Chi siamo
L’ignoto genera paura, il Mistero genera stupore
Ha partecipato: Javier Prades, Docente di Teologia Dogmatica presso la Facoltà di Teologia San Damaso di Madrid.
Prades: “La Tua voce ha potuto intenerirmi, la Tua presenza trattenermi, e il Tuo rispetto commuovermi. Chi sei? Tu, solo Tu, hai destato l’ammirazione dei miei occhi, la meraviglia del mio udito. Ogni volta che Ti guardo mi cagioni nuovo stupore e quanto più Ti guardo più desidero guardarti”. Attraverso queste parole di Calderón de la Barca riecheggia il protagonista del Meeting dell’anno scorso, l’uomo che guarda alla realtà per quella che è. Questi versi danno il via alla nostra riflessione sul tema di quest’anno. Il grande drammaturgo barocco rende mirabile testimonianza allo stupore carico di domanda e di affezione che nasce di fronte a un Tu e implicitamente a quello stupore unico che si prova di fronte al Tu dell’uomo Cristo. Uno stupore che è un attaccamento quasi impercettibile. Il tipo umano qui riflesso è definito dal rapporto con Qualcuno, infatti sarebbe folle parlare in questi termini davanti al nulla. Ma c’è qualcosa di più, si tratta di un rapporto con Qualcuno, immediatamente percepito come attraente, come bene, come buono. È perciò un uomo il cui uso della ragione e della libertà è in movimento, teso ad immedesimarsi, a farsi uno con l’altro che gli desta stupore. Attraverso questa domanda profondamente personale risuona la compagnia di una presenza, si intravede un uomo teso al compimento di sé, alla soddisfazione.
La cultura in cui viviamo non sembra molto disposta a legare la parola religione a questa esperienza umana. Spesso neanche noi riteniamo che questa posizione nella sua profondità ultima possa a pieno titolo essere considerata come religiosa. Per molti, infatti, la parola religiosità non definisce il possibile compimento dell’umano in quanto esercizio di ragione e libertà, ma dice piuttosto un comportamento di adeguazione a una legge: Dio che punisce o premia – come poteva essere nella generazione che ci ha preceduti – oppure un’opinione puramente soggettiva o emotiva, quasi una impressione. Non mancano neppure coloro che ritengono che la religione sia tout court un’invenzione al servizio di interessi ambigui.
Se vogliamo tuttavia precisare come si manifesta la percezione del Mistero nel clima di fine del millennio, dobbiamo dire che si diffonde l’idea che l’uomo può dare alla sua vita un certo orizzonte di significato, ma che esso è ignoto e che tale deve restare per essere quel di più che rende la vita umana accettabile, diversa da quella degli animali. Un certo senso di avventura o di dinamismo provocato da ciò che è sconosciuto può oggi essere prodotto dall’uomo come un surrogato della dimensione misteriosa della vita. Non è strano dunque trovare gente che identifica il religioso con esoterismo o magia, si parli delle profezie di fine millennio e dell’oroscopo settimanale. Publishers Weekly, il prestigioso catalogo di vendita di libri negli USA, notifica: “Dal Dalai Lama al profeta Nostradamus, allo scrittore di thriller cristiano, tutti hanno qualcosa da dire sul significato spirituale del prossimo cambiamento di calendario; con la conseguenza che gli editori hanno approntato una marea di titoli religiosi o quasi religiosi relativi al millennio”. Anche il pellegrinaggio cristiano viene reinterpretato troppo frequentemente in chiave magica. L’inserto domenicale di un quotidiano spagnolo introduce un servizio sulla Galizia con queste parole: “Il luogo magico fondamentale del cammino di Santiago e di tutta la geografia spagnola è la cattedrale di Santiago, dove confluiscono forze ed energie telluriche”. Per due pagine si descrivono poi i riti magici pagani da compiere in cattedrale.
Ciò che invece viene rifiutato a priori è che questo ignoto possa in qualche modo coincidere con una realtà visibile, storica, che tocca la vita quotidiana. Ciò che non si accetta neanche come semplice ipotesi è che il Mistero possa essere venuto con noi, che sia l’Emmanuel che rende la vita dell’uomo rapporto quotidiano con il significato. Se c’è uno spazio per la religione ai nostri giorni il prezzo da pagare è che il Mistero rimanga confinato nell’al di là, non sia conoscibile, e pertanto non possa agire in modo determinante sulla concezione che l’uomo ha delle cose. Questo significa che non deve aver niente a che fare con la ragione e la libertà come fattori che definiscono l’umano. In un simile contesto la fede è accettabile solo se previamente può essere ridotta a un’illusione. Scalfari sostiene che Nietzsche e, prima di lui, Leopardi, “fondarono sull’illusione il senso della vita e quindi la vita stessa. Non è una illusione anche la fede? Eppure aiuta a vivere, oh se aiuta! Credenti o non credenti siamo tutti sopravvissuti in virtù della illusione, aggrappati alle nostre verosimiglianze”. Il Mistero non è reale se non come supplemento di orizzonte che l’uomo stesso si crea per sopravvivere, poiché il senso della vita in fondo non è altro che l’illusione di cui l’uomo ha bisogno perché l’al di qua non diventi insopportabile. L’esistenza, più o meno virtuale, del Mistero resta dunque come un puro fattore ignoto, funzionale agli strani bisogni di senso che l’uomo accusa e che deve soddisfare da sé.
Se la parola Mistero viene usata in modo tale da rimandare a un ignoto che sia pura illusione, apparenza effimera, e dunque menzogna, ciò che si evince è che nel mondo attuale domina l’assenza religiosa come assenza del Padre, vale a dire l’esclusione a priori del fatto che il Mistero, in quanto origine di tutto, realtà da cui ogni cosa trae consistenza e verso cui tutto tende, possa avere un disegno di bene nei nostri confronti.
Ai nostri contemporanei sembra più facile accettare l’esistenza di un essere lontano, e comunque razionalmente inconoscibile, piuttosto che ammettere l’ipotesi di un Mistero buono che si manifesti a noi come Padre, fondamento, origine e senso di tutto. Freud più di altri lo intuì quando sostenne che “la questione decisiva per la vita dell’uomo è il suo essere figlio”. È la questione del Padre. Se Dio fosse un tiranno celeste che decide dispoticamente delle sorti dell’uomo allora non saremmo che schiavi: le alternative sarebbero rivolta e disperazione. Senza una presenza buona cui affidarsi la vita dell’uomo non sarebbe voluta, accompagnata o accolta da nessuno, la solitudine non potrebbe non degenerare in paura e violenza.
Ricordiamoci della solitudine di un bambino nella notte del bosco di Tradate. Aveva paura e gridava, chiamava una presenza che sola gli avrebbe permesso di godere le cose, che pure c’erano prima ed erano tutte per lui, ma che nel buio gli diventarono estranee e quindi ostili. Tanti anni dopo quello stesso bambino poteva evocare sua madre con ammirazione vedendo una bambina che diceva a sua madre: “Mamma per te tutto è grande!”. Non è stata diversa l’esperienza del rapporto con il Mistero propria del popolo di Israele che canta per bocca del salmista: “Anche se cammino per valli oscure nulla temo perché Tu sei con me, Signore”. Se Dio non si può conoscere, se non si è in sua compagnia, non si può conoscere neanche il reale. Anch’esso diventa sempre più incomprensibile, il cosmo, la natura, dalla vita interiore dell’uomo ai suoi rapporti. Sembrava che l’uomo indipendente, ormai, posto al centro del mondo sarebbe diventato il signore; invece il senso del reale gli risulta sempre più estraneo, si tratti di marito o moglie, di storia vissuta insieme o della propria vicenda personale, è come se ogni certezza potesse sbiadire da un giorno all’altro fino a vanificarsi nel niente. Non solo il Mistero diventa totalmente sconosciuto: anche l’uomo ai propri occhi diventa uno sconosciuto.
Secondo quel che prevale, intorno a noi e in noi, siamo posti di fronte a un’alternativa veramente radicale riguardo a cosa sia la religiosità alla fine del millennio: accettare una religiosità come rapporto fittizio con un mistero lontano e ignoto o una religiosità intesa come apertura al Mistero, fino a riconoscere la nostra dipendenza originale da esso, fino a riconoscerne la presenza nell’evento di Cristo. Chi si riconosce però nel rapporto di dipendenza da una presenza buona viene respinto come un uomo d’altri tempi, un uomo non ancora uscito dall’adolescenza, un uomo non pienamente ragionevole. Perché è necessario fare i conti con questa obiezione? Cosa è successo? Perché l’atteggiamento religioso che si esprime come stupore davanti al Mistero presente è diventato per i più estraneo, se non addirittura disumano in quanto limitante e oppressivo della propria ragione e libertà? Tali obiezioni sembrano quasi scontate, si sono impadronite della mentalità nostra e altrui.
C’è voluto un lungo processo durato secoli per arrivare a una situazione in cui, per la mentalità dominante, la concezione di Dio e la concezione dell’uomo sono profondamente mutate rispetto alla tradizione precedente. È necessario prenderne atto, non tanto per il gusto erudito di conoscere gli antefatti del problema, ma più precisamente per conoscere una nuova tradizione, una nuova genealogia di pensiero e di vita che sta alla radice della nostra mentalità. Il tipo di sapere che nasce con la modernità poggia su una concezione assoluta di ragione, assoluta secondo il termine latino absoluta, “sciolta da”. I motivi derivano dal fatto che la ragione da un lato, essendo separata dall’atto con cui la coscienza coglie il reale, cerca il fondamento del sapere solamente in se stessa, e dall’altro si concepisce come orizzonte totalizzante e compiuto di ogni sapere, escludendo da esso tutto ciò che non rientra nella misura che la stessa ragione predetermina. Riguardo alla libertà il processo è analogo: esaltata come padrona, tanto quanto lo era stata la ragione, pretende di produrre la propria soddisfazione a partire da ciò che fa e finisce per esasperarsi e ultimamente esaurirsi poiché la realtà è stata spogliata di ogni sua consistenza. L’impeto infinito del desiderio sul quale la libertà si fonda, dunque, non trova più un oggetto adeguato che la soddisfi.
La metodologia che ha accompagnato questa comprensione della ragione, sin dall’inizio dell’epoca moderna, è il dubbio. Segnala Hannah Arendt che nel pensiero moderno il dubbio occupa la stessa posizione centrale che occupò nei secoli anteriori l’ammirazione dei greci, la meraviglia per tutto ciò che è in quanto è, e che tale mutamento riflette una situazione sociale a partire dal tardo Medioevo e fino al Rinascimento.
Lo dimostra anche Cervantes, nel suo grande capolavoro Don Chisciotte. Nel primo volume di quest’opera si svolge una scena in cui Don Chisciotte e Sancho sostano in una trattoria insieme al barbiere e al prete, loro amici. A un certo punto un ospite suggerisce di leggere dopo cena un accattivante romanzo dal titolo Il curioso impertinente. Vi si racconta la storia di due fiorentini, Lotario e Anselmo, che condividono tutto nella vita, al punto da essere esempio in città di una commovente amicizia e fedeltà vicendevoli. Quando Anselmo sposa Camilla anche Lotario diventa quasi membro della famiglia. Camilla è un esempio non solo di bellezza, ma di bontà e fedeltà al marito, da tutti riconosciuta. Un giorno, però, Anselmo espone a Lotario una questione che lo inquieta: vuole sapere se Camilla è così buona e così perfetta come sembra. Per questo, chiede al suo intimo amico di tentare in tutti i modi di sedurre sua moglie. Tutte le obiezioni di Lotario, in nome del buon senso, si scontrano con il testardo dubbio di Anselmo sull’onestà di Camilla. Dopo uno svolgimento in cui apparenza e menzogna soppiantano sempre più le ragioni conclamate all’inizio, Lotario, che si era opposto con tutte le forze alla pretesa dell’amico, finisce per innamorarsi davvero della donna; entrambi, avendo prima accettato la farsa per accontentare il marito, finiscono per tradirlo veramente. Il tutto finisce nella tragedia: Lotario fugge e muore in battaglia, Anselmo muore di tristezza e Camilla, dopo essersi rifugiata in convento, muore anche lei. Al termine della lettura del racconto, il prete, amico di Don Chisciotte, dà questo giudizio: “La novella mi pare eccellente, ma non riesco a convincermi che questo possa essere vero, e se è finto l’autore ha fatto male a fingerlo, perché non si può immaginare che vi sia un marito così stolto che voglia fare come Anselmo una così costosa esperienza. Se questa situazione fosse stata creata tra un innamorato e la sua dama forse potrei accettarla, ma fra marito e moglie la reputo impossibile. Quanto poi al modo di raccontarla non mi dispiace davvero”.
Don Chisciotte è stato scritto nel 1605, trentadue anni prima che Cartesio pubblicasse il Discorso sul metodo. Il talento narrativo di Cervantes descrive mirabilmente un mondo in profonda transizione, dove già il dubbio si erge a principio dell’azione, staccando la ragione da ogni senso del reale, distruggendo non solo i rapporti, ma la vita stessa; dall’altra parte si rappresenta una società che sembra ancora in grado di percepire la radicale disumanità che questo nuovo principio del dubbio comporta, reputandolo inconcepibile. L’uomo che poggia sulla sua ragione tradotta in capacità di dubbio, come metodo di autoaccertamento e autosufficiente, diventa il padrone; esiste solo ciò che l’uomo pensa e vuole. L’atteggiamento che identifica la modernità poggia su questo presupposto inamovibile. L’uomo è dotato di una capacità di sapere e di potere tale che non ammette nessuna istanza superiore. Viene rifiutato ogni rimando oltre sé e si afferma la piena corrispondenza naturale tra l’uomo e il suo ideale conoscitivo ed etico. La verità e la sua corrispondente certezza non verrà più dal riconoscimento del reale: la certezza deriva da ciò che l’uomo fa, dal suo agire. La verità non è più un dato ma un prodotto.
Il tipo di concezione e di educazione al senso della vita che ne consegue si può rintracciare in un altro capolavoro della letteratura, questa volta di fine ’800, Casa di bambola di Ibsen, considerato a buon diritto il simbolo dell’emancipazione della donna europea. Verso la fine dell’opera si produce questo dialogo fra i due protagonisti, Thorovald Helmer e sua moglie Nora. “Nora: “Siamo sposati da otto anni; non noti che noi due, tu e io, marito e moglie, facciamo oggi per la prima volta un discorso serio? Non ci siamo mai trovati insieme seriamente per ponderare qualcosa a fondo. Passai dalle mani del babbo alle tue. Tu e il babbo vi siete resi gravemente colpevoli nei miei confronti, vostra è la colpa se non sono riuscita a niente. Adesso c’è un altro compito che devo assolvere, devo cercare di educare me stessa e tu non sei uomo da aiutarmi, devo farlo da me, perciò ti abbandono, devo essere sola se voglio raccapezzarmi in me stessa e nel mondo, perciò non posso più rimanere con te”. Thorovald: “È rivoltante! Così ti sottrai ai tuoi doveri più sacri?”. Nora: “Quali sarebbero secondo te i miei doveri più sacri?”. Thorovald: “Devo dirtelo io? Non sono i doveri verso tuo marito e verso le tue creature?”. Nora: “Ho altri doveri che sono altrettanto sacri, i doveri verso me stessa”. Thorovald: “In primo luogo sei moglie e madre”. Nora: “Non lo credo più, credo di essere prima di tutto una creatura umana al pari di te o almeno voglio tentare di diventarlo. So bene Thorovald che il mondo darà ragione a te e che qualcosa di simile si legge nei libri, ma ciò che dice il mondo e ciò che si legge nei libri non può più essere norma per me. Io stessa devo riflettere per vederci chiaro nelle cose””.
La scena e il libro finiscono poco dopo, quando Nora sbatte la porta di casa e se ne va. L’eco di quella porta risuonò per decenni in tutta l’Europa perbene, nonostante allora si gridasse allo scandalo. Quanto l’atteggiamento di Nora sia vicino all’inalienabile responsabilità verso la propria vita come esigenza originale, quanto l’equivoca modalità con cui lei procede a realizzarla sia fuorviante, rimane per noi europei un doloroso punto di richiamo viste le conseguenze che il dilagare di un tale atteggiamento ha avuto sulla nostra vita civile e sociale.
Se questo è l’uomo europeo che dall’800 in poi diventa sempre più autosufficiente nel cercare risposta alle esigenze più profonde della sua vita, cosa succedeva nel frattempo con Dio? All’inizio di questo processo Dio non è stato immediatamente negato, semplicemente comincia a scomparire come fattore inerente e culminante dell’esperienza umana. Il processo inizia quasi impercettibilmente come un distacco tra Dio, origine e senso della vita, e Dio come fatto di pensiero. Se Dio è concepito distaccato dall’esperienza, se non incide sulla vita, vi è un distacco del senso della vita dall’esperienza. L’esito è che Dio diventa estraneo all’uomo moderno: questo esito si vede, come nota acutamente la Arendt, già in Cartesio e Leibniz, per i quali il problema non è provare che Dio esiste, il che è ancora assodato, ma piuttosto che è buono. Il pensiero moderno, fondato sulla ragione assoluta, è coerente quando ritiene a priori impossibile l’autorivelazione di Dio nella storia ed esclude conseguentemente il contenuto gratuito di verità divina che veicola. Il processo di estraneità, che comincia con il rifiuto della rivelazione cristiana, non arriva subito a negare l’esistenza di un “ente” supremo, ma non è più in grado di sostenere con semplicità e immediatezza che questo Essere sia buono, che possa costituire l’origine, il destino e la pienezza dell’umano. La diffidenza verso la rivelazione fa sì che il mistero diventi sempre meno noto e quindi sempre più estrinseco alle esigenze umane. Questo fenomeno è facilmente riscontrabile ancora oggi all’interno di tante famiglie di tradizione cristiana, dove le parole cristiane nascondono in realtà una concezione deista oppure neopagana di Dio. Una malattia, una fatica nel lavoro o una contraddizione, mettono allo scoperto l’immagine di Dio che detta legge sul quotidiano: un Dio giudice, se non addirittura vendicativo, che non conviene infastidire troppo perché non si aggravino le nostre sventure. Il divario tra parola e esperienza difficilmente può essere più negativo per la persona .
Un Dio sempre più ostile, o almeno inutile, presto finirà per essere sentito da tanti come ostacolo ad una piena autonomia e l’ostacolo verrà rimosso per lasciare spazio all’uomo indipendente. Noi siamo testimoni di quello che significa per la trasmissione della fede cristiana una concezione simile di Dio. Nell’arco di due generazioni, almeno in Spagna, la tradizione si è indebolita a tal punto che socialmente non si trasmette più nella sua interezza. Non basta che i genitori o gli insegnanti continuino a professare, anche sinceramente, una fede giusta nelle verità, se il contenuto della vita è questo Dio sentito sempre di fronte a noi, se non contro di noi. Sta di fatto che per Nora la religione, così come l’aveva conosciuta, non era di nessun aiuto per il problema della vita.
Se questa, a grandi linee, è la traiettoria che segue l’uomo moderno e dunque anche il Dio moderno, possiamo segnalare alcuni fenomeni tipici del nostro tempo, quasi dei corollari riassuntivi del processo appena descritto.
In primo luogo, all’atteggiamento dominante nei confronti della religione è funzionale sia una posizione religiosa relativista, da promuovere, sia una posizione religiosa integralista, da demonizzare. Siccome la religione non è stata strappata dal cuore umano, malgrado i crudeli tentativi dei regimi totalitari, essa può sussistere all’interno della cultura laica occidentale a patto che sia ridotta ad un fattore puramente emotivo o sentimentale, comunque irrazionale. Si può ammettere un sacro folcloristico, poiché, questa religiosità, come puro fenomeno culturale regionale, si dimostra compatibile con il razionalismo, vale a dire con la totale autonomia dell’uomo. La religione è un prodotto subordinato alla mentalità, non c’entra con la verità del reale, patrimonio esclusivo della ragione autodefinitasi assoluta. Se la religione accetta di relativizzarsi in questo modo, non avrà problemi per sussistere; la cultura dominante non farà altro che favorire gli esponenti di questa forma ridotta di religiosità che rinuncia al vero.
Il fenomeno speculare della religiosità light è così la religiosità violentemente ideologizzata dalla paura: ecco gli integralismi. Questa forma di religiosità è anch’essa tipica dell’età moderna e soltanto apparentemente in contraddizione con quella precedente. Essa scaturisce dalla vertigine di fronte a certi rischi della modernità e perciò condanna con vigore, reagisce violentemente usando il nome di Dio per allontanare un pericolo. Neppure in questa religiosità integralista Dio può essere il centro effettivo della vita, bensì uno strumento al servizio di un potere; in quanto ideologia mascherata come religione, porta in sé i segni più caratteristici della moderna cultura occidentale, soprattutto l’intolleranza. Anche l’integralismo, paradossalmente, è funzionale ad una mentalità che lo può sempre agitare come spauracchio di fronte ai rischi ed ai pericoli del fanatismo, in cui si fa rientrare qualsiasi appartenenza veramente religiosa.
Un secondo fenomeno tipico del nostro tempo è il nichilismo che si manifesta come indifferenza fino alla banalità del male. Nulla va preso sul serio, nulla emerge come valore; l’ignoto si manifesta umanamente in questa inafferrabile banalità per cui niente vale niente. Le nostre società riflettono questa sorprendente fragilità della persona, questa debolezza di giudizio: l’uomo diventa incapace di riconoscere la propria esperienza con le sue esigenze più originali. Il nichilismo dei giorni nostri è perciò identificabile in questa sterilizzante superficialità, in questa indifferenza a sé stessi, non meno violenta, anche se più subdola, delle esplosive rivolte di un tempo. Si è parlato in merito di “rassegnazione della massa”: questo è esattamente il riflesso sociale della riduzione del Mistero a ignoto.
Nell’insicurezza radicale si affida il proprio destino alla cultura dominante che i media diffondono sempre più capillarmente. In questo senso non sono da sottovalutare gli eventi musicali di massa che hanno avuto luogo questa estate: dalla “love parade” di Berlino, dove si sono radunati più di un milione di giovani europei, tantissimi venuti dall’Est, alla “streets parade” di Zurigo, con settecento mila giovani della Mitteleuropa, convenuti all’insegna di “tecno, amore e fantasia”, con tanto di rito pagano sponsorizzato. Cosa si nasconde sotto questa veste di superficialità e gaia indifferenza? Qual è il grido, tante volte implicito, che si vede nella inespressività delle facce? Una carenza di affettività, una dimenticanza dell’essere stati voluti, che lascia il posto alla presunzione di volersi da sé, la pretesa di evitare ogni legame che renda dipendenti e che possa, dunque, farci soffrire. L’uomo, isolato dalla realtà per una concezione assoluta di ragione, finisce anche per essere isolato affettivamente, rinnega ogni costitutiva dipendenza, non riconosce di essere stato voluto e pretende di volersi da sé.
Dal nichilismo non è stato infatti difficile passare al totalitarismo: numerosi episodi della vita europea del XX secolo sono la realizzazione pratica di teorie dei secoli precedenti. Per quel che riguarda i totalitarismi, comunista e nazista, pur nelle loro differenze, una volta che il programma dell’ateismo teorico sembrava essere riuscito, hanno avuto la pretesa di essere forme sostitutive della religione. Entrambi i totalitarismi vogliono il cuore, la totalità della persona e presuppongono il nichililsmo: sono la forma di potere che si dà il nichilismo quando è riuscito a seminare la rassegnazione nei cuori. La politica diventa dunque totalitaria quando pretende di impadronirsi del senso religioso dell’uomo e di soddisfarlo per se stessa negando radicalmente Dio come senso dell’azione. Una tale pretesa di autoaffermazione radicale di un potere umano, questo volersi da sé abnorme, non può che coincidere con la dimenticanza dell’altro fino alla sua uccisione. L’ideologia totalitaria tende inevitabilmente ad eliminare ogni ostacolo che si opponga al suo autosviluppo. Lo Stato che prende idolatricamente il posto di Dio nel nostro secolo diventa, con temibile precisione, una grande sorgente di paura, frutto del terrore anonimo. Vasilij Grossman ha descritto, a tratti mirabili, nel suo capolavoro Vita e destino, l’atmosfera di terrore che lo stalinismo crea, non soltanto attraverso le deportazioni di massa e i crimini inenarrabili o l’incarceramento di innocenti, ma anche quando penetra nei cuori, fino a rendere l’uomo insicuro di ogni certezza prima posseduta: forse si trova qui la radice di tutte le altre forme di violenza contro l’umanità.
Se il cammino che abbiamo descritto per cenni sembra concludersi in una vittoria inappellabile di questa distruzione dell’umano, da dove si riparte? È possibile ricominciare? Possiamo formulare queste domande con la parole efficaci di Grossman: “Nella stretta della violenza totalitaria la natura dell’uomo subisce trasformazione, diventa un’altra. L’uomo perde il suo caratteristico desiderio di essere libero. In questa risposta sono racchiusi il destino dell’uomo e il destino dello Stato totalitario. La trasformazione della natura stessa dell’uomo assicura il trionfo universale ed eterno dello Stato dittatoriale. L’immutabilità della tensione dell’uomo alla libertà è la condanna dello Stato totalitario”. Non si fa fatica a capire che i termini dell’alternativa sono radicali per le sorti dell’uomo ed è per questo illuminante ascoltare la risposta di Grossman: “Il totalitarismo non può fare a meno della violenza. Se lo facesse, perirebbe. L’eterna, ininterrotta violenza, diretta o mascherata, è la base del suo potere. L’uomo non rinuncia volontariamente alla libertà. In questa conclusione è racchiusa la luce del nostro tempo, la luce del futuro”. Il fatto che l’uomo non abbia perso il suo desiderio di libertà, neppure quando sottoposto alle terribili condizioni che i regimi totalitari avevano creato per annientarla, offre il punto di svolta e segna la strada da percorrere anche nei nostri tempi, in cui i regimi politici democratici non sono quelli del totalitarismo classico, ma dove la situazione di mancanza di difesa culturale nei confronti dello Stato è sempre una grave minaccia per le società, anche occidentali. Se i mutamenti nella concezione di Dio e dell’uomo avvenuti nell’età moderna sono stati così profondi come abbiamo descritto, resta comunque l’evidenza che, testardamente, la libertà si attesta ancora sulla terra come punto di partenza per un recupero adeguato del volto dell’uomo e del volto di Dio. Gesù ammaestra i suoi discepoli sulla modalità con cui un uomo diventa libero: è soltanto nell’incontro con la Sua presenza che si compie la libertà: “Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero”.
Che uomo può garantire ad un altro uomo la sua piena libertà? Come mai questo incontro rende definitivamente liberi? Questa affermazione inaudita si può giustificare ad un’unica condizione: che Gesù sia in se stesso la Verità, quel Mistero che fonda l’esistenza e compie con sovrabbondanza l’esigenza umana di soddisfazione completa. Tertulliano aveva ben colto questa condizione quando, facendo eco alla dichiarazione solenne del Vangelo di Giovanni “Io sono la Via, la Verità e la Vita” affermava: “Dominus noster Christus veritatem se non consuetudinem cognominavit”. “Il nostro Signore Gesù Cristo nominò se stesso Verità, non abitudine”. Cristo non si autopresenta agli uomini come una possibilità fra le altre in vista di un comportamento religioso e morale, ma avanza una pretesa eccezionale: essere la Verità universale, connessa con il destino di ogni uomo, la quale si manifesta attraverso la particolarità storica della vicenda personale di Colui che è nato a Betlemme nel secolo primo della nostra era. È questo l’evento che solo rende ragione del famoso millennio: da duemila anni Dio si è fatto compagnia all’uomo.
Proviamo a dettagliare alcune dimensioni di questo incontro che introduce alla conoscenza di Dio ed alla pienezza di sé. In primo luogo chi riconosce Cristo prova lo stupore proprio della evidenza del vero. Von Balthasar aveva ribadito nella sua grande opera Gloria: “Il mistero quando si comunica non ha bisogno di essere spiegato a partire da un’istanza diversa, ma si autoattesta come vero offrendo gratuitamente le sue ragioni all’interlocutore, in modo tale che questi possa riconoscere la corrispondenza con le sue più profonde esigenze e reagisca esprimendo sorpresa, meraviglia, attrazione e desiderio”. La Redemptor hominis di Giovanni Paolo II aveva proprio affermato che questo profondo stupore rispetto al valore ed alla dignità dell’uomo si chiama Vangelo, si chiama cristianesimo.
In secondo luogo l’incontro non si limita ad un fascino estetizzante, più o meno estatico; è essenziale alla ragione che questo riconoscere la realtà e se stessi arrivi fino ad illuminare la dipendenza originale, come dato creaturale che l’incontro storico rischiara. È soltanto a questo punto che l’incontro svela tutto il suo contenuto di verità e illumina la condizione propria di Dio e la condizione dell’uomo. Ireneo di Lione lo aveva espresso icasticamente nella sua nota formula: “Deus facit, homo autem fit”. Dio, Colui che fa essere, Colui che genera, si manifesta come Padre; l’uomo è fatto, vive da un Altro, è figlio. Finché non si arriva a questo punto non è possibile ancora parlare di una religiosità pienamente umana. A partire da questo incontro si apre il cammino della libertà come cammino verso l’altro.
La modalità di cammino tipica del Vangelo si dimostra profondamente corrispondente alla struttura della libertà umana. Essa è drammatica, cioè tende necessariamente verso una pienezza che non possiede e che non può non desiderare per essere sé stessa. Detto in altri termini: l’uomo esiste, ma non basta a sé stesso, egli non può non essere in azione, poiché è inevitabilmente attirato dal desiderio di unità con il reale. Questo movimento implica l’uscire da sé, l’essere con l’altro, che nel caso degli uomini è essere per l’altro, un dare sé per raggiungere sé stessi. Questa struttura drammatica di ogni libertà mostra che l’uomo è originariamente chiamato a vivere in rapporto con il reale e in un rapporto di tensione all’unità con il reale. La grande tradizione cristiana ha sempre identificato come un bene questo tendere tipico del desiderio umano anche nel rapporto con Dio. Esclama sant’Agostino: “Si cerca per incontrare più dolcemente e si incontra per cercare con più avidità”. È questa la tradizione umana e di fede che risuonava ancora in Calderón. In senso contrario questo è il motivo per cui l’uomo isolato, frutto della sua pretesa di distacco da ogni legame, resta sempre insoddisfatto.
La natura drammatica della libertà si può precisare ancora come storicità. Scrive Ratzinger: “Il paradosso dell’uomo è che solo nella tensione verso la particolarità di una storia che lo raggiunge dall’esterno può ottenere l’universalità di sé stesso”. La libertà umana ha una natura storica, è in cammino verso la realizzazione di sé nel tempo e nello spazio. Per diventare sé stesso, l’uomo deve uscire da sé, e questo movimento si dà concretamente quando si gioca nelle concrete situazioni della vita, che sono le condizioni per raggiungere la sua pienezza. L’uomo acquista i significati universali inevitabilmente attraverso la particolarità di una concreta condizione e, quanto più penetra nel particolare, tanto meglio si svela l’esigenza di totalità che lo costituisce. Sa veramente che cosa è la paternità chi ha potuto conoscere un padre che era tale. Perciò l’uomo non si accontenta di una particolarità chiusa su di sé e che non rimandi all’universale. Anche qui siamo lontani dall’ideale di una ragione autonoma che cercava in se stessa, fuori dalla dipendenza di tempo e spazio, il sapere assoluto.
Se la figura compiuta della libertà è quella che stiamo tratteggiando, si può avanzare un’altra conclusione: nel suo tendere imperfetto, nel suo divenire, vale a dire, nel suo non essere ancora ciò che è, l’uomo assomiglia già all’essere perfetto e immutabile, anche se resta la fondamentale dissomiglianza fra l’uomo e Dio. L’uomo è simile a Dio dall’interno della sua condizione finita, storica, mutabile; non deve superare la sua caratteristica tensione, il suo essere in cammino, perché è proprio in questo tendere, nelle sue insoddisfatte approssimazioni analogiche alla perfezione che assomiglia a Dio, restando chiaro allo stesso tempo che non è Dio, nel quale la pienezza esclude ogni divenire. Se l’uomo religioso si riconosce simile a Dio proprio nei suoi tentativi imperfetti, l’uomo non religioso, che pretende di essere Dio, oscilla invece fra la pretesa di essere all’altezza nel fare da sé, e la rassegnazione cupa di chi non riesce ad impadronirsi della verità e conclude, contro ogni buon senso, che la verità non esiste. “Nei Vangeli – scrive Mario Luzi – la presenza del Mistero non solo aleggia, ma è proprio palpabile, sensibile. Nel linguaggio del Vangelo è inclusa la presenza del Mistero come nozione non negativa, non come un divieto a conoscere, ma, anzi, come un’offerta di conoscenza”. Queste parole sottolineano la radicale diversità fra la concezione cristiana e le altre concezioni di Mistero. Per la rivelazione cristiana Cristo è chiaro come Mistero, possiamo dire che è il segno che spiega tutti i segni; non esaurisce il Mistero, ma chiarisce tutto il resto restando come Mistero. Le parole di Gesù spiegano la vita, perciò, dopo Cristo, non si può più parlare in senso radicale di ignoto, né di paura, se non per quello che tocca Satana, il principe della menzogna, e delle false apparenze. Se il mistero dell’incarnazione, l’avvenimento di Cristo, permette di comprendere come è e come si muove l’umana libertà, Egli svela simultaneamente il Mistero nella sua intimità: ci ha aperto la strada per conoscere il Suo vero volto. Nello svelare l’uomo a se stesso Cristo manifesta che Dio non è l’ente supremo del deismo o il sovrano minaccioso da cui l’uomo moderno voleva a tutti i costi scappare, ma è un “tu” che ci ama senza riserve. Il Mistero infinito è un “tu”. In questo riconoscimento, pieno di rispetto e venerazione, come solo l’esperienza davanti al tu di una persona amata permette evocare, risiede tutta la nostra dignità. La nostra grandezza poggia tutta su questa appartenenza del nostro “io” al “tu” che ci fa essere. “Io” sono “tu” che mi fai.
Siamo arrivati proprio alle antipodi di quella religiosità senza paternità con cui avevamo iniziato la riflessione. L’immagine del Mistero che Gesù ha introdotto per sempre nel mondo è quella di un Padre che non si risparmia, come genialmente gli riuscì di descrivere nella parabola del figliol prodigo. Giustamente la rivelazione può asserire tam pater nemo. Gesù insegna che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo.
Facciamo un esempio sull’aspetto trinitario di Dio. Che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo ci offre la ragione ultima per il rispetto della diversità di razza, di religione e di cultura, nella convivenza fra gli uomini. Era classica l’obiezione razionalista al monoteismo come fattore di squilibrio e, dunque, di potenziale pericolo per le democrazie basate sul relativismo: chi confessa una verità assoluta non è in grado di partecipare al gioco della democrazia che postula il rispetto degli altri. Conviene ricordare, a questo proposito, come il fatto che in Dio vi sia distinzione reale fra le persone significa che esistono l’uno, l’altro e la loro unità. Perciò è bene che l’altro sia, l’alterità è la condizione di possibilità della realizzazione di sé. Questa è anche la ragione che distingue il monoteismo cristiano dagli altri grandi monoteismi: Dio stesso è una unità di tre persone in un’unica essenza di amore. Il cristiano, conseguentemente, è rispettoso dell’altro, non malgrado la sua fede, ma in forza di essa; la carità e i suoi tentativi storici, limitati o maldestri, lo portano ad una più intensa immedesimazione con la natura dell’essere divino come Gesù la rivela, non ad una omologazione estranea alla sua propria identità.
In una conversazione di alcuni anni fa don Giussani diceva a Giovanni Testori: “Non si può dare ad un essere umano, non si può dare ad un figlio, il senso dell’essere voluto; non si può far capire questo se non si comunica la gioia di un destino”. La nostra riflessione ha voluto contribuire a illuminare la differenza che c’è fra una concezione del mistero come ignoto e una concezione del Mistero come presenza che desta stupore e fa essere. La ragione di questa differenza è molto semplice: davanti all’ignoto si ha paura e dunque non si è liberi; chi non è libero non può costruire nella sua vita, nella vita sociale. È necessario quindi ritrovare quella presenza che sola permette di uscire dalla paura e che solo ridà la gioia di un destino, rendendo possibile comunicare ad altri esseri umani l’esperienza dell’essere voluto. Se una concezione deista o neopagana di Dio, all’interno delle parole cristiane ha portato ad un indebolimento della trasmissione della fede è perché genitori, maestri, sacerdoti, non hanno saputo comunicare la gioia di un destino buono. Dal rapporto filiale con il Mistero sgorga invece un amore vero per l’altro, un darsi interno che permane desiderabile il giorno dopo, come il giorno prima, che nel darsi non si consuma, ma si incrementa. Hannah Arendt notava che l’uomo moderno, isolato, vive nel risentimento, mentre l’atteggiamento propriamente umano è la gratitudine tipica del figlio. Di questa gratitudine si potrebbero avanzare i più svariati motivi, ma è nell’incontro con Gesù che si rende possibile la morale: adesione razionale e libera con una presenza connessa con il proprio destino. Questa presenza pone l’orizzonte di una pienezza imprevedibile interna all’azione, non più misura esteriore, limite o pura legge. Il suo culmine storico è il perdono, o meglio, la misericordia che abbraccia e accoglie l’altro anche nella sua disperazione più nera. Questo distingue il figlio dallo schiavo dominato dalla paura, è questa la compagnia che l’ignoto non potrà mai offrire all’uomo nel suo dolore, nelle contraddizioni, nel male, nella morte. È l’uomo Gesù la vittoria definitiva del Mistero di Dio sull’ignoto, l’uomo presente come attrattiva, che ridesta il nostro stupore e mette in moto la libertà.
Anche la cultura popolare cristiana ha sempre saputo che la vera religiosità non è mai misura di fronte all’altro, ma rapporto tenace, dove l’altro, Dio, abbraccia sempre. “Cosa importa se gh’ho le scarpe rote, scarpe rote? Mi te vardo e me sento il cor contento, oh!”, come mi insegnò qualche anno fa una bellissima canzone italiana di montagna.