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“L’INCONTRO CON L’ALTRO: GENIO DELLA REPUBBLICA. 1946-2016”: LA CHIESA CATTOLICA
Partecipa Agostino Giovagnoli, Docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Introduce Massimo Bernardini, Giornalista e Conduttore televisivo.
“L’INCONTRO CON L’ALTRO: GENIO DELLA REPUBBLICA. 1946-2016”: LA CHIESA CATTOLICA
MASSIMO BERNARDINI:
Oggi in tutte le sale del Meeting cominciamo i lavori con un momento di silenzio e raccoglimento. Unendoci ai sentimenti di Papa Francesco, il nostro pensiero va alle vittime e alle loro famiglie, desideriamo essere vicini a loro, continuando però vivere questa giornata ancora con maggiore serietà. Il Meeting invita ad aderire a qualunque iniziativa che sarà indetta dalle Autorità competenti in questo momento drammatico ed invita tutti i partecipanti ad aderire alla proposta della Presidenza della CEI della Colletta nazionale che si terrà in tutte le chiese italiane, il 17 settembre 2016, in favore delle popolazioni colpite dal sisma.
Diamoci un piccolo tempo di silenzio.
Benvenuti, benvenuto al professor Agostino Giovagnoli, che vi presento subito, perché a lui spetta la conclusione di questo ciclo legato alla mostra “L’incontro con l’altro: genio della Repubblica. 1946-2016”. Abbiamo avuto il Presidente Violante che ci ha parlato della Repubblica, abbiamo avuto il Presidente Amato che ci ha parlato della cultura, il professor Sapelli dell’economia, l’ambasciatore Valensise di politica internazionale, il professor Cassese dello Stato e il professor Giovagnoli, oggi, affronta il tema, concludendo questo ciclo, della presenza della Chiesa Cattolica in questi settant’anni della Repubblica. Devo dire che sono particolarmente felice di presentare il professor Agostino Giovagnoli per la sua competenza riconosciuta in questo campo. Voglio citare alcune sue pubblicazioni: Il partito italiano del 1976, La democrazia cristiana dal 1942 al 1944, Il caso Moro: una tragedia repubblicana del 2005 e poi Chiesa e democrazia, la lezione di Pietro Scoppola del 2011 e un altro volume importante, Le interpretazioni della Repubblica, che ancora di più ci aiuta a capire questo ciclo. Il professor Giovagnoli è ordinario di storia contemporanea nell’UCSC di Milano e proviene da una esperienza cristiana, quella della Comunità di Sant’Egidio, che è evidentemente diversa come scaturigine da quella del popolo del Meeting, che però oggi si ritrova in singolare coincidenza di lettura del presente e dei compiti dei cristiani in questo frangente storico. Il professor Giovagnoli si è coinvolto totalmente in questa avventura della mostra sulla storia della Repubblica, perché è stato il supervisore storico del nostro lavoro e vi assicuro che ci ha fatto parecchie correzioni durante il cammino di questa mostra, e quindi gli siamo particolarmente grati. Allora “L’incontro con l’altro: genio della Repubblica. 1946-2016”, il professore affronterà adesso, in questa lectio di 30/35 minuti, il tema della Chiesa dentro questo cammino storico.
A lei la parola professore.
AGOSTINO GIOVAGNOLI:
Grazie dell’invito e grazie della presentazione. Non sapevo di essere stato anch’io un volontario del Meeting, ma sono contento perché non mi è stato particolarmente pesante, anzi è stato molto interessante per me. Innanzitutto perché fare storia nel contesto del Meeting di Rimini, collocare una mostra di carattere storico nel contesto del Meeting di Rimini, credo significhi fare una scelta che non è semplicemente celebrativa. E’ vero, quest’anno sono settant’anni dal ’46, quindi c’è la scadenza rituale che giustifica una attenzione particolare, però questo, tutto sommato, non basterebbe, non basterebbe soprattutto perché c’è un legame molto esplicito, sottolineato dalla mostra, tra il tema del Meeting, “Tu sei un bene per me” e la Repubblica o meglio “Il genio della Repubblica”. Credo che il discorso che farò brevemente di carattere storico abbia un senso perché si colloca non dentro un momento celebrativo, ma dentro una domanda che si è voluta aprire col testo di questo Meeting e questa domanda è, lo dirò con una certa brutalità: abbiamo una storia alle spalle, abbiamo in particolare una storia d’Italia, una storia della Repubblica italiana di cui celebriamo il settantennio, ma qual è il futuro? Qual è il futuro della Repubblica, qual è il futuro dell’Italia? Voglio essere ancora più provocatorio: c’è un futuro per la Repubblica, c’è un futuro per l’Italia? Non è una domanda retorica. E’ chiaro che fare una mostra su questo tema significa dare implicitamente una risposta positiva. Gli organizzatori del Meeting hanno ben chiaro che è qualcosa su cui investire, quindi è un futuro, un futuro dell’Italia importante dal punto di vista di chi viene e di chi partecipa a questo grande evento e però non basta affermarlo, se no diventerebbe pura retorica. Quindi c’è il problema di chiedersi che cos’è questo futuro dell’Italia e se c’è un futuro dell’Italia. Non è vero che le nazioni sono eterne, la storia, magari la storia del lungo periodo, ci dimostra delle nazioni che prima non esistevano, ad un certo punto esistono e proprio per questo è altrettanto possibile che smettano di esistere. Lo dico perché da molti anni ci sono dei segnali che fanno ritenere possibile un esito di questo genere. Il discorso non riguarda solo l’Italia, intendiamoci, siamo dentro il grande processo che chiamiamo globalizzazione e uno degli effetti di questo processo è anche quello di mettere in discussione gli Stati nazionali, per cui quello che dico per l’Italia vale anche per gli altri Stati europei, certamente per l’Italia vale di più, perché la storia dell’Italia è una storia più sofferta di altre storie, più complicata, è una storia che ha lasciato una realtà nazionale più fragile di altre realtà nazionali. Lo avvertiamo quando andiamo in Francia o in Inghilterra, sentiamo che lì c’è un senso di identità nazionale molto più forte del nostro, il che non è detto che sia un bene, non voglio dire questo, voglio dire che c’è una fragilità italiana che rende questa domanda assolutamente non retorica e assolutamente e fondamentalmente decisiva.
Seconda questione. Che interesse c’è, dal punto di vista di chi ha organizzato questo Meeting, dal punto di vista di Comunione e Liberazione, dal punto di vista, diciamo più generalmente, dei cattolici italiani, che interesse c’è per gli italiani e per il futuro dell’Italia? Noi sappiamo che la Chiesa, la Chiesa cattolica italiana è una realtà universale. Se l’Italia cessasse di essere una Nazione, la Chiesa sopravvivrebbe, eppure la storia ci mostra che non c’è stata indifferenza da parte della Chiesa nei confronti dell’Italia, meglio, la Chiesa cattolica si è fatta carico della realtà italiana, della realtà religiosa, sì, ma anche della realtà politica e della realtà politica e istituzionale. La Repubblica non sarebbe nata se non ci fosse stato un forte appoggio della Chiesa. L’Italia era ridotta malissimo, la guerra perduta, le colpe del fascismo erano colpe dell’Italia, il re era fuggito a Brindisi, sto parlando del ’43-’45, lasciando sguarnito lo Stato, dunque da cosa ricominciare? In realtà l’Italia ha ricominciato dalla Chiesa, ha ricominciato dal ruolo che ha avuto la Chiesa negli anni terribili della guerra, l’accoglienza che è stata fatta ai tanti profughi italiani che scappavano da una parte all’altra del Paese, l’assistenza a tanti, poi soprattutto questa presenza morale più solida che ha aiutato il Paese in un passaggio difficilissimo, il passaggio della guerra civile, l’antifascismo eccetera. Non sto qui a ricordare tutte queste cose, ma solo per dire che la Chiesa ha avuto un ruolo molto importante, anche di garanzia internazionale, perché, così era un’Italia assolutamente squalificata dal punto di vista istituzionale, non aveva nessuna giustificazione. Avete sentito nella mostra le bellissime parole di De Gasperi “tutto è contro di me, se non la vostra personale cortesia”, perché De Gasperi rappresentava l’Italia che aveva aggredito gli altri Paesi. Questa era la realtà e senza la Chiesa l’Italia non poteva rinascere, senza le sue garanzie internazionali. Che cosa guadagnava la Chiesa ad aiutare l’Italia? Niente, questo è molto importante, perché l’Italia ha dato dei guai alla Chiesa, pensiamo al Risorgimento, al conflitto che c’è stato fra il Papato e lo Stato, roba vecchia diciamo, però non è sempre stata una storia felice di rapporti fra la Chiesa e l’Italia e poi un rapporto particolare con la Santa Sede, perché il Papa è sul suolo italiano eccetera eccetera. La Chiesa non ha molto da guadagnare, però la Chiesa nel ’40-’45 si pone in un atteggiamento generoso nei confronti dell’Italia, cioè garantisce per l’Italia assistenza internazionale e soprattutto fa una operazione che era fondamentale in quel momento, incoraggia i cattolici, che erano sempre rimasti dal Risorgimento in poi fuori dalla vita politica più o meno, salvo eccezioni eccetera eccetera ad entrare massicciamente nella politica Italiana. Questo ha fatto la differenza, perché uno Stato fragile ha avuto una immissione di energia assolutamente sconosciuta a tutta la vicenda precedente e non è casuale che dalla guerra agli anni ’70 ci sia stato un periodo che tutto sommato, lo possiamo dire un po’ schematicamente, ha rappresentato gli anni più felici di tutta la storia unitaria, anni di sviluppo e di progresso eccetera eccetera. Allora questo genio dell’incontro, la Chiesa è stata la prima a praticare questo genio dell’incontro, perché è in qualche modo andata incontro a una realtà statuale, a una tradizione che le era nemica. Pensiamo a tutta la tradizione anticlericale da Macchiavelli in poi, a tutta una presenza comunista inquietante, visto che il comunismo si proclamava ateo e persecutore della Chiesa e lo era anche, non solo si proclamava, in altri Paesi, quindi voglio sottolineare questa scelta di generosità fatta alla Chiesa all’inizio della Repubblica e secondo me ciò fa sì che il genio della Repubblica sia stato in gran parte un genio cristiano, anche se non esclusivamente cristiano, perché ci sono state grandi tradizioni nobili ed importanti di altro genere, anche presenze di tradizioni diverse da quella cattolica, come quella protestante, quella ebraica, che sono presenze storicamente importanti in Italia, ma ovviamente minoritarie, la presenza mussulmana poi è venuta un po’ più avanti, all’inizio della Repubblica non c’era. Il genio della Repubblica quindi ha molto a che fare con il ruolo della Chiesa e questo è qualche cosa che poi è diventato un metodo, perché tutti primi passi politico-istituzionali della Repubblica sono tutti passi di incontro. La svolta di Salerno nel 1944, in cui diversi partiti, diversi fra di loro, comunisti, socialisti, democristiani, liberali, si riuniscono per entrare nel Governo. Un momento dell’incontro è l’Assemblea Costituente e così via. Quindi possiamo dire che la Repubblica si è fondata sull’incontro, si è fondata su questi incontri che erano tutt’altro che scontati. Innanzitutto quello fascisti-antifascisti. Oggi si insiste molto sul fatto che c’è stata un guerra civile : è vero, però – se avete visto la mostra, il filmato – c’è un passaggio di Nenni, dopo il discorso di De Gasperi a Parigi, il quale dice: “Noi partiti antifascisti, che non abbiamo voluto la guerra, ci siamo assunti la responsabilità di quello che avevano fatto gli altri, cioè i fascisti, di fronte al mondo”. Questa è una grandissima lezione, questo assumersi le responsabilità non proprie: i partiti antifascisti entrano nel Governo del Re, che è un Governo totalmente screditato, per ridare all’Italia la dignità sul piano internazionale, per ridarle un fondamento democratico. Quindi cultura dell’incontro, cultura della responsabilità. I cattolici entrano massicciamente, tanto massicciamente che nel 1948 hanno il 50% dei voti, perché è un momento della lotta al comunismo e la tentazione, quando si ha tutto il potere in mano, è quello di usarlo tutto: perché no, l’ho ricevuto democraticamente e posso usarlo. No, la scelta di De Gasperi, che evidentemente era una persona straordinaria, è quella di dire: “Dobbiamo autolimitarci, non è il momento di fare lo Stato cattolico, è il momento di abbattere gli storici steccati, è il momento di favorire l’incontro fra i cattolici e i non cattolici, fra i guelfi e i ghibellini, ora o mai più!” E’ un problema che ha diviso l’Italia da secoli ovviamente e quindi l’intuizione dell’incontro. I primi Governi centristi dell’Italia, dal ’47 fino alla morte di Gasperi, ma anche dopo, sono Governi d’incontro fra i laici e i cattolici. La Democrazia Cristiana poteva governare da sola con il 50% dei voti e qualcosa, e invece no! Ci vuole anche la collaborazione degli altri. Faccio un salto al dopo il ’48, che vuol dire guerra fredda, vuol dire scontro epocale fra comunismo e anticomunismo. In Italia il Partito Comunista è una cosa seria, arriva ad avere il 30% dei voti, (parliamo in una terra in cui la presenza comunista è stata forte, diciamo per molti decenni), c’erano tutte le premesse per spaccare il Paese in due parti opposte: una nuova guerra civile che era continuamente sollecitata dalle fortissime tensioni internazionali, pensiamo al conflitto USA – URSS. Il genio italiano è stato quello di non accettare il bipolarismo, (qui è una parola che noi oggi usiamo in un altro senso), ma il bipolarismo di quegli anni è il bipolarismo comunismo – anticomunismo. Se si fosse accettata la logica bipolare, avrebbe significato l’incompatibilità fra italiani, lo scontro totale, un terremoto che avrebbe distrutto il Paese, oppure la reazione avrebbe dovuto essere come quella americana, il maccartismo, i comunisti fuori legge. La scelta che è stata fatta non è stata questa, (certamente le scelte vanno fatte, certamente la maggioranza degli italiani ha detto no al comunismo ed era stata la scelta giusta, col senno di poi è facile riconoscerlo, se no saremmo finiti dall’altra parte del muro, il che non era la cosa più giusta, al contrario) la moderazione nel gestire questa scelta e questa vittoria, anche questo è cultura dell’incontro. Questo credo che abbia ispirato gli anni del centro sinistra. Arrivati agli anni ’70, incomincia un’altra storia. Ci siamo accorti che per chi li ha vissuti, io sono tra questi, sono stati anni tumultuosi, sono stati gli anni del terrorismo, ma è successo qualcosa di molto più profondo e di molto più vasto. La vicenda del terrorismo è stata in fondo terribile, ma anche un residuo della guerra fredda, della lotta comunisti – anticomunisti, del terrorismo di estrema destra e terrorismo di estrema sinistra, ecc. In realtà quello che è stato importante degli anni ’70, è stato quello che oggi gli storici chiamano lo shock globale, cioè un terremoto dell’ordine internazionale: gli Stati Uniti sconfitti in Vietnam, la fine della parità dollaro – oro, lo shock dell’aumento del prezzo del petrolio. Comincia una storia in cui gli Stati nazionali non sono più padroni della loro economia e quindi della loro società e di se stessi. Lo dico in termini estremamente schematici, mi perdonerete, ma c’è una svolta su cui oggi è utile riflettere. E’ chiaro che a quel punto è nata una sfida, non parlo solo dell’Italia ovviamente, questa sfida ha riguardato l’Inghilterra di Margaret Thatcher, ha riguardato anche gli Stati Uniti di Reagan, ha riguardato i Paesi comunisti, perché è lì che è cominciato il crollo di tutto il blocco sovietico, che si è trovato incapace di reagire a questa sfida dei mercati internazionali, dell’aumento del prezzo del petrolio e piano piano, una decina d’anni dopo, è arrivato al collasso. Però è chiaro che c’è anche un problema italiano in tutto questo. Io lo dico anche qui un po’ schematicamente, credo che sia mancata una risposta unitaria italiana a queste nuove sfide, di lì è cominciato il nostro problema. Certo, ripeto, non erano questioni facili, non era facile accorgersi che il mondo stava cambiando, è facile dire queste cose quarant’anni dopo e tuttavia bisogna dire che mentre la classe dirigente e il popolo italiano insieme nel dopoguerra hanno avuto una estrema capacità di essere uniti, al di là di lacerazioni politiche, ideologiche che erano enormi, al di là di una situazione pesantissima, che è quella del dopoguerra, ecc., negli anni ’70 la classe dirigente, i partiti, se vogliamo, e il popolo italiano non hanno colto fino in fondo questa sfida, non dico negli anni ’70, ma anche poi negli anni ’80. E’ un percorso che ci portiamo fino ad oggi. Se il debito pubblico italiano è oggi ingestibile sostanzialmente, è enorme, è per delle scelte che sono cominciate allora. Non voglio adesso gettare la croce su chi allora non ha fatto le scelte che avrebbe dovuto fare, perché non era facile, però bisogna constatare che è mancata questa capacità di unità alla fine, perché un Paese fragile come l’Italia ha la sua forza quando è unito. Il Risorgimento l’hanno fatto gli italiani, perché erano uniti, la ricostruzione post bellica l’hanno fatta gli italiani, perché erano uniti, negli ultimi trent’anni, che in fondo sono stati anni in cui c’erano tante condizioni migliori rispetto ad altri periodi, è mancata questa capacità progettuale e qui nasce secondo me il problema del futuro dell’Italia. Nasce cioè dalla scelta o meno di affrontare collettivamente le grandi sfide della globalizzazione. La globalizzazione è una cosa molto positiva, ha dato alla vita di tutti noi delle prospettive che i nostri genitori non avevano, ma è anche una sfida terribile e quindi bisogna essere all’altezza di tutto questo. E’ come se avessimo un po’ messo la testa sotto la sabbia. Qui poi c’è il discorso degli anni ’80, la fine della corruzione, tangentopoli. Io ci metto tutto questo nella mancata risposta di quegli anni. Se avessimo tempo, lo motiverei in modo più articolato. Dunque la Seconda Repubblica, un altro bipolarismo, che secondo me ha accentuato le divisioni, ha reso ancora più complicata la ricerca di questa risposta unitaria che sarebbe stata fondamentale, ma che è fondamentale ancora oggi, per questo io dico: “C’è un problema di futuro dell’Italia”. Diceva Ernest Renan: “Il futuro di ogni Paese dipende dal plebiscito di ogni giorno”. Che cosa vuol dire plebiscito di ogni giorno? Che in realtà noi, senza saperlo, ogni giorno scegliamo se costruire insieme ai nostri concittadini italiani, (oggi poi il discorso è un po’ più ampio, perché c’è anche l’Europa e via dicendo) oppure no. E’ come se noi avessimo continuato a rispondere sì al plebiscito di ogni giorno, ma sempre più fiaccamente e quindi abbiamo ereditato questo problema fino ad oggi. Ho detto la Chiesa è stata l’inizio di tutto questo. Del trentennio felice, ha dato l’esempio, ha avuto un ruolo fondamentale, ha sostenuto non solo un partito, ma attraverso quel partito ha sostenuto tutta la struttura dello Stato e negli ultimi trent’anni qual è stato il ruolo della Chiesa? Qui bisogna fare un discorso sulla trasformazione della Chiesa. Non è un caso che negli ultimi trent’anni abbiamo un Papa che non è più italiano dopo 450 anni, quindi è chiaro che c’è una dinamica della Chiesa Cattolica che deve diventare sempre più universale e questo è molto giusto, non possiamo chiedere alla Chiesa di eleggere una Papa italiano, perché ci piace di più, evidentemente la Chiesa ha le sue dinamiche, deve rispondere alle esigenze di tanti popoli e quindi sta facendo il suo percorso. Quello che è mancato, siamo noi, cioè i cattolici italiani, che avremmo dovuto reinventare un patto unitario o avremmo dovuto riproporre un patto unitario a tutte le forze politiche, non politiche, sociali, economiche per affrontare insieme i problemi del Paese, non solo cattolici italiani intendiamoci, ma visto che mi avete chiesto di parlare della Chiesa e dei cattolici dirò questo. C’è una responsabilità dei cattolici italiani: si sono divisi, come hanno fatto i partiti, i quali hanno cominciato ad andare ognuno per conto suo proprio quando non c’erano più le ragioni per farlo. Le ideologie stavano finendo e paradossalmente è cominciata una conflittualità come quella della Seconda Repubblica, che è stata esasperata e alla fine anche immotivata. Anche noi cattolici abbiamo fatto più o meno gli stessi errori. Qui c’è una vicenda degli anni ’80 che forse pochi ricorderanno, che è uno dei Convegni ecclesiali della Chiesa italiana, il secondo per esattezza, che si fece a Loreto e lì ci fu un momento di esplicita spaccatura fra quelli che si autodefinirono i cattolici della presenza e quelli che si autodefinirono i cattolici della mediazione. Non voglio adesso entrare nel dibattito di una discussione che ormai è antica, tutto sommato sono passati tanti anni, sto parlando del 1985. Né voglio dire avevano ragione questi o quelli, non è interessante oggi farlo. Però c’è una divisione, quella vicenda ci ricorda che i cattolici si sono divisi e se i cattolici si dividono che cosa tiene insieme il Paese? Perché i cattolici sono una parte importante del Paese, non dico che bisogna votare tutti per lo stesso partito, questo c’è stato per tanti anni, ha avuto la sua funzione, non è questo il problema. Ci vuole una funzione più profonda, che è quella di spendersi e il garantire per l’unità degli italiani e questo noi negli ultimi decenni l’abbiamo fatto poco. Abbiamo fatto prevalere dei progetti individuali o collettivi, delle identità. Non lo so. Varrebbe la pena di farci un ragionamento assieme, di cominciare a riflettere su queste cose, perché io credo che se noi vogliamo ragionare sul futuro dell’Italia, dobbiamo parlare di unità degli italiani e come cattolici dobbiamo dire che abbiamo una responsabilità, perché i cattolici sono comunque una parte tutt’oggi importante del Paese, forse non com’era settant’anni fa, ma insomma rappresentano un ruolo importante del Paese. Oggi abbiamo un Papa, appunto, non italiano, anzi neanche europeo, Papa Francesco, il quale nell’incontro con i Vescovi italiani, nel Convegno della Chiesa Italiana, a Novembre, a Firenze, ha detto: “Io non sono qui a dirvi quello che dovete fare, lo dovete decidere voi, però per favore leggete almeno l’Evangelii Gaudium”, che è il suo documento programmatico, forse era anche un modo per dire che i vescovi non l’avevano tanto letto quel documento, ma lasciamo perdere, questa è una interpretazione mia. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che oggi noi abbiamo una presenza straordinaria, un Papa che viene da fuori, ma che ci fa anche il favore di parlare sempre italiano, soltanto italiano e che ci mette davanti a delle responsabilità e che ha anche delle chance, perché è un Papa della globalizzazione che conosce le ferite, le violenze, gli squilibri creati dalla globalizzazione. Non a caso è un Papa che ci parla continuamente dei poveri, degli immigrati, dei profughi, perché il Papa vede il mondo più di noi che ci siamo un po’ rinchiusi in una logica provinciale. Questa è una grandissima chance per i cattolici italiani, però bisogna raccoglierla e la mia idea, il mio appello, se lo posso fare stasera, è questo: mettiamoci insieme, ragioniamo, parliamo, mettiamo in discussione le nostre divisioni, non partendo da noi stessi, (dal passato sì, anche quello aiuta), ma partiamo soprattutto dal futuro. Oggi in qualche modo Papa Francesco ci insegna, ci mostra qual è il futuro e quindi ci aiuta a capire quale può essere il futuro dell’Italia e il futuro della Chiesa e dei cattolici all’interno dell’Italia. Mi fermo qua.
MASSIMO BERNARDINI:
Adesso le domande preparate dagli universitari.
DOMANDA:
Buonasera. Sono Gabriele e studio Storia a Milano. Volevo chiedere questo. Nella prima parte del video si vede tutta questa nuova generazione di cattolici che entrano in politica. Ora, vi erano stati prima vent’anni di ideologia fascista, quindi un’ideologia che cercava di essere totalitaria anche nel pensiero e ci chiedevamo da dove nascevano queste figure politiche cattoliche, che poi hanno in pratica dovuto guidare il Paese, quasi subito, dopo la guerra, all’improvviso.
DOMANDA:
Buonasera. Io sono Luigi e studio Storia a Milano in Statale. La mia domanda è più su quello che lei ha detto durante questo incontro. Di fronte ad una Chiesa con un Papa straniero che vede molto più di noi il mondo che è globalizzato e dall’altro uno Stato italiano che è ormai sempre più legato a un ottica transnazionale con l’Unione Europea, c’è una possibilità di impegno politico per i cattolici italiani che funga da mediazione tra una Chiesa sempre più universalista e un’Italia sempre più europea.
DOMANDA:
Buonasera. Io mi chiamo Enza e mi sono laureata in Giurisprudenza a dicembre. Lei ha parlato della divisione dei cattolici, perciò le chiedo qual è stata l’origine del cattocomunismo degli anni ’70 e che cosa ha portato il mondo politico cattolico a dividersi.
DOMANDA:
Buonasera. Io sono Marco e studio Scienze Politiche in Statale a Milano. Volevo chiederle qual è secondo lei il contributo che gli oratori e le parrocchie possono dare in questo momento alla costruzione del nostro Paese. Questa domanda nasce dal fatto che queste realtà un tempo assorbivano un ruolo fondamentale non solo di comunicazione della fede, ma anche di formazione civile e morale, mentre in questo momento sembra un po’ scaduto questo ruolo. Grazie.
AGOSTINO GIOVAGNOLI:
Bene. Da dove nasce in pratica la classe dirigente cattolica nel secondo dopoguerra? Effettivamente c’è stato tutto un lavoro nel periodo fra le due guerre, non a caso un ruolo fondamentale fu svolto dall’associazionismo cattolico, soprattutto quello universitario, di cultura elevata, che faceva capo a Mons. Montini, poi diventato sostituto Segretario di Stato, poi Arcivescovo di Milano e infine Papa Paolo VI. Quindi un lavoro di formazione molto difficile, benché ovviamente il contesto fascista rendesse impossibile fare un’attività politica esplicita e tuttavia, attraverso una capacità di formazione profonda dal punto di vista religioso, culturale e molto internazionale, (questo secondo me è interessante, perché questi movimenti erano molto legati alla Santa Sede e quindi a un osservatorio di tipo internazionale), in effetti i cattolici sono riusciti a formare quella che è diventata una classe dirigente che poi, nel dopoguerra, ha preso in mano la politica italiana. I De Gasperi, i Moro, i Fanfani, ma anche gli Andreotti, insomma questa generazione certamente ha potuto svolgere un ruolo importante, perché aveva questo retroterra e non ha mai rotto con questo retroterra. Non basta formarsi da giovani, è anche importante una continuità. La domanda sull’oggi, sulle possibilità di un impegno politico e unitario dei cattolici. Ogni epoca è diversa. Nel dopoguerra c’è stato un impegno in prima persona dell’istituzione ecclesiastica, del Papa stesso, dei Vescovi italiani, oggi non credo che ci sia questo tipo di orientamento, quindi è chiaro che manca questa spinta all’unità anche proprio dentro un unico partito ecc. ecc. Forse poi viviamo in un’epoca che ha altre esigenze. Qui non è tanto il problema, secondo me, di una unità politica, viviamo in una società complessa, quindi c’è l’importanza del confronto fra posizioni diverse. Una unità più di fondo, però, c’è. Io credo che la mia generazione dovrebbe chiedersi se non possa, per i suoi figli, oltre che dargli la possibilità di andare a studiare all’estero, in Francia, negli Stati Uniti, dargli anche la possibilità di vivere in Italia in un Paese diverso. Insomma qui c’è un grande problema di fiducia nel futuro dell’Italia e la fiducia nel futuro dell’Italia è un fatto politico e quindi l’investimento in fiducia è un investimento politico e quindi io credo che debba dare dei risultati anche sul piano politico. Le forme e i modi poi si trovano, quello non è un problema, la cosa importante è credere che si possa avere un futuro comune, si possa gestirlo comunemente, che si possa accettare la collaborazione con l’altro. L’unità non è l’unità di essere tutti d’accordo ma l’unità del collaborare tra diversi. Insomma sarebbe il genio della Repubblica.
Le divisioni nel mondo cattolico negli anni ’70 dove sono nate? Io credo che le divisioni nel mondo cattolico siano nate dalla rassegnazione, che è il contrario della fiducia. I progetti della mediazione o della presenza inconsapevolmente erano progetti rinunciatari, come è stata rinunciataria tutta la società italiana negli ultimi 30 anni di fronte a sfide enormi. Le sfide della globalizzazione sono sfide incredibili e quindi molto difficili da affrontare, però non affrontarle significa rassegnarsi e la rassegnazione porta alla divisione, perché quando si ha un grande problema comune e si cerca di avere la fiducia di affrontarlo, le divisioni vengono messe un po’ da parte. Ognuno ha la sua personalità, la sua identità, per carità, però si cerca ciò che è comune. Quando invece si perde di vista il bene comune, allora nascono le divisioni. Ognuno poi ha la sua storia, le sue ragioni. I catto-comunisti e gli anti catto-comunisti, i cattolici del sì al referendum sul divorzio, i cattolici del no al referendum sul divorzio, la mediazione, la presenza: sono storie di quegli anni che possiamo anche andare a ricostruire, ma dietro c’è qualche cosa che si era rotto e secondo me proprio quella generosità degli inizi e a quel punto ognuno è andato un po’ per conto suo. La domanda su oratori e parrocchie è una bella domanda, una domanda importante, ma non ho la risposta. Non ho la risposta perché qui è un problema della Chiesa italiana, quindi di tutti noi sostanzialmente, perché qui è chiaro che noi ci troviamo di fronte a qualche cosa di nuovo, ci troviamo di fronte anche alla crisi delle vocazioni sacerdotali, che ci interroga profondamente. La parrocchia è una struttura, una realtà che ruota intorno al prete, al parroco, ma se questi non ci sono più, se diventano più anziani che cosa succede? Non lo so, bisognerà affrontarli questi problemi. Papa Francesco ha lanciato una sfida enorme con l’Amoris laetitia, che ha suscitato tante discussioni. E’ un documento molto impegnativo, che ci dice che bisogna avere la capacità di affrontare le ferite di un essere umano, di ogni coppia, di ogni famiglia e che ogni ferita è diversa e quindi bisogna avere la capacità di farsi carico della storia di tante persone. Chi sono i soggetti che lo devono fare? Io sono contento perché, parlando con voi, ho capito che siete un soggetto, che avete delle energie. Allora io, le parrocchie, non è che le vedo tanto bene, mi auguro che ci sia ancora per loro un futuro fruttuoso. Gli oratori attraversano una stagione difficile, forse dovremmo inventare altre cose nuove o rinvigorire delle cose vecchie. Non lo so, questa è una questione che rilancio alla vostra discussione.
MASSIMO BERNARDINI:
Allora caro professore, siccome ho visto che, grazie alla tua estrema capacità di sintesi, ci è rimasto ancora qualche minuto, io avrei voglia di farti io delle domande, un po’ come tendenzialmente provo a fartele da tre anni nel nostro programma. Per esempio a me ha molto colpito, in quello che hai detto, una cosa che ha completamente spostato il mio punto di vista, quando hai parlato di generosità della Chiesa all’inizio della Repubblica. A me ha molto colpito questa posizione, perché si è sempre parlato invece, riguardo quegli anni, di una intromissione della Chiesa dentro lo Stato, a partire dall’esito del ’48, della ricerca di egemonia della Chiesa. Allora, girarla come generosità della Chiesa è un escamotage raffinato o realmente un giudizio storico? Ti provoco un po’.
AGOSTINO GIOVAGNOLI:
Grazie della tua provocazione. Io sono molto convinto di questo. Certo, l’Italia degli anni ’50 era un Italia clericale, nel senso che qualunque cosa si diceva, si faceva, ad esempio una inaugurazione di strade, di un edificio, c’era sempre il Vescovo, la benedizione. Questo ci stava diciamo, però questo in fondo è superficiale. Al fondo la Chiesa ha sostenuto uno sforzo enorme, anche quando non è proprio che fosse convinta. La Costituzione Italiana non è che proprio esprimeva il punto di vista della gerarchia ecclesiastica, i documenti questo lo dimostrano. I Lazzati, i La Pira, i Dossetti, i Fanfani cioè i professori che hanno fatto la Costituzione erano cattolici, indubbiamente, però hanno avuto anche un po’ da litigare con i loro vescovi, però preti e vescovi alla fine hanno accettato, grosso modo. E’ vero, c’è stato qualche intervento di troppo, l’operazione Sturzo, quando Pio XII intervenne per obbligare De Gasperi ad allearsi con i fascisti, ma poi De Gasperi disse di no. Pio XII non ha più ricevuto De Gasperi, quindi c’è stata freddezza sul piano personale, ma dal punto di vista storico De Gasperi ha detto di no perché non era il caso, avrebbe creato ulteriori divisioni. Il centro sinistra è stato fatto contro l’opinione prevalente in Segreteria di Stato e del Presidente della CEI, che era allora il Cardinal Siri. E perché? Perché la Chiesa pensava che alla fine ci fosse un bene superiore, che l’unità dei cattolici, il ruolo della DC fosse talmente importante per il Paese, che anche se i politici italiani sbagliavano, non si poteva abbandonarli e non si doveva abbandonarli in mezzo alla strada. Ecco perché dico generosità, che è anche questo un accettare l’altro anche quando non mi convince, anche quando non sono d’accordo, ma rispetto il suo ruolo storico e la sua importanza. La Chiesa ha anche subito tutta una serie di critiche per queste intromissioni in politica, ma anche questo è un prezzo che è stato pagato, e lo si deve leggere come il prezzo di questa generosità. In termini di potere, che cosa ha ottenuto la Chiesa? Forse c’erano un po’ di soldi che giravano, finanziamenti, qualche costruzione parrocchiale, l’IMU di cui si discute, le esenzioni fiscali, ma insomma alla fin fine poca roba, di fronte a un legame così forte che ha impegnato la Chiesa a scommettere su un progetto che era gestito dai suoi laici, non dai vescovi o dall’ Istituzione ecclesiastica. Inoltre tutto questo non era ovvio, soprattutto agli inizi, per questo dico che c’è stata una generosità e una lungimiranza.
MASSIMO BERNARDINI:
Mi permetto di farti un’altra domanda. Noi, leggendo la storia di don Giussani, ci siamo resi conto che dieci anni dopo la fine della guerra, quando don Giussani incomincia nel 1954 il cammino di Gioventù Studentesca, capisce che in questa Italia, in cui i cattolici in qualche modo sembrano dominanti nella politica, dominanti nel sentire popolare del Paese, esiste una fragilità sostanziale delle giovani generazioni rispetto all’esperienza, alla mancanza di ragioni e decide, da professore di seminario, di andare nelle scuole per incominciare questo cammino che genererà poi tutta la storia del popolo del Meeting. Qualcuno dice che anche altre personalità ecclesiali intuiscono lo stesso problema. Qualche storico dice che in fondo l’intuizione di don Milani era la stessa in quell’Italia che sembrava totalmente cattolicizzata, qualcuno dice che don Mazzolari intuì cose simili e qualcuno dice che lo stesso pensò professor Lazzati, pur dando risposte diverse. Credo che anche il rileggere certe pagine di storia recente faccia capire come tutte queste personalità intuissero che in realtà c’erano le personalità cristiane, l’io cristiano da ricostruire. Ti chiedo perché questa, che all’inizio è una piccola minoranza, che prenderà poi strade diverse, non abbia trovato riscontro nella Chiesa Istituzionale, che per molti anni ha continuato a credere che il popolo italiano rimanesse fondamentalmente cristiano.
AGOSTINO GIOVAGNOLI:
E’ una bella domanda, cerco di essere rapido. I tempi cambiano, la scommessa della società di massa, chiamiamola così, negli anni ’20 ma anche negli anni ’30, ’40 e ancora un po’ negli anni ’50, c’era, era la scommessa di una presenza cattolica dentro una società di massa che deve essere una presenza visibile. Insomma i grandi nemici erano le religioni secolari, il comunismo, il fascismo, il nazismo. Non dico che bisognava fare la stessa cosa ma bisognava esprimere la fede cattolica nelle forme che fossero concorrenziali, efficaci rispetto a questi movimenti ideologici che erano in realtà movimenti “religiosi”, di religione politica. Negli anni ’50 e negli anni successivi, invece, c’è un declino di questo tipo di società. Il benessere, il consumismo, l’individualismo rende meno importante tutto questo. E’ chiaro, il comunismo è finito nel ’89, quindi il problema è rimasto per tantissimo tempo e tuttavia, qui l’errore di molti, credere che il problema fosse sconfiggere il comunismo o perlomeno fosse solo sconfiggere il comunismo, ha distolto l’attenzione dal cogliere i segnali di un altro tipo di problemi che sono stati colti dalle persone che hai detto tu. A quel punto, infatti, non c’era più solo il problema di una presenza pubblica, diciamo così, massiccia, di una visibilità ideologico culturale, ma la questione vera era che il Vangelo va annunciato ad ogni generazione e ogni generazione deve riscoprire il proprio incontro con il Vangelo, tanto più quando ci troviamo di fronte a un sentire individualista che incomincia a crescere e diventa sempre più forte. L’esempio che tu fai di don Giussani è molto felice, perché è questo incontro, il genio di don Giussani, credo si possa dire, l’incontro con i ragazzi delle scuole che lui va a cercare per proporgli qualcosa di assolutamente importante e impegnativo per la loro vita. In modo diverso, gli altri nomi che tu hai fatto avvertono lo stesso problema, dando risposte diverse, che però in qualche modo rispondono allo stesso tipo di problema. Il fastidio per l’Azione Cattolica geddiana e per le grandi mobilitazioni di massa è suscitato dal fatto che alla fine non sono quelle che raggiungono i cuori. Forse negli anni ’20 e ’30 era importante tutto questo ma poi a un certo punto è diventato sempre meno importante e quindi bisognava cercare altre strade. Non tutti hanno capito, qualcuno che l’ha capito è stato anche un po’ osteggiato, si sono fatti degli errori, come è chiaro in tutte le vicende umane, ma, come dicevi tu, possiamo benissimo fare un paragone fra don Giussani e Lazzati, possiamo benissimo fare un paragone fra don Milani e Mazzolari, perché in modi diversi c’è questa sensibilità di incontro personale con il Vangelo. Ed è una lettura, io sono d’accordo, che si presta a delle obiezioni, perché sappiamo che tra questi personaggi, tra queste personalità ci sono stati anche dei conflitti, non possiamo nascondercelo. Però, qui approfitto per fare un po’ di pubblicità a un libro, non mio, ma di una giovane studiosa, Marta Borsani, che ha scritto da poco sulla nascita di Gioventù Studentesca. Leggendo questo libro ho scoperto che don Giussani ricordava molto spesso che uno dei momenti iniziali della vicenda di GS e in qualche modo di Comunione e Liberazione, è stato un piccolo incontro in Val d’Aosta, a Gressoney, e la relazione più importante di questo incontro la fece il professor Lazzati, con cui Comunione e Liberazione negli anni ’70 ’80 ha avuto un conflitto importante. Allora che cosa vuol dire questo? Questa lezione, che Giussani ricordava come splendida, sulla conversione, vuol dire che c’è un legame, un contatto tra queste personalità diverse, che hanno dato una risposta particolare, ma l’hanno data insieme a quella degli altri. C’è più unità di quello che sembra: se Lazzati parlava di metanoia, don Giussani ha spiegato e ha fatto capire che non si può incontrare Gesù da soli, bisogna incontrarlo in comunità, che si vive insieme un’esperienza di Chiesa. Questo credo sia una cosa importantissima della lezione di don Giussani e mi permetto di dire, a tanti anni di distanza, che la comunità di S. Egidio, che è tutta un’altra cosa, ognuno ha la sua identità, per carità non voglio assolutamente confondere delle cose diverse, però storicamente bisogna dire che la comunità di S. Egidio è nata dopo l’esperienza di GS e quindi non avrebbe avuto quel senso forte della comunità, se non ci fosse stata questa vicenda precedente. Poi naturalmente la comunità di S. Egidio ha fatto la sua strada – qui alla mostra sui migranti mi dicono che c’è pure qualche cosa sull’attività di S. Egidio e questo mi fa molto piacere, ma non voglio assolutamente confondere identità molto diverse – però c’è una storia comune, una storia comune che nasce allora e porta a quello che oggi è il tema della nuova evangelizzazione. Papa Francesco è un gran missionario, non a caso è un gesuita cioè è l’espressione chiarissima, esplicita di un percorso che è cominciato allora, confusamente, negli anni ’50, che è passato attraverso il concilio Vaticano II, che in realtà è stato un grande momento missionario, così lo definiva Giovanni XXII, così lo definiva Paolo VI, così lo ha definito anche Benedetto XVI e poi c’è stato il tema di Giovanni Paolo II, il grande tema della nuova evangelizzazione e oggi abbiamo Papa Francesco che raccoglie questa storia e la rilancia in modo più forte. Non partiamo dall’anno zero, ma abbiamo già una prospettiva davanti a noi.
MASSIMO BERNARDINI:
Grazie professor Giovagnoli, grazie anche della franchezza, della libertà con cui ci siamo detti le cose oggi. Ringrazio, essendo alla fine di questo ciclo, tutti quelli che hanno collaborato alla sua costruzione e questa sera il professor Giovagnoli. Grazie