel suo ambito di politica estera, al contrario noi facciamo formazione professionale, contribuiamo alle operazioni militari di portata consistente in Iraq e abbiamo delle operazioni in corso, in Libia, di grande delicatezza. Non è vero che l’Italia sia timida o peggio ancora paurosa, è viceversa vero che l’Italia è saggia, e a mio avviso saggia nel ricorso allo strumento militare solo laddove vi siano le condizioni che lo impongano come extrema ratio. Il 2017, è un anno particolare, l’Italia avrà la presenza del G7, l’Italia sarà membro non permanente, dove è stata eletta qualche settimana fa, del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’Italia festeggerà i 60 anni della firma dei Trattati di Roma, avvenuta il 25 marzo del 1957, una serie di circostanze che ci può autorizzare ad avere fiducia nel ruolo dell’Italia in una politica estera ancora saggia e lungimirante. Abbiamo bisogno però di una cosa, di una cosa che negli ultimi anni abbiamo avuto un po’ meno, la stabilita di un Governo, che può essere un Governo buono o un po’ meno buono, ma se lo votiamo ce lo teniamo per cinque anni e poi se non ci piace lo mandiamo a casa, però per cinque anni facciamolo lavorare e facciamogli fare anche una politica estera degna di questo nome, nell’interesse dell’Italia, nell’interesse dei nostri vicini. Quindi, per rispondere ora alla domanda di Bernardini, sì, “Tu sei un bene” e senz’altro un logo che si potrebbe applicare mutatis mutandis alla politica estera dell’Italia, che vuole essere pronta a difendere i suoi interessi, determinata nel portare avanti le iniziative che le competono, sempre pronta a dialogare in un mondo in cui c’è sempre più bisogno di dialogo.

MASSIMO BERNARDINI:
Grazie, ambasciatore Valensise, grazie di questa lucida disamina. Adesso vorrei lasciar spazio ad alcune domande che degli studenti hanno preparato.

STUDENTE:
Buon pomeriggio, sono Elisabetta e studio filosofia, e volevo chiederle quante delle decisioni di politica interna, del primo periodo della storia della Repubblica, sono state influenzate da equilibri internazionali e determinate da interventi esterni.

MICHELE VALENSISE:
Domanda intelligente, complimenti. La risposta è piuttosto semplice. Io credo che quelle scelte di politica estera abbiano avuto un forte condizionamento da parte delle forze interne, cioè ci sia stata una motivazione interna che ha condotto a far sì che noi fossimo parte dell’Alleanza Atlantica e non del Patto di Varsavia. In Italia si era subito dopo la guerra – la mostra illustra molto bene questo primo periodo dopo il 18 aprile del 1948 -, De Gasperi vince le elezioni, stacca la sinistra radicale dal suo Governo, fa una scelta di campo e può fare una scelta di campo occidentale, atlantica, perché si è affrancato da quella collaborazione, che invece nei primi tre anni dal ’45 al ’48 era stata essenziale per rimettere in moto il Paese. Il condizionamento tra politica estera e politica interna è evidente e chiaro e con soddisfazione di chi stava al Governo e invece con opposizione di chi era fuori e non si sentiva rappresentato. Il punto però sul quale riflettere oggi, per dirla in maniera non diplomatica, è che aveva ragione De Gasperi, ma non perché lo dico io, perché lo dissero, a distanza di anni, gli stessi critici di De Gasperi dell’epoca, perché prima il Partito Socialista, poi lo stesso Partito Comunista, con un evoluzione straordinaria che ha posto le basi per il superamento del comunismo, del simbolo dell’ideologia marxista, che ha portato il partito comunista su posizioni sostanzialmente socialdemocratiche. Tutto questo è stato accompagnato da un riconoscimento esplicito, neanche implicito, della bontà e della lungimiranza della scelta di De Gasperi del primo dopoguerra.

STUDENTE:
Io sono Martina, ho studiato Storia all’Università Statale di Milano, io parto dalla mostra dei 70 anni, perché in un video De Gasperi parla alla Conferenza di Parigi del ’46 e rivolgendosi agli altri Paesi, in particolare ai Paesi che hanno vinto la guerra, esordisce dicendo: “Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”. E mi colpiva come, pur essendo l’Italia un Paese sconfitto e in quel momento mal visto da tutti, questo non gli impedisca di ribadire con forza le proprie ragioni. Mi pare che oggi sia venuto meno questo coraggio, che credo nascesse dalla consapevolezza dell’ideale per cui si agiva. E’ vero questo? Se è vero, da cosa è dovuto?

MICHELE VALENSISE:
Quei momenti devono essere stati difficilissimi e dolorosissimi per i dirigenti politici italiani e quella frase che lei ha ricordato di De Gasperi alla Conferenza di Parigi, che è una frase storica bellissima, quella frase riflette perfettamente l’atmosfera nella quale l’Italia si trovò ad agire alla Conferenza di Parigi, come un invitato del tutto marginale, secondario, che andava alla Conferenza di pace nella quale gli altri Paesi decidevano quello che doveva essere fatto, come sarebbe stato l’assetto futuro e nella quale Conferenza il ruolo dell’Italia era difficilissimo. Ancora più difficile poi, dal punto di vista politico e umano, come si vede bene dalla testimonianza di Sforza, doveva essere il ruolo dei dirigenti, dei rappresentanti italiani, i quali andavano a rappresentare una Italia sconfitta, alla cui sconfitta nessuno di loro aveva contribuito, che tutti loro consideravano come era nei fatti, responsabilità di altri cioè di chi c’era stato prima al potere, ma di cui loro dovevano pagare il prezzo. E’ una situazione assolutamente drammatica, riflessa bene nella frase di De Gasperi. Quindi certo, c’è una dimensione di coraggio, c’è anche una dimensione di lungimiranza, perché il ragionamento che fece la politica italiana del ’46 fu quella di ricostituire le basi per far ripartire l’Italia su una pagina del libro nuova, completamente nuova. C’era un prezzo da pagare amarissimo e si pagò, e le cose andarono come andarono, ma certo le immagini degli esuli dell’Istria o dei cadaveri che riapparivano dalle foibe se è devastante oggi, immaginate quanto dovesse essere devastante a pochi mesi, a pochi anni dagli episodi che si erano realizzati in quelle zone di Italia o dalla ex Italia cioè dell’Istria. Speriamo che i dirigenti italiani di oggi abbiano la stessa lungimiranza e lo stesso coraggio e non solo gli italiani, direi gli europei. Ne abbiamo bisogno un po’ tutti di quel coraggio.

STUDENTE:
Salve sono Gabriele, ho studiato Storia a Milano. Mi ha colpito un passaggio del video che lei citava all’inizio di De Gasperi, all’indomani dell’entrata dell’Italia nella NATO, in cui diceva che l’ingresso nel Patto Atlantico era dovuto fondamentalmente al realismo del momento. Inoltre De Gasperi dice che l’Unione Europea era in cima ai nostri pensieri e interessi. Mi ha colpito molto, perché oggi il progetto europeo si è realizzato eppure l’Unione Europea adesso vive grande difficoltà. Volevo chiederle che cosa potrebbe riportare l’Europa in cima ai nostri interessi, anche per noi giovani, e poi volevo chiederle se, vista la quasi contemporaneità storica della nascita della repubblica e del progetto europeo, la vitalità della Repubblica italiana si possa accompagnare alla profondità di adesione al progetto dell’ Unione Europea.

MICHELE VALENSISE:
Io non ho la ricetta magica per rivitalizzare l’Europa, ci credo molto, perché so quanto di buono ha fatto l’Europa a noi italiani e al resto degli europei. Credo però che se dobbiamo cercare di cominciare da qualche parte, credo che sia giusto puntare l’indice soprattutto sulla crescita e sul lavoro. L’Europa deve essere vista come una grande opportunità di crescita e di lavoro, soprattutto in una fase di questo genere, come noi stiamo vivendo, caratterizzata da una crisi che non ha precedenti, che dura da otto anni con tassi di disoccupazione che sono alti e insostenibili per un Paese come l’Italia. Dobbiamo avere la capacità e i nostri governanti devono avere la capacità di far vedere, di farci toccare con mano la grande opportunità di crescita, di lavoro, di occupazione che l’Europa ci offre. Come? Con degli investimenti, con delle risorse, con dei piani. C’è stato un piano, ad esempio, per citarne uno, di cui si è parlato nei mesi scorsi, il piano Juncker, che sembrava preludere ad un importante rilancio dei lavori infrastrutturali in Europa. E’ chiaro che se si fa un’infrastruttura, c’è tutto un indotto che poi si mette in moto e quindi è quello uno dei fattori di crescita. Purtroppo è qualcosa che è apparentemente rimasto più sulla carta che nelle realizzazioni concrete. Allora, primo: crescita, occupazione, lavoro; secondo: sicurezza. Noi viviamo una stagione di incertezza, di paura, di affanni. L’Europa deve essere in grado di mostrare che attraverso la sua organizzazione, attraverso le sue forze, anche militari, riesce a garantire ai cittadini europei un livello adeguato di sicurezza. La sicurezza è un requisito essenziale della nostra vita, nella nostre città, nei nostri paesi. Quindi far vedere che Europa significa sicurezza, come? Ad esempio, si parla molto di protezione o di tutela dei confini esterni dell’Europa, benissimo, allora rafforziamo le capacità dell’Europa di stare come Europa, non come Italia o Grecia, solamente, ma rafforziamo le capacità dell’Europa di stare sui confini esterni, di soccorrere chi ha bisogno ma anche di intercettare chi ha delle intenzioni diciamo un po’ più birichine nei nostri confronti. Terzo punto: spieghiamo ai nostri concittadini che l’Europa è in grado di gestire con equilibrio, fermezza ma anche con apertura, il fenomeno colossale e storico delle migrazioni. Non è possibile che le migrazioni siano un problema per l’Italia, per la Grecia e si rifiuti che invece siano un problema anche per la Repubblica Ceca o per l’Irlanda. Le povere persone che scappano a rischio della vita attraverso il Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna non vogliono venire in Italia, non vogliono venire in Grecia o in Irlanda, hanno l’Europa davanti a sé. Anche lì abbiamo fatto una regola, quella che prevedeva la ripartizione equilibrata degli afflussi all’interno dell’ Unione Europea, una bella decisione, un bell’annuncio, poi purtroppo noi europei non siamo stati in grado di trasformarla in seguiti operativi: tu te ne prendi diecimila, tu te ne prendi ventimila, tu te ne prendi trentamila e li integriamo in maniera intelligente e ordinata. le migrazioni sono un fenomeno che non può che essere gestito in maniera razionale, non certo emotiva, e una cosa che meraviglia molto da questo punto di vista, almeno qui in Italia, è che l’Unione Europea viene contestata in maniera drastica e radicale proprio dagli stessi che si lamentano poi che l’Europa non faccia niente sulle frontiere esterne. Allora dobbiamo metterci d’accordo con noi stessi: ci sono alcuni settori della vita politica italiana, rappresentati anche in Parlamento, che allo stesso tempo fanno una polemica con l’Europa perché non gli piace l’Europa e poi fanno una polemica contro l’insufficienza dell’Europa perché non ha mezzi sufficienti da schierare sulle frontiere esterne. O uno o l’altro ma tutte e due insieme non va, vorremmo essere anche noi più coerenti.

STUDENTE:
Buonasera, io sono Marco e studio Scienze Politiche a Milano. Volevo chiederle se ha degli esempi concreti che nella sua carriera ha vissuto e in cui si è documentato un po’ il genio della Repubblica italiana così come la mostra lo descrive.

MICHELE VALENSISE:
Questa è una domanda trabocchetto, per fortuna, viene alla fine, perché altrimenti si potrebbe dare la stura al ricordo, al reducismo, che è una cosa dalla quale è meglio guardarsi. Le racconto un episodio che mi viene in mente. Nel luglio del 1997, io lavoravo a Sarajevo, una Sarajevo un po’ precaria, io abitavo in una casa dove mi avevano detto che ero un privilegiato, perché era l’unica casa della città che aveva dei vetri alle finestre, tutte le altre case, infatti, avevano dei teli di gomma per evitare le schegge. Un giorno arriva Muti, il Maestro Muti e dice che vuole fare un concerto per la pace a Sarajevo, invitando tutti quelli che si erano fino a poco tempo prima fatti la guerra. “Maestro è una bellissima cosa, ma lei ha bisogno di qualcuno che lo organizzi questo concerto”. “Ah sì”, ha detto Muti, “sono molto contento, io l’ho trovato subito chi me lo può organizzare, è lei”. “Guardi che io faccio un altro lavoro…”, insomma alla fine non so se ha presente l’assertività del Maestro Muti, non c’è stato niente da fare e gli abbiamo dovuto organizzare questo concerto. Allora si fa questo concerto in un palazzetto dello sport, dove si giocava a pallacanestro e vengono con una certa fatica, con una certa diffidenza, gruppi senza armi che, fino a poche settimane prima, letteralmente si erano combattuti, proprio in uno spirito di pacificazione, di conciliazione, di unificazione attraverso la musica. Muti all’inizio prende questo concerto come uno dei tanti concerti che un grande Maestro fa in giro per il mondo. Io mi permetto di dirgli, siccome l’avevo organizzato io, “guardi che qui è una cosa speciale, perché vedrà che qui la gente le verrà dietro, questa è gente un po’ speciale”. Lui fa un bellissimo concerto, vede che la platea si anima e ad un certo punto decide di fare un bis, sceglie in maniera un po’ furba di suonare il Coro del Nabucco. Comincia il Coro del Nabucco, sulle note del Coro del Nabucco, ho paura di emozionarmi ancora dopo tanti anni, questa platea fatta di tagliagole di varie etnie, di varie provenienze, si alza quasi tutta in piedi e comincia a cantare in italiano il Coro del Nabucco. E’ stata una cosa che ha fatto venire la pelle d’oca. Perché racconto questa storia? Anzitutto perché dopo l’ho incontrato, dopo vari anni, e se la ricordava esattamente come gliel’ho raccontata io, ma gliela racconto anche per dire che stare nei Balcani, stare a Sarajevo, c’ha insegnato che mentre noi sapevamo pochissimo di loro -noi avevamo all’inizio difficoltà anche a capire quali erano le capitali dell’ ex Iugoslavia – loro, gli ex-iugoslavi e i bosniaci in particolare e in particolare i cittadini di Sarajevo, città martire dall’assedio, sapevano tutto di noi, tutto. E questa è una cosa che fa molta impressione e molta emozione e credo che su questo bisognerà ancora costruire molto, in Italia e in Europa.

MASSIMO BERNARDINI:
Grazie Ambasciatore e grazie anche di questo accento così personale. Devo ricordare che prosegue la campagna del fundraising del Meeting. Grazie ancora all’ambasciatore Valensise e a tutti voi. Grazie.

Data

22 Agosto 2016

Ora

15:00

Edizione

2016
Categoria
Incontri