Chi siamo
LIBERIAMO IL LAVORO
Partecipano: Raffaele Bonanni, Segretario Generale CISL; Pierpaolo Donati, Docente di Sociologia all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna; Maurizio Sacconi, Ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali. Introduce Dario Odifreddi, Presidente Fondazione La Piazza dei Mestieri.
MODERATORE:
Bene, benvenuti a tutti, diamo inizio a questo nostro incontro sul tema “Liberiamo il lavoro”, inviterei anche le persone qua davanti a prendere posto, ci sarà tempo al termine dell’incontro per parlare con i nostri relatori. Diamo inizio a questo incontro su un tema importante, su un tema delicato. Noi oggi vorremmo chiedere ai nostri relatori, ma che non sono solo i relatori, che non hanno solo ruoli istituzionalmente importanti, ma sono anche amici, amici di una lunga strada comune, segnata da tanti anni di confronto, di paragone, di ricerca insieme di soluzioni; noi vorremmo chiedere loro oggi di aiutarci a capire cosa vuol dire per loro liberare il lavoro, quali sono le azioni concrete, le azioni prossime, del prossimo futuro, con cui andare in questa direzione. Per fare questo e per permettere a tutti loro di farlo agevolmente io vi farò quattro domande, ma le faccio tutte insieme, ciascuno risponderà evidentemente secondo la sensibilità personale e anche per certi versi secondo la responsabilità e il ruolo istituzionale. La prima domanda è una domanda di fondo e riguarda la concezione del lavoro: qual è la concezione del lavoro da cui voi partite? A che cosa è ancorata? Si può liberare il lavoro senza porsi il problema di cosa libera l’uomo? Cosa da senso alla vita e al lavoro?
La seconda domanda è: i binomi lavoro e mercato, flessibilità e sicurezza, merito e equità, non possono essere, come spesso sono stati e tuttora sono, binomi che sembrano esprimere una insanabile contraddizione? Ma allora quali sono i cambiamenti? I cambiamenti anche culturali, i passi che oggi è necessario fare, che chi definisce, chi ha il ruolo di definire le politiche, di strutturare la governance deve fare, qual è il ruolo storico di chi da sempre ha il ruolo della difesa del lavoro e dei lavoratori? Ma anche una domanda aperta a tutti noi, cioè qual è il compito che ciascuno di noi ha su questo tema? La responsabilità personale.
La terza questione che apriamo è quali sono le politiche e gli strumenti che oggi secondo voi sostengono il lavoro, cioè quale mix di politiche di liberalizzazione attuare, pensiamo alla diversità delle forme contrattuali, pensiamo al tema aperto della contrattazione decentrata, e quelle di sostegno dall’alto, il tema degl’ammortizzatori sociali.
E l’ultimo punto è il punto dei servizi per il lavoro, che ruolo giocano i servizi per il lavoro nell’accompagnare ad una maggiore efficacia, efficienza del mercato del lavoro? E da questo punto di vista cosa centra la sussidiarietà? Cosa vuol dire che questi servizi devono essere servizi incentrati sul principio di sussidiarietà? Sulla valorizzazione della libera iniziativa delle persone e della loro capacità di aggregarsi e quindi dei corpi intermedi e dei corpi sociali? Questi sono i quattro grandi temi che noi vi chiediamo di affrontare oggi. Inizia il primo intervento il professor Pierpaolo Donati, Ordinario di Sociologia nell’Università di Bologna a cui do immediatamente la parola.
PIERPAOLO DONATI:
Grazie, grazie presidente, io credo di dover fare un intervanto di apertura, diciamo di ampio respiro, perché sono libero sia da preoccupazioni politiche che sindacali, quindi a me è stato affidato probabilmente questo compito di apertura per disegnare un po’ uno scenario, quindi cercherò di capire con voi che cosa significa oggi questo termine “liberiamo il lavoro”. La prima idea che propongo è che sia finita un’epoca, l’epoca moderna, in cui si è parlato soprattutto di liberazione dal lavoro. La società moderna è la società delle macchine, la società che concepisce il lavoro come macchina e che in qualche modo cerca appunto di liberarsi dal lavoro. Perché il lavoro è visto come una servitù, come una schiavitù. D’altra parte il capitalismo nacque così, nacque come un asservimento di tutti a un lavoro astratto sul mercato formalmente libero.
Quest’epoca è finita, perché abbiamo capito che liberarci dal lavoro è un’utopia senza senso che si riverbera negativamente sulla persona umana, perché la persona umana è naturalmente portata la lavoro.
Quindi si apre un nuovo discorso su che cosa significhi liberare il lavoro, liberare, in questo senso, la soggettività umana. E allora la prima dicotomia, diciamo, che troviamo davanti, il primo scenario, è quello di un conflitto molte forte in questo momento fra chi ha una visione secolarizzata della liberazione del lavoro, e una visione che chiamerei umanistica della liberazione del lavoro.
La visione secolarizzata è quella che pensa al lavoro essenzialmente come uno strumento, se vogliamo, come un mezzo con cui guadagnare e guadagnare sempre di più, l’aumento dei salari, l’aumento della remunerazione sotto ogni aspetto, quindi una visione molto materiale, che però, nel fondo, ritiene sempre il lavoro un fatto di per sé negativo, una fatica, un vincolo. Questo risale alla cultura greca, che è una cultura negativa sul lavoro perché ha una concezione signorile della vita: chi può non lavorare è meglio che non lavori, perché il vero uomo è il filosofo, l’uomo che usa la ragione e non si immischia nelle cose di lavoro. E questa concezione, come dire, materiale del lavoro, puramente secolarizzata, si è poi esaltata durante la riforma protestante che è stata quella che culturalmente ha poi creato il capitalismo occidentale, nel quale tutti sono stati costretti a liberare il lavoro, perché la liberazione è attraverso un lavoro costretto, cioè vincolato, necessitato, come mezzo di sopravvivenza.
Ecco, noi siamo di fronte, invece, al fatto che questo modo di concepire il lavoro ormai è lontano, è un modo di concepire il lavoro che non ci soddisfa, che non soddisfa più l’uomo, chiamiamolo così, che sta uscendo dalla modernità, che vede tutte le difficoltà, tutti i limiti della modernità. E nasce, allora, questa visione umanistica del lavoro, che intende il lavoro come espressione, non come strumento, come espressione della dignità dell’uomo, della persona umana quindi un’idea del lavoro come qualcosa di naturale, come qualcosa di necessario per lo sviluppo delle virtù umane. E qui allora ha un grande spazio, non c’è dubbio, come dire, la concezione specificatamente cattolica del lavoro. Dico cattolica, ma evidentemente è anche cristiana, e anche biblica, perché nasce dall’idea che già c’è nel libro della Genesi, e cioè che l’uomo è stato creato per coltivare il Giardino dell’Eden. Quindi una visione del tutto positiva, l’uomo è stato creato ut operaretur, dice il Genesi, per lavorare, quindi come dirà Giobbe, nel libro appunto di Giobbe, l’uomo nasce per lavorare, come l’uccello nasce per volare.
Quindi questa idea della connaturalità del lavoro, ma non come qualcosa di servile, qualcosa di necessitato, ma come qualcosa che ha in sé una sua dignità che va in qualche modo coltivata.
Qui si apre, dunque, uno scenario nuovo, io lo chiamerei dopo-moderno, non post-moderno, dopo-moderno, nel senso che abbiamo la consapevolezza di una svolta storica, per lo meno nei paesi avanzati, in cui il benessere materiale è già, come dire, abbastanza sviluppato per poter cominciare a parlare di un lavoro liberato da certe caratteristiche, certi vincoli, certe necessità, ma nello stesso tempo espressione della soggettività, della persona umana.
Quindi liberare il lavoro significa, essenzialmente, liberare le potenzialità, le virtù della persona umana. Ma è chiaro che tutta la struttura del lavoro, del mercato del lavoro, dell’organizzazione delle imprese, diciamo delle politiche del lavoro, non è ancora, come dire, in sintonia con questo modo di intendere il lavoro, cioè un lavoro che non sia, come dire, ciò che costringe la persona a fare certe cose perché l’obiettivo è economico, ma che invece veda la persona come l’inizio e la fine del processo produttivo.
In altri termini, noi siamo ancora dentro un’economia nella quale l’economia usa le persone per produrre più economia. Se volete, in termini economici, si guarda al prodotto interno lordo, al PIL, per far poi i contratti, per vedere come si organizza il lavoro, per produrre ancora di più, per aumentare il PIL, il monte salari, tutte le variabili e gli standard di tipo economico.
Noi, da questa sequenza, economia che usa le persone per sviluppare l’economia, dobbiamo, come dire, rivoltare il sistema e dire persona-economia-persona: l’economia è lo strumento attraverso cui le persone possono essere più persone e creare, per così dire, un mondo nel quale la persona si senta realizzata nelle sue potenzialità.
Questo confronto fra una concezione secolarizzata e una concezione umanistica del lavoro, ha delle grandissime conseguenze su tutto: sui contratti, sull’organizzazione del lavoro, sul modo di intendere le imprese, i sindacati e le stesse politiche.
Vorrei dire brevemente in che senso e concretamente come tutto questo si può realizzare.
Per esempio, il nostro presidente poneva la questione del conflitto fra certi termini, fra merito e equità, fra lavoro e mercato, fra flessibilità e sicurezza.
Bene, queste contrapposizioni, per esempio fra efficienza e solidarietà, sono contrapposizioni di un’epoca passata, di un’epoca in cui liberalismo e socialismo si contrapponevano tra loro. E allora il socialismo enfatizzava l’uguaglianza, l’equità, la sicurezza e così via, e il liberalismo, invece, la meritocrazia, la flessibilità, la libertà dei contratti e così via.
Ora, questa contrapposizione, in questo momento, negli ultimi anni e anche nella struttura del modello sociale europeo, questi due poli, si sono, per così dire, fusi tra di loro, e anziché essere opposte queste due categorie, per esempio strumentalità ed espressività, efficienza e solidarietà, anziché essere opposte, vengono combinate: si dice dobbiamo avere un po’ più dell’una, un po’ più dell’altra, cerchiamo quale combinazione poter realizzare, per esempio, fra flessibilità e sicurezza.
Il problema allora non è però quello, dal mio punto di vista, di come combinare un po’ dell’uno e un po’ dell’altro polo, un po’ di liberalismo e un po’ di socialismo – parlo, naturalmente, in termini molto riduttivi – il problema è avere la sinergia fra questi termini, cioè a dire come l’uno possa accrescere l’altro e viceversa. E questo noi lo possiamo fare solo se cambiamo le nostre categorie concettuali con cui pensiamo il lavoro e l’organizzazione del lavoro, che non è più, diciamo, una contrapposizione fra mercato e stato, fra profitto e la coesione sociale, la protezione sociale, la solidarietà sociale, ma è una sinergia che si può attuare solo con la sussidiarietà e la solidarietà combinate insieme.
Quello che voglio dire è che la sussidiarietà e la solidarietà, se intese correttamente, non sono, come dire, delle aggiunte al rapporto fra mercato e stato, ma sono un altro punto di vista che modifica completamente il senso del lavoro. In altri termini, la sussidiarietà non è solo lasciare a livello più basso possibile, per esempio, la contrattazione decentrata, ma è concepire il lavoro come una relazione nella quale ciascuna persona aiuta l’altro a fare ciò che l’altro deve fare, che è una visione molto diversa, non è una sussidiarietà essenzialmente come un lassez faire, un lasciar fare e così via, e la solidarietà non è beneficenza, un assistenzialismo, quell’assistenzialismo che tutt’oggi nel ministero del lavoro, nel bilancio sociale del paese Italia si confonde con le politiche di promozione del lavoro, ma la solidarietà, appunto, come produzione di beni comuni e relazionali. Cioè a dire, l’idea di un lavoro solidaristico e sussidiario allo stesso tempo, deve sostituire, proprio nel modo di concepire il lavoro, l’organizzazione del lavoro, l’idea di un bilanciamento tra elementi liberali e elementi socialisti, perché quel modello di combinazione che io chiamo lib-lab non funziona più.
Questo ha, ad esempio, un correlato molto importante nel tipo di contratti.
Noi tutti sappiamo che è in corso un dibattito per il nuovo sistema contrattuale, di secondo livello, aziendale, territoriale e così via. Ma il contratto rimane quello classico, e non cambia la sua natura, cioè il contratto rimane un contratto di sinallagma, di prestazione e controprestazione: io faccio questo e tu mi paghi tot.
Allora voglio di più, aumento della retribuzione, detassazione degli straordinari, detassazione del salario di produttività, ma tutto questo vuol dire mercificare il lavoro.
Liberare il lavoro, vuol dire concepire il lavoro non come una merce che ha un equivalente monetario, liberare il lavoro vuol dire concepire il lavoro come un bene della persona non come singolo isolato, ma come persona che lavora con altri, in un ambiente, in un contesto di lavoro che ha una famiglia e così via. E quindi vuol dire passare a quelli che io chiamo i contratti relazionali, cioè contratti che tengono conto della relazione lavorativa, e non solo della prestazione e controprestazione funzionale. Stiamo uscendo dalla economia fordista, ma l’Italia ancora non è uscita da una cultura del lavoro che è tutta centrata su un’organizzazione del lavoro di tipo fordista. E questo significa, quindi, contratti relazionali in cui la parte, diciamo monetaria, salariale, ha ovviamente il suo posto, quella previdenziale e assicurativa il suo posto, ma dove bisogna introdurre anche i servizi di welfare, di welfare aziendale, di corporate citizenship, di cittadinanza cioè dell’azienda, cioè a dire tutti quei diritti che i lavoratori hanno in quanto stakeholders dell’azienda, in quanto portatori di interessi del lavoro e nel lavoro. E un imprenditore e un sindacato all’altezza della situazione, dovrebbe essere un imprenditore e un sindacato sussidiario, perché, appunto, aiuti il lavoratore ad essere un portatore di interessi e di identità, uno stakeholder nel lavoro.
E quindi l’idea che, diciamo, una visione umanistica anziché secolarizzata del lavoro comporti un cambio completo nella contrattazione del lavoro, significa adottare una prospettiva talmente nuova nella contrattazione che fa sì che il contratto di lavoro, come dire, realizzi un vero rapporto, una vera relazione di scambio tra datore di lavoro e lavoratore, così come fra i lavoratori e poi anche la partecipazione del bene, del servizio, ma anche alla distribuzione del consumo.
E in questa parte che chiamerei la parte di welfare del contratto, welfare non vuol dire solo pensioni, vuol dire servizi, vuol dire flessibilità degli orari, congedi genitoriali, vuol dire voucher quando una famiglia ha a carico un anziano nel caso di un’urgenza, di un bisogno urgente da parte dell’anziano, allora vuol dire che dentro il contratto deve andare anche la conciliazione famiglia- lavoro.
Umanizzare il lavoro vuol dire proprio questo, vuol dire non ridurlo a una merce, ma dire è una relazione che io instauro come lavoratore con un datore di lavoro, che mi riconosce non solo la dignità del mio lavoro, ma anche la mia dignità in quanto io sto in relazione con dei famigliari che dipendono da me.
Ecco allora che dentro la contrattazione dovrebbero entrare anche queste cose che chiamiamo conciliazione famiglia-lavoro o, più in generale, conciliazione tra il lavoro e la vita sociale delle persone.
Di tutto questo, in Italia si parla poco o nulla. Si parla molto di ammortizzatori sociali, ma anche gli ammortizzatori sociali sono monetarizzati, sono mercificati in qualche misura, mentre il nostro problema è umanizzare la relazione lavorativa.
Questo è il punto, cioè cercare di capire che liberare il lavoro vuol dire demercificarlo nel senso più stretto della parola, cioè adire il lavoro non come una cosa che ha un equivalente monetario sul quale si misura poi tutto il sistema economico, la produttività, la competitività, la mobilità, e così via, ma pensare il lavoro, invece, come quella relazione di promozione delle persone e del loro contesto di vita, nel quale appunto vivono.
Ecco, io credo che da questo punto di vista noi dobbiamo fare un grande passo in avanti in Italia nella cultura del lavoro, perché le strutture occupazionali, le strutture organizzative imprenditoriali non sono ancora all’altezza di questo salto culturale, e io spero che sia le imprese che i sindacati capiscano che ci si deve incamminare verso questa prospettiva di tipo umanizzante, anziché strumentalizzare, mercificare sempre di più il lavoro.
Grazie.
MODERATORE:
Grazie, grazie al sociologo Donati per questo intervento che è stato effettivamente un intervento che guarda a uno sviluppo futuro, non guarda esclusivamente alle problematiche che ci riguarderanno nel breve termine di questo autunno, che tanti già definiscono già autunno caldo. Interessante la concezione di Donati, almeno io l’ho trovata così, questo riporre in un sistema relazionale i rapporti tra la persona e i suoi contesti di riferimento, quindi la persona sul lavoro e quindi il rapporto lavoratore-impresa-imprenditore, la persona nelle sue relazioni sociali normali, la persona nella sua relazione primaria al di fuori del lavoro che è il rapporto con la famiglia.
E poi, a un certo punto, Donati ci dice: “questo meccanismo liberale-laburista, secondo me, non basta più, è superato”. E questo ha delle implicazioni concrete, arriva persino a immagine che le modalità della contrattazione debbano cambiare, ma debbano cambiare innanzitutto perché si riconosce che questo è superato.
Raffaele Bonanni: è superato? E’ utopia quella di Donati? Che passi ci aspettano?
RAFFAELE BONANNI:
La nostra speranza, almeno dall’ambiente da cui vengo io, che è un ambiente sindacale molto importante, molto rappresentativo, che diventa sempre più rappresentativo e molto più solido, al di là di alcuni che ventilano sventura, è la prospettiva. Questa è la nostra speranza.
Perché il lavoro?
Perché, abbiamo detto più volte, il lavoro serve a sostenere noi stessi e le nostre famiglie. Perché serve a realizzare ciascuno di noi, attraverso la responsabilità. Perché serve a farci partecipare alla vita comunitaria, a essere inseriti, a essere incarnati con la comunità in cui viviamo, allorché partecipiamo. Quindi è dal lavoro, appunto, che si costruisce la comunità, attraverso le tante responsabilità e le relazioni tra queste responsabilità e le persone, attraverso la loro intelligenza, la loro esperienza, la loro motivazione, costruiscono prospettive per se stessi: non c’è mai divisione tra la prospettiva personale, come sappiamo, e la prospettiva comunitaria, quando le prospettive personali sono legate e compatibili con quelle delle altre persone. Quindi il lavoro, appunto, come collante vero per la vita comunitaria e per la rigenerazione della nostra comunità, e solo Dio sa quanto si abbia bisogno di questo, è oggi l’unica vera alternativa a questa confusione che abbiamo davvero davanti.
Sostenere però noi stessi e le nostre famiglie.
Quando lo dicevamo qualche anno addietro, era proprio un tema da convegno, in momenti di tranquillità più grande.
Ora voi sapete che non è solamente un termine, è un tema primario. Le nostre famiglie, noi stessi, non siamo sostenuti fino in fondo, perché tutto è diventato più complicato. Il nostro reddito non tiene testa alle esigenze che abbiamo come lavoratori e pensionati nella comunità odierna in cui viviamo.
E devono esserci delle soluzioni, non possiamo solo raccontare queste vicende o, almeno, la realtà da cui proveniamo non ci fa mai abbandonare in alcun modo la speranza, né certamente ci indica mai la strada del buttare il cappello in aria e ributtarlo sugli altri. La nostra cultura ci indica sempre l’impegno personale e collettivo, anche le situazioni più disperate ci indicano sempre la strada dell’impegno forte, della responsabilizzazione di ciascuno di noi nel momento dato, nel momento che abbiamo di fronte. E abbiamo un momento davvero difficile: i nostri salari sono bassi perché è stata davvero troppo scarsa l’attitudine allo scambio e alla trattativa nel posto di lavoro dove si produce, dove a quel punto metti a dura prova anche l’imprenditore per trovare le strade più idonee per far funzionare meglio la sua azienda e per guadagnare più salario io. Dipende però anche dai ritardi notevoli, scellerati che, purtroppo, hanno indebolito la struttura dell’economia del nostro paese, che è una struttura davvero precaria, molto più precaria di tutti gli altri paesi nostri concorrenti europei.
E lì ci vogliono delle soluzioni. Quali? La questione che si è appunto sollevata, stavolta ha uno straordinario legame con la vita, con le vicende di attualità.
E quindi io sono davvero molto contento di poterne discutere insieme. Dobbiamo realizzare condizioni di relazioni industriali più fluide, più responsabili, più capaci di rimuovere la incapacità finora dimostrata attraverso un sistema contrattuale vetusto, che non ha dato più di quello che poteva dare in altre epoche, per altre difficoltà che abbiamo avuto in altre epoche.
Noi, nei prossimi giorni, avremo un confronto con Confindustria, ricomincia il confronto con Confindustria, spero che si faccia largo un confronto con gli artigiani, con i commercianti, abbiamo risolto con loro un problema, seppure con qualche polemica, non con loro, ma con chi puntualmente si assenta dal tavolo, accordi separati, molto separati, accordi tra tutti e c’è qualcuno che non si presenta mai. All’ultimo momento abbiamo quest’appuntamento. Come ci andiamo? Io sostengo, dicevo ai giornalisti poc’anzi, che la Cisl vorrà fare l’accordo a tutti i costi. Perché la gente ci chiede da diverso tempo di darci un nuovo sistema contrattuale che abbia come baricentro il posto dove si produce. E’ lì che gli scambi ci devono essere, ed è lì, appunto, che noi dobbiamo misurarci maggiormente su questioni che esaltano la nostra responsabilità di come gestiamo le flessibilità, di come gestiamo gli orari, di come gestiamo le nostre qualifiche, la professionalità che si acquisisce dai percorsi formativi, e qualcuno dovrà stabilire quali sono i fabbisogni, come si gestiscono questi fabbisogni, come si gestisce l’implementazione della professionalità.
Noi dobbiamo darci una regola che è questa, poi ci sono molte altre questioni, ma io non voglio annoiarvi. La questione essenziale è che dobbiamo andare maggiormente lì, regolare maggiormente lì le questioni, e in via contrattuale darci sistemi nuovi di responsabilità e sussidiari per gestire nuovi livelli di governo di tutto ciò che deve regolare bene sia le questioni contrattuali, che mettiamo bene in piedi, sia i servizi idonei a sostenere ciò che stabiliamo noi con gli imprenditori.
Io vedo che Sacconi è molto sensibile su questo, e io conto moltissimo di far fare un balzo enorme in avanti su tutta la partita della bilateralità che significa, per noi, più responsabilità, più sussidiarietà, più nuova cultura del lavoro. E più buon lavoro, perché chi è responsabile a quel punto gestisce meglio le cose, si realizza di più, diventa più responsabile, ha rapporti più fluidi.
Umanizziamo in questo modo, per rispondere a Donati, umanizziamo di più il lavoro. Si umanizza attraverso la partecipazione, se sono un numero, sono come un chilo di pomodoro, tanto costo e tanto ti pago, ma è chiaro, che umanità c’è lì? Quindi questo è un fatto molto importante. Noi dobbiamo fare l’accordo a tutti i costi. A tutti i costi! Io so che dico una cosa un po’ pesante, dico a tutti i costi perché la gente si aspetta questo, ma a tutti i costi – lo rafforzo – perché Tremonti deve aprire la borsa. E’ stato promesso che laddove facciamo l’accordo, la finanziaria deve consentirci di detassare tre volte il salario di produttività. Il governo ha fatto un provvedimento per sei mesi sulla produttività e sugli orari. Voi sapete che la Cisl ha avuto un rapporto morbido con questo premier, e ha fatto bene, perché volevo vedere io se la Cisl, insieme a Cgil e Uil, per un anno intero e più non avesse calcato la mano sull’emergenza di bassi salari e alte tassazioni sul salario, se avremmo avuto davanti a noi un provvedimento di questo tipo! Quindi io ho ascritto quell’intervento all’azione forte sindacale prodotta dalla Cisl insieme alla Cgil e alla Uil, però è semestrale, e dev’essere strutturale. E noi rivendichiamo questo. Non permetterò affatto al governo di dire: volevo farlo, ma costoro non si mettono mai d’accordo. E siccome si riscrive la finanziaria su queste parti per programmarla per il prossimo anno, tra un po’ di tempo, per quel che mi riguarda, la Cisl non darà il fianco per perdere, dicevo ai giornalisti, un bel po’ di soldi. Abbiamo schiumato sangue, l’altro anno, per ottenere un risultato, nonostante l’ingombro anche dello scalone che equivaleva al costo di due miliardi e mezzo. L’operazione, se va in porto, costa due miliardi e ottocento milioni.
Io sono convinto che Sacconi questa cosa non la vede tanto bene, ma io lo dico perché vedo troppi schizzinosi in giro che, di fronte a questo, dicono: no, è un fatto scontato! Ma scontato che cosa? E si parla anche di fiscal drag, figuriamoci se io sono contrario, però ci saranno le probabilità, io dico che una operazione del genere è un’operazione importante, che noi dobbiamo saper cogliere, quindi l’accordo vale due accordi: l’accordo con Confindustria vale la posta di quella portata, e vale il segno che si dà, che l’economia in questo paese non si realizza attraverso il disegno di un tecnico che ci dice come si deve fare. Tutto si fa attraverso un clima nuovo e figuriamoci se questo clima nuovo non debba esserci anche nel mondo del lavoro, attraverso relazioni responsabili e fitte tra noi e gli imprenditori. Un clima nuovo di collaborazione, un clima nuovo partecipativo. Questa è la risposta. Quindi viviamo di salario, ma il salario, in momenti di secca come quella che abbiamo di fronte, va esaltato attraverso una spinta forte nella produttività e nella richiesta di maggiore partecipazione, partecipazione attraverso anche il varo di nuovi provvedimenti che facciano diventare più importanti, più interessanti le relazioni.
Quando parlavo di bilateralità, per esempio, ci sono due pezzi importanti che riguardano il lavoro, di cui ha parlato poc’anzi Donati e che tu stesso citavi inizialmente, e riguarda la vicenda della sicurezza e riguarda anche la produzione di servizi per umanizzare e per partecipare. Per esempio, quello che ci aspettiamo noi sulla bilateralità, dicevo, è uno sviluppo molto forte, quello che mi sembra si possa fare con il governo, e vorrei appunto verificarlo. Sulla sicurezza, per esempio, bisogna fare ciò che abbiamo fatto già in qualche settore, tempo fa, e cioè collaborare insieme, noi e gli imprenditori, attraverso la bilateralità sulla sicurezza, e implementare fortissimamente l’informazione e la formazione soprattutto. Per non parlare del sostegno alle piccole aziende, che diversamente non saprebbero, quando hanno buone intenzioni, come fare, e attraverso questo, per esempio, semplificare moltissimo il rapporto tra le aziende stesse e quei posti di lavoro, e anche le realtà di controllo e di gestione e perfino i costi, perché è come con l’assicurazione, perché se la mia provincia è Chieti pago l’assicurazione dieci e se sono a Roma pago l’assicurazione ventotto. Perché i rischi sono inferiori, e se sono inferiori in quella realtà, perché quella realtà è ben custodita da buone relazioni, dalla gestione di buona informazione e di buona formazione, è chiaro che può costare anche di meno, perché è meno soggetta a rischi, e tant’è che in quella realtà, appunto, difficilmente si corrono i rischi che si corrono, come sapete, nei subappalti incontrollati, nel lavoro nero e in tutte le cose che voi sapete.
E questo è un capitolo.
L’altro capitolo riguarda la vicenda, per esempio, per evolvere la responsabilità e la partecipazione sulle politiche attive del lavoro.
Perché non mettere insieme, e io insisto, i tre capisaldi che rendono possibile il governo delle politiche attive del lavoro? Oggi, come sapete, se uno viene licenziato, quand’è che trova un altro lavoro? Al di là di un avanzamento obiettivo che abbiamo avuto, per esempio nella gestione del collocamento, perché aspettare tutto questo tempo? Peraltro poi, avendo degli ammortizzatori davvero fanalino di coda rispetto ai sistemi che si usano nei paesi equivalenti all’Italia in Europa, per quale motivo? E per quale motivo la stessa formazione deve essere così disgiunta, quando sappiamo che è connaturatissima, per esempio, per questi aspetti? Se potessimo avere il benestare attraverso accordi, attraverso il benestare del governo, anzi attraverso la cura del governo, se potessimo avere un tutt’uno, una bilateralità che mette insieme collocamento, formazione e cassa integrazione, tutto insieme, nei settori, facendo diventare protagonisti sindacalisti e imprenditori, a quel punto loro sanno che cosa succederebbe, che quando uno perdesse il lavoro lo ritroverebbe subitissimo, e conterebbe molto sul fatto di risparmiare i soldi magari della cassa integrazione, impiegando diversamente, per esempio, la stessa formazione. La sussidiarietà, la responsabilità, l’evoluzione, l’antitesi dell’antagonismo sono parenti appunto della partecipazione e della responsabilità.
Questa è l’opinione che abbiamo e io spero che quest’altro punto si realizzi davvero, insieme, per esempio, a una cosa a noi tanto amica – se n’era parlato e io spero si continui a parlarne, all’inizio della Legislatura -, l’azionariato collettivo e la possibilità di partecipare alla governance dell’impresa. Non certamente un lavoratore amministratore delegato, quello è un fatto che riguarda l’azienda, niente frammistioni, però, nel sistema duale, nell’indirizzo e controllo di, ha detto il ministro all’inizio della Legislatura, nel collegio sindacale andrebbe pure bene, almeno non ci potrebbero raccontare fregnacce quando andiamo nella prima parte del contratto a discutere. Delle condizioni delle imprese almeno avremmo anche noi i dati reali, non quelli che ogni volta ci ammanniscono e così via ed è responsabilità. Per esempio, perché non pattuire con una azienda, contrattualmente, di cederci al posto del salario per esempio, delle azioni? Io ho saputo che in Francia da sempre praticano questo sistema, danno azioni direttamente ai lavoratori. Chi come noi sostiene che non è l’antagonismo che ci libera dai guai che ciascuno di noi ha singolarmente e collettivamente, ma è solo la responsabilità, allora il campo deve essere allestito, perché non vogliamo essere un chilo di pomodoro, vogliamo essere uomini che vivono per se stessi, lavorando ma anche realizzandosi attraverso esperienze. Noi vogliamo contare di più, non credo che sia un problema solo nostro, è un problema della umanità intera. Questo nichilismo, che attraversa tutte le società ricche occidentali, parte dal fatto che ognuno si sente un ingranaggio stanato da ciò che davvero fa girare le vicende del potere delle comunità intere. O dovremmo essere solo elettori e telespettatori? Noi rifiutiamo questa prospettiva. Una società è più umana dove ciascuno può esprimersi fino in fondo, non certamente solo attraverso il voto, che è importante, o partecipando a qualche talk show. Partecipazione più in generale e concludo. Noi alla nostra festa, due mesi fa a Levico, abbiamo fatto una proposta, subito raccolta da Tremonti. Siccome le cose vanno male, non è che ci possiamo piangere addosso e neanche possiamo scatenare la guerra tra i poveri, come succederà regolarmente nel caso le cose andassero male e se ci sarà posto solo per i populisti e per gli irresponsabili. Se le cose vanno male dobbiamo darci da fare tutti, ecco perché noi auspichiamo convergenze, però dobbiamo dare una prospettiva, non possiamo dire alla gente che staranno peggio e che passeranno i guai, ma poi d’altronde l’economia chi la fa? Chi la fa? La fa un pacco di soldi o un qualche bravo tecnico? L’economia la fa anche il clima che c’è in un paese, il clima di fiducia, il clima di partecipazione che si realizza. Noi abbiamo detto a quella festa: “Mettiamoci tutti intorno a qualcosa, vediamo i punti più importanti, quali sono le infrastrutture, le energie, la istruzione, tutti i nodi che non si sciolgono dei servizi, delle liberalizzazioni vere, non di quelle false; discutiamo su questo, discutiamo attorno a un tavolo, vediamo che fare insieme, creiamo un clan propositivo, prendiamoci una responsabilità e diamo la prospettiva che, nel caso si cresca in decimali di profitto, spero addirittura molto di più, la gente a quel punto riceva indietro, a partire da coloro che hanno la ritenuta alla fonte, perché pagano più degli altri proprio perché non possono sfuggire mai, riceva indietro, gli venga restituito una parte, attraverso dei sistemi di socializzazioni fiscali”. Io sono convinto che il paese si salva se c’è una saldezza nei rapporti tra maggioranza e opposizione. Ognuno ha i suoi compiti, però sulle questioni della vita nazionale o la classe dirigente sa dare un’unica risposta, una, o altrimenti saremo vittime dei populisti e degli irresponsabili, oltre naturalmente ad assistere alle macerie ancor più ampie e ancor più alte che ci sono davanti, e noi a questo non dobbiamo rassegnarci. Ecco: a partire da lavoro e responsabilità e coinvolgimento delle persone che lavorano si può rigenerare l’Italia. La mia organizzazione – io lo dico, certo qualcuno accusa perché noi difendiamo, certo perché se noi non difendiamo, chi è che lo fa? – al dunque sulle scelte vere, io lo prometto, ci sarà sempre ed in modo coraggioso e ci saremo ancor di più se vedremo che gli altri hanno lo stesso entusiasmo, lo stesso coraggio, ma il primo coraggio ce lo metteremo innanzitutto noi, come è sempre successo. Io spero che si apra davvero una stagione importante che parta dal lavoro, dai cittadini lavoratori, che possono fare e dare molto a un paese che è in grande difficoltà.
MODERATORE:
Ringrazio Raffaele Bonanni. Sono tanti i temi che ha toccato, sia il punto di partenza e la valorizzazione da cui è partito di persone e famiglia, fino ad alcuni punti operativi espressi con grande chiarezza, il favore a una contrattazione decentrata, come luogo adatto a creare quelle condizioni per migliorare le condizioni del lavoro e per permettere un dialogo. Non solo quindi un aspetto economico tra la persona che lavora e l’imprenditore, ha detto parole importanti su un tema come quello dell’accordo che entro il 30 settembre a tutti i costi si vuole andare a firmare, ma soprattutto una cosa, ne ha dette tante altre ovviamente, ma una cosa è importante dell’atteggiamento di Raffaele Bonanni, perché questo è un atteggiamento del sindacato che ritorna alla grande tradizione del sindacato, del sindacato confederale, del sindacato che sa che per rispondere ai problemi del paese il problema non può restare corporativo, non può restare rivendicazionista, tra l’altro facendolo peggio degli altri perché quella non è la sua storia e non è il suo mestiere. E’ un po’ che questa cosa accade con Raffaele con la CISL, ma l’esplicitezza con cui oggi è stato detto, io credo che sia una grande sfida, una grande sfida per il sindacato, ma anche per le istituzioni, una sfida da raccogliere, perché raccogliere questo ruolo del sindacato ci riporta ad anni in cui anche altri sindacati, non solo la CISL, pensavano così. Ricordo un famosissimo filmato su un incontro in cui c’era Lama e la FIAT in trattativa, in cui tu ti ricorderai dove dopo cinque minuti si arrivò al grande applauso perché ci fu una posizione che fu una posizione per il paese, che capiva che il problema da affrontare…… Tu stesso dicevi, senza entrar nel merito, “il nostro sistema produttivo, il nostro sistema competitivo ha grandi punti di debolezza, per certi versi ha dei punti di debolezza strutturali rilevanti che ci pongono in grande difficoltà anche rispetto ai nostri normali competitori”. E allora se il sindacato si pone su questa strada con questa sensibilità, che cosa fa il governo? In questi giorni, tra l’altro, è uscito come tutti voi credo abbiate avuto modo di vedere, Il libro verde che è una modalità di lavoro oltre che contenere una serie di contenuti evidentemente che noi riteniamo interessanti, un metodo che condividiamo, un metodo che con Maurizio abbiamo condiviso nel Libro bianco che portò poi alla legge Biagi, un modo per porre in modo esplicito una serie di questioni con un tempo, con questi tre quattro mesi di tempo, per fare un lavoro comune e arrivare anche su questo a fare un passo. Innanzitutto condividiamo il metodo con cui questo Libro verde è stato fatto e diamo ovviamente anche tutta la nostra disponibilità a collaborare a questa fase e poi ci sono anche tantissimi elementi del contenuto che noi troviamo condivisibili, ivi incluso dei passaggi importanti proprio sul tema della sussidiarità. Ma meglio che anticiparli credo sia dare la parola a Maurizio che ce li illustra.
MAURIZIO SACCONI:
Io credo che abbia ragione Bonanni quando ipotizza un autunno responsabile, un autunno cioè ne’ caldo ne’ freddo, l’autunno fu caldo quando si pensò da parte del movimento sindacale allora unito, a torto o a ragione, che lo sviluppo fosse garantito, acquisito e che si dovesse porre il problema di una equa distribuzione della ricchezza che così si generava. Non è questa la condizione che abbiamo di fronte a noi, perché lo sviluppo non è garantito, non è certo, io ritengo che sia possibile che ci siano tutti gli elementi per una nuova stagione di crescita per l’economia e la società italiana, ma certamente questa prospettiva non è acquisita nel momento in cui stiamo parlando. L’autunno è freddo se di fronte ai grandi problemi dovesse prevalere l’apatia, l’indifferenza, la rinuncia, il nichilismo ha detto prima Bonanni, e voi sapete che di nichilismo ne è stato espanso molto, nel corso di questi 40 anni, da quell’infausta fase avviatasi dopo il ’68. L’Italia entra in gioco tardi e male rispetto allo stesso fenomeno del ’68, con una lunga deriva che è stata in certe fasi, in certa misura interrotta, frenata, limitata ma che arriva fino ai giorni nostri e la cui sintesi a mio avviso è proprio il nichilismo. I germi del nichilismo sono stati da allora diffusamente propagati e ancora in parte sono tra di noi e sono la spiegazione anche del male oscuro che sembra, che poi così oscuro appunto non è a ben vedere, che sembra impedirci di crescere. Io penso che di fronte a noi c’è l’ultimo slot per il decollo, l’ultimo spazio perché questo paese possa, come in effetti può, prendere la via della crescita, che potrebbe far rimanere la nostra nazione tra quelle a maggiore tasso di sviluppo. Ma se noi nei prossimi mesi, proprio in questo autunno, non sapremo mobilitare il complesso delle energie, delle volontà istituzionali e sociali per obbiettivi condivisi di crescita e insieme anche di una sua giusta distribuzione, una volta che la ricchezza si genererà, allora il declino diventa inevitabile. Io sono ottimista, mi scrivo certamente fra coloro che pensano che la nostra società abbia ottimi fondamentali, ancora nonostante tutto, che il convento sia fragile, che il debito pubblico rimanga un vincolo straordinariamente presente e che dobbiamo avviarne la rimozione, ma che la società abbia buoni fondamentali. Lo possiamo guardare sotto molti punti di vista. Recentemente alcuni studi hanno evidenziato quanto le nostre famiglie siano ancora ben capitalizzate, quanto forte sia ancora la propensione al risparmio, nonostante tutto, nonostante anche una certa crescita del loro indebitamento, come la voglia anche di realizzarsi sia una realtà diffusa nella nostra società, sol che se ne organizzano le condizioni, si liberi il lavoro ed è per questo che sarebbe davvero sciocco se dovesse prevalere invece un approccio di tipo antagonistico, se la lettura di ciò che accade dovesse essere ancora ispirata a logiche di classe, se dovesse ancora prevalere un manicheismo politico che va a negare l’evidenza dei fatti o che porta comunque al contrasto pregiudiziale. Noi abbiamo, non a caso, in una stagione come questa, lanciato il Libro verde, di cui segnalo il metodo e il merito. Il libro è nuovo per metodo, lo usano, lo si è usato in altri paese dell’Unione Europea, in questi stessi giorni il Regno Unito, il governo del Regno Unito laburista di Gordon Brown ha lanciato un libro verde sul futuro del mercato del lavoro, sulla parte del modello sociale più esplicitamente riferito al modello mercato del lavoro; al lavoro la Commissione europea si rivolge più volte ai paesi membri attraverso il libro verde. Il libro verde quindi ha lo scopo, attraverso una consultazione pubblica, di arrivare ad un libro bianco, in tempi rapidi, cioè entro ottobre, novembre non più tardi, per un libro bianco condiviso, un libro bianco che dovrebbe disegnare i valori e la visione del nuovo livello sociale e che per tanto dovrebbe essere non lo strumento soltanto di una maggioranza di governo, ma dovrebbe essere lo strumento condiviso dalle istituzioni, quindi dallo stato e dalle regioni, al di là del colore delle loro giunte, che dovrebbe essere condiviso dagli attori sociali, che dovrebbe essere condiviso insieme al parlamento dalla maggioranza e mi auguro da larghissima parte dell’opposizione. E’ stato significativo che alcuni, come Enrico Letta o come Tiziano Treu, abbiamo dichiarato la loro disponibilità ad un confronto non sulle immediate politiche che inevitabilmente sono parte dell’identità di una maggioranza, non sul complesso delle politiche di transizione che poi saranno necessarie per passare dall’attuale modello sociale al futuro modello sociale, ma sulla visione, i valori del punto di arrivo che non possono che essere parte della costituzione materiale di questo paese, così come il vecchio modello sociale è stato parte della costituzione in parte formale ma anche materiale dell’Italia. Penso all’universalità del servizio sanitario, piuttosto che altre caratteristiche del modello sociale riferite al rapporto di lavoro, al modello di lavoro, che sono state, si può dire, largamente condivise, nonostante i conflitti che hanno pure caratterizzato questi temi. Noi dobbiamo produrre un risultato analogo, perché abbiamo bisogno di una visione, noi siamo società in cammino, società che sanno di dovere abbandonare le vecchie sponde sulle quali a lungo hanno vissuto perché stanno franando. Siano costretti ad attraversare il guado e nell’attraversamento del guado prevalgono le insicurezze, comprensibilmente, ma per volere andare avanti, per non fermarci ogni qualvolta magari le intemperie rendono ancor più difficile l’attraversamento, per insistere nel percorso evolutivo abbiamo bisogno di un idea della sponda che vogliamo raggiungere, anzi che vogliamo costruire più solida di quella che abbiamo abbandonato. Per questo la visione oggi è straordinariamente importante, lo è nel nostro paese, ma a bene vedere, guardate la dialettica politica in atto anche negli Stati Uniti, lo è in tutti i paese, soprattutto nei paesi tradizionalmente industrializzati, chiamati a grandi cambiamenti da fenomeni che in parte sono negativi ma in parte sono anche positivi, perché riguardano maggiore partecipazione di una quota ben più grande dell’umanità a condizioni di benessere nelle quali in passato queste porzioni dell’umanità erano escluse. Questo è il senso del Libro verde, quindi un’operazione assolutamente politica, nel senso più alto del termine, parte di questo progetto di condivisione. Nel Libro verde noi sottoponiamo a dura critica l’attuale modello sociale, non per quello che esso in passato ha dato ma per la sua condizione attuale, sotto le varie pressioni che lo hanno via via indebolito e reso inefficace. Se guardiamo anche solo all’aspetto del lavoro, noi vediamo come sono insoddisfatti i fondamentali diritti che nel lavoro possiamo riconoscere. Io credo che i diritti più fondamentali nel lavoro non possono che essere il diritto alla sicurezza, cioè alla salute e alla sicurezza, il diritto alla conoscenza come diritto alla occupabilità continua, permanente e il diritto ad una equa remunerazione del lavoro stesso. Questi tre diritti fondamentali, a ben vedere, nonostante il potente impianto regolatorio che pesa sul lavoro italiano, nonostante il sistema ridondante, perfino esoterico di relazioni industriali, o forse a causa di ciò, questi diritti non sono effettivi nel nostro paese, perché rimane da lungo tempo in piedi uno zoccolo duro di infortuni nel lavoro che nessuno può pensare di risolvere attraverso la riproposizione della strumentazione degli adempimenti e di sproporzionate sanzioni. Nessuno si illuda, gli infortuni continuano a manifestarsi in costanza di questi adempimenti e in costanza di queste sanzioni. Superato il punto più critico del 1963, quando eravamo attorno ai 4000 morti del lavoro, e scesi verso i 1000-1200 morti all’anno, con l’eccezione del 2006, lo zoccolo appare difficilmente scrostabile, se non cambiando in qualche modo l’approccio al paradigma. La stessa cosa se guardiamo al diritto e alla conoscenza, il diritto alla competenza, il diritto alla occupabilità: possiamo dirlo oggi garantito? Noi abbiamo vissuto la retorica della precarietà con riferimento ai più giovani, che in vero sono puniti da un sistema educativo che li consegna al mercato del lavoro tardi e male, 28 anni l’età media di laurea, deboli i percorsi universitari, per lo più poco spendibili nel nostro mercato del lavoro, ma non abbiamo guardato alla più generale precarietà. Tony Blair disse, quando fece il discorso di avvio della sua presidenza semestrale dell’Unione, disse: “In realtà sono precari tutti coloro che se domani mattina perdono il posto di lavoro fanno fatica a trovarne un altro perché non hanno conoscenze sufficienti per poter essere occupabili, poter essere cioè autosufficienti”. Da questo punto di avvio abbiamo speso l’ira di Dio per la formazione, ma possiamo essere soddisfatti di una sola lira ieri, di un solo euro oggi di formazione spesa? Possiamo con sincerità dirci soddisfatti? Noi possiamo avere, forse abbiamo una sola certezza, che non mi porta a enfatizzare, come dirò brevemente, come dirò subito, ciò. Possiamo essere solo soddisfatti del buy doing, come dicono gli inglesi, ma non di tutto ciò che è all’esterno dell’impresa, nel nome dell’interesse dei formatori è stato via via organizzato e malamente speso. Noi abbiamo un diritto alla giusta retribuzione? Alla equa remunerazione del lavoro? Abbiamo soddisfatto questo diritto? O invece non ha funzionato proprio il meccanismo contrattuale attuale, quale fu codificato nel 1993 a conclusione di un ciclo, quello dell’alta inflazione, nel corso della quale il sindacato aveva collaborato ad una importante politica dei redditi? A conclusione di quel ciclo, non è forse accaduto con l’accordo, proprio con l’accordo del 1993, che già nel 1997 Gino Giuni disse essere superato, non è forse accaduto che i lavoratori siano stati espropriati degli incrementi di produttività almeno là dove si determinavano? Essi non hanno partecipato del reddito che si generava per l’incremento di produttività prodottisi in quelle aziende nelle quali essi quindi svolgevano un effettivo concorso a quel risultato, essi sono stati espropriati e condannati a un andamento piatto e quindi inesorabilmente moderato delle retribuzioni. La giusta remunerazione del lavoro non si può dire ci sia e sia garantita dall’attuale modello contrattuale, né tanto meno da un modello fiscale fortemente ideologico, che è ispirato alla progressività esasperata che è pagata tutta soltanto dal lavoro dipendente, perché in qualche misura il lavoro indipendente, non solo con l’evasione quando c’è, ma anche con comportamenti lecitamente elusivi, può attenuare la curva della progressività. Ma il lavoratore dipendente no, se la prende tutta, e se la prende soprattutto quando fa uno sforzo in più, quando fa lo sforzo in più a essere disponibile a lavorare il sabato o quando si impegna particolarmente per raggiungere un risultato e in nome di esso viene premiato e lì, boom, arriva la mannaia di un fisco cieco e ideologico, che non sa distinguere nella composizione della retribuzione. Allora quale è la sintesi di questo modello sociale se non il formalismo? Questo modello sociale muore per formalismo, formalismo esasperato, figlio anche di forti pulsioni ideologiche. Noi dobbiamo quindi liberare il lavoro dall’insicurezza, incompetenza e dall’ideologia, dall’ideologia che, come abbiamo visto, si manifesta nella iperegolazione del rapporto di lavoro, che va a danno delle tutele effettive, effettivamente riconosciute, o che si manifesta nell’andamento piatto delle retribuzioni, perché si pensa ancora che il salario abbia esclusivamente una funzione solidale, cosa che può valere per una dimensione minima di esso ma non per l’insieme della retribuzione. Allora cosa vuole dire l’autunno responsabile? Vuol dire partire, a nostro avviso, da ciò che abbiamo avviato, dal punto di vista del merito, dal merito. Noi cosa abbiamo avviato? Abbiamo convocato le parti sociali a fine agosto, dopo una prima convocazione che accelerammo in relazione ai tragici eventi di Mineo, per dire piano straordinario per la formazione e l’informazione nel lavoro, cioè approccio per obbiettivi, lo diceva Marco Biagi, non per regole, lo diceva proprio in relazione alla sicurezza. Perché la gran parte degli infortuni sono di tipo comportamentale? Non perché qualche stupido può dire è colpa del lavoratore, no, ma perché c’era insufficiente formazione all’informazione. Quindi occorre investire e per questo abbiamo cercato di concentrare investimenti istituzionali, anche privati, e del privato sociale come quelli dei fondi interprofessionali, intorno alla formazione all’informazione. Questo braccialetto è il simbolo della campagna avviata dall’INAIL, lo potete trovare qui nello stand dell’INAIL stesso, potete trovare i contenuti della campagna di informazione che parte proprio al Meeting di Rimini. In secondo luogo noi abbiamo avviato con la detassazione dei premi, sottolineo dei premi, e degli straordinari. Degli straordinari perché? Per lubrificare il meccanismo degli accordi aziendali sullo straordinario. Ma lo scopo vero non è alzare il livello degli straordinari, è alzare il livello del salario di produttività, è alzare il livello dell’intesa tra parti nella condivisione aziendale. Condividiamo la fatica per raggiungere un risultato, perché sappiamo che condivideremo anche il risultato stesso e quelle parti del salario che si aggiungono alla dimensione contrattuale, che sono frutto di uno sforzo specifico, devono essere dal fisco lette con intelligenza: lì si ferma la progressività, lì c’è il 10% secco, secco! Non come incentivo transitorio ma come sperimentazione in vista di una disciplina a regime per tutto il lavoro dipendente. Questa deve essere la struttura del fisco applicato al reddito dal lavoro dipendente, un fisco intelligente come ho detto, che sa distinguere, che sa leggere, che privilegia quella componente variabile della retribuzione che si collega a esigenze organizzative dell’impresa, alla flessibilità organizzativa dell’impresa, alla modulazione dell’orario, o che si collega preferibilmente a maggiore produttività, a maggiore redditività. Io dico anche che si collega soprattutto al profitto di impresa, noi dobbiamo cominciare sempre di più a stabilire un nesso fra salari e profitto di impresa. Una parte del salario deve avere un collegamento dichiarato con il risultato di impresa e portare con sé una maggiore volontà di controllare la trasparenza dell’impresa stessa, perché se da essa trasparenza dipende una parte del mio reddito, è ovvio che voglio partecipare delle forme di controllo sulla trasparenza stessa, ma soprattutto mi sento di partecipare, mi sento coinvolto, perché so che condividerò, insisto, la fatica ma anche i risultati. Il terzo profilo è quello, ultimo ma non ultimo, della rivoluzione copernicana per quanto riguarda la formazione. Noi convocheremo regioni e parti sociali per dire cambiamo tutto, discontinuità, direbbe Sarkozy, rottura. Rottura, qui il termine è più che lecito, è doveroso, rottura significa riconoscere il lavoro come parte del processo educativo. A me fa piacere che l’esperienza della Piazza dei mestieri si sia tradotta ora anche in un bellissimo volume che raccoglie questa esperienza della Compagnia delle Opere. Esperienza che permette, attraverso il lavoro, che molti giovani investiti dal cosiddetto abbandono scolastico vengano recuperati, non prendendoli per un orecchio per rimetterli in un tradizionale banco di scuola, ma attraverso il lavoro come parte di un processo educativo. La seconda opzione deve essere quella di riconoscere che l’impresa è il luogo privilegiato per la formazione, non il luogo di un tendenziale sfruttamento che perciò aveva bisogno di complementi esterni, della formazione come momento esterno. Potenzialmente, non dico attualmente, non dico sempre, ma potenzialmente l’impresa è un luogo formativo e le attività esterne devono essere supporto a che questa potenzialità si esprima. Terzo aspetto è quello di passare dalla certificazione formale della formazione alla valutazione sostanziale delle competenze acquisite. L’ OECD usa da anni il cosiddetto rapporto Pisa, “Programme for International Student Assessment” cioè la valutazione è quel rapporto che mette a nudo le debolezze dei giovani italiani, perché è quel rapporto che si basa su interviste, su base campionaria di giovani italiani ai quali vengono fatte domande per capire se sanno, e da questo rapporto emerge drammaticamente la non conoscenza dei nostri giovani in scienza, tecnologia, matematica cioè le materie che il più bel documento dell’Unione Europea, quello di Lisbona del 2000, indicava come le materie sulle quali costruire il capitale umano per l’Europa protagonista dell’economia della conoscenza. Proprio qui noi dimostriamo la nostra debolezza. Un analoga strumentazione i tedeschi stanno già proponendo, e noi abbiamo deciso di aderire a questa linea perché in Europa ci sia una valutazione di questo tipo, ma soprattutto dentro di noi dobbiamo farlo a partire anche da strumenti come il libretto formativo, in via sperimentale, e dalla valutazione delle competenze di coloro che alzano la mano e ce lo chiedono e ci chiedono di essere valutati nelle competenze che acquisiscono, in modo da scassare tutto il formalismo, tutta l’autoreferenzialità che caratterizza questo mondo perverso della formazione in Italia. Quale è la chiave fondamentale del condividere che noi abbiamo proposto alle parti sociali e che Raffaele Bonanni poco fa ha significativamente raccolto, come ha già fatto nel corso di quell’incontro e nel corso di questo tempo, quando ci lasciammo alla fine di Luglio? Noi diciamo condividere perché vale per la dimensione del sistema paese quello che vale per la dimensione aziendale, abbiamo detto condividere la fatica per generare sviluppo, crescita, redditività dell’impresa, per condividere i risultati. Questo vale a livello generale del paese. Condividere, condividere significa non un appello retorico, significa organizzarci perché ciò sia vero, perché ciò sia effettivo, non sia soltanto un imperativo morale. E allora se questo significa riconoscere in larga parte anche alle parti sociali funzioni di interesse collettivo, significa sussidiarietà, un’operazione forte di sussidiarietà. Significa per esempio tutta la politica, che prima Raffaele Bonanni ricordava, di protezione attiva di coloro che vivono le transizioni, perché le transizioni sono i momenti più difficili nell’arco della vita di una persona. La transizione può riguardare te stesso quando passi dalla scuola al lavoro, la transizione c’è quando passi dalla tua vita individuale a una vita familiare, e quando da una vita familiare senza figli passi a una vita con i figli, quando alcune persone nella tua famiglia diventano non autosufficienti e vuoi però farle vivere nel tuo contesto familiare. In tutte le transizioni noi abbiamo bisogno di organizzare un sistema di servizi solidi. Prima di tutto ci viene in mente la transizione dall’occupazione alla disoccupazione e nell’autunno noi vivremo fasi, situazioni di questo tipo, forse più intensamente che in altri momenti, come sempre accade in un grande cambiamento. Noi vivremo cioè aziende che devono trasformarsi, riconvertirsi, razionalizzarsi, e noi siamo un paese nel quale il cosiddetto “welfare to work”, welfare verso il lavoro, è considerato con grande scetticismo ma c’è poi all’atto pratico, quando dobbiamo gestire una certa situazione. Io vedo amici del sindacato in sala, con cui ho vissuto queste esperienze, che sanno quanto poi sia faticoso. Al Nord è difficile perché al Nord si dice: “intanto mi tengo la cassa integrazione, la esaurisco e alla fine un lavoro me lo trovo, tanto il mercato del lavoro un’opportunità alla fine me la dà e mi conviene trattenere la cassa integrazione, cumularla magari con un lavoro sommerso”. Non facciamo moralismi a questo riguardo, consideriamo i fatti che oggettivamente sono così, e che creano scetticismo, come dire sfiducia nel meccanismo virtuoso, che dovrebbe invece accompagnare subito qualcuno a che rientri nel mercato del lavoro senza attendere passivamente l’esaurirsi dell’ammortizzatore sociale. Al Sud la sfiducia è di segno opposto: “tanto non c’è nessun posto di lavoro, è inutile che si facciano politiche di accompagnamento, tanto non c’è speranza, l’unica richiesta che invece devo fare è quella della tutela passiva, dell’integrazione del reddito”. Anche questo è sbagliato, perché anche al Sud, nonostante tutto, anche nelle situazioni peggiori, anche in un paese che purtroppo ha allargato la sua forbice interna, si creano, nonostante tutto, posti di lavoro. Se ne possono creare ancora di più se il mercato del lavoro è più funzionante, se il capitale umano è più valorizzato. Allora come rompere questa sfiducia diffusa, diversa ma convergente nei suoi effetti, se non riconoscendo alle parti sociali la funzione di attori della coesione sociale territoriale? Perché nei territori le parti sociali possono essere da noi delegate attraverso la bilateralità a cogestire, esse parti, tutti i servizi che danno valore alla persona nell’età di lavoro; a gestire la salute e la sicurezza nel lavoro, a gestire il collocamento, a gestire il sussidio nel momento in cui perdi il posto di lavoro. Noi stiamo lavorando a un ipotesi di questo tipo di delega alle parti, a gestire anche la cassa integrazione o a realizzare a fianco di essa anche forme integrative, su base mutualistica, dell’indennità di disoccupazione, a gestire la formazione mirata per persone che devono attraversare positivamente la transizione dalla disoccupazione, dall’occupazione alla disoccupazione e di nuovo a un’altra occupazione. Quindi sì, noi praticheremo una politica di sussidiarietà. Per lo stesso testo unico in materia di salute e sicurezza nel lavoro, noi abbiamo detto una cosa: “noi siamo pronti a organizzare la cedevolezza di molte norme ogni qualvolta c’è sussidiarietà”. Cosa vuol dire? Vuol dire che, per esempio, se il testo unico chiede con molto rigore formale l’adempimento di una valutazione del rischio, di un documento di valutazione del rischio, le parti sociali, se c’è bilateralità, possono essere rese libere di organizzare quel documento in termini molto più sostanzialiastici rispetto al formalismo che l’amministrazione da lontano chiede rispetto al concreto di quella situazione aziendale. La norma cede di fronte alla bilateralità perché ne riconosce la potenziale virtù. C’è una norma nel decreto 112 che riguarda la formazione in apprendistato, forse ancora non è noto ma attenzione è operativa. Che cosa dice? Dice che la formazione in apprendistato può essere regolata dal canale pubblico delle regioni ma a fianco del canale pubblico delle regioni, ci sarà, da adesso è possibile se le parti lo vogliono, un canale privato sociale, cioè le parti sociali, se decidono che in quell’azienda la formazione in apprendistato sia di tipo aziendale, sono libere di organizzare e regolare e controllare e certificare quella formazione come ritengono. Sussidiarietà piena nei loro confronti, per rendere effettiva la formazione in apprendistato, che oggi è largamente ineffettiva cioè o è sulla carta, nel senso che non c’è proprio o è inefficace, perché spesso ridicolmente gestita all’esterno, per un pezzo di carta cui non corrisponde nessuna competenza aggiuntiva. Questa sfida quindi noi vogliamo aprire. Io rispondo fortemente sì a Raffaele Bonanni, noi dobbiamo insieme, insieme davvero, attraversare questo percorso autunnale nel segno della responsabilità, nel segno della volontà di cogliere quest’ultimo slot per la crescita che è possibile, convinti che se mobilitiamo l’intera comunità nazionale ce la possiamo fare, ci sono tutte le condizioni per farcela. Se invece dovesse ancora prevalere la divisione, se dovesse ancora prevalere un antistorico ideologismo di classe, se dovessero ancora prevalere i conflitti aprioristici che abbiamo conosciuto in questa lunghissima, triste, transizione italiana da Tangentopoli in poi, se dovesse prevalere tutto ciò, allora il declino sarebbe inesorabile. Ma noi non lo vogliamo e se non lo vogliamo lo possiamo evitare.
MODERATORE:
Io ringrazio il Ministro Sacconi, non riprendo evidentemente il suo intervento, tutti e tre i nostri relatori ci hanno detto sostanzialmente una cosa: alcune caratteristiche di questa società, che è stata in vario modo chiamata società del rischio, sono oramai evidenti e presenti, e questo rende difficile la transizione. Ma allora questo richiede che vicendevolmente ci sia una presa in carico, che non è solo un problema istituzionale. Vorrei dire solo una cosa a Maurizio Sacconi, che la sussidiarietà è certamente nell’aspetto delle relazioni tra vari soggetti rappresentativi, per esempio la bilateralità, ma il suo punto fondamentale è proprio nella persona. Penso un esempio come quello della dote in Lombardia, cioè di dare a ciascuno una possibilità di poter avere delle risorse da spendere proprio per questi periodi di difficili transizioni. Poi concludo dicendo che è proprio una questione che riguarda la persona. Chi di voi questi giorni potrà andare a vedere la mostra sul carcere di Padova, fatta dai nostri amici di Giotto, vedrà che la questione del lavoro è la questione permanete dell’espressività, del desiderio del cuore di una persona rispetto al Mistero. C’è un video che testimonia proprio con delle testimonianze semplici di questi uomini che hanno 1,2,3 ergastoli, che testimonia che cosa vuol dire la possibilità di poter trasformare la realtà e concludo con una citazione, che a me è carissima, ma che credo sia una responsabilità, sia il compito nella vita, a prescindere dal contesto in cui siamo. E’ una citazione dal Denaro di Peguy, che molti probabilmente conoscono: “Un tempo gli operai non erano servi, lavoravano, coltivavano con onore assoluto, come si addice ad un onore, la gamba di una sedia doveva essere ben fatta, era naturale, era inteso, era un primato, non occorreva che fosse ben fatta per il salario o in modo proporzionale al salario, non doveva essere ben fatta né per il padrone, ne’ per gli imprenditori, ne’ per i clienti del padrone, doveva essere ben fatta di per sé, in sé, per la sua stessa natura”.
Grazie a tutti della partecipazione.
(Trascrizione non rivista dai relatori)