L’eterno nel presente

Ha partecipato: Sua Em.za Card. Adrianus Simonis Arcivescovo di Utrecht.


Simonis: Ad captandam benevolentiam (per attirare la vostra benevolenza) nell’ascoltare il mio intervento su di un tema così difficile, voglio iniziare con una piccola storiella che forse alcuni di voi già conoscono.

Un giudeo domanda al Signore: “Che cosa sono per Te mille anni?” Risposta: “Un istante”. Allora il giudeo domanda nuovamente: “Che cosa sono per Te mille talenti?” Risposta: “Un centesimo”. Allora il giudeo: “Ah, dammi un centesimo!” Il Signore risponde: “Aspetta un istante”.

Da questa storiella possiamo imparare qualche cosa: primo, che parlare dell’eterno nell’istante non è facile, ma anche che senza l’uno non si può capire l’altro. Vorrei fare una seconda osservazione: anche se non fosse vero che il Signore ha parlato così come nella storiella che ho raccontato tuttavia le sue parole per noi dopo duemila anni hanno ancora un valore.

Ma non solo. Dall’esperienza possiamo osservare che un atto o una parola di un uomo hanno un significato che tende a superare l’istante. E con questo siamo al cuore del nostro tema.

 

1. Un tempo senza significato

Charles Péguy nella sua lucida disamina della tragedia della modernità individua nella negazione di ogni significato della temporalità e della storia (non solo nella società ma persino nella Chiesa) una delle conseguenze più decisive di quel percorso di dimenticanza che caratterizza l’uomo moderno. Egli fa dire a Clio, musa della storia: “Negare l’eternità, amico mio, e fondare ogni cosa su di me miserabile, è cosa così volgare che si è resi avvertiti, prevenuti, vaccinati contro una così grossolana operazione. Ma negare invece la temporalità, la materia, la volgarità stessa, l’impurità, negare me, rinnegarmi, me, il temporale, ecco qui il colmo della raffinatezza, la purezza assoluta, la sublime incontaminazione…”.

Questo risorgere del tentativo gnostico di fuga dal tempo, dalla materialità dell’esistenza, fino a negare la realtà, è una tragica risposta all’angoscia esistenziale, alla progressiva dissoluzione dell’io che contraddistingue la modernità. Essa ha tra le sue conseguenze più impressionanti proprio la distruzione dell’utilità del tempo. Perché parliamo della distruzione dell’utilità del tempo? Perché, come osserva don Giussani, si è persa la coscienza del valore dell’istante: “Nell’istante infatti il tempo si sorprende nella sua fattura. Ma dal momento che è diventato usuale affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza, una tale follia ha coinciso con l’uccidere la parola destino — con cui la parola Dio si identifica. E soltanto se c’è un destino l’istante ha corposità, è valore, è “funzione” di qualcosa. In caso contrario, come dice Oriana Fallaci ‘…la vita diviene una serie di occasioni perdute, un rimpianto di ciò che non è stato e che avrebbe potuto essere, un rimorso di ciò che non si è fatto e che si sarebbe potuto fare. Ed è così che si spreca il presente rendendolo un’altra occasione perduta di cui poi rammaricarsi'”. (L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, Rizzoli, Milano 1994, p. 109)

Così tutto diventa nulla. Cesare Pavese scrive in una sua poesia:

“Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità.
(…)
La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire. (“Lo steddazzu”)

Allora, il tempo diventa negativo, il tempo in cui ogni istante va verso la morte, ogni istante inganna e corrompe. L’istante diviene l’attimo dell’angoscia vissuta (è un pensiero che possiamo trovare in Heidegger).

Così “guardiamo al prima e al dopo e ci struggiamo per ciò che non c’è” (Shelley). Ci struggiamo perchè il presente non ha densità. Il presente nella vita banale diventa l’urgere delle cose da fare che assorbono e non lasciano requie, il passato ci inchioda nella situazione in cui ci troviamo gettati, il futuro ci angoscia con le sue incertezze. L’unica alternativa all’angoscia dell’attimo sembra consistere nella distrazione, o nel tentativo di fuga da una apparenza soffocante, o nella immaginazione utopica di un nuovo tempo, di una nuova condizione, di una nuova era.

Non è casuale perciò, che oggi, dopo il crollo dei miti rivoluzionari, rinascano concezioni che ripresentano, in forme aggiornate, i miti di nuovi cicli cosmici dell’eterno ritorno, nei quali la storia dell’universo e, in particolare, dell’uomo costantemente si ripeterebbe. Alcuni poi teorizzano varie forme di reincarnazione: in dipendenza da come l’uomo ha vissuto nel corso dell’esperienza precedente, si troverebbe a sperimentare una nuova esistenza più nobile. Sorgono ancora nuovi movimenti, come il New Age, che annunciano il prossimo avvento di una nuova era di pace, di amore, di riconciliazione (l’era dell’Acquario) in corrispondenza del tramonto del Cristianesimo.

Questi sforzi per sottrarsi alla caducità del divenire, in una età che, che per dirla con Eliot “avanza all’indietro, progressivamente”, sono segnali, certo contraddittori, del permanere di una coscienza, sia pure confusa, del tempo come l’ambito in cui all’uomo è dato di cogliere contemporaneamente il proprio essere limitato e tuttavia il proprio essere esigenza di un “quid”, di un “oltre” che lo precede e lo supera.

Per questo l’uomo continua a cercare un nesso tra l’istante e il tutto.

2. L’Eterno entra nel tempo

La ricerca di questo nesso tra l’istante e il tutto — l’eterno — è un fenomeno inevitabile per l’umana ragione, perché l’uomo da sempre, e più profondamente di quanto non abbia avvertito gli altri sui bisogni, ha vissuto l’urgenza di interrogarsi e di non lasciare inevasa la risposta sul fine ultimo del suo camminare.

Di fronte a questo enigma l’uomo ha cercato e cerca di immaginare, di definire il Mistero in rapporto a sé, di concepire un modo di relazione con esso, di individuare un nesso tra il momento contingente e il significato eterno di esso. A questi tentativi innumerevoli concepiti dagli sforzi umani il Mistero, l’Eterno ha dato una risposta imprevedibile “in un momento nel tempo e del tempo”, come dice Eliot. Così egli scrive:

“Quindi giunsero in un momento predeterminato, un momento nel tempo e del tempo,.

Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo.

Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato” (T.S.Eliot, Cori da “La Rocca“, VII).

“Quel momento di tempo diede il significato”. Come ricorda Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente, “il tempo in realtà si è compiuto per il fatto stesso che Dio, con l’Incarnazione, si è calato dentro la storia dell’uomo. L’eternità è entrata nel tempo” (n.9). E ancora, scrive il Santo Padre al n.10: “Nel Cristianesimo il tempo ha un’importanza fondamentale. Dentro la sua dimensione viene creato il mondo, al suo interno si svolge la storia della salvezza che ha il suo culmine nella ‘pienezza del tempo’ dell’Incarnazione e il suo traguardo nel ritorno glorioso del Figlio di Dio alla fine dei tempi. In Gesù Cristo, Verbo incarnato, il tempo diventa una dimensione di Dio, che in se stesso è eterno”.

Allora si può dire che l’avvenimento di Cristo, Verbo incarnato è il manifestarsi compiuto nella storia del disegno del Padre. In Lui Dio si rivela pienamente all’uomo come Signore del tempo e della storia. Dio per definire all’uomo in modo concreto Sè in rapporto a lui si è manifestato come Signore della storia.

Tutta la storia del popolo ebraico è il preavviso di ciò che sarebbe successo a tutta l’umanità. San Paolo chiama la storia del popolo ebraico “il grande pedagogo”, il grande maestro che Dio ha creato, formulato, assistito, destinato per preparare l’umanità. Il popolo ebraico con la sua storia fu fatto da Dio come pedagogia, come introduzione illuminante la natura del Suo intervento nel mondo, la natura del Suo intervento nella storia. Don Giussani osserva a questo proposito:

“Che Dio si manifesti come il Signore della storia intervenendo nella storia, vuol dire che deve usare un particolare, perchè la storia è fatta di particolari, e vuol dire che Dio sceglie questo particolare. Proprio questo particolare scelto, questo particolare con cui egli addirittura si identifica con un gesto d’amore, è eletto per dimostrare a tutti cosa è Dio, il Signore dell’uomo” (L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, p. 30).

La promessa fatta ad Abramo e costantemente richiamata dai Profeti, l’alleanza con il popolo, vengono sempre confermate lungo i secoli, nonostante la dimenticanza e i ricorrenti tradimenti. Così leggiamo nel Deuteronomio:

“Jahve non si è unito a voi e non vi ha scelto perchè siete più numerosi di tutti gli altri popoli: anzi voi siete il più piccolo di tutti i popoli. Ma vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha liberato dalla casa di schiavitù, dal potere del Faraone re d’Egitto, per amore di Jahve verso di voi e perchè ha mantenuto il giuramento che aveva fatto ai vostri padri. Tu sai che Jahve tuo Dio è il vero Dio: il Dio fedele che per mille generazioni mantiene l’alleanza e la benevolenza verso coloro che lo amano e osservano i suoi precetti” (Dt 7,7-9).

3. Nella pienezza del tempo

La fedeltà di Dio, la Sua Alleanza ha assunto un Volto umano. San Paolo può così dire: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perchè ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4s.). Nato da donna: “Ex Maria Virgine“. Dio ha scelto Maria perchè fosse e creasse la prima dimora di Dio nel mondo, il primo tempio di Dio nel mondo. Penso qui alle belle parole del Card. Ratzinger:

“Senza Maria l’ingresso di Dio nella storia non giungerebbe al suo fine, quindi non sarebbe raggiunto proprio quello che ha importanza… che Dio è un Dio con noi e non solo un Dio in se stesso e per se stesso… Egli non può essere pensato senza di lei. Ella appartiene irrinunciabilmente alla nostra fede nel Dio vivente, nel Dio che agisce. La Parola diventa carne — l’eterno fondante significato del mondo entra in esso. Egli non lo guarda solo dall’esterno, ma diventa egli stesso un soggetto agente in esso”.

Così San Leone Magno contempla il mistero dell’irrompere dell’eterno nel tempo:

“Dilettissimi, appena giunti i tempi prestabiliti per la redenzione degli uomini, Gesù Cristo, Figlio di Dio, fa il suo ingresso nell’infima condizione di questo mondo: discende dalla sede celeste senza, però, allontanarsi dalla gloria del Padre: è generato in un nuovo stato e con novità di nascita. È nuovo il suo stato perchè, pur rimanendo invisibile nella sua natura, è diventato visibile nella natura nostra. Egli che è l’immenso, ha voluto essere racchiuso nello spazio. Pur rimanendo nella sua eternità, ha voluto incominciare a esistere nel tempo” (S. Leone Magno, Sermone 22,2: PL LIV, 195).

Ante tempora manens, esse coepit ex tempore” (S. Leone Magno, Tomus Flavianus). Vuol dire: rimanendo prima di tutti i tempi, ha iniziato a esistere nel tempo.

La natura divina del Verbo è eterna, la natura umana di Gesù ha il suo inizio nel tempo. La Chiesa ha sempre sostenuto la “nativitas temporalis” del Figlio eterno di Dio, respingendo l’idea di una preesistenza della natura umana del Verbo rispetto al momento storico dell’Incarnazione del Verbo stesso nel seno della Vergine Maria. Ancora una parola di S. Leone Magno: “Questo medesimo eterno Figlio unigenito dell’eterno Padre, ‘è nato dallo Spirito Santo e da Maria Vergine’. Questa sua nascita nel tempo nulla ha tolto e nulla ha aggiunto a quella divina eterna nascita, ma egli si è donato completamente alla redenzione dell’uomo…” (Leone I, Lettera Lectis dilectionis tuae: DS 290).

“Ciò che è della natura divina, la carne non lo ha sminuito; ciò che è della carne, la natura divina non lo ha abolito. Infatti Lui medesimo è il Figlio di Dio generato eterno dal Padre e nel tempo dalla madre… Il medesimo che viene dal Padre prima di ogni principio viene dalla madre nella fine dei secoli perchè fosse mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Gesù Cristo (1 Tm 2,5), in cui dimorasse “corporalmente la pienezza di Dio (Col 2,9)” (Leone I, Lett. Licet per nostros: DS 297).

Gesù Cristo, dunque, ha incominciato a esistere come Uomo nel tempo. Di quest’Uomo, Giovanni Battista ha detto: “Il tempo è compiuto, e vicino è il Regno di Dio” (Mc 1,15). Questo Regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo (cfr. LG 5).

“Cristo — dice S. Ireneo — ha portato ogni novità, portando Sé stesso, com’era stato annunciato” (omnem novitatem attulit, seipsum afferens qui fuerat annuntiatus).

Sappiamo dal Vangelo che Gesù di Nazareth, recatosi un giorno nella sinagoga della sua città, si alzò per leggere. Gli venne dato il rotolo del profeta Isaia, nel quale egli lesse il seguente passo: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me; per questo mi ha unto, mi ha mandato a predicare ai poveri la buona novella, ad annunziare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi il recupero della vista, a mettere in libertà gli oppressi, a promulgare un anno di grazia del Signore”. Arrotolò il volume, lo rese all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti, nella sinagoga erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro:

“Oggi si è adempiuta questa Scrittura alle vostre orecchie” (Lc 4,14-21). Oggi. In Cristo prende avvio il tempo tanto atteso, il giorno della salvezza, la pienezza del tempo. Il tempo non è più solo l’angusta e enigmatica misura del divenire, ma è l’accadere di quella presenza. Nell’evento di quella Presenza iniziava una storia nuova, la storia, il tempo nella pienezza del suo significato: nel presente. L’Eterno, il divino, si comunica all’umano nel tempo, attraverso quindi un elemento dell’esperienza umana. Proprio perchè l’esperienza implica un complesso di fattori misurabile, determinato da tempo e da spazio, che viene raccolto dai sensi, Dio, Colui che è, diventa Presenza nel tempo. Dio diventa fattore dell’esperienza presente. È l’avvenimento di una Presenza che penetra tutto il tempo, come il significato penetra ogni istante e ogni brandello di realtà.

Così uno dei due che lo ha incontrato per primo insieme ad Andrea, Giovanni, può persino ricordare l’ora di quel giorno:

“Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: ‘Ecco l’agnello di Dio!’. E i due discepoli, sentendo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: ‘Che cercate?’. Gli risposero. ‘Rabbi dove abiti?’. Disse loro: ‘Venite e vedrete’. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1,35-39).

Quell’ora, l’esperienza storica di quell’incontro ha segnato tutta la vita di Giovanni, è diventato il contenuto della sua autocoscienza e della sua affettività, come egli stesso ci testimonia:

“Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò vi rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e si è resa visibile a noi) quello che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi” (1 Gv, 1-3).

4. La contemporaneità di Cristo

“Ciò che era fin da principio”, il Verbo della vita noi lo abbiamo visto e udito. Gesù Cristo come Uomo ha iniziato a esistere nel tempo. Non è semplicemente un fatto di duemila anni fa. È incominciato duemila anni fa, ponendo l’inizio di una memoria che riempie il presente: riempie il presente rendendo presente il passato. È incominciato duemila anni fa, ma è un avvenimento che accade e investe l’uomo ora, è un fatto di oggi.

Come diceva Kierkegaard l’ideale non può essere che contemporaneo: “Diventare cristiani significa diventare contemporanei di Cristo. In rapporto all’assoluto non c’è infatti che un solo tempo: il presente; per colui che non è contemporaneo con l’assoluto, l’assoluto non esiste affatto. E poichè Cristo è l’assoluto, è facile vedere che rispetto a Lui è possibile solo una situazione: quella della contemporaneità” (S. Kierkegaard, Esercizio del Cristianesimo, in Opere, Firenze 1974, p. 724).

Il Cristianesimo allora è un avvenimento — qualcosa di accaduto, che accade. Si chiama avvenimento l’immettersi dentro l’esperienza di un fattore nuovo: Cristo è il fattore nuovo entrato nella storia duemila anni fa, Cristo è il fattore nuovo che entra nella giornata oggi, rende l’uomo capace di camminare verso il destino, permette di ridiventare uomo oggi.

Ogni giorno, come il primo giorno. È la promessa fattaci da Cristo: “Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. “Solo se è presenza ora, infatti Egli può influire su di me e cambiare la mia ora — può cambiarmi e rendermi quello che Lui vuole”.

Solo ciò che agisce nel presente “è”. Ciò che non agisce nel presente “non è”, non c’è. Perchè noi non possiamo uscire dal presente: partiamo dal presente, agiamo nel presente, finiamo nel presente. Il presente è la grande caratteristica dell’essere” (cfr. L. Giussani, È se opera, Roma 1994, p. 71).

Riascoltiamo Péguy:

“Egli è qui.
È come il primo giorno.
È qui tra di noi come il giorno della sua morte.
In eterno è qui tra di noi proprio come il primo giorno.
In eterno tutti i giorni.
È qui fra di noi in tutti i giorni della sua eternità.
(…)
È la medesima storia, esattamente la stessa, eternamente la stessa che è accaduta in quel tempo e in quel paese e che accade tutti i giorni in tutti i giorni di ogni eternità.
In tutte le parrocchie di tutta la cristianità”.

Nella nostra vita, nella nostra giornata, in tutto quello che noi siamo e facciamo, anche in quest’ora in cui ci troviamo a riflettere su questo tema.

5. Il tempo della Chiesa

Cristo è presente. Ma dove? Come? Come l’avvenimento della Sua Presenza permane nella storia?

Con la Sua Morte e Risurrezione Cristo vince la morte e il peccato. Nella sua Ascensione al Cielo, partecipa nella sua umanità alla potenza e all’autorità di Dio stesso. Sale al Cielo, cioè scende alla radice di ogni cosa, dove tutto è creato, istante per istante, tutto. “Tutto il Padre ha sottomesso ai suoi piedi”, dice la Lettera agli Efesini (Ef 1,21-22). Cristo è il Signore del cosmo e della storia. In Lui la storia dell’uomo come pure tutta la creazione trovano la loro “ricapitolazione”, il loro compimento trascendente (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 668).

“Come Signore, Cristo è anche il Capo della Chiesa che è il suo Corpo. Elevato al cielo e glorificato, avendo così compiuto pienamente la sua missione, egli permane sulla terra, nella sua Chiesa. La Redenzione è la sorgente dell’autorità che Cristo, in virtù dello Spirito Santo, esercita sulla Chiesa” (n. 669).

Si chiama Spirito Santo, l’energia personale con cui il mistero del Dio eterno e immutabile opera nel mondo che ha creato, lo plasma e lo piega come un grande fiume, verso la sua foce, che è il mistero stesso di Dio.

Questa energia personale viene nel mondo e lo penetra infinitamente di più da quando quell’Uomo cui lo Spirito stesso ha dato vita nel seno della Vergine Maria è morto ed è risorto. Da quando Gesù Cristo, quell’Uomo che è Dio, è morto e risorto, questo Spirito è il Suo Spirito, è l’energia con cui Lui è destinato a prendere possesso definitivo di tutte le cose, come dice S. Giovanni: “Tu, o Padre, mi hai dato nelle mani ogni carne — tutti gli uomini — affinchè abbiano la vita eterna” (Gv 17). Questa è la vita vera — vita eterna vuol dire infatti “vera” vita —, che conoscano Te, unico vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. “Ut cognoscant Te”. È proprio la parola di Gesù che ho scelto come motto divenendo Vescovo.

Lo Spirito di Dio perciò è l’energia personale con cui Cristo penetra la storia, il tempo e lo spazio, afferrando ciò che il Padre gli dà nelle mani, secondo un disegno che a noi appare lento; ma per Lui, di fronte a cui mille anni sono come un giorno, tutto ha la brevità dell’istante (pensate alla storiella dell’inizio!).

Cristo non ci ha lasciato soli!

Il tempo dalla Ascensione al ritorno definitivo di Cristo è il tempo della Chiesa, del dilatarsi della Sua Chiesa. Questa è la storia che porta il senso del mondo, il senso della storia del mondo.

Cristo è presente secondo la modalità che Lui ha creato: la compagnia degli uomini che Egli afferra e immedesima con Sé. Questa compagnia è Cristo oggi nella sua realtà umana, è il Corpo di Cristo che si rende presente, che si vede con gli occhi.

È il Battesimo il gesto con cui Egli afferra e immedesima a Sé coloro che Egli ha scelto, perchè partecipano alla Sua missione, cioè al disegno del Padre, perchè nel tempo sia riconosciuto come il Signore di ogni cosa.

“Tutti voi che siete stati battezzati vi siete immedesimati con Cristo.. siete uno in Cristo”, dice S. Paolo (Gal 3,26). Immedesimati vuol dire: diventati una cosa sola con l’Io di Cristo, membra l’uno dell’altro (“Non sapete che siete membra l’uno dell’altro?” Ef 4,25).

Permettetemi di citare un brano del Concilio in cui viene richiamato il significato di questo “tempo della Chiesa” come l’ultima fase dei tempi. Con Cristo la fine comincia a risplendere nella storia attraverso la santità della Chiesa. La Lumen Gentium, al n. 48 afferma:

“Cristo quando fu elevato in alto da terra, attirò tutti a sé (cfr. Gv 12,31ss); risorgendo dai morti (cfr. Rm 6,9) immise negli apostoli il suo Spirito vivificatore, e per mezzo di Lui costituì il suo Corpo, che è la Chiesa quale universale sacramento di salvezza; sedendo alla destra del Padre opera continuamente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e attraverso di essa congiungerli più strettamente a Sé e, col nutrimento del proprio Corpo e del proprio Sangue, renderli partecipi della sua vita gloriosa. Quindi la promessa restaurazione che aspettiamo è già cominciata con Cristo, è portata innanzi con l’invio dello Spirito Santo e per mezzo di Lui continua nella Chiesa, nella quale siamo dalla fede istruiti anche sul senso della nostra vita temporale, mentre portiamo a termine, nella speranza dei beni futuri, l’opera a noi commessa nel mondo dal Padre, e diamo compimento alla nostra salvezza (cfr. Fil 2, 12).

Già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi (1 Cor 10,11), e la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente fissata e in certo modo reale è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Ma fino a che non vi saranno nuovi cieli e terra nuova, nei quali al giustizia avrà stabile dimora (cfr. 2 Pt 3,13), la Chiesa peregrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione di figli di Dio (cfr. Rm 8, 19-22)” (LG, n. 48).

Il Cristianesimo è dunque contraddistinto da quello che Péguy ha definito “l’incastro del temporale nell’eterno e dell’eternità nel tempo” (Clio).

Il venir meno di questo nesso rappresenta una delle tentazioni e dei pericoli più gravi per l’esperienza cristiana. Se la salvezza non avviene nell’hic et nunc dello spazio e del tempo, nella emergenza visibile dell’avvenimento cristiano, si cercherà di sostituire il vuoto esistenziale con il moltiplicarsi di progetti e di attività, ma si finirà con il soggiacere alla omologazione alla mentalità dominante. Oppure si cercherà di sfuggire alla insoddisfazione con una proiezione nel futuro, in una fuga escatologica, o in un nuovo millenarismo utopico, come fu quello di Gioacchino da Fiore: l’attesa di un tempo nuovo di salvezza, altro rispetto all’attuale tempo della Chiesa.

Questa negazione del “qui e ora” si ripresenta sempre nella vita della Chiesa, in varie forme e formulazioni teologiche, che ancora Péguy ha acutamente individuato, denunciando sia quelli che “negano l’eternità del temporale, da dentro al temporale”, sia coloro “che negano la temporalità dell’eterno, che vogliono disfare, scomporre la temporalità dell’eterno da dentro all’eterno”. In questa riduzione del Cristianesimo emerge — come sottolinea anche don Giussani — “lo sfuocarsi del nesso tra presente e passato, vale a dire lo sfuocarsi dell’unità organica, strutturale, propria di un fatto come quello cristiano. Si indebolisce il valore della storia, della tradizione e quindi di quella organicità dell’avvenimento cristiano che rende viva la vita della Chiesa” (L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, Rizzoli, Milano 1994, pp. 122ss.). Penso qui alla concezione della storia quale viene presentata in un Sermone di S. Agostino. Rivolgendosi a dei cristiani che si lamentavano sui tempi cattivi (come è anche il caso di molti cristiani oggi), S. Agostino risponde così: “Come cattivi tempi? Noi siamo il tempo!”. Con ciò egli vuole richiamarci a vivere l’esperienza cristiana come presenza nel presente.

6. Hic et nunc. L’incontro con una Presenza

È proprio quanto osserva il Card. Ratzinger:

“Il Cristianesimo è presenza, il qui ed ora del Signore, che ci sospinge nel qui ed ora della fede e della vita di fede. E così diventa chiara la vera alternativa: il Cristianesimo non è teoria, né moralismo, nè ritualismo, bensì avvenimento, incontro con una presenza, con un Dio che è entrato nella storia e che continuamente vi entra” (J. Ratzinger, Un avvenimento di vita, cioè una storia. Introduzione, Roma 1993, p. 10).

Questa coscienza si ridesta oggi in un incontro.

Oggi, come duemila anni fa per Andrea e Giovanni in riva al Giordano, l’avvenimento cristiano ha la forma di un incontro: un incontro umano nella realtà banale di tutti i giorni. Un incontro umano per cui Colui che si chiama Gesù, quell’Uomo nato a Betlemme in un preciso momento del tempo, si rivela significativo per il cuore della nostra vita.

È una realtà fisica, corporale, di tempo e di spazio, visibile, tangibile, udibile, in cui è presente Dio fatto uomo e che di Dio fatto uomo è segno. È l’incontro con una realtà presente, vivente, integralmente umana, il cui significato esauriente è quello di essere il segno visibile della presenza di Cristo, di Cristo Dio-fatto-Uomo, della umanità divina di Cristo. È il manifestarsi dell’avvenimento del Mistero presente dentro la precarietà di una fattispecie umana, di volti: questo incontro è ciò che dà significato e sintesi alla nostra esistenza. Non c’è nessuna sorgente di novità nella vita fuori da questo incontro: in esso l’avvenimento del Mistero tocca la nostra vita e la rende un flusso continuo di novità.

E la fede è il riconoscimento amoroso di Dio presente nel tempo, capace di cambiare il tempo.

Senza la permanenza fra noi della presenza di Dio fatto uomo, senza la presenza di Cristo, la nostra vita sarebbe progressivamente ed ignobilmente distrutta, istante dopo istante, vergognosamente putrefatta nella sua inettitudine, nel suo egoismo, nella sua meschinità e impostura. La vergognosità e la meschinità dei nostri errori sarebbero infatti senza più rimedio: “Che cosa triste è la vita; quel che è compiuto è compiuto” dice il Miguel Mañara di Milosz. Ma l’abate del Convento della Cardidad, di fronte a Miguel che si tormenta per tutti i peccati commessi, dice: “Il fatto è che tu pensi a cose che non sono più (e che non sono mai state, figlio mio). Egli solo è”.

Egli solo è. Tutto è questa Presenza. Per Essa un uomo nasce e muore, mangia e beve, lavora e riposa, costruisce una famiglia o decide di non sposarsi consacrandosi a Dio. Per questa Presenza — in definitiva — si è.

7. Per la gloria di Cristo, oggi, in questo mondo

Nell’appartenenza a Cristo nel Suo Corpo che è la Chiesa siamo chiamati a partecipare nella storia alla missione di Cristo, il “mandato” del Padre.

Voglio richiamare qui un’altra parola di Gesù:

“Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo disse: ‘Padre, è giunta l’ora. Glorifica il Figlio tuo perchè il Figlio glorifichi Te. Poichè Tu gli hai dato potere sopra ogni carne affinchè Egli dia la vita eterna a coloro che gli hai dati” (Gv 17,1-2). È giunta l’ora, vale a dire che questo tempo è per sempre. Questa ora che viviamo è parte dell’ora che è giunta; domani, dopodomani, tra un anno, tra mille anni, il giorno che l’uomo vivrà è parte dell’ora che è giunta. Il significato del tempo è glorificare questo Uomo, il Figlio incarnato, perchè questo Uomo glorifichi il Padre, faccia penetrare sempre più la coscienza dell’umanità nel Mistero che fa tutte le cose e rilevi il Mistero del Padre. Per questo, questo Uomo nato da Maria ha ricevuto potere su ogni uomo, senza eccezione, perchè tutti possano avere la vita eterna.

La gloria di Cristo come scopo del mistero del Padre, come scopo di tutto ciò che è, appartiene a questo mondo, appartiene al tempo e allo spazio, appartiene alla storia.

La gloria di Cristo è un fatto, è una sfida e una lotta di questo mondo, non dell’altro mondo. Alla fine, quando “Dio sarà tutto in tutto” (1 Cor 15,28) non ci sarà più eccezione, non ci sarà più oscurità. Ma in questo mondo no, come ben ci ricorda Eliot:

“La Chiesa deve edificare di continuo, perchè è continuamente minata dall’interno e attaccata dall’esterno.

Perchè questa è la legge della vita; e dovete ricordare che in tempo di prosperità

Il popolo dimenticherà il Tempio, e in tempo di avversità gli sarà contro…

Molto da abbattere, molto da costruire, molto da sistemare di nuovo;

Fate che l’opera non venga ritardata, che il tempo e il braccio non siano inutili”

(Eliot, Cori da “La Rocca”, II).

Siamo chiamati dunque a lottare per la gloria di Cristo nel tempo, nella storia, siamo “mandati” per questo.

Non è la lotta per un potere, per una egemonia culturale o politica o per l’affermazione di determinati valori, ma è lo struggimento per la presenza di Cristo: “Poichè l’amore di Cristo ci strugge al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e resuscitato per loro” (2 Cor 5,14s.). È questo amore a Cristo, questo struggimento per Cristo la sorgente di un protagonista nuovo nella realtà, nella società fino alla politica e nella storia fino alla creazione di una civiltà, della “civiltà della verità e dell’amore” — come ha sottolineato il Santo Padre proprio qui al Meeting tredici anni fa.

L’uomo che vive per la gloria di Cristo è ben descritto in questa frase di San Paolo:

“Pur vivendo nella carne, vivo nella fede del Figlio di Dio, il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). La parola “carne” indica tutto il complesso di circostanze che, di minuto in minuto, di ora in ora, di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno, determinano il corpo della mia esistenza terrena. Questa carne io la vivo nella fede, nella fede del Figlio di Dio. Nel nesso riconosciuto, offerto, vissuto dell’ istante con il significato, il Signore del tempo.

Si chiama memoria il nesso che unisce il nostro presente al fatto della Sua Incarnazione e della Sua permanente Presenza. La memoria è la profondità storica dell’incontro con Cristo, lo prosegue nell’istante presente. Non sarebbe un vero incontro se non proseguisse nel presente. Non è tanto una coerenza morale, ma è il riaccadere dello stupore difronte alla Sua Presenza, sorgente di un riconoscimento amoroso e del rinnovarsi continuo della nostra fragile esistenza nel tempo, come bene è espresso in questa preghiera della Liturgia ambrosiana: “Tu, Dio, doni alla chiesa di Cristo di celebrare Misteri ineffabili nei quali la nostra esiguità di creature mortali si rende sublime in un rapporto eterno e la nostra esistenza nel tempo comincia a fiorire come vita senza fine. Così seguendo il tuo disegno d’amore, l’uomo passa da una condizione mortale ad una prodigiosa salvezza” (Prefazio XIX sett. per annum).

 

Data

22 Agosto 1995

Ora

16:30

Edizione

1995
Categoria
Incontri