Chi siamo
LIBERTÀ E SPERANZA
Partecipano: Luigi Geninazzi, Giornalista e Scrittore; S. Em. Card. Angelo Scola, Arcivescovo Emerito di Milano. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.
Libertà e speranza
Ore: 19.00 Salone Intesa Sanpaolo A3
LIBERTÀ E SPERANZA
Partecipano: Luigi Geninazzi, Giornalista e Scrittore; S. Em. Card. Angelo Scola, Arcivescovo Emerito di Milano. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.
ALBERTO SAVORANA:
Buonasera e benvenuti a questo momento di dialogo con Sua Eminenza il card. Angelo Scola. Mi scuso con lui ma non riuscirò a dargli del lei, perché ero praticamente un bambino quando l’ho conosciuto. Essendo quasi alla soglia della pensione, ritengo di avere acquisito una familiarità che mi consente di guardarlo come un amico e un padre. Il dialogo di questa sera ha avuto un’origine assolutamente occasionale: bevendo una bibita prima di un incontro a Milano, Scola si è lasciato scappare una battuta: «Quest’anno mi piacerebbe fare un salto al Meeting». Ho riferito la cosa a Emilia Guarnieri, che la mattina dopo gli ha telefonato dicendo: «Vieni a fare un incontro». È inutile che lo presenti: cardinale di Santa Romana Chiesa, classe 1941, origine lecchese, sacerdote, vescovo di Grosseto, rettore della Pontificia università lateranense, preside dell’istituto Giovanni Paolo II a Roma, patriarca di Venezia e infine arcivescovo sulla cattedra di sant’Ambrogio e di san Carlo Borromeo, che ha lasciato di recente per raggiunti limiti di età. L’occasione di questo dialogo ha un fattore ulteriore – ed è il motivo del secondo ospite che abbiamo sul palco -, ed è che Scola ha appena dato alle stampe una lunga conversazione con Luigi Geninazzi – storico inviato di Avvenire, grande conoscitore specialmente del mondo dell’Est, prima e dopo il crollo del muro -, in cui ripercorre i momenti e le tappe della sua vita. Io proverei a fare un passo al contrario e a partire dalla fine, quando nel libro, alle ultime battute, si fa riferimento alla vecchiaia: «Invecchiando c’è una cosa che si fa sempre più evidente». Che cosa? E come vedi, dall’altezza dei tuoi anni, la realtà e il mondo oggi?
ANGELO SCOLA:
Anzitutto voglio ringraziare la presidente del Meeting e tutti gli organizzatori per avermi dato questa opportunità di parlare a voi questa sera; Alberto, che ha accettato l’onere di leggere questo mio libro-intervista di circa 300 pagine, che però ha dentro anche delle cosa divertenti e leggere; e tutti voi, che a quest’ora di sera, dopo una giornata piena di cose belle, trovate ancora l’energia per essere qui così numerosi. Io ho fatto per domenica un’intervista a Repubblica in cui l’intervistatore, Gnoli, chiedeva: «Che cosa significa per Lei oggi vivere appartato?». Ho detto quello che sto più o meno facendo: anzitutto il prete, e ho la fortuna, il dono di non doverlo fare più sotto i riflettori, il che è una cosa molto positiva perché i giornalisti sono una tribù molto particolare. Poi ho detto che, nella misura del possibile e tenendo conto degli acciacchi della mia età, rispondo a delle domande, soprattutto quelle che vengono dalla diocesi di Milano dove sono stato, alla fine del mio cammino, vescovo, oppure da altre realtà: domande di dialogo, di incontro sull’esperienza e sulla vita cristiana. Infine, in maniera molto ridotta, qualche conferenza o qualche lezione universitaria. Certo, devo dire che la questione che la domanda di Alberto pone viene fuori, è inutile nasconderselo, da quando sono andato a Imberido e ho lasciato quello che Schuster definiva un mestieraccio, cioè fare l’arcivescovo di Milano. Per non farla lunga, dopo aver accennato a quel che faccio, più o meno, l’ho condensata in questa affermazione: domandare soprattutto alla Madonna (perché io, per quel poco che prego, non riesco a non passare dalla Madonna per arrivare a Gesù) la grazia che il desiderio di vedere il volto di Dio la vinca sull’uggiosa preoccupazione della morte. Questo è sinceramente quello che mi sta più a cuore, credo sia una sfida che ognuno di noi deve affrontare; e a suo tempo, la affronterete anche voi. Questo desiderio che ho nel cuore mi fa guardare al lungo cammino che ho fatto fino a qui e alla realtà che stiamo vivendo con due atteggiamenti. Il primo, che ha cominciato a prendere peso nella mia vita negli ultimi anni di Venezia: accogliere un ri-dimensionamento della mia persona. Lo dico in senso etimologico, riportarla alle sue dimensioni reali, senza più narcisismi, senza più ambizioni, senza più elementi di autoaffermazione. A livello personale, in fondo questo è entrare un po’ di più nella famosa humilitas che, attraverso il Borromeo, caratterizza la Chiesa milanese e che c’è stata insegnata fin da ragazzi da don Giussani nel suo valore adeguato, non moralistico, non la caduta nella falsa umiltà. E questo mi consente anche, sempre dentro la domanda di fondo da cui sono partito, di guardare al cambiamento d’epoca di cui parla papa Francesco, che sta investendo tutto, a tratti come un tornado, a tratti come la famosa Chernobyl spirituale di cui parlava il don Gius, con un’attitudine di misericordia, cioè di amore, di larghezza, verso uomini e donne del nostro tempo, verso la confusione in cui spesso sono immersi. Al di là di tutti i miei limiti, mi fa cantare un inno di gioia e di amore verso la Chiesa in tutte le sue manifestazioni, in modo particolare in quella manifestazione che la Provvidenza ha voluto per me che è l’appartenenza al carisma di don Giussani. Quindi, guardo ai fenomeni che sono in atto – se ne potrebbe parlare a lungo, ma non è il caso – da questo punto di vista e con questo atteggiamento. Purtroppo sono ancora lontano da questa attitudine che, come dice Balthasar, concepisce la morte al centro della vita. È una cosa che fa solo il cristianesimo, perché recepisce la morte non come un annullamento – tanti di voi l’hanno sperimentato nella morte dei propri cari – ma come uno scivolare, dall’abbraccio degli amici, dei fratelli e delle sorelle cristiani, nelle braccia di Dio.
ALBERTO SAVORANA:
Hai appena parlato di un lungo cammino che ti ha portato a intravedere questi due fattori, questi elementi della tua personale esperienza attuale. Ma com’è cominciato tutto per te? Tu, nel raccontare di te, evochi il Montini del 1934, che parla di un Cristo diventato ignoto, un grande sconosciuto. A un certo punto parli di un cristianesimo che restava come una vernice, una facciata. «Non ricordo di aver mai saltato una messa alla domenica, ma era come se questo non contasse più niente per me. E probabilmente anch’io sarei finito così se non avessi incontrato qualcuno».
ANGELO SCOLA:
Sì, questo è vero, è il punto. Nella mia vita ho cominciato l’esperienza di fede succhiando il latte da mia madre – allora, in un paese come il mio, ma anche nella regione Veneta e in tutta Italia, nel Sud ancora di più, si imparava a credere senza bisogno di sforzo, come si respirava -, questa è stata la prima fase della mia vita. Quando poi ho affrontato la scuola superiore, lì sono stato molto preso dall’impegno politico di mio padre, che era quello – mio padre era camionista, lavorava durissimamente – del socialismo massimalista, il problema della giustizia. Ed è stato in quegli anni, dai 14 ai 19, che il fatto cristiano non è stato annullato ma era come alle spalle, come una vernice, come qualcosa di in-incidente. Cos’ha cambiato questa situazione? L’incontro: ho sempre detto ai giovani in questi anni che bisogna fare nella propria vita un esercizio, ritornare al momento in cui il battesimo ricevuto da bambini attraverso un incontro è diventato attuale, è diventato occasione di appartenenza stabile alla Chiesa. E questo momento per me è avvenuto in due tappe (nel libro sono descritte): la prima tappa è stata in un Triduo pasquale, che ancora a Lecco nel ‘57 i preti potevano fare, facendo sospendere le lezioni a metà mattina e portando tutti gli studenti delle superiori alla basilica di san Nicolò ad ascoltare un relatore. Fu la prima volta che vidi don Giussani, che svolse un tema di grandissima attualità che mi colpì moltissimo: “Gioventù come tensione” (non so se nell’archivio ci potrà essere ancora qualcosa di questo genere). Mi colpì moltissimo perché era un modo non clericale di parlare, non moralista. E mi lasciò dentro come una specie di tarlo. Ma la resistenza a lasciar cadere gli interessi concreti era così forte che era come se non riuscisse a trasformare questa incrinatura in quella famosa rottura di cui parla Oscar Wilde, quella rottura per la quale lui dice: «Da dove potrà entrare Gesù, se non da un cuore spezzato?». E in questo senso, l’incontro con l’evento concreto di Gesù dentro la comunità cristiana si è come esplicitato in una seconda tappa: Baroncini mi invitò a partecipare a una dieci giorni di studio del movimento di Gioventù studentesca del cavallino rampante, che era il movimento dell’Azione cattolica (il don Gius cominciò da lì, soprattutto dalle ragazze di questo movimento). Io conoscevo ancora poco il don Fabio e avevo bisogno di lavorare per mantenermi a scuola, quindi facevo lezione ai ragazzi dell’Avviamento. Lui venne ad invitarmi in un caldissimo inizio di meriggio di luglio e per convincermi mi disse: «Ma sai, possiamo anche andare in montagna sulle Dolomiti, non è tanto caro…». Va beh, andammo. Non sempre partecipammo a queste decisamente noiose lezioni e ci prendemmo del tempo, appunto, per andare in montagna. Il penultimo giorno, credo fosse giovedì, venerdì o sabato della settimana, il direttore di questo campo del Falzarego, che era Nicora – sarebbe poi diventato vescovo ordinario -, disse: «Voi non avete seguito tanto bene, però domani c’è un’occasione speciale. Vengono qui a parlare tra voi quattro o cinque ragazzi che hanno terminato le vacanze con don Giussani a Penia di Canazei. Vi pregherei di essere presenti». Eravamo in questa sala sbrecciata della gioventù fascista che poi, attraverso Lonarno, era passata all’Azione cattolica, cento persone circa, penso, con le lampadine che pendevano dal soffitto. E siccome era piena di mosche, c’erano – forse quelli della mia età se lo ricordano – intorno alla lampadina quelle carte gialle che catturavano le mosche. Queste carte erano strapiene, per cui era un brutto vedere. A un certo punto, tutti seduti, il Pigi comincia a parlare e dice: «Se Gesù Cristo non c’entrasse con quella lampadina, io non sarei cristiano». Sono rimasto scosso, devo dire che subito ho sentito la risonanza di quella tensione di cui il Gius aveva parlato. È stato un incontro veramente puntuale; per la prima volta, ho recepito nella mia vita che quel Gesù di cui pur avevo tanto sentito parlare, avevo studiato al catechismo, avevo parlato tanto, era una presenza viva davanti a me, contemporaneo a me. E da lì la mia vita è cambiata e ha preso la strada a cui l’Alberto faceva riferimento prima. Quindi, l’esperienza dell’incontro – il Papa parla della cultura dell’incontro – è stata per me veramente decisiva e puntuale. Mi ha colpito quando, leggendo un testo breve di Balthasar sul prete, Balthasar parlò così della sua vocazione (ve lo consiglio proprio come esercizio di attualizzazione del battesimo): «Potrei ancora oggi andare sotto quell’abete preciso della Foresta Nera in cui per la prima volta ho capito che ero chiamato a servire, anzi, che venivo preso a servizio». L’incontro è un avvenimento puntuale che dal cuore di Gesù, mediante la potenza dello Spirito, tocca il tuo cuore e lo trasforma.
ALBERTO SAVORANA:
Hai parlato della scoperta, attraverso quell’incontro particolare, di Cristo come contemporaneo a te; e prima, nella precedente risposta, hai fatto accenno al cambiamento d’epoca. Mi ha molto colpito come tu identifichi il punto acuto per i cristiani, per la Chiesa, di questo cambiamento d’epoca. Dici: «I più grandi problemi, per le Chiese europee – stai parlando dell’Europa – sono iniziati tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento, allorché il processo di secolarizzazione ha intaccato la stessa riflessione teologica permettendo la riduzione di Cristo a un mito. Qualcosa che lungo molti secoli ha fatto da stampella alla coscienza morale dell’umanità la quale però, oggi, potrebbe camminare da sola. Cristo relegato a figura etica in un passato che Lo rende ultimamente inutile». Ci dici qualcosa di più su questo? Perché io capisco che è una cosa su cui tutti, in qualche modo, facciamo la verifica.
ANGELO SCOLA:
Sì, almeno, con queste parole io volevo descrivere la sostanza del travaglio di epoca che noi stiamo attraversando. Io non amo parlare di crisi perché il discorso sulla crisi, per porsi e imporsi, ha bisogno, comunque, del riferimento al passato, il discorso della crisi vive del passato. Tant’è vero che anche oggi, se guardiamo i giornali, dicono: siamo ritornati ai livelli di produzione di macchine utensili del 2008, prima della crisi. Invece, il travaglio in cui noi siamo immersi punta tutto sul futuro: pensiamo alla donna che partorisce, che patisce i dolori del parto, che in termini reali percepisce dal profondo di sé la tensione dell’aspettativa, dell’attesa, come andrà, ecc. Ma eretta e sorretta dalla speranza nel futuro, eretta e sorretta da quel novum, da quella novità che è la nascita di suo figlio. Il cristianesimo, a partire dalla modernità, ma parlo della modernità che si è prodotta nella seconda parte dell’umanesimo, ha perso questa percezione cristica, perché fu l’esperienza che Cristo fece fare e fa fare oggi a chi Lo incontra. Essere mossi e animati dal desiderio che una novità appaia nella mia vita, appaia per amore e si dilati per amore, perché la vita, la nascita è molto diversa dalla morte. Tutto ciò che nasce, muore, la morte è linearmente dentro il cammino della vita mentre la nascita di un bambino è l’irruzione dall’alto di una novità. Ecco perché suscita tanta gioia nei genitori, ecco perché alimenta la speranza, ecco perché diventa il senso e il motivo di una vita: cosa non facciamo per i nostri figlioli, come non li vogliamo, come non li amiamo? Allora il discorso si farebbe lungo, bisognerebbe riflettere su questa parola, “secolarizzazione”, che ho usato perché è una di quelle categorie “tomba” in cui tutto ciò che si mette dentro finisce per ricevere un sapore di morte. La secolarizzazione è finita, noi siamo nel tempo della post- secolarizzazione, perché? Perché è cominciata dalla negazione della possibilità di un uomo, quell’uomo di Nazareth, che diede la Sua vita, essendo figlio di Dio, per noi; è cominciata dalla negazione della possibilità di questo dato. Non è possibile che un uomo singolo sia la spiegazione del senso della vita di tutta l’umanità. Allora potete ripercorrere tutta la storia della modernità in questa chiave, la religione nei limiti della sola ragione, Gesù grande maestro morale, ma adesso siamo capaci di dire “noi” razionalmente, e via e via con i vari tentativi di sostituire questo universale, questo fattore unificante dell’io, della Chiesa e della famiglia umana. Ma dove siamo finiti? Nel problematicismo radicale e nell’impossibilità di parlare del senso della vita. Quando si parla di secolarizzazione, si deve parlare della sua fine. È finita, abbiamo davanti un tempo nuovo, certo, ha lasciato macerie ma ha prodotto anche cose positive, il discorso del soggetto, della libertà, ecc. Però adesso dobbiamo alzare lo sguardo e domandare, mendicare la novità del nostro cuore, del nostro io, che questa novità, per la potenza dello Spirito, con l’aiuto della Madonna, intacchi le persone che incontriamo. Non ho potuto venire al Meeting dopo il 2004, ma nella mezza giornata che sto passando oggi sono due le cose che mi hanno impressionato: il permanere di questa possibilità, di questa capacità di suscitare il gusto e il desiderio del novum della nascita, pensate al bellissimo libretto di dialogo di Giussani con Testori su questo tema, questa grande possibilità del nuovo. Però, vedete, l’età gioca i suoi scherzi, adesso quest’applauso moscio mi ha fatto perdere quello che stavo dicendo. No, no, non è che domandavo l’applauso, volevo dire che mi tornerà in mente. Mi hanno colpito due cose, dunque, la prima è questa capacità di generare il nuovo, il nuovo in me, in te, tra noi. Poi vado via diverso, dopo mezza giornata così: e tutto quello che ho potuto vivere, che Dio mi ha dato, anche con grandi responsabilità, è come se diventasse vanità in paragone a questa possibilità che il nuovo si rigeneri. L’altra cosa, che è molto più banale: è abbastanza impressionante vedere le facce di quelli della mia generazione, quindi voi, nei miei confronti. Vedere la vecchiaia, o meglio, l’anzianità che i nostri volti testimoniano, però attraversata dal gusto e dalla ricerca di questa novità.
ALBERTO SAVORANA:
Tu, ad un certo punto, sottolinei la percezione ormai diffusa che, appunto, un’epoca si è chiusa. Dici, però, che non riusciamo ad immaginare come sarà l’uomo del futuro. Per molti, questo, specialmente nei giovani, è fonte di paura, segno di una profonda insicurezza esistenziale. In te com’è, questo?
ANGELO SCOLA:
Non vorrei insistere a tornare sulla prima risposta che ti ho dato, ma la paura è un sentimento umanissimo: chi di noi non ha paura? Quando ero piccolino, la strada per tornare dalla chiesa, dall’oratorio a casa mia era un viottolo sassoso, con i ciottoli, e non c’era neanche una luce. E qualche volta si stava in oratorio fino al buio, fino alle dieci. Mi ricordo la velocità con cui facevo quel pezzo di strada perché sempre, immancabilmente, fino a che l’ho fatta, la paura mi prendeva. Si parla tanto dell’accoglienza degli immigrati, dei problemi relativi a questo fenomeno che io chiamo, ormai da quasi 20 anni, di “meticciamento” delle nostre civiltà. E ci stupiamo che la gente abbia paura di fronte a fisionomie culturali così diverse, di fronte al fatto che devi vivere sul pianerottolo con persone che hanno un altro senso dell’organizzazione della vita e dell’ordine. Devi accettare odori, colori e sapori che non ti sono proprio familiari. Sono banalità ma portate nel quotidiano. Allora, la paura bisogna capirla, abbracciarla e farla evolvere dentro una testimonianza di coinvolgimento e di condivisione. Tutti noi abbiamo fatto quest’esperienza a diversi livelli, per esempio di fronte alla vocazione, allo stato di vita, ai timori e ai tremori: «Farò bene, farò male; sono capace, non sono capace di fare il prete, con tutte le fragilità che mi porto dentro; sarà veramente la sposa giusta quella che ho davanti; e questo figlio che aspetto con timore e tremore». In questo senso, dobbiamo accogliere la paura in noi come una provocazione alla responsabilità, al vivere la vita come una risposta. La nostra vita ha una natura responsoriale. Dicevo prima che la nascita, a differenza della morte, è l’irruzione di un novum: allora dobbiamo rispondere a questa irruzione che è il dono di
Dio nel nostro quotidiano. E questa è la radice della responsabilità. Non la responsabilità che ha portato taluni pensatori del secolo scorso ad esaltare l’etica protestante e il senso del lavoro: sì, buona cosa, ma non è che noi cattolici non l’abbiamo. La responsabilità nel concepire la vita, ma la vita nel quotidiano, in ciò che mi dà oggi, soprattutto tenendo conto dei limiti, delle fragilità in cui sono immerso, come risposta. Noi ambrosiani (non lo dico perché la cosa non valga anche per i romani) abbiamo un fattore educativo molto bello: i nostri Vesperi delle feste e delle solennità incominciano sempre con un Responsorio, con un dialogo tra Dio e l’uomo. Allora, la paura si vince con la responsabilità intesa in questo senso radicale, che poi evidentemente comporta una serie di conseguenze. Il modo migliore per immaginare il futuro – ci è stato detto fin da quando eravamo ragazzini – è assecondare le circostanze e i rapporti che tramano la realtà. Ricordo un esempio che, da ragazzo, sentivo sempre da don Giussani sul peso della circostanza e del rapporto come “le mani di Dio” nella vita. Allora, cominciavano i primi ad andare in missione. Un giorno, mi ricordo, in uno di quei “raggi degli ex”, si chiamavano così prima che Giovanni Colombo facesse una sistemazione giuridica diversa di Gs, della Fuci, dei Laureati cattolici, ecc. Si faceva questa raggio nel terrazzo di via Statuto (che adesso non c’è più) per tutti quelli che erano già all’università e che erano un po’ “incaricati” del raggio. Una volta, per spiegare la vocazione, Giussani disse: «Supponi che tu senta la vocazione di andare con la tua bella in Brasile. Ci pensi, ci ripensi, lei dice subito di sì, poi i genitori non sono d’accordo, poi rinvii, poi qua, poi là, alla fine decidi, parli con quelli che sono già giù, incominci, ti organizzi tutto, prepari i bagagli, ecc. E arrivi fino al giorno prima di quando devi andare a Genova a prendere la nave. E improvvisamente, c’è il colpo di stato in Brasile e le frontiere si chiudono». Giussani concludeva: «Non hai la vocazione di andare in Brasile». Limpido. Da lì ho imparato, parlando soprattutto con i giovani fidanzati che si preparavano al matrimonio, o comunque parlando con i giovani della loro vocazione, quando qualcuno diceva: «Ah, no, io non sono fatto per la verginità, io ho la vocazione al matrimonio», io chiedevo: «Chi è la tua fidanzata (o il tuo fidanzato)? E se tu, amico mio, non hai la fidanzata, come fai a dire che hai la vocazione al matrimonio?». Che cos’è? Una tua idea, un’imitazione di ciò che la massa fa – e che purtroppo oggi, tristemente, non fa più. E questo è un grande, importante problema, una responsabilità educativa che tutti noi abbiamo, soprattutto i nonni, che non devono fare i baby sitter e basta, devono far passare la sostanza della loro esperienza ai nipoti! Certe cose, senza intaccare l’autorità dei genitori, le imparano più dai nonni che dai genitori, per esempio il valore della sofferenza, il senso della morte, il valore del lavoro, per fare qualche esempio. Quindi, dobbiamo assecondare la realtà. Gesù ha promesso alla sua Chiesa, per la potenza dello Spirito, l’indefettibilità. Quindi, io non sono d’accordo, e non inseguo tutti i lamenti che oggi si fanno sulla Chiesa, tutte queste analisi, per esempio sul sacerdozio, sul celibato. Lasciamo stare la dolorosissima, tragica e orripilante vicenda della pedofilia, su cui gli ultimi tre Papi stanno cercando di aiutare la Chiesa attraverso la preghiera e il digiuno, a ritrovare, soprattutto nei suoi ministri, una via di rinascita, di rinnovamento. Penso che il Signore non ci fa mancare i segni. Ne cito solo uno: da arcivescovo di Milano (ma anche da patriarca, ma anche da Grosseto), ho avuto modo di conoscere tante esperienze di santa morte di giovani. La modalità con cui una mamma accetta di morire abbracciando di amore i suoi figlioli, accettando sofferenze, rinunciando a tentativi di soluzione del problema fisico, sono tracce di santità formidabili da cui può nascere un rinnovamento della Chiesa dell’altro mondo! Perché (questa era una tesi di Paolo VI) non ci sarà riforma della Chiesa senza santità Ma la santità è l’uomo riuscito, ci ha insegnato il don Gius, non è l’inseguimento di chissà. Ognuno ha la sua, può darsi che uno sia chiamato a pregare tutta la notte, però è proprio l’umanità che si lascia consumare dall’abbraccio del Signore, giorno dopo giorno, domandando perdono dei propri limiti, dei propri peccati ma senza farsi schiacciare da essi. La figura morale del cristiano – celebre pezzo del Gius – è la “ripresa”. La ripresa! Chi ti garantirà che non cadrai domani? Capisco, ho dato solo un criterio di metodo ma non è possibile addentrarsi nell’analisi concreta. Qualcosa nel libro c’è, ma poi ho scritto anche tante cose su questo: se uno vuole prendersi il tempo, se lo prenda. Il criterio è la certezza che i segni della durata della Chiesa, della sua indefettibilità, soprattutto a livello personale, ma anche a livello comunitario, il Signore, lo Spirito di Cristo non li fa mancare.
ALBERTO SAVORANA:
Luigi, raccontaci qualcosa, di che cosa è stato per te in qualche modo rivivere con l’arcivescovo la sua vita, essendo stato il suo intervistatore.
LUIGI GENINAZZI:
Devo dire che quando il cardinale mi ha chiesto se volevo collaborare con lui ad un libro che fosse un po’ il suo testamento spirituale…
ANGELO SCOLA:
…io non ho usato questa parola, avrei avuto troppa paura ad usarla.
LUIGI GENINAZZI:
Quando mi ha chiesto di collaborare a questo libro, che non si capiva cosa dovesse essere, mi è sorta spontanea la domanda del grande Von Balthasar che dice: «Ma quando uno ha scritto tanti libri, la gente si chiede da dove partire per raggiungere il cuore del suo pensiero?». Mi sembrava troppo ambizioso e inutile fare un compendio di un teologo, di un vescovo, di un cardinale che ha scritto decine e decine di libri. Da lì, è nata l’idea di una biografia, di un racconto della sua vita, e devo dire che mi sono lasciato tentare da questa impresa per il vecchio istinto del giornalista, perché ormai sono in pensione. Come diceva prima il cardinale, siamo tutti di una certa età per la maggioranza qui. Il cardinale dice nel libro che per un giornalista la tentazione dello scoop è più forte della tentazione sessuale, ed è vero. Io non l’ho fatto per uno scoop, ho intravisto una cosa, anche qui il cardinal Scola non sarà d’accordo: ho visto che la sua vita era una specie di romanzo, era davvero una specie di ragazzo. Un ragazzo che, come diceva all’inizio, va in chiesa ma non ci crede fino in fondo, che ad un certo punto fa l’esperienza dell’ incontro, come ci ha appena raccontato, e incontra don Giussani, il movimento di Gs, decide di fare il prete, va in Brasile e chiede al cardinale di San Paolo se può diventare prete lì. Poi ne parla con don Giussani e dice: «No, li è complicato». E allora viene in Italia, aspetta tre anni, entra con altri tre amici di Gs in seminario, ma per problemi che poi leggerete nel libro, per chi non li conosce ancora, le autorità del seminario decidono che farà il prete chissà quando. E quindi va in un’altra diocesi a farsi ordinare prete. Diventa prete ed è colpito da una gravissima malattia, una malattia rara che non riescono a diagnosticare. Soffre per sei anni, soffre soprattutto, oltre che per la malattia fisica, per l’emarginazione dell’establishment ecclesiastico milanese. Insomma, diciamo la verità, un prete di 30 anni… Eppure, no, questo giovane sacerdote, malato, emarginato, trattato con diffidenza, va a cercare i maestri della fede e della teologia e colloquia con De Lubac, von Balthasar, Ratzinger, fino ad incontrare Giovanni Paolo II. Lì nasce questo grande rapporto e lui diventa di colpo il vescovo più giovane d’Italia. C’è un bellissimo episodio, raccontato nel libro, quando si ritrova a fianco, per caso, lui vescovo di 49 anni, il rettore del seminario di Venegono che non lo ha voluto nominare sacerdote, con un certo imbarazzo, dice… Poi, questa amicizia, questa sintonia profonda con Giovanni Paolo II, diventa tante attività: lui diventa preside dell’istituto Giovanni Paolo II per la Famiglia, della università lateranense, patriarca di Venezia, arcivescovo di Milano. Tutto questo, ed è un po’ la novità del libro, il cardinale Scola l’ha raccontato, e soprattutto si è lasciato raccontare. Perché, vedete, noi tutti e anch’io avevo l’immagine del cardinale come un intellettuale, ed è vero, è un teologo dalle analisi profonde, sottili, difficili, qualcuno diceva anche incomprensibili. Non è un discorso, è un racconto che ovviamente si intreccia con giudizi e riflessioni sulla storia d’Italia, sulla Chiesa, sulla società, sui tanti problemi, che abbiamo già sentito prima. È soprattutto un racconto, e quelle parole che anche stasera ci siamo sentiti ripetere – incontro, amicizia, gioia testimonianza -, le ho viste diventare carne e sangue nel tessuto concreto della sua vita. E devo dire che è stata un’opera faticosa, certamente, ma affascinante, che in qualche punto mi ha anche commosso. Devo dire «grazie davvero» a Sua Eminenza.
ALBERTO SAVORANA:
Ha ragione Luigi, perché in varie parti di questo libro troverete uno Scola inedito, che racconta cose della sua vita personale che non ha mai raccontato a nessuno, e lo fa con quell’ umiltà di cui parlava all’inizio. A proposito di inedito, questa è la parola con cui tu identifichi il papato di papa Francesco, un papa inedito, perché?
ANGELO SCOLA:
Diciamo che il dato è un po’ sotto gli occhi di tutti, grandi pensatori hanno spesso ripetuto questa affermazione: lo stile è l’uomo. È indubbio che lo stile di papa Francesco sia molto personale, e non dobbiamo neanche negare che è stato ed è molto sorprendente per noi. In un’intervista, una volta, ho detto che la sua elezione è stata un pugno allo stomaco per noi europei, un colpo salutare, un modo di cui lo Spirito si è servito per risvegliarci. Infatti, personalmente credo che il suo ministero, il suo modo di vivere la vocazione, che lui definisce molto bene quando parla di discepoli missionari, sia fatto di gesti, di esempi molto concreti. Quante volte cita la nonna! È fatto di una cultura di popolo, quale si è sviluppata solo in Argentina e, in parte, in altre regioni dell’America latina, aldilà del fatto che oggi la parola popolo è sotto un pre-giudizio negativo, poi la dobbiamo intendere bene. Quando lui parla di popolo, parla di popolo fedele, el pueblo fiel, e poi gesti, esempi, cultura che vuole dire immissione nella vita del popolo, e insegnamento, nel senso stretto della parola. Basta pensare alle sue encicliche, alle sue istruzioni, alle omelie della mattina in Santa Marta, alle catechesi del mercoledì. Voi leggerete, o saprete, o già sapete, che intorno all’ultimo conclave è circolata una clamorosa fake news, che era quella che ha fatto dire a tutti che io sono entrato papa in conclave per uscirne secondo: è assolutamente non vero. Perché era evidente a me, come ad altri cardinali, nelle giornate precedenti il conclave, che la stanchezza profonda dell’Europa, che non ci deve scoraggiare, la perdita del senso della presenza contemporanea di Gesù alla vita della persona, delle comunità cristiane, delle Chiese, propria delle realtà europee, non sarebbe stata più in grado di esprimere la figura di un papa. Non c’erano le condizioni, in effetti. Io vi assicuro che uno può avere tutte le tentazioni, ma questa cosa di diventare papa proprio non mi ha mai toccato, Tanto è vero che lasciando i miei della curia a Milano, che erano riuniti perché c’è questa usanza, che quando uno parte tutti vanno li a salutarlo, feci due passi verso il portone, poi mi girai e dissi: «Nel bene o nel male, state tranquilli, ma il papa non sarò io». Perché cito questo dato? Perché realmente Francesco rappresenta una novità che abbiamo il dovere di imparare, come Giovanni Paolo II che diceva che bisogna imparare Roma, e noi dobbiamo imparare questo papa. Evidentemente, accogliendo e accettando il suo stile fino in fondo, e penetrando in quegli aspetti che costituiscono un elemento di novità nell’esercizio del papato rispetto ai papi precedenti. I gesti, un linguaggio che esemplifica, un senso di profonda familiarità con il popolo, il popolo fedele e gli insegnamenti che risentono della grande realtà del continente latino-americano è come se stessero accompagnando le Chiese di prima evangelizzazione come le nostre, invitandole pazientemente ad una ripresa. Questo non ha nulla a che fare con questi scontri fra i cosiddetti conservatori e i progressisti. I conservatori si lamentano perché non dice più quello che pensano loro, i progressisti sono contenti perché dicono: «Ecco, noi dicevamo queste cose 50 anni fa e finalmente adesso è arrivato uno che le dice». Non vi pare che sbaglino tutti e due? Secondo me sbagliano tutti e due e sbagliano gravemente.
ALBERTO SAVORANA:
Nella conversazione con Luigi, tu ripetutamente fai riferimento, insisti sul tema della testimonianza che consideri la modalità più adeguata per rispondere alle sfide che questa epoca post-secolare pongono ai cristiani e alla fede. E lo fai in connessione a questo stile di papa Bergoglio, perché questa è in qualche modo una possibilità cui siamo condannati, se non vogliamo allontanarci da un estremo all’altro dal nucleo dell’esperienza cristiana. In secondo luogo, come rispondi a chi, qua e là, insinua il sospetto che la testimonianza sia un po’ troppo poco rispetto alle urgenze del presente?
ANGELO SCOLA:
Bisogna intendersi su che cosa è testimonianza. Certo è che questa parola, come le grandi parole cristiane, ha subito un logoramento tale per cui è diventata quasi impenetrabile, oscilla tra l’abitudinarismo del richiamo al buon esempio e un nonsense, un senza senso. A me ha sempre colpito quell’esempio che il don Gius fa, parlando di uno dei suoi alunni, Citton, quello che prendeva sempre dieci, beato lui, col distintivo grosso dell’Azione cattolica. Un giorno, tutti parlavano bene di questo qui. Giussani lo fermò e gli disse: «Però, tu non ti rendi conto che così facendo, cosa buonissima, cosa ottima, eccetera, dai testimonianza solo a te stesso?». La necessità del buon esempio fa parte dell’ovvietà, indipendentemente poi dalle capacità o meno che noi possiamo o non possiamo avere di renderlo, questo buon esempio. Ma la testimonianza in senso pieno e in senso vero è molto di più del buon esempio, è una modalità di conoscenza adeguata della realtà e quindi di comunicazione della verità, perché la conoscenza adeguata della realtà è una comunicazione della verità. In tutte le assemblee sinodali che ho fatto nella visita pastorale prima di lasciare Milano, ma in tutte le riunioni, quasi, mi sono fatto un principio di raccontare sempre dove ho cominciato a capire che cosa è la testimonianza. Mi è successo mentre ero in visita pastorale a Caorle. Cominciavo il venerdì visitando le case degli ammalati, soprattutto degli ammalati gravi. E li si radunava sempre un nucleo di persone per dire un po’ di rosario insieme, per incontrare il vescovo. Sono finito nella casa di un uomo di 47 anni ammalato di SLA, che aveva tre bambini il maggiore dei quali faceva la seconda o la terza media, e comunicava con il papà con una specie di computer e il papà muoveva le ciglia. Sono stato li fermo mentre il ragazzo ascoltava il papà in questo modo, e alla fine il ragazzo mi ha letto: «Patriarca, io sono felice». Vi assicuro che ho preso una botta. Perché nell’azione pastorale di un vescovo c’è sempre dentro, per la fatica, soprattutto per la fatica fisica che costa, come una tentazione a stare in periferia. Infatti, è fondamentale, ma questo è fondamentale per tutti, chiedere alla Madonna e allo Spirito Santo di giocarsi sempre fino in fondo con la circostanza, con le persone che hai davanti. Ma vi assicuro che questa, almeno per me, è stata ed è la fatica più grande. Allora, una risposta così è stata come uno scossone, mi sono sentito un verme, ma non è finita. Sto uscendo dalla casa e il parroco mi presenta un signore su per giù della mia età e mi dice: «Vede, quest’uomo ha perso tre settimane fa il suo figliolo di 59 anni che è nato gravissimamente handicappato, non poteva neanche stare su una carrozzina. Gli avevano costruito una specie di lettino per portarlo fuori a prendere l’aria, non si è mai saputo se capiva o non capiva, non parlava. Eppure, questo uomo l’ha accompagnato tutta la vita e negli ultimi anni, quando è andato in pensione, l’unico suo divertimento – questa parola mi è rimasta in mente perché il parroco l’ha proprio usata – era la messa delle 7 della domenica». Seconda botta, ma tentazione clericale: in quei casi lì, è bene che tutti, i preti per primi, stiano zitti, incassino il colpo e cerchino di cambiare. Invece io ho tentato una risposta tipica di noi chierici. Non mi ricordo le parole ma qualcosa del genere, «che il Signore gliene darà merito», una cosa così. E quest’uomo mi ha fatto un amplissimo sorriso e mi ha detto così: «No, no, Eminenza. Io ho già avuto tutto perché ho conosciuto e imparato cosa vuole dire amare». Questa è testimonianza, conoscenza della realtà: aveva conosciuto l’amore e lo comunicava al suo Patriarca, comunicazione della verità. Da questo punto di vista, la testimonianza personale è comunitaria, le due cose sono inscindibili perché laddove la comunità è autentica fa fiorire la libertà della persona e la urge alla testimonianza. E laddove la persona non appartiene alla comunità secondo tutti i canoni specifici dell’appartenenza alla comunità cristiana, a partire dall’esperienza della convenienza dell’autorità alla mia persona, non ci può essere testimonianza: tutte e due queste cose sono come i poli della calamita. Ecco, questo mi consente di passare al secondo punto: non c’è bisogno, non c’è nessun a-priori negativo, anzi, c’è un dovere di manifestazione pubblica della propria testimonianza personale e della testimonianza comunitaria. Tuttavia c’è anche il dovere di leggere fino in fondo ciò che il momento storico che sto vivendo mi domanda e ciò che è proporzionato o non è proporzionato, in un gesto pubblico, per stare alla richiesta dell’Alberto, rispetto al far camminare il principio irrinunciabile che io voglio affermare. E poi c’è il rispetto della sensibilità e dello stile di ciascuno. Per esempio, la Manif pour tous della Francia è stato un fatto di testimonianza formidabile, perché è partito da una “insurrezione popolare di base” e poi si è andato articolando in un certo modo. Altri raduni oceanici in altri Paesi, magari organizzati dall’alto con molta intelligenza e coinvolgendo persone convinte della necessità di affermare certi principi irrinunciabili nella società di oggi, non hanno avuto lo stesso effetto perché non sono stati proporzionati al momento, quindi non c’è una preclusione a un impegno pubblico per la testimonianza, soprattutto su certi principi, però bisogna assecondare le circostanze, cioè valutarlo di volta in volta, mi spiego? Interessante, voi sapete, come è nato il nostro impegno nel ‘74, col referendum sul divorzio. È nato da una chiamata dell’allora Segretario della CEI, Bartoletti, che ci disse – c’eravamo Giussani, io, forse Buttiglione, adesso non ricordo esattamente, eravamo tre o quattro alla sede della Cei -: «Il Papa è molto angosciato per il non impegno serio di molti cattolici su questa realtà che porterà certamente [come ha portato] un grave male alla società italiana. Questo è un principio, l’amore tra l’uomo e la donna fedele, indissolubile, aperto alla vita, è un fattore che ha generato a partire dal cristianesimo civiltà per migliaia di anni e quindi il Papa vi chiede di impegnarvi». Mi ricordo che facemmo nella sede dell’Istra una riunione del Centro del movimento che durò un giorno intero. La stragrande maggioranza di noi, stragrande, eh, il settanta, ottanta per cento dei trenta che eravamo lì, era scettica e contraria. Tutti eravamo convinti che si sarebbe perso, soprattutto perché il giorno prima Fanfani aveva cavalcato la cosa, eccetera. Giussani ha ascoltato tutto il giorno in silenzio, alla fine ha preso la parola e ha detto: «Sì, ho sentito, tutti questi vostri argomenti hanno delle basi finché volete voi, ma ne avete trascurato uno che per noi è fondamentale per un giudizio storico-culturale, che questa cosa ce l’ha chiesta il Papa, ce l’ha chiesta l’autorità, e noi la facciamo perché ce l’ha chiesta il Papa, si vinca o non si vinca». Un criterio di valutazione storica, oggettiva dei dati. Il movimento ha sempre potuto godere della certezza incrollabile del don Gius nei confronti dell’autorità della Chiesa ed è stato certamente una condizione e un elemento di fioritura se oggi questa realtà è in più di novanta Paesi: non è un caso. Ma questo elemento dell’esperienza della convenienza dell’autorità, perché la comunità prenda tutto il suo spessore, il suo peso, è un fattore decisivo che non è mai contro la libertà, che non impedisce il dialogo, il dibattito, l’opinione diversa, ma sempre mette prima il ricondurci nell’alveo dell’unità senza la quale nessuna realtà ecclesiale ha futuro. Pensate ai francescani, c’è qui il don Paolo che potrebbe raccontarvi tutto. Dopo tutto quello che hanno fatto per dividersi, per spaccarsi, sono lì che faticano per cercare di ritrovare l’unità. Questo è fondamentale. Non so se ho risposto del tutto alla tua domanda, guarda che è un po’ tardi.
ALBERTO SAVORANA:
Ci lasci ancora qualche minuto. Vorrei chiedere telegraficamente una cosa a Geninazzi e poi a te, per concludere: una cosa che hai scoperto, che ti ha colpito nel corso di queste conversazioni con Scola.
LUIGI GENINAZZI:
Sono tante, però ne posso dire due?
ALBERTO SAVORANA:
Una.
LUIGI GENINAZZI:
Allora, dirò il rapporto forte e delicato con Giovanni Paolo II che già sapevo lui aveva avuto, ma nel suo racconto si vede. Sapete che il motto di Sua Eminenza è Sufficit Gratia Tua: lì ha avuto una grande grazia, una super grazia, di incontrare un Papa santo che lo ha preso a cuore. Ha imparato molto, un rapporto forte e delicato, appunto. MI ha colpito questa cosa in tanti aneddoti che ha raccontato, ne dico solo uno. Una volta a pranzo (ci andava spesso), Giovanni Paolo II si è confidato e gli ha detto che lui, nel Concilio Vaticano II, aveva pensato a uno schema alternativo del famoso decreto sulla Gaudium et spes. E allora il giovane sacerdote don Angelo, rettore del Laterano, ha l’ardire di chiedergli: «Eh, mi piacerebbe guardare questi appunti» e il Papa gli dice di sì. E poi, così mi ha detto nel libro che leggerete, il cardinale dice: «Sì, ma poi non li ho mai avuti perché si è messa di mezzo la Segreteria di Stato e non me li ha dati. Eh, l’establishment!». L’impressione che ho avuto alla fine di tante conversazioni è che, diciamo la verità, don Angelo Scola è sempre stato un outsider, è sempre stato un outsider e anche questo episodio lo dimostra!
ALBERTO SAVORANA:
Regalaci una parola sul titolo del Meeting: “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. Dicci se trovi un nesso con la grande parola che hai messo a titolo del tuo libro, la libertà, Ho scommesso sulla libertà.
ANGELO SCOLA:
Infatti le forze che muovono la storia in senso autentico e pieno, perché ci sono forze negative e positive, sono quelle che fanno leva sulla libertà dell’uomo. Perché noi facciamo fatica con i ragazzi, adesso? Perché loro usano della libertà, molte volte ne abusano – e reputo molto grave la debolezza dei genitori in proposito -, però non sanno che cos’è, non dal punto di vista della definizione della libertà o dei ragionamenti che da quando l’uomo vive su questa terra si fanno sulla libertà. No, no, non mi preoccupa che sappiano poca filosofia (anche se, tra i ragazzi di oggi, ce n’è tanti che bagnano il naso a quello che eravamo noi alla loro età, eh!), non sanno che cos’è. E se noi non siamo capaci di riprendere a parlare alla loro libertà in maniera organica, in una realtà come il movimento, è difficile tenere vigile e desto l’affronto del rischio che la libertà implica, il cuore del rischio educativo. Perché non si dà felicità senza l’espandersi quotidiano della libertà, senza il compimento della libertà. «Se mi seguite, sarete liberi e sarete liberi davvero»: quel davvero ha dentro una contestazione a tutto il vilipendio della libertà che si pratica nella storia del mondo, una contestazione radicale: liberi davvero! Lo stesso Gesù che dice al cosiddetto “giovane ricco” che gli presenta il desiderio di un di più rispetto a una vita morale integerrima, cambia i rapporti. Io devo cambiare i rapporti, tu devi cambiare i rapporti, devi viverli nel cuore della familiarità di Gesù, questi rapporti, devi viverli così. E lui gli dice, allora: «Cambia il rapporto, cioè, vendi tutto, dallo ai poveri e poi vienimi dietro». È un invito attualissimo – lo dico per me e per ciascuno di noi – nella libertà. Nella libertà, perché la tragedia della libertà è quando di essa si impossessa l’ideologia e l’ideologia si gela in utopia. I vetero-testamentaristi dovrebbero dire “in idolatria”, passaggio purtroppo inevitabile per l’uomo. Trovo che lavorare, continuare a scavare attraverso la testimonianza, l’ascolto, la conoscenza delle persone, il coinvolgimento, il ritrovarsi ogni anno dentro un tema come quello che è al centro del Meeting di oggi, sia un fattore straordinario di educazione alla libertà.
ALBERTO SAVORANA:
Io ti ringrazio perché credo che mettendo nella copertina del tuo libro la parola libertà, sei entrato in quella che Von Balthasar chiamava “la gara moderna per la libertà” e che Ratzinger identifica come la parola più decisiva per i contemporanei. Noi non c’eravamo messi d’accordo di finire così, ma quando ho finito di leggere le bozze del tuo libro, questa estate, mi è emersa una immagine che sono andato a recuperare (me l’ero stampata, semmai fosse stata utile). Ve la offro perché dà tutta la portata della vertigine che deve provare un uomo che dice: «Ho scommesso sulla libertà, la cosa più effimera e fragile che possa esistere». Sono dieci righe di don Giussani, le leggo perché hai parlato della debolezza dei genitori nei confronti dei figli. «Il sacrificio forse più grande per dei genitori, il più grande dopo quello di veder morire un proprio figlio, è vedere il proprio figlio, che si è tirato su con amore, cui si è dato tutto quello che si poteva dare, prendere decisioni o strade o formulare giudizi diversi da quelli che si ritengono giusti. È la cosa più terribile che proviamo di fronte ai nostri ragazzi in scuola. Ma per un padre e una madre è centomila volte più chiaro. Tuttavia, in questo si annida una possibile tentazione, il potere sulle anime: possederli per il loro bene, strappare loro la libertà per assicurare la loro felicità. Ma Cristo è morto per lasciare la libertà in noi! Quanto più potentemente si desidera la libertà dei nostri alunni, cioè che raggiungano il loro destino, tanto più dolorosamente e miracolosamente si approfondisce il rispetto del loro muoversi. Non ci può essere per loro una felicità non scelta da loro, un destino non riconosciuto ed accettato da loro». Questa è una vertigine. E torniamo all’inizio di questo dialogo, alla umiltà che ci hai confessato di scoprire come conquista del tuo lungo cammino. Per questo, io ti auguro e credo tutti ti auguriamo, ringraziandoti del sacrifico che hai fatto per essere oggi con noi, di continuare il tuo cammino, scommettendo, questa volta sulla tua libertà, secondo quello che tu desideri di più e che metti alla fine del libro: «Vivere – dici tu – al cenno di un Altro, del vero protagonista della storia, che convocandoci ci rende a nostra volta protagonisti». Prima di concludere, devo dirvi, perché è parte di questo momento, che tutti siamo protagonisti di questo Meeting. E avrete notato che questo Meeting è un gesto gratuito. Se non per il mangiare, non costa nulla, non perché siamo pieni di ricchezze e vogliamo dilapidare i nostri beni, ma proprio per mettere davanti a tutti la potenza che ha un gesto gratuito, che si affida alla libertà di ciascuno. E con la stessa libertà e umiltà, vi chiedo e vi chiediamo di assecondare, se lo trovate conveniente per voi, questa settimana che ci regaliamo ogni anno. Potete farlo attraverso la possibilità del fundraising, perché questo spazio di libertà possa esistere.
(trascrizione non rivista dagli autori)