L’essere umano e la sua infinita ferita

Josep Maria Esquirol, Professore di filosofia all’Università di Barcellona, Dirige il Gruppo di Ricerca Aporia in dialogo con Costantino Esposito, Professore Ordinario di Storia della Filosofia all’Università di Bari. Introduce Davide Perillo, Giornalista.

Una passione per l’uomo parte dal rendersi conto di che cosa sia l’essere umano, comprendere le sue domande, scoprire i suoi bisogni e i suoi desideri, immedesimarsi con il suo “cuore”. Il cuore di un essere finito in cui emerge di continuo la “ferita” dell’infinito, il rapporto con un Altro che ci rende irriducibili, che ci fa essere “noi stessi”. Per questo non basta un’analisi astratta: occorre piuttosto partire dalla nostra esperienza nel mondo e nella storia: è solo in essa infatti che la vita ci parla e può emergere il suo possibile senso. L’incontro propone un momento di lavoro comune e di amicizia tra due filosofi sulle tracce di questa esperienza fondamentale dell’umano.

Con il sostegno di Tracce.

L’ESSERE UMANO E LA SUA INFINITA FERITA

Davide Perillo: Buonasera a tutti, benvenuti a questo incontro, ed è un incontro che nasce a sua volta da un incontro, meglio da un’amicizia perché i due ospiti che abbiamo con noi stasera sono qui perché sono diventati amici, incontrandosi in Spagna qualche mese fa, entrambi avevano un libro da presentare si sono conosciuti, è nata quella che in un articolo molto bello, uscito su Avvenire stamattina, Costantino Esposito definiva una domanda che ci rendeva amici dall’inizio. Da quell’amicizia è nato un cammino comune e io sono grato a loro che stasera questo cammino lo condividono con noi, prendendosi anche il rischio di offrirlo in qualche modo al vaglio della nostra esperienza. Li presento subito partendo dall’altro ospite che è qui per la prima volta Josep Maria Esquirol che vi prego di salutare con un grande applauso. Josep Maria insegna filosofia all’Università di Barcellona, dove dirige anche Aporia, che è un gruppo di ricerca sulla filosofia contemporanea, in Spagna ha ricevuto diversi premi per il suo lavoro, è diventato anche un caso editoriale di successo, il suo lavoro è quello di avvicinare il pensiero alla gente. Il suo ultimo libro uscito anche in Italia per Vita e Pensiero si chiama “Umano più umano, un’antropologia della ferita infinita” da cui abbiamo preso anche il titolo di stasera e dopo vedremo il perché. E il suo amico, che è anche un nostro amico invece di lunga data, lo conosciamo molto bene, Costantino Esposito professore di storia della filosofia a Bari, ospite da tanto tempo e grande collaboratore della nascita di questo posto e del lavoro di questo posto, del Meeting, e il suo ultimo libro invece lo conosciamo molto bene “Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca”, anche qua una cronaca cioè un racconto di quello che succede, della vita. Perché una ferita infinita quindi. Abbiamo sentito spesso in questi giorni la frase di don Giussani da cui nasce il titolo di questo Meeting, “Il cristianesimo non è nato per fondare una religione, è nato come passione per l’uomo, una passione per l’uomo”, ma poi don Giussani continua in quell’incontro dell’85 da cui viene preso il titolo, una passione per l’uomo, l’uomo il figlio di sua madre, figlio di una donna, l’uomo concreto, come sempre insiste Giovanni Paolo II, a volte richiamando proprio esplicitamente questa concretezza in termini indimenticabili. Non l’uomo alla Feuerbach o alla Marx, ma l’uomo, io, tu, figlio di sua madre e di suo padre, l’amore all’uomo, la venerazione per l’uomo, la tenerezza per l’uomo, la passione per l’uomo, la stima assoluta per l’uomo, per l’uomo così come è, non per come è pensato dai sistemi filosofici. E se si parte da una passione per l’uomo così come è, non ci si può non rendere conto che l’uomo è un grido, un bisogno, dal momento in cui nasce. E allora volevo partire chiedendo proprio a Josep Maria cos’è questo grido costitutivo, che cos’è questa ferita infinita che caratterizza la nostra umanità.

 

Josep Maria Esquirol: Va bene. Prima di tutto voglio ringraziare gli organizzatori per l’invito, molto specialmente Costantino, dopo mi scuso perché non parlo bene l’italiano farò uno sforzo per farmi capire un po’ perlomeno. E adesso vado alla risposta a questa domanda, perché in che maniera si può parlare di ferita per avvicinarci a quello che è più costitutivo dell’essere umano, perché questa è la questione. La questione è che cosa è quello più determinante, quello più profondo dell’essere umano. In generale quando si è fatto una definizione dell’umano, si è posto l’accento nel potere o nella capacità. Per esempio si è detto che l’umano è l’animale razionale, cioè l’animale con la capacità, con il potere per la ragione, o si è detto anche che l’uomo è quell’essere tecnico, homo technicus, che ha la capacità di trasformare la situazione. Non soltanto di adattarsi, se non di trasformare tutto. Si sono dette altre cose, per esempio in una maniera un po’ più originale, più acuta, Nietzsche diceva che l’essere umano è quello che può promettere, dare la parola, e questo è un potere incredibile, perché la promessa è una maniera di proiettare la nostra volontà sul futuro, sul domani. Questo, se si pensa, è molto interessante anche. Quello che io credo è che tutto questo è realmente importante, ma non è quello più importante, non è quello più costitutivo, non è quello più radicale. Questo che ho detto è radicale, radicale significa quello che è nella radice, nel fondamento. Questo che abbiamo detto è fondamentale? sì ma c’è ancora una cosa più fondamentale. Qual è quella cosa più fondamentale? È l’apertura. L’essere umano è quell’essere specialmente aperto, poroso, la sua pelle è una pelle porosa, il cuore è un simbolo, quando si dice il cuore dell’umano cosa significa? Significa precisamente questa possibilità di ricevere, sempre è un po’ questa idea di molto aperto, l’essere umano come molto aperto, sono sinonimi di questa apertura anche la sensibilità, o anche come adesso diceva, la vulnerabilità e anche la passività. La passività in un senso un po’ inusuale, perché passivo non è quello contrario a attivo, passivo è precisamente questo essere che può ricevere, e questo movimento per dirlo in un’altra maniera, la nostra passività è la condizione di possibilità della passione, non è una casualità che la passione per l’umano, passione e passività hanno la stessa radice, questo significa che non sono contraddittorie una cosa dall’altra, se non che la possibilità che qualcosa ci viene è l’inizio del movimento, non è il nostro questo movimento, il nostro è questo, questo è la passione e questa è la passività. Chi è l’essere umano? l’essere molto aperto, e tanto aperto, l’apertura è così grande, che quello che ci arriva non è soltanto una cosa concreta particolare, se non anche infinita. Quello che ci arriva, siccome l’apertura è così grande, quello che ci arriva in un certo senso è infinito. Infinito significa non definibile, come che tipo di infinitudine ci arriva, ci arriva senza dubbio la infinitudine dell’amore, l’amore è infinito in un certo senso, e questo ci arriva e ci tocca, ci tocca profondamente. Ma anche ci arriva il niente, il niente della morte, tutti noi siamo toccati per il niente della morte, e il niente è anche infinito, perché come fare una definizione di un niente, non si può, e l’amore, il niente, ma anche il mondo in un certo senso, la profondità del mondo è qualcosa che ci trapassa, ci trafigge la profondità del mondo. Ma anche è infinita la vita stessa, questa luce e questo calore della vita, questa esperienza della vita che è allo stesso tempo luce e calore, questo ha qualcosa di infinito e per questo motivo dico che l’essere umano è quell’essere colpito, trafitto per l’amore, per la morte, per il niente e per il mondo.

 

Davide Perillo: Io credo che ci siano tante cose qua al Meeting che fanno vedere quasi plasticamente quello che Josep Maria sta descrivendo adesso. Mi vengono in mente le foto di Gas Power per esempio, che sono quasi un’illustrazione plastica di questo. Ma, Costantino, a te cosa dice questa capacità infinita. questa capacità che un’apertura infinita.

 

Costantino Esposito: Parto proprio da quello che Josep Maria ha detto, lascio stare i miei appunti, perché a me interessa molto questa idea della capacità, perché quando noi parliamo normalmente di capacità, intendiamo capacità come una performance, come un potere, che siamo in grado di realizzare, di perseguire e di raggiungere certi obiettivi. Naturalmente questo è un significato primario, ma non quello, come dicevi tu, più fondamentale o essenziale. Perché la competenza, la performance, la capacità più essenziale è quella che ricorre la locuzione questa botte è capace di contenere cento litri di vino, o di olio. Cioè la capacità è essere in grado di ricevere, e questa, come giustamente diceva Josep Maria, questa passività è la radice segreta di ogni nostra passione. Non mi sottraggo però a fare un passo in più e cioè quando parliamo di ferita come capacità dell’infinito, già questo ci dice che la ferita non è semplicemente un handicap o una mancanza, secondo me è anche un handicap e una mancanza, perché forse non dobbiamo neanche enfatizzarla troppo, devo guardarla per quello che è, e come tutte le cose della vita è una cosa un po’ ambigua, non nel senso di doppia, ambigua nel senso che porta dentro una mancanza e un desiderio, un’assenza e una promessa, e il bello dell’umano è che sono entrambe le cose, perché noi non siamo mai semplicemente esseri di mancanza, o meglio quello che ci manca è come la traccia o la capacità di stare in rapporto con la Presenza. E non è soltanto questo ma è una risorsa, e per quello che corrisponde di più al mio percorso filosofico, c’è un’esperienza che ci dice di più che cos’è questa ferita, e cioè che noi, tu dicevi siamo un’apertura, bellissima quell’immagine che usi, una porosità, la nostra pelle è porosa, cioè ci passa qualcosa, tanto è vero che sentiamo il caldo e il freddo, e se ci avviciniamo troppo alla fiamma ci scottiamo, ritraiamo, oppure facciamo la carezza alla persona amata, ed è poroso perché è porosa del senso. Ma io lo direi così, abbiamo questa domanda insieme, che questa ferita è la capacità che l’uomo, l’essere umano ha di domandare, di porre delle domande, perché noi non soltanto abbiamo delle domande, ma noi siamo una domanda. Il nostro io è ferito, è ferito dalla realtà, perché è come se la realtà lascia delle incisioni, delle tracce, il mondo lascia delle tracce sul nostro io, cose, persone, la natura, gli eventi, gli incontri, e lascia nella carne viva del nostro esistere la sua traccia, tant’è vero che noi siamo affetti, e perciò possiamo affezionarci a qualcosa, passività o passione. E questa domanda del senso è una ferita, ma perché secondo me è una ferita, perché, anche per i particolari autori di cui mi sono occupato per il tipo di filosofia che faccio, perché la domanda non è mai innanzitutto un’attività astratta o teoretica o speculativa, lo è anche, bisogna arrivare fin lì, cioè avere la coscienza del senso, ma noi siamo questa domanda. E quando ci alziamo al mattino, se non avessimo questa domanda, che non è appunto la domanda teoretica chi siamo, non pensiamo a questo quando ci alziamo al mattino, ma viviamo questa attesa, questa promessa, questo desiderio. Perché per me dire domanda è un’attività desiderante la domanda, non è puramente curiosa, chissà come sarà, ma la domanda è la domanda di qualcosa e a qualcosa, e anche, a qualcuno. Quindi perché è una ferita? perché è sempre un desiderio di conoscere, di sapere. Ricordate Leopardi, dopo che chiede a tutta la natura nel “canto notturno di un pastore errante dell’Asia” come mai ci sono in cielo le stelle, come mai ogni anno rifiorisce la primavera, dice: “ed io che sono” è arcinota, ma ci ricordiamo di meno la continuazione “ed io che sono, cosi meco ragiono” e qual è la domanda? è l’inizio della coscienza e anche della razionalità filosofica. Perché è una ferita? perché io sono questa domanda ma io non so chiudere la risposta, e quindi è sempre aperta.

 

Davide Perillo: Cosa vuol dire allora prendersene cura, perché poi il rischio invece è di pensare alla cura di questa ferita come se si dovesse chiuderla, suturarla, si ha fretta di arrivare alle risposte che contano come se potessero colmare il bisogno che abbiamo, e invece la cura cos’è.

 

Josep Maria Esquirol: Questo della cura è una tematica molto antica perché i Greci già parlavano di questo, della cura dell’anima, della cura di noi stessi, e qui cura ha un senso soprattutto vincolato con l’accompagnamento, effettivamente l’idea non è di chiudere questa che ci trafigge non è una questione, perché questo che ci trafigge ci costituisce e in un certo senso è una meraviglia. Pertanto l’idea non è chiudere niente se non accompagnare, l’accompagnamento adeguato, il buon accompagnamento. Il pensiero è una maniera, non è l’unica maniera, ma pensare è una maniera di accompagnare la ferita infinita, qualcosa simile a quello che a volte diciamo la spiritualità. La spiritualità è anche un accompagnamento, un accompagnamento di quello che ci costituisce profondamente. Sapere accompagnare non è facile perché qualche volta quello che ci accompagna è freddo e la freddezza non va bene, per questo motivo bisogna che il pensiero sia un pensiero appassionato, senza questo non c’è accompagnamento. Questo lo dicevano anche gli antichi, se la filosofia non aiuta a vivere non è una buona filosofia, è un’evidenza, è una cosa assolutamente chiara. E in questo modo si può parlare anche oggi di cura, cura è saper accompagnare bene, sapere accompagnare bene e fare del bene, le due cose.

 

Costantino Esposito: Io qui avrei dei problemi, te li pongo, nel senso che sia nella storia del pensiero, come tu richiamavi, ma anche nella pratica contemporanea, c’è un rischio, magari non è il tuo però io lo segnalo, siamo amici per questo perché ci regaliamo le sfide l’uno all’altro, e cioè che questa cura possa essere scambiata per una terapia. Naturalmente la cura è anche una terapia, ma io penso Marco Aurelio, Epicuro prima ancora, Seneca, ma fino a Nietzsche, cioè il fatto che la cura del pensiero debba per così dire aiutarci ad un’autoformazione, cioè che noi dobbiamo forgiare noi stessi, evitare i pericoli, imparare a morire, imparare a non avere paura della morte, cioè come una tecnica di sopravvivenza altissima, il tardo antico è questo, il tardo antico non dell’epoca ma il tardo antico che siamo noi. E io ti proporrei, non ti opporrei, ma ti proporrei di dare questa curvatura, poi mi dici cosa ne pensi. Perché la cura anch’essa è un fenomeno ambiguo, per me la cura può portare ad una autoreferenzialità, cioè che uno si cura, cerca di tenere i pezzi, le schegge del proprio io, appunto una terapia, ma forse proprio ripartendo dalla vera terapia, per me la cura è il riconoscimento che noi siamo rapporto con un altro, e il segno che siamo rapporto con un altro è proprio la nostra domanda, il nostro desiderio. Quindi la cura non è come una moderazione del desiderio, come tanta terapia antica e moderna dice, se si desidera troppo va a finir male, perché la realtà ci asfalta, ci smentisce, ci illude e poi ci disillude, e allora è meglio non desiderare troppo, per non essere, lo diceva Schopenhauer, per non essere troppo infelici è opportuno non desiderare di essere molto felici, perché altrimenti poi va male. Ma una cura così non mi corrisponde, non corrisponde al pensiero, cioè è al di sotto della domanda, perché la nostra domanda vuole tutto, si aspetta tutto, cioè il senso, questa è la nostra ferita, la domanda sul perché siamo al mondo, a cui non possiamo rispondere noi, ma non possiamo vivere senza porcela. E allora probabilmente la cura è capire che la radice di quella domanda è un altro in noi, noi siamo un altro, non nel senso di uno sdoppiamento, come diceva Agostino, perché quanto più io prendo coscienza di me io prendo coscienza che io sono un estraneo a me stesso, in senso buono, un altro che io stesso non posso mai venire a capo di me. E allora per me comincia qui la cura, ma non so cosa ne pensi.

 

Josep Maria Esquirol: A me piace molto questo, a me piace molto pensare, tentare di andare un po’ in profondità nelle cose, e questo è un po’ la mia vita, di modo che queste domande, questo dialogo mi piace moltissimo ma mi manca un po’ di strumenti linguistici per precisare un po’ le idee. La cosa è che io sono d’accordo che la parola cura non è la migliore, sono d’accordo, non sta male, ma sono d’accordo che ha questo pericolo, il pericolo della semplificazione per una parte, la semplificazione significa quanti passi devi fare per essere felice, quanti passi deve fare per avere degli amici, questa è una semplificazione della cura. E un altro pericolo più sottile è quello di una certa individualità, una certa tendenza a un individualismo, sono anche d’accordo in questo punto. Bisognerebbe spiegare che cura nel senso socratico è soprattutto la cura dell’altro, la cura dei legami con gli altri, la cura dell’altro, del percorso dell’altro. In questo senso sì, io credo che non bisogna, neanche io sono stoico, e lo stoicismo non è una semplificazione, non è una introspezione individualistica, è un’altra cosa. Ma anche io sono d’accordo con te nel fatto che questo non è il cammino, il cammino non è questa specie di protezione stoica davanti alle cose, alle cose del mondo e della vita, no non è questa la strada. Per dire questo, per parlare di questo desiderio che tu hai indicato, per parlare di questa passione per l’umano, a me piace molto anche questo linguaggio di sentire, ma sentire ha anche dei problemi, perché sentire una parola con un uso molto diversificato, ci anche auto aiuta che parla molto del sentire di pratiche un po’ esoteriche anche, no sentire lo dico in un senso molto austero. Noi adesso cosa passa, che noi ci sentiamo vivere, io mi sento vivere, è un sentire un po’ speciale perché io non solo sento, adesso stesso non solo parlo, senonché sento che parlo, è come una specie di riflessività involontaria. Vivere per noi è sentirci, non è questo la fine di un percorso meditativo, no no questo è di fatto, di fatto adesso stesso ognuno di noi si sente vivere. Questo sentirci è una maniera di andare anche a caratterizzare l’io, ma non un io isolato, non un io indipendente, non un io autarchico, ma un io assolutamente legato, vincolato alle cose e al mondo e soprattutto agli altri. L’io non è una interiorità chiusa, è un polo di legami, un polo di legame. Accompagnare l’umano è sapere coltivare questi legami, è sapere maturare questo legame con il mondo e questi legami con gli altri, e in questo senso la parola cura ha già un’altra dimensione, non è una dimensione individualistica è una dimensione del noi. Non è una questione del tutto, la società, anche a me questo non mi piace la società, l’umanità, no no le persone singolare e il congiunto la comunità delle persone, l’unione delle persone. Più o meno può andare la mia riflessione su questo punto.

 

Davide Perillo: Questo punto del rapporto tra l’io e noi dopo lo riprenderemo, perché mi sembra molto importante, però io vorrei arrivarci attraverso un’altra parola che ti sta a cuore ma so che sta a cuore anche a Costantino, che è la parola vocazione, che tu usi, perché tu dici la passività di cui parlavamo prima fa sì che quello che è importante veramente nella nostra vita non è il nostro potere, la nostra capacità, come dicevi prima, ma in qualche modo la risposta a quello che ci accade. E cosa vuol dire, vorrei da tutti e due che mi raccontaste che cosa è per voi questa decisività di quello che ci accade per poter scoprire pienamente la nostra umanità.

 

Costantino Esposito: Io credo che vocazione sia una parola scabrosa, niente affatto edificante, inquieta, noi normalmente usiamo questa parola in maniera un po’ spiritualistica, pia o devozionistica. Innanzitutto è una parola assolutamente laica, non ho il problema che ci siano parole religiose, ma è una parola religiosa perché laica, e laica perché religiosa, perché il fatto è una questione percettiva. Tu parlavi del sentire che non è appena il feeling ma è un avvertire, io lo direi è il percepire. La vocazione non è che a un certo punto tu dai una spiegazione elevata, spirituale del materiale, del concreto, del quotidiano, ma la vocazione è come una dimensione del percepire le cose. Per quella famosa ferita dell’essere umani, quando noi percepiamo le cose non accade solo un meccanismo, cioè un corpo esterno che colpisce il nostro corpo o che colpisce il nostro animo, quindi che ci eccita, ci esalta, ci deprime, ci immalinconisce. Ma c’è come un bonus, un surplus, un’eccedenza di percezione, ma dentro la percezione, cioè non è un aldilà, è un aldiquà, è dentro il nostro sensorio, è dentro il nostro avvertire il sentimento delle cose, che capita, non è automatico, ma che capita di sentirci chiamati. E questo non è questione di dottrina religiosa, è questione della pura percezione dell’umano, cioè l’umano comincia quando non siamo semplicemente nel gioco dell’azione-reazione, nel mero feedback meccanico, ma quando dentro il feedback meccanico, non fuori, dentro l’azione-reazione noi avvertiamo di essere in gioco. Che quello che accade, il fiore, la morte della persona cara, il dolore, la routine quotidiana, la moglie e i figli, cioè la vita ci sta aspettando, cioè aspetta che noi diamo adito a quell’apertura di cui diceva Josep Maria. E che cosa succede, perché attenzione la vocazione non è semplicemente che qualcuno ti chiama e ti fa cadere da cavallo, in certi casi è addirittura questo, è addirittura questo, ma nella vita quotidiana che cosa significa la vocazione, significa non soltanto che io avverto che c’è un mistero nella realtà che mi chiama. Per me mistero è la cosa più concreta che ci sia, è più concreta di questo tavolino, è più concreta della presenza qui del mio amico Josep Maria, perché il mistero quando scopro che Josep Maria è qui per me, non grazie a me, ma perché io possa capire nell’amicizia con lui chi sono, è quell’eccedenza del senso che è nella percezione normale. Non è semplicemente che avverto che qualcosa o qualcuno mi chiama, ma che prestando attenzione a questa vocazione, io dò alla realtà la possibilità di essere, di dirmi il suo senso. La mia attenzione, l’avvertire di essere chiamato squarcia la realtà perché permette a quello che io ho tra le mani, che sto facendo, che produco io, di raggiungermi, passività, di raggiungermi dicendomi il suo senso e allora la ferita diventa una cosa interessante, perché non è solo che io non riesco a dare risposta alla mia domanda, ma che la mia domanda può permettere che un altro cominci a rispondermi. Per me la vocazione è questo.

 

Josep Maria Esquirol: Io credo che posso dire qualcosa un po’ complementare, non è forse la stessa ma è in sintonia con questo perfettamente. Un po’ ritorno a quest’idea o questo schema un po’ così radicale. La domanda è: certamente la vita è fatta da moltissime cose e di moltissimi movimenti, ma quello che mi chiedo, che mi domando è: qual è il movimento più fondamentale, il più fondamentale di tutti i movimenti. E dico un’altra volta che questo movimento è questo: qualcosa che ci arriva, che ci accade, e questo movimento si può chiamare in moltissime maniere. Una possibile maniera è vocazione, perché la vocazione è questo, è sentire che qualcosa ti dice qualcosa altro, è una interpellazione, essere evocato, essere interpellato, essere toccato.

 

Costantino Esposito: Interpellazione in italiano non esiste ma è perfetto, lo facciamo esistere, interpellazione rende.

 

Josep Maria Esquirol: Se le cose si vedono da questo punto di vista, se diciamo che il movimento fondamentale è questo, cosa significa? significa che il secondo movimento fondamentale è questo: noi facendo qualcosa, noi pensando, noi attuando, noi facendo qualcosa, noi parlando, noi generando la parola, perché la questione è: perché l’umano parla, perché parla l’umano, perché l’umano parla, perché questo è il prodotto di una spontaneità? non lo credo. Io credo che l’umano parla perché risponde, la parola è una risposta. Nell’origine, l’origine non soltanto temporale ma basico, nell’origine basico del linguaggio la parola è una risposta. Io non dico il mondo, io non dico qui il cielo, qui la terra, qui gli animali, no io dico a un’altra persona guarda qui il cielo, qui la terra, qui altri animali. Io rispondo a un’altra persona che con il suo volto mi domanda, mi invoca, ricevo, il volto dell’altro è qualcosa che io ricevo, il suo volto mi invita a dire guarda la luna. Questo è l’origine, è quello più basico del movimento e per questo motivo si può dire che il movimento umano fondamentale è la risposta o la responsabilità, che è lo stesso. La responsabilità è il secondo movimento e per questo motivo parliamo delle azioni responsabili, che cosa è una azione responsabile? esattamente una azione propriamente azione, perché se non è un’azione responsabile, non è propriamente un’azione, è un’altra cosa. L’azione o è responsabile o non è un’azione. In molte occasioni, ne parlavo con Costantino, in molte occasioni si parla molto, anche io parlo molto, dopo mi pento un po’, ma si parla troppo, perché quello più importante è l’azione. Si può parlare, si deve parlare, ma quando si parla bene questo parlare deve essere anche una maniera di cambiare le cose, la parola deve essere anche una forma di attuare. E quello che voglio dire, con questo finisco questa parte, è che è un po’ sintomatico, è un po’ rivelatore che quando l’azione è vera ci riunisce, molte volte la separazione tra le persone è per colpa di un discorso un po’ freddo, o delle etichette, tu sei questo, tu sei questo altro. Invece nell’azione si produce, emerge una giuntura, una comunione nell’azione. A me piace molto un passaggio di una novella molto nota di Albert Camus che si chiama “La peste”, il passaggio fondamentale di questa novella è un passaggio dove parlano il vecchio gesuita e il medico. E il medico è in una situazione critica perché assistono all’agonia di un giovane, e in quella situazione il medico dice al gesuita: “noi due lavoriamo per la stessa cosa e questo è l’unico importante, al di là di ogni discorso”. Io credo che questo effettivamente è molto importante, è l’unico che importa perché è un’azione vera, il gesuita e il medico facevano in quel momento un’azione propriamente detta, e quello era un motivo, una ragione per la comunione di due persone.

 

Costantino Esposito: Vorrei entrare in scivolata su questo, cioè è molto bella l’idea che tu dici che una parola vera è una parola che realizza, è un’azione. Allora ribalto cioè l’azione più importante è quando noi diciamo la parola “io”. Giustamente tu dicevi quando dico cielo, mare, animali, eccetera, sto dicendo ad un altro guarda, e quindi sto rispondendo. Ma anche per l’io è così, perché quando noi diciamo io come pronome personale, io faccio, io penso, io andrò, io amo, io odio, io lavoro, l’io è sempre questa parte qui del mondo, siamo noi. E sembra che sia come il punto zero di ogni locuzione, e invece esistenzialmente “io” nasce quando uno dice: “Ehi, ehi tu” e tu dici: “io?” La mia nipotina di due anni quando deve chiamare sé stessa, sapete come si chiama? “tu”. Mi ha impressionato, ve lo assicuro, quando dice “tu vuole mangiare” perché lei è appellata come tu, e in questo momento è l’azione più strepitosa, più straordinaria che potrà succedere nella sua vita, e che invidia, perché io vorrei che, vecchio come sono, possa anch’io riscoprirlo quando dico io, che lei capisca che si chiama in realtà parlando di sé stessa deve dire io, ma che non dimentichi che la radice di io è “tu”.

 

Josep Maria Esquirol: Molto bella questa immagine vera, molto bella, benissimo.

 

Davide Perillo: Come si chiama, qual è il vero nome della bimba?

 

Costantino Esposito: Maria Paola.

 

Davide Perillo:

Siamo grati a Maria Paola. Ma questo rapporto inscindibile tra io e tu di cui state parlando ci riporta alla questione di prima, cioè al rapporto con la società, noi, e secondo me è importante sottolinearlo perché è evidente che quello che state dicendo non è soltanto una lettura un po’ intimistica della propria persona e del proprio rapporto con la realtà, è una chiave decisiva per leggere la realtà stessa, il rapporto con gli altri, la società, fino alla politica, fino alla vita. Allora io volevo da voi una risposta breve, perché il tempo comincia a scalare pericolosamente. Perché è decisivo quello che ci stiamo dicendo per leggere la realtà circostante e per ricucire, tessere, continuamente quei rapporti che, come ci stiamo dicendo anche stasera, tendono a essere sempre più sfilacciati, meno coesi. Lo chiedo prima a te Josep.

 

Josep Maria Esquirol: La domanda è un po’ per quello che rafforza i legami tra le persone, crea comunità, genera comunità. A me piace molto un’immagine che è questa: immagino che ogni persona, ogni persona umana è una piccola verticale precaria che si definisce sull’orizzontalità della terra, ognuno di noi come una piccola verticale precaria che si definisce su l’orizzontalità della terra. Nessuna di queste linee verticali si può sostenere da sola, c’è una interdipendenza, c’è un’interdipendenza nell’orizzontalità, non ci sono delle gerarchie artificiose, c’è una interdipendenza nella orizzontalità. Ma nessuno si sostiene in piedi da solo, questo significa che l’altro è quello che mi permette di vivere, vivo grazie agli altri, la mia vita si sostiene grazie agli altri. E questo non è un difetto, non si può dire no siamo interdipendenti come se fosse un difetto, una mancanza, purtroppo una mancanza, no questo è un regalo, è una cosa buona, perché è la sostanza della compagnia, è quello che fa che la vita abbia un senso, la vita di un noi. Non è un’immagine utopica, perché io credo un’altra volta che è un’immagine essenziale, quando si va a quello più radicale, più basico, c’è questo, c’è questa orizzontalità interdipendente. Io direi che il pensiero personalista è un pensiero dei legami, della “e”, del tu e io, tu e io, voi e noi, e qui in questa espressione quello più importante è la “e”, tu e io, voi e noi, questo è il legame e questa interdipendenza. Mi pare che si può pensare alla società, si può pensare un’altra volta tutto a partire da questa radice, che non è una radice utopica, è una radice basica, essenziale.

 

Costantino Esposito: Per me è il noi, l’essenzialità del noi fino alla politica, nasce da una cosa semplicissima, che siamo tutti nati, siamo nati. Il fatto che siamo nati non è semplicemente una ovvietà che è registrata nel casellario notarile del comune, per cui abbiamo l’atto di nascita, ma il fatto che siamo nati è una cosa non necessaria, che ha dentro di sé, porta dentro di sé, torniamo all’inizio, un desiderio. Il fatto che noi siamo nati, noi siamo finiti, non innanzitutto perché moriremo, questo va da sé, la nostra finitezza in genere viene identificata con la nostra mortalità, ma noi siamo finiti perché siamo nati, perché cominciamo, e come diceva Hannah Arendt siamo nati per cominciare in ogni momento verticale, cioè in ogni istante dello scorrere del tempo. Lo dico non in senso spaziale ma in senso temporale quello che dicevi, e quindi non è come un dovere civico, è anche un dovere civico naturalmente, ma è un bisogno della nostra natalità quello di essere insieme, essere con. Ma io vorrei fare un passo ancora in più. Cioè sicuramente perché tutti vogliamo essere felici. In fondo scusate ma lo dicevano i grandi autori moderni della politica, già da Machiavelli, si fa politica per vincere la grande signora, cioè la morte. La politica, al di là dei giochetti politici, le elezioni, va bene, ma la politica, come grande arte della costruzione della società, è una formidabile tecnica per dare scacco alla morte, cioè per vincere il tempo, per costruire, per cercare di abbrancare, sì per abbrancare, per afferrarci a qualche cosa che possiamo gestire, che possa essere un simulacro di potere, per dire a noi stessi c’è l’abbiamo fatta, ma sappiamo che siamo sempre sotto scacco. Ma non è semplicemente perché noi vogliamo essere felici, ma perché a un certo punto la politica non diventa semplicemente una tecnica per non morire, ma una vocazione, anche la politica, cioè un modo di stare insieme, di costruire la società. Quando noi non semplicemente diciamo siamo tutti nati, prima cosa, e tutti vogliamo la stessa cosa. Lì le modalità sono radicalmente diverse, però vogliamo essere felici, durare nel tempo, lasciare un’impronta in noi, nei nostri figli, le nostre nipoti, ma questo è ancora troppo poco. Infatti tutti i grandi pensatori politici sono sempre attraversati da una dolente tristezza. Avete visto i quadri dei signori rinascimentali padroni del mondo, ma che tristezza, che malinconia, perché vibra il loro potere della percezione che tempus fugit. Come è possibile salvare questo, se tutti abbiamo un terzo punto, lo sapete che siamo nati e vogliamo la stessa cosa, ma se intuiamo che siamo voluti, che qualcuno ci vuole, ho detto in senso più laico che non è invano la nostra vita al mondo. Non è assurdo, ma è per un senso che ci chiama. Allora la politica diventa non semplicemente la tecnica per dare scacco alla morte, ma la possibilità lieta di costruire la vita.

 

Davide Perillo: Per chiudere, perché purtroppo il tempo è tiranno, ma come possiamo condensare in una parola, in una parola veramente una risposta a breve, il compito che nasce dalla riflessione che stiamo svolgendo, cioè cosa ci viene chiesto per coltivare questa passione che si esplicita in passione per l’uomo, per me, per l’io, per l’altro, che si esplicita con queste dinamiche che stiamo verificando, che stiamo esplorando stasera. Che compito ci viene affidato, una volta che diventiamo consapevoli di quello su cui stiamo riflettendo.

 

Costantino Esposito: Io credo che il compito sia, detto in una parola, quello di aiutarci a mantenere aperta l’inquietudine del domandare. Questo non vuol dire che non ci siano risposte, no, le risposte ci sono, ma le risposte vere, e ciascuno di noi si accorge quando incontra una risposta vera, è una risposta che riapre la domanda. Faccio questo esempio, non a caso, c’è stato un momento nella storia in cui una persona ha detto: “io sono la risposta”, Cristo, ma questo lo direi anche se fossimo tutti atei, perché è una cosa talmente significativa per comprendere l’umano, e quell’uomo lì che era risposta, quando ha incontrato i primi due che cosa gli ha detto girandosi, è commovente, “che cercate?”. E Lui ha continuato ad essere risposta solo perché ha continuato a guardare quei due, quindi non era una risposta interlocutoria perché non si conoscevano ancora, ma anche non si sono conosciuti fino alla fine, e la sua risposta era una domanda “che cercate?”, cioè ci siete?. Allora questa è la prima cosa. E la seconda cosa è che si può continuare a tenere aperta la domanda solo in un’amicizia, come quella nostra, e ricordo quello che diceva il grande Alberto Magno, il maestro di Tommaso d’Aquino “in dulcedine societatis querere veritatem”, “si può cercare la verità solo nella dolcezza dell’essere amici”.

 

Josep Maria Esquirol: Non è facile fare una specie di conclusione ma mi collego a una cosa che ha detto prima Costantino sulla nascita, perché la nascita si può dire che effettivamente è una cosa che è l’inizio della nostra vita, è un momento puntuale il giorno che ognuno di noi è nato, ma anche si può dire che la nascita è qualcosa di continuo, è una nascita continua, noi veniamo ogni giorno al mondo. E come nella metafisica un po’ medievale e soprattutto moderna si è parlato della creazione continua, si può anche parlare della nascita continua. È un’esperienza questa, è un’esperienza normale, è l’esperienza della vita, questa esperienza della vita, che è l’esperienza della nascita, di essere ogni giorno nel mondo, questa esperienza ha qualcosa di incredibile. A me piace molto questa parola incredibile, questo incredibile, è incredibile che ogni giorno siamo tutti noi nel mondo, e questa è l’esperienza della nascita. E questa esperienza è certamente un mistero, sono assolutamente sicuro di questo. Perché è un mistero? è un mistero perché è inspiegabile, non si può spiegare, non c’è nessun discorso scientifico, sociologico, genetico, biologico, che possa spiegare questa meraviglia dell’essere qui, condividendo un momento di vita. Io credo che questo, che è un mistero, tuttavia su questo si può dire qualcosa, è una cosa modesta, non si possono fare delle affermazioni molto categoriche, cosa si può dire? si può dire che il mistero della vita, il mistero del nascere è un mistero ancora un po’ più profondo che il mistero della morte, perché il mistero della morte dipende dal mistero della vita e non nell’altro senso. Certamente dobbiamo parlare del mistero della morte, perché la morte è anche un mistero, ma questo mistero dipende dal mistero della vita. Questa esperienza della forza della vita personale, credo che alla fine sia la base, l’humus da dove emerge la passione per l’umano, la passione dell’umano per l’umano.

 

Costantino Esposito: Bello grazie, bello.

 

Davide Perillo: Grazie, grazie Josep, grazie Costantino, io non aggiungo niente se non la gratitudine. Raccontandomi del rapporto con Josep, Costantino ha usato un’espressione una volta “per noi è nata una sintonia che nasce dal fondo della vita”. Io credo che questa sintonia stasera si sia allargata, se posso permettermi questa amicizia, si sia estesa a noi che siamo qui in questa sala in questo momento, e di questo non possiamo che essere grati, anche perché è accaduto non aggiungendo parole sulla realtà ma guardandola, guardando se stessi, l’altro e la realtà così com’è. Grazie per questo percorso fatto insieme. E per proseguire, per permettere di continuare questo cammino, non ci stancheremo mai di ricordarvi e di domandarvi un aiuto perché il Meeting, questo posto e questi incontri accadono solo grazie al vostro concretissimo aiuto. Vi ricordo la possibilità e la necessità per chi può di aiutare concretamente il Meeting donando nelle postazioni che sono sparse in tutta la fiera, dove vedete scritto “dona ora” e vedete un cuore rosso, è la possibilità perché continui a succedere quello che abbiamo vissuto anche stasera, peraltro da quest’anno la Fondazione Meeting è diventata un ente del terzo settore, aiuta perché la donazione che facciamo può essere anche detratta dalle tasse, si possono avere dei benefici fiscali. Grazie ancora, e aiutateci a proseguire un cammino come quello che viviamo insieme.

Data

23 Agosto 2022

Ora

19:00

Edizione

2022

Luogo

Auditorium Intesa Sanpaolo D3
Categoria
Incontri