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L’ESPERIENZA RELIGIOSA NELL’EBRAISMO E NEL CRISTIANESIMO. IL MEETING INCONTRA THE ELIJAH INTERFAITH INSTITUTE
L'esperienza religiosa nell'ebraismo e nel cristianesimo
25/08/2011 - ore 19.00_x000D_ Partecipano: Alon Goshen-Gottstein, Director of The Elijah Interfaith Institute; Ambrogio Pisoni, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Partecipano: Alon Goshen-Gottstein, Director of The Elijah Interfaith Institute; Ambrogio Pisoni, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
AMBROGIO PISONI:
Buona sera a tutti voi e benvenuti a questo appuntamento di questa sera del Meeting di Rimini con un amico, non per modo di dire, il rabbino Alon Goshen-Gottstein. Abbiamo conosciuto Alon – ormai lo chiamo così privatamente e mi permetto di chiamarlo così anche in pubblico. Abbiamo conosciuto Alon l’anno scorso, è stato il suo primo incontro con l’esperienza del Meeting di Rimini e questo primo incontro ci ha confermato dell’opportunità di invitarlo ancora e quest’anno gli abbiamo chiesto di dire di sé, di raccontare della sua vita, della sua esperienza e dell’opera che da questa esperienza è nata e continua ad essere ricca di iniziative e portatrice di frutti nell’incontro con le esperienze religiose di tutto il mondo. Leggo due righe, brevissime, di biografia, per permetterci di introdurci a questa sua conoscenza. Alon è stato direttore dell’Elijah Interfaith Institute e docente e direttore del Centro per lo Studio del pensiero rabbinico Beit Morasha College a Gerusalemme dal 1997. Tra il ’97 e il 2001 ha anche insegnato al Ratisbon Pontifical Institute a Gerusalemme e alla Scuola di Studenti Stranieri dell’Università di Tel Aviv. La Stanford University Press ha pubblicato nel 2000 il suo libro The Sinner and the Amnesiac: The Rabbinic Invention of Elisha Ben Abuya and Eleazar Ben Arach e Hendrickson Press sta per pubblicare La Presenza di Dio: un’Introduzione al Giudaismo per lo Studente Cristiano. Nei dialoghi che abbiamo avuto durante quest’anno, purtroppo soltanto per telefono e per via di posta elettronica, perché tutte le volte che mi è accaduto di stare, di recarmi a Gerusalemme nell’anno passato, purtroppo quando là sono arrivato lui era altrove, all’estero per lavoro, per impegni suoi. Per cui ci siamo rivisti qui in questi giorni. In ogni caso, durante questi dialoghi, in vista anche dell’incontro di questa sera, abbiamo convenuto di dare all’incontro il titolo che voi vedete qui sopra. A noi interessa, per l’esperienza che ha generato e continua a generare il Meeting di Rimini, interessa incontrare l’altro che viene qui, perché lo sentiamo amico nella comune umana avventura, che ci rende uomini sempre di più, sempre più profondamente, perciò appassionati – grazie all’incontro che ci è accaduto – al destino di ogni uomo. Per cui abbiamo chiesto ad Alon di dirci di sé, perché l’opera di un uomo nasce sempre dalla sua vita, nasce sempre dalla sua esperienza, nasce sempre dalla sua passione per sé e quando questa passione è vera (come in questo caso), è una passione che investe il mondo intero. Quindi non dico altro e lascio subito a lui la parola. Alon è un uomo, non è un’endiadi, è un giudizio, perciò ama l’incontro. Abbiamo pensato di vivere questo incontro tra di noi insieme con voi. Per cui vedrete da quello che dirà, vi accorgerete subito che è una chiamata, è una provocazione a entrare in rapporto con lui. E’ la cosa che più interessa lui e ce l’ha fatto sentire amico profondamente dall’inizio, perché è la cosa che interessa anche a noi. Prego.
ALON GOSHEN-GOTTSTEIN:
Beh, innanzitutto non sono d’accordo con te. Non sarei ebreo se non cominciassi non essendo d’accordo. E per quanto riguarda l’endiadi, beh, non sono d’accordo. Sono… c’è un’endiadi, perché c’è mia moglie qui con me. Oggi il mio compito è molto difficile. Vi devo presentare l’esperienza religiosa dell’ebraismo, quella mia personale e ciò che mi ha portato a creare l’Istituto Elijah. E mi sono chiesto come farlo nel giro di una ventina di minuti. Per cominciare, vorrei presentare la nozione di diversi cammini religiosi. Potremmo definirle come diverse tipologie spirituali. Se riconosciamo che ci sono diverse tipologie religiose, allora possiamo spiegare, riconciliare le diverse differenze interreligiose. Oggi vi vorrei parlare delle diverse tipologie di cammini spirituali personali e i impersonali. Entrambi sono validi, entrambi esistono e forse io ne preferisco uno all’altro, ma se riconosciamo che c’è un cammino personale e uno impersonale, allora riusciamo a capire meglio e a creare una maggiore comprensione tra ebrei e cristiani ma tra i membri di tutte le religioni. Cos’è un cammino religioso personale? E’ basato sul rapporto con qualcuno, qualcuno e non qualcosa, voi e non ciò, tu e non ciò. La base dell’ebraismo è un accordo e cioè si crea un rapporto con… tra Dio e il suo popolo e ciascun individuo diventa membro di questo accordo, condivide questa relazione in cui – per farla breve – voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. E tu diventi il mio Dio. Il tu è la dimensione personale. Questo accordo è basato sulla presenza: Dio ci dà la sua presenza in base a questo accordo, dimora con noi, è con noi, è al centro del nostro essere. Per capire l’ebraismo bisogna capire la tensione che c’è tra una presenza che sta al cuore della religione e una mancanza, un’assenza che governa, regge la storia e la vita quotidiana religiosa della maggior parte della gente. Quando c’è una presenza continua, quando… com’è possibile che si possa vivere nello stesso tempo un’assenza? Prendiamo il mondo occidentale come paradigma, anzi mi correggo il Western Wall, il Muro Occidentale: che cosa commemora? Il Muro Occidentale, il Western Wall, che cosa commemora? Che cos’è? La stessa lingua, quindi diciamo la stessa cosa. Anche tu … potresti essere un teologo ebreo, dell’ebraismo. Allora, cerchiamo di spiegarci. Parlerò del Cristianesimo, lo presento partendo dall’ebraismo. Il muro del pianto a Gerusalemme è il muro esterno, quello che resta del Tempio. Viene chiamato il muro del pianto, il muro delle lacrime. Tutti quelli che hanno visitato Israele l’hanno visto. Che cosa si celebra? Una presenza che c’è ancora, ma che c’è nella sua assenza, perché è assente. Quindi l’ebraismo è diviso tra questa presenza e questa assenza, c’è questa perdita di presenza, di rapporto e nel frattempo si afferma questa presenza, si afferma questo rapporto. Quindi possiamo dire che l’esperienza di fondazione dell’ebraismo è una presenza, una presenza che però è andata perduta e che la persona lotta sempre per recuperare, per trovare una nuova maniera di vivere. Per chi ha perso il senso di un’effettiva presenza e di una effettiva, di un effettivo rapporto, la religione è formata dai grandi ideali della religione: dalla Torah, dalla virtù, dalla fede, i valori, il valore del popolo di Israele, della terra d’Israele. Quindi c’è una grande nazione che vive in nome dei grandi ideali nella fede, ma molto spesso la fede è una fede che ci porta soltanto al livello di quello che potremmo definire una ideologia o una maniera di mantenere la fiducia, la fede, ma senza che vi sia un’effettiva presenza viva. Quindi, l’esperienza dell’ebraismo è… vive questa tensione tra la fede, la fedeltà agli ideali di questa presenza che non c’è più e la ricerca di una esperienza reale di questa presenza. Sono chiaro? Sono chiaro? Grazie. Ho probabilmente riassunto in qualche frase quella che è la dinamica di base dell’esperienza di fede dell’ebraismo. Adesso mi voglio collocare personalmente all’interno di questa dinamica. Posso descrivere la dinamica solamente in questo modo, che non è un modo convenzionale di descrivere l’ebraismo. Perché la mia vita intera è stata trascorsa cercando di andare al di là del cammino impersonale della Torah, dell’apprendimento, della virtù, del popolo e della terra di Israele. Ho cercato di andare al di là di questa esperienza impersonale per crearne una personale. La mia vita intera è una ricerca della presenza. Seguendo il cammino dei grandi mistici dell’ebraismo che, nonostante la distruzione del Tempio e nonostante la diaspora, hanno cercato di trovare l’esperienza continua di Dio nel cuore delle persone di Israele. Quindi, in quanto seguace di questi mistici, ho cercato sempre la realtà divina e la presenza divina in maniera personale, nella mia stessa vita. Ho imparato una lezione molto interessante in questo cammino. Se si cerca la presenza allora la si trova, si trova la presenza non soltanto di Dio, ma di tutto ciò che è spiritualmente reale: quindi la presenza dell’altra persona e la presenza dei grandi esseri spirituali di Dio, quelli che chiamiamo santi. Li chiamiamo ‘tzadikim’ in ebraico, quegli esseri grandiosi che hanno raggiunto Dio e l’hanno toccato e sono fari di luce, tramite la quale comunicano il proprio essere. Quindi questa ricerca di un rapporto personale con Dio passa abbondantemente a questa… no, no, no passa molto da questa esperienza dei mistici. La ricerca verso, questa tensione verso questi grandi, per attaccarci, avvicinarci a questi grandi… vi faccio un esempio della mia vita personale. Ogni anno, nel corso degli ultimi vent’anni, nel Capodanno ebraico sono andato in Ucraina. Lì è sepolto un grande maestro spirituale, morto all’inizio del diciannovesimo secolo, il rabbino Nachman di Brazlav, che chiese ai suoi discepoli di andare ogni anno a visitare la sua tomba il Capodanno, e dopo la caduta del blocco sovietico è diventato una destinazione di pellegrinaggio, in cui moltissimi fedeli fanno il proprio pellegrinaggio il giorno di Capodanno. Perché anch’io faccio questo pellegrinaggio? Perché c’è un rapporto vivente con qualcuno, perché il rapporto con questo mistico è vivo, mi nutre, e perché è quello che lui ha chiesto per mantenere questo rapporto. E quindi devo sopportare un viaggio che è più difficile di quello che ho dovuto compiere per venire a Rimini. Vedo che le barzellette non passano con la traduzione. È un’indicazione della realtà del rapporto che attraversa un altro essere spirituale. È un segno del rapporto personale con Dio, mediato dal rapporto con un maestro, un insegnante. La mia ipotesi è che coloro che seguono un cammino spirituale personale riescono più facilmente a riconoscere coloro che seguono un cammino simile in un’altra religione. E quindi, se la mia religione riguarda la mia verità, i miei ideali, i miei principi e il mio cammino, sarà più difficile riconoscere qualcun altro. Molto spesso succede che le due verità, la tua e la mia, si oppongano. Se però si tratta di un rapporto e io riconosco i segni di questo rapporto, allora è più facile riconoscere qualcun altro, in un’altra tradizione, che segue un cammino analogo. E credo che, brevemente, questa sia l’intuizione spirituale fondamentale che mi ha portato alla creazione di questa organizzazione che ho fatto. E adesso mi spiego. Non mi sono presentato e adesso posso farlo. Sono un rabbino ordinato in maniera ortodossa. Sono un accademico che per molti anni ha insegnato all’università. Ma la cosa più importante è sempre stata la ricerca spirituale, per me, ricerca spirituale che, fin dall’inizio mi ha portato da un’esperienza incentrata nella mia tradizione, verso un’apertura alla realtà religiosa dell’altro e a riconoscere l’esperienza, il rapporto del cammino personale degli altri come mio. Ormai, anche se non si vede, ho passato la metà della mia vita, e poiché ho passato la metà della mia vita ho passato anche la crisi di mezza vita. Avete mai avuto, qualcuno di voi ha avuto una crisi di mezza vita? Non ancora. Ho sessant’anni quasi. Bèh, spero che tu non ti converta all’ebraismo. No, io sono felice così come sono. Che Dio ti permetta di continuare così. Insegnavo all’università e avevo un certo successo. Però mancava qualcosa. Qualcuno mi ha chiesto “senti, stai facendo quello che dovresti fare?” e questa domanda mi ha colpito, e ho detto “non lo so, richiedimelo tra qualche mese”. Quello è stato l’inizio di qualcosa che è avvenuto nel profondo. Un giorno guidavo l’auto da Haifa a Gerusalemme e un amico mi ha chiesto “dove posso seguire un corso sulla vita dei santi cristiani?”. Un’amica, anzi, che aveva bisogno di trarre ispirazione da un’altra religione, senza essere una missionaria, senza essere convertita. Voleva semplicemente essere incoraggiata. E io le ho detto che questo corso non esisteva, che non c’era niente in Israele, non c’era la possibilità di studiare la vita di un’altra religione e di esserne incoraggiati. Ed è grazie a questo meccanismo, il cellulare, che la mia visione si è creata. Era un modello vecchio, ma che funziona ancora. Nella strada, lungo la strada tra Haifa e Gerusalemme, questa visione mi ha colpito, bisognava cercare di trovare un luogo perché le persone di diverse religioni potessero comunicare spiritualmente, in una piattaforma di dialogo spirituale, che permettesse alle persone di essere trasformate. Ed è stato come se tutto ciò che c’era in me venisse a frutto tramite questa esperienza: Dio mi stava preparando. Ma si trattava anche di una dimensione personale, perché poco dopo ho avuto l’impressione che questa visione non fosse solo mia. È cominciata ad Haifa, e Haifa è associata alla figura di Elia. Elia è un profeta del Messia, prepara, gli apre la via. E c’è stato un momento in cui era come se mi dicesse che quello era il mio progetto: devi fare questo lavoro. Devi preparare la strada per un mondo in cui la comprensione, la pace, la spiritualità possano crescere, in modo tale da elevarsi al di sopra delle differenze interreligiose e possano trarre il meglio da tutte le religioni per perfezionarle ulteriormente. Questa dimensione personale ha preso forma e ha fatto sì che cominciassi a sentire che il mio lavoro non fosse più il lavoro giusto per me. Adesso cercherò di illustrarvi quello che facciamo nel nostro istituto, non soltanto tramite la sua fondazione ma anche descrivendovi i progetti fondamentali. Non abbiamo ancora i soldi per questo progetto ma sto scrivendo una proposta e vi chiedo di pregare che questa proposta venga approvata dalla Fondazione, e adesso ve la descrivo. Abbiamo detto che i santi di diverse religioni sono la maniera per rendere personale per tutti l’esperienza religiosa. Essi mostrano anche i lati migliori della religione e incoraggiano, ispirano sia i seguaci di quella religione sia quelli di altre religioni. Quello che cerchiamo di fare è creare un grande progetto di ricerca che impegni nello studio dei santi di tutte le religioni (ebraismo, cristianesimo, induismo, sik, buddismo): non parliamo soltanto di coloro che seguono la fede di Abramo. Vogliamo cercare un denominatore comune spirituale nella vita dei santi, non solo cristiani, ma di tutte le religioni. Quindi al cuore di questa grande ricerca, cosa ne faremo dei risultati, cosa faremo con i risultati di questo progetto di ricerca? Il nostro istituto ha un comitato di leader religiosi, di tutte le religioni, ebraismo, cristianesimo, sik, indù e anche buddisti. Prepariamo questo materiale affinché i leader religiosi possano cambiare la loro opinione su quello che è il loro ruolo nel mondo di oggi. La mia religiosità è infatti una interreligiosità. Attualmente lavoriamo con i leader religiosi, affinché anche loro possano sviluppare questa comprensione del fatto che essere un leader religioso nel mondo d’oggi significa anche essere un leader interreligioso. Quindi, ci sono due parti di questo istituto che vi ho presentato: gli esperti e i leader. E poi c’è una terza parte. La terza parte significa diffondere questo lavoro alle comunità. Stavo parlando con uno dei miei amici italiani della possibilità di creare dei circoli di studio, qui in Italia, in cui il lavoro che abbiamo prodotto possa essere studiato in diverse città da gruppi interreligiosi. Possiamo dire che la visione dell’istituto, quella che riflette la mia visione personale, è una visione spirituale di crescita e trasformazione, tramite l’impegno insieme agli altri di approfondire la tradizione altrui, sulla base dello studio accademico, lo studio di esperti, il lavoro di esperti, che possa essere diffuso ai leader religiosi o anche alle comunità religiose. Devo chiedere a mia moglie se ho detto tutto bene. A quanto pare sì. Ho dimenticato qualcosa d’importante? No. Bèh, quello dei santi è soltanto un progetto, noi abbiamo compiuto altri progetti sui leader religiosi e sulla condivisione della saggezza e sulle religioni in crisi. Un altro sulla necessità di portare la nostra religione da un atteggiamento di ostilità a uno di ospitalità, quindi cerchiamo di fornire sempre risorse al movimento interconfessionale, che può essere riassunto in una sola parola: saggezza. Quindi il motto della nostra istituzione è “condividere la saggezza e incoraggiare la pace”. Vorrei adesso dare la parola ad Ambrogio, ma, per concludere, un’ultima parola. Alcuni di voi li conosco già da prima del Meeting. Credo che la lezione più importante che ho appresa da questo Meeting sia stata quella di Newman. Conosco Newman da molto tempo, ma è la prima volta in cui è diventato personale per me. Non è ancora completamente personale. Forse, se vado a visitare l’oratorio, la sua tomba, creerò una relazione personale con lui, ma ancora non ce l’ho. Però mi ha toccato profondamente la risonanza, l’apprendimento, la fede e il ruolo dei santi. Ha lottato, prima di diventare cattolico, poi quando è diventato cattolico è diventato seguace di San Filippo Neri. E questo mi ha commosso molto, la centralità dell’amicizia. La nostra unità al centro Elijah è quella proprio dell’amicizia interconfessionale. Abbiamo invitato anche rappresentanti di Comunione e Liberazione. Non si tratta della pratica dell’amicizia interreligiosa, quello che fate qui a Rimini, ma si tratta della teoria dell’amicizia interreligiosa. E mi ha colpito, in particolare, la sua esperienza giovanile quando era ammalato, come avrete visto durante la mostra, in cui si avvicina alla realtà della propria anima. Cosa può essere più personale che seguire il sapore della propria anima, di farne esperienza? E concludo in maniera molto semplice. Chiunque abbia avuto l’esperienza della propria anima e della realtà divina, sarà in grado di avere una effettiva esperienza dell’altro, andando aldilà del senso religioso limitato e ideologico, per entrare nella vera esperienza divina. E credo che mi fermerò qui. Grazie.
AMBROGIO PISONI:
Mi ha molto colpito, ascoltandolo, come pure nel dialogo, l’ultimo almeno in ordine di tempo, dialogo che abbiamo avuto poco fa nel salottino, come si usa dire, prima di venire qui, mi ha molto colpito il dialogo con lui e le parole che aveva preparato, il tono semplicemente personale del suo intervento, che poco fa abbiamo potuto riconoscere, gustare tutti insieme. Mentre lo ascoltavo, mi ha colpito soprattutto l’insistenza su questa esperienza della ricerca, dentro a questa dialettica drammatica tra presenza e assenza. Mentre lo ascoltavo mi è tornato alla mente, chissà perché, un passaggio di un testo di un grande santo del così detto Medio Evo occidentale, sant’Anselmo. In una delle sue opere più importanti, sant’Anselmo, parlando direttamente a Cristo, dice: “Io non potrei cercarti se Tu non mi avessi già trovato”. Ecco, in questo giudizio di Anselmo che rilegge, nella luce dell’esperienza presente del suo rapporto personale con il Signore Gesù, tutta la profondità della sua vita, nella luce di questo giudizio mi ritrovo completamente e anch’io voglio stare, diciamo, a livello dell’intervento che Alon ci ha rivolto questa sera, e parlarvi dell’incontro con la persona viva di don Luigi Giussani, nella primavera dell’anno 1972, quando ero studente al primo anno del corso di filosofia all’università cattolica di Milano. Quell’incontro è stato l’incontro che ha cambiato radicalmente la mia vita, la crisi non di metà della vita, perché di per sé noi non possiamo mai sapere se siamo arrivati a metà, di per sé, anche se il grande padre Dante osa dire “nel mezzo del cammin di nostra vita”, verso i trentacinque anni, come direbbero a Firenze. Che cosa è accaduto in quell’incontro? Io ero nato vent’anni prima, come tanti ragazzi giovani d’allora, in una famiglia di tradizione cattolica, che mi diede quattro giorni dopo la mia nascita il dono del battesimo. Sono diventato cristiano all’età di quattro giorni, dico diventato, perché si nasce uomini e si può diventare cristiani e a me è accaduto questo. Dico diventare perché il verbo diventare descrive una esperienza che si può riconoscere nel suo inizio: il 26 aprile 1952 sono diventato cristiano. Direbbe San Ambrogio: “a che servirebbe essere nati se non fossimo rinati nel battesimo?” Che cosa è accaduto per qualche anno? La famiglia e la comunità della parrocchia hanno aiutato il mio diventare grande e quindi la mia conoscenza del Signore, innanzitutto guardando, perché si cresce guardando un altro, una presenza, la presenza innanzitutto di mio padre e di mia madre e poi di un sacerdote della parrocchia. Dai tredici anni in poi questa presenza è venuta meno, per un motivo semplicissimo: cambiato casa, cambiato paese, cambiata la parrocchia, non ho più trovato davanti a me il segno di una presenza capace di accompagnare, di far crescere una conoscenza, perché la conoscenza come si dice in italiano dalla sua radice latina, è un sapere che avviene insieme, si conosce, si sa assieme a un altro. E così dai tredici ai venti anni la vita è stata segnata sostanzialmente da tre grandi fattori umanissimi, tanto studio, ho frequentato la scuola più bella del mondo, il liceo classico e avendo la grazia di avere ottimi professori. La scuola più bella del mondo, tanto studio, tanto sport e tante ragazze, queste cose fanno sana la vita di un adolescente italiano della seconda metà del ventesimo secolo. La fede era diventata semplicemente un istante, la domenica mattina, quand’ecco l’incontro con don Giussani, tralascio i particolari biografici perché il contesto, i tempi non lo consentono. L’incontro con quell’uomo è stato l’inizio della rinascita della mia fede, cioè, e questo è importante, della verità della mia esperienza umana, perché incontrando lui e la comunità di uomini e di donne, soprattutto in università, intorno a lui, sono rimasto affascinato da quella esperienza di umanità che fino ad allora non avevo ancore conosciuto. Perdonate se parlo un po’ lentamente ma sapendo cosa vuol dire tradurre… perdonate. Allora che cosa accade, che cosa è il significato profondo per un cristiano quando usa l’espressione, la parola “esperienza religiosa”? Innanzitutto è accorgersi che un altro è venuto a cercarmi e mi ha trovato. Il cristianesimo comincia qui, nell’accorgersi di essere trovato da un altro, è uno che per primo viene a cercarmi e mi trova. Mi ha sempre affascinato, fin da quando l’ho sentito leggere, profondamente come mai era accaduto prima, quella pagina del Vangelo di Giovanni, la prima, raccontata, spiegata o meglio testimoniata da don Giussani, la prima pagina del Vangelo di Giovanni, là dove il signore Gesù incontra quei due uomini, che saranno i primi dei suoi discepoli, cioè, letteralmente, coloro che imparano il mistero, il segreto della vita stando con lui. Cristo incontrando l’uomo pone una domanda “che cosa state cercando?” e in quell’istante il cuore dell’uomo, quello che l’Antico testamento, – come lo chiamiamo noi cristiani e che il nostro amico che è qua con noi, il professor Weiler, quando parliamo di questo, simpaticamente dice “yes you say Old Testament, we say Only Testament”, voi dite il vecchio testamento, noi diciamo l’unico testamento – quello che l’Old Testament, l’Only Testament dice essere il cuore dell’uomo, viene in quel momento, nell’incontro con quell’uomo, svegliato, destato dal suo sonno, da quell’uomo che ti guarda e ti dice,”ma tu che cosa stai cercando?”. Solo allora, per me, l’incontro con don Giussani è stato questo. Badate, come sempre nella vita, l’inizio dell’incontro porta tutto, è un seme in cui tutta la ricchezza dell’albero è presente, poi il tempo si incarica di far vedere con pazienza tutta la grandezza di questa ricchezza. Oggi, quasi quarant’anni dopo quell’incontro, posso parlare di quell’incontro come certamente non potevo parlarne poche settimane dopo, eppure mi ricordo benissimo che due mesi dopo, in vacanza al mare con due amici, scrissi una lettere ai miei genitori, notate ai genitori, in cui parlavo di questo incontro, con una semplicità e una povertà di parola che nello stesso tempo era il segno di una ricchezza di vita che in qualche modo, pur confusa e piena di certezza, stavo intravedendo in quello che avevo incontrato, nomi e volti che ancora oggi sono presenti nella mia vita. L’inizio della religiosità vera è sempre l’incontro con la risposta, è solo Cristo risposta al cuore dell’uomo, capace cioè di destare il cuore nella sua natura profonda di domanda di Lui. È incontrando la risposta che capisco che io sono una domanda, non posso realmente dire io ho delle domande ma io sono questa domanda di compimento, ma posso scoprire tutta la profondità della mia domanda cioè del mio cuore, cioè del mio essere fatto da un altro e fatto di un altro, solo incontrando nella storia questo altro che mi guarda e lì mi chiede “ma tu cosa stai cercando?” E’ solo così che mi accorgo di essere uno che cerca. Dante, nel suo capolavoro, adesso devo dirlo in italiano perché forse nel suo fiorentino non si capisce, comunque Dante dice: ciascuno di noi, anche se in modo confuso, intende, cioè tende a un bene, nel quale il suo animo, la sua vita, il suo cuore, possa finalmente riposare e lo desidera, perché il tentativo, la tensione a congiungersi, a unirsi a questo bene, è propria di ogni uomo., “Ciascun confusamente un bene apprende
nel qual si queti l’animo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende”.
Io non posso cercare il mistero da solo, io ho bisogno di te, il tendere al mistero è sempre un contendere, che non è la contesa, non è la lotta innanzitutto, ma è una amicizia profonda, una comunione profonda nella tensione all’unico Dio. Io ho bisogno di te per tendere, per essere aiutato in questa tensione inesauribile, in questa domande senza stanchezza, per la conoscenza di questa presenza che è Lui. Allora io oggi sono ancora cristiano, non perché essendo sacerdote ordinato tutto sommato devo esserlo, coi tempi che corrono il dovere non ha buona cittadinanza nella nostra cultura, nella nostra mentalità dominante. Io sono ancora sacerdote, sono uomo e sono cristiano – sono la stessa cosa – per il semplice motivo che questa presenza che mi ha incontrato, che ha destato finalmente la mia vita a una esperienza di umanità prima sconosciuta, questa presenza è ancora qui. “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”, così Matteo conclude il Vangelo. “Io sono con voi tutti i giorni”, perché è vero, solo una presenza rende umana la vita, e dove sta la sua assenza? La presenza non si ritira mai, non si nasconde mai, nello stesso tempo è così infinitamente profonda che io non posso mai dire di te, o Signore, ti conosco a sufficienza, per cui la religiosità per noi coincide con una curiosità continua, come quella sera sul lago di Tiberiade, mentre infuriava la tempesta e i discepoli, pieni di paura, temevano di morire annegati e il Signore era lì con loro, a poppa e dormiva con la testa appoggiata al cuscino – glielo avrà regalato la suocera di Pietro, dopo che l’aveva guarita dalla febbre, non è scritto ma si può supporre, la suocera è sempre la stessa. Quando il Signore si sveglia, perché lo svegliano, “non ti interessa che moriamo?”, il Signore calma la tempesta e fa tacere l’urlo del mare e poi guarda i suoi amici e non dice loro “uomini di poco coraggio perché avete avuto paura?” – che stranezza ci sarebbe, chi non avrebbe paura mentre la barca sta per affondare? – bensì gli dice “uomini di poca fede”, cioè potremmo dire, è quasi una barzelletta direbbe Alon, ma noi in italiano potremmo dire: “è una vita che siamo sulla stessa barca e non mi conoscete ancora?” Il dramma della vita si chiama fede, cioè la conoscenza di Lui, allora, come dire, tu nel dramma quotidiano della vita come vivi la tua religiosità, cioè la tua dipendenza da me?, dice Cristo, cosa guardi mentre infuria, mentre c’è la tempesta, guardi il furore del mare o guardi me che sono qui? Dove va il tuo sguardo, a una presenza che c’è o guardi la realtà senza riconoscere me? Tanto è vero che i discepoli salvati non dicono “bèh, ce l’abbiamo fatta anche questa volta”, lo guardano e dicono “chi sei tu a cui il mare e il vento obbediscono?” La religiosità cristiana si condensa in questo fuoco di domanda, chi sei tu?, non è una presenza che se ne è andata, non è una presenza assente, è una presenza così profonda, così ricca, così infinitamente ricca e presente, che non ci permette mai di dire “ti conosco abbastanza”. Per cui, come in ogni rapporto umano, sta qui la grande sfida dell’analogia della fede, come in ogni vero rapporto umano la domanda è, dopo cinquant’anni di matrimonio, “chi sei tu che sei ancora qui?”, non “oddio sei ancora qui”, – intraducibile immagino -, però avete visto la mia faccia! Ma la domanda religiosa è la domanda che nasce per lo stupore per la presenza e che diventa domanda a te, perché tu Signore possa ancora oggi rivelarti – anche in inglese si dice così, revelation – cioè nasconderti di nuovo mentre ti fai conoscere, metterti il velo mentre ti fai conoscere. Mettere il velo vuol dire: guarda che non è finita l’avventura della conoscenza. Quando Dio nell’Antico Testamento diede al suo popolo nel deserto la manna come cibo e il popolo, svegliandosi al mattino per la prima volta, vedendo sulla terra quella specie di grano e non sapendo cosa fosse, domandò in ebraico man hu?, che vuol dire “che cos è?”, da questo deriva Manna – molto semplice, che cos’è?, manna. Quindi quando vedi qualcosa che non sai, dì al tuo amico a Cesenatico, man hu?, e vediamo cosa succede. Allora, che cos’è questo?, e quando Dio dice a Mosè: dì al popolo che raccolga il cibo oggi, quanto ne basta per ogni famiglia, perché ne basti fino al tramonto, e di non fare la scorta per domani o per dopodomani, perché domani svegliandoti tu, mio popolo, possa dire “ecco anche oggi il Signore viene a visitarci e a darci il suo cibo”. Non andiamo a letto tranquilli perché abbiamo l’armadio pieno della scorta di cibo, perché abbiamo il conto in banca. Fare così sarebbe come dire: posso fare a meno della fede, posso fare a meno della domanda, posso fare a meno di un’attesa, posso fare a meno di te Signore. Se invece non fai scorta di manna o di conti in banca, e la mattina dopo ti svegli, apri la porta della tenda, eccola, man hu?, ma adesso so che cosa è, è il tuo cibo Signore. E così la domanda, l’attesa fiorisce come gratitudine, non c’è religiosità vera se non quella che nasce dalla domanda destata dall’incontro, destinata a fiorire come gratitudine. Nelle nostre lingue indoeuropee pensare e ringraziare vengono dalla stessa radice, riconoscenza è il riconoscimento denken ist danken, thinking is thanking, chiaro. E stiamo vivendo della stessa promessa con una differenza ineludibile, che segna il solco della storia per sempre: un uomo ha detto io sono la via, non io sono un sentiero tra gli altri. Questo, come don Giussani in tutta la sua vita ci ha testimoniato e perciò insegnato, non c’è insegnamento se non viene dalla testimonianza, è la certezza immensa, senza misura, che ci permette, come dicevo a lui nel salottino, ci permette di guardare ogni uomo con una simpatia, un desiderio di conoscenza, un ardore di scoperta, di verità nell’altro altrimenti impossibile. Don Giussani per descrivere questa esperienza, che racconta, diciamo così, in modo sintetico e nello stesso tempo esauriente in quel volume, edito da Rizzoli, con il titolo Generare tracce nella storia del mondo, chiama questa esperienza ecumenismo, restituendola cioè al suo significato originario, presente nell’inizio dell’avventura della storia della chiesa e perciò riscattata dall’ambiguità di cui oggi gode, anche nel linguaggio ecclesiastico. Se non è chiaro lo ripeto, ma è chiaro. Ecumenismo vuol dire un’esperienza di immensa certezza che solo Cristo può dare e che perciò mi permette di guardare, con uno sguardo veramente religioso, a chiunque. Con sguardo religioso, cioè riconosco che la verità della tua vita coincide nella sua radice con la verità della mia vita, cioè io oggi, in questo istante, sono fatto dal mistero, non sono io il signore della mia vita, sei tu Signore, oggi e qui, qui e ora, la verità della mia vita. Per questo, in trentadue anni di Meeting, noi abbiamo incontrato decine di persone che vivono così, che vivono così, e abbiamo scoperto e stiamo scoprendo, come questa sera, che vivere così è possibile, perché è reale una esperienza così, è così reale questa presenza che ci permette di accogliere chiunque e di guardare chiunque nella sua radice religiosa, cioè nella sua coscienza di dipendenza da Dio, qui e adesso. Questa esperienza è un fattore, cioè un dato, un evento che crea civiltà. Quando Giovanni Paolo II venne al Meeting di Rimini, ci diede, diede al popolo di allora, che è il popolo di oggi, questa consegna, “costruite la civiltà della verità e dell’amore”, e non per nulla disse prima verità e poi amore, perché non c’è amore senza verità e non c’è possibilità di amore reale con l’altro, cioè capace di amare realmente l’identità dell’altro e cioè di rispettarlo… in italiano rispettare dal latino respicere significa io guardo te e mentre guardo te, intravedo un altro. Nel nostro linguaggio popolare italiano, non troppo popolare, si dice anche mancare di rispetto a una persona. Che cosa significa? Io manco di rispetto a te, quando, guardandoti, non voglio intravedere un altro, perciò ti tratto come un oggetto. Io sono cresciuto ascoltando dai miei nonni, ogni tanto, questa espressione, ha mancato di rispetto a una signora, oggi non si dice più, anche perché di signore ne sono rimaste veramente poche, in ogni caso, ha mancato di rispetto cosa vuol dire?, ha guardato quella signora come una cosa e non come un segno, solo Cristo permette a me oggi l’integralità di questo sguardo, cioè la verità di questa religiosità, e questo ci permette di essere compagno con ogni uomo che sia cosi, compagno, cioè colui che mangia lo stesso pane con me, il pane, cioè il segno di ciò che rende la vita vita, la nutre nella sua verità, per noi l’eucaristia, il pane della vita. Per questo prima, quando leggevo queste parole di Alon, l’ho guardato, ci siamo guardati, ci siamo sorpresi a guardarci con uno sguardo, mi confesso davanti a voi, che non era mio, come io ho sorpreso in lui uno sguardo che non era il suo. Ma io sono veramente mio quando sono di un altro; gli ho detto leggendo quella… l’ho guardato, gli ho stretto la mano e gli ho detto: stiamo vivendo l’appartenenza allo stesso mistero. Allora capite che non è per modo di dire “Meeting amicizia fra i popoli”, perché un popolo rinasce continuamente da un esperienza così. Per questo incontriamo tutti coloro che vogliono e che possono stare qui con noi, accettando di dire sé, come Alon ’stasera ha detto sé a noi. Che cosa succederà da qui in avanti non lo sappiamo. Gli ho detto prima, “spero di poter venire a Gerusalemme e trovarti, non come l’anno passato”, sto aspettando il suo calendario, almeno fino al nostro Natale, per poter decidere una data, una visita, per poter incontrare lui là, nella sua casa, e mangiare insieme, e bere il vino che a allieta il cuore dell’uomo, come dice il salmo 103 – le donne non si sentano escluse da questo gaudio. Concludo, per adesso. Guardate che il Meeting non è mai una conclusione, è sempre un nuovo inizio, e come scriveva Cesare Pavese nel suo capolavoro, cito a memoria non esattamente, “val la pena vivere perché si può sempre ricominciare, se non si potesse ricominciare che vita sarebbe la nostra?”. E il Meeting allora non è mai una conclusione, come l’incontro con Cristo. Ogni risposta è il fiorire di nuove domande e una risposta è la genesi di un’altra curiosità.
ALON GOSHEN-GOTTSTEIN:
Adesso voglio dire qualcosa anch’io, mi dà soltanto un momento per dire una cosa? Volevo condividere tre commenti, tre brevi commenti rispetto a quello che hai detto. Ho parlato del Santo che vado a visitare ogni anno e lui aveva tre insegnamenti. Il primo, bisogna sempre ricominciare da zero, per quanto si provi e riprovi fallendo, per quante volte si fallisca, ogni giorno, ogni momento è un nuovo inizio, bisogna riprovare. Il secondo insegnamento: l’insegnante è uno specchio, più lo specchio è lucido, meglio lo studente si può riflettere nell’insegnante. Quindi quando hai descritto il tuo rapporto con don Giussani e come sei stato commosso dalla sua domanda, è questa proprio la maniera con cui dovrebbe insegnare ogni insegnante, in modo che lo studente possa rispecchiarsi in lui. Terzo insegnamento. Rabin Nachman dice che ci sono tre dimensioni, innanzitutto come ci collochiamo tra noi stessi e Dio, come ci collochiamo rispetto all’altro e come ci collochiamo rispetto a noi stessi, nella nostra vita: è come una trinità. Lo so che voi cristiani ogni numero tre lo considerate una trinità. È naturale, è naturale, spontaneo. Quindi ci sono questi tre punti che si integrano, dobbiamo trovare dove siamo, dove siamo rispetto a Dio e rispetto all’altro. E l’altro diventa il nostro insegnante. Una volta l’altro era semplicemente un membro della nostra comunità, ma oggi viviamo in un mondo in cui tutti sono l’altro e in cui quindi tutti possono essere nostri insegnanti. Più capiamo com’è l’altro, maggiore è il nostro senso di Dio e maggiore è la nostra consapevolezza di noi stessi. Questi sono gli unici commenti che volevo fare. Un attimo che cambiamo il microfono, un attimo solo.
AMBROGIO PISONI:
Ecco, una sola notazione, ricominciare ok, non da zero, dal passo precedente. Io posso ricominciare perché nel ricominciare godo della ricchezza di una memoria, di una storia e perciò di una storia che essendo la storia, innanzitutto, del Mistero nella storia, è una storia sempre da conoscere più profondamente. E quindi è il senso di un’appartenenza e di un protagonismo che cresce, tappa dopo tappa, passo dopo passo. Lo zero non ha diritto di cittadinanza.
DOMANDA:
Ebraismo, Cristianesimo e Islam, hanno alle spalle una lunga storia che è fatta anche di incomprensione, odio, violenze e guerre e la Shoah penso che pesi ancora, anche sulla nostra coscienza cristiana. Questo a ben pensare è uno scandalo, è uno scandalo che tre religioni monoteiste si siano fatte spesso e volentieri la guerra. Perché se Dio è veramente uno e unico, il monoteismo si testimonia con la capacità di costruire la pace e il dialogo, altrimenti ha ragione chi professa un relativismo religioso e anzi un politeismo. Poi qui qualcuno dice che il politeismo garantisce meglio una situazione di pluralismo e di pace.
Secondo lei, su quali linee strategiche ci si dovrebbe basare per voltar pagina nei rapporti tra le tre religioni monoteiste, quale strategie dovrebbero muovere le tre religioni monoteiste? Grazie.
DOMANDA:
Voi avete fatto un discorso interessante, io ricordo che qui al Meeting un grande teologo, Ignace de la Pottery, disse già un po’ di anni fa: fra cristiani ed ebrei è inutile vedere chi ha ragione. Lo sapremo solo nell’aldilà, se Gesù Cristo è Dio, se è un profeta lo sapremo nell’aldilà. Però tutto il lavoro che fa lui è una coesione dal basso, un tentativo di dialogo dal basso, di costruire. Però se ci si ferma agli schemi generali ideologici è insolubile, alcune cose dottrinali sono insolubili. Un’ultima cosa, non ho capito bene la religiosità personale e impersonale. L’impersonale cos’è? Una cosa diabolica, clericale o conflittuale? Grazie.
ALON GOSHEN-GOTTSTEIN:
La prima domanda era quella del cammino da seguire per le religioni. Ci deve essere la volontà innanzitutto. Adesso avete la volontà, siamo nel XX secolo, a sessant’anni dalla Shoah. Molte persone al mondo adesso si rendono conto che nel mondo non c’è pace, che il mondo rischia di autodistruggersi, ma non tutti hanno la volontà. Quindi innanzitutto bisogna crearla. La seconda fase è il riconoscimento delle imperfezioni. Dobbiamo capire dove abbiamo sbagliato con attenzione, purificare la nostra memoria e guardare Dio, seguendo gli insegnamenti più alti della nostra religione. La terza fase è un genuino ascolto dell’altro e non un giudizio basato sugli stereotipi. La quarta fase è quella di rivisitare la nostra tradizione per trarne migliori insegnamenti. E contestualizzare le parti problematiche come parti di un insegnamento che forse sono state adeguate nel passato, ma non fanno più parte della volontà divina. Affinché possiamo progredire veramente, dobbiamo ascoltare profondamente l’altro, imparare dall’altro, conoscere profondamente le nostre tradizioni e aprirci a nuove fasi della nostra tradizione che possono differire dal passato, ma che sono comunque fedeli alle radici della nostra tradizione, anche se differiscono da molte delle sue manifestazioni storiche. Spero di aver risposto alla prima domanda.
Per quanto riguarda la seconda domanda. Qual è una religione personale? Una religione che si fonda su un rapporto, una relazione. Potete essere all’interno di una gerarchia clericale e avere una relazione o non avere una relazione. Non si tratta di formalità, si tratta di profondità dell’esperienza professionale. Non si tratta di avere una statura clericale o meno, si tratta di avere un esperienza personale. Mi sono spiegato?
AMBROGIO PISONI:
Tenete conto di una cosa, primo, per un cristiano il “frattempo” non esiste, perché il tempo è Cristo che viene incontro, non è qualcosa che va’. E’ il senso cristiano della storia e della Pasqua di Cristo alla fine del mondo. Catechismo della Chiesa Cattolica, svegliamoci. Rispondo alla domanda: stasera non abbiamo incontrato l’ebraismo, abbiamo incontrato un uomo. Io non ho mai visto l’ebraismo per la strada, né ho mai bevuto la Coca cola con l’Islam e tanto meno ho mangiato la pizza con il Cristianesimo, ma io incontro uomini e donne che hanno un nome e un volto. Questa è l’esperienza, il resto è astrattezza, foriera prima o poi di violenza. Questa è la verità delle cose, non amo le donne, ne amo una, magari due ma sempre una alla volta, possibilmente.
ALON GOSHEN-GOTTSTEIN:
Io ho un esperienza diversa.
AMBROGIO PISONI:
Tutta questa storia delle parole, ma guardate, noi parliamo di una parola, perché la parola si è fatta carne. Io posso dire parole ma sono qui io che le dico. Allora le forze che cambiano la storia degli uomini sono quelle che cambiano il cuore degli uomini, disse un giorno don Giussani a un utopista incontrato a vent’anni sotto i chiostri della cattolica. Allora il punto della questione è questo, l’osservazioni che ha fatto il nostro amico sono giustissime, ma cosa cambia? Il mondo cambia se cambia l’io. E il metodo che Cristo ha inaugurato è Cristo stesso, il metodo di Cristo è l’incontro. Uno ad uno. Dobbiamo riscoprire, come qualche filosofo intelligente sta dicendo da qualche anno, il valore ontologico e gnoseologico dell’incontro. Senza incontro non c’è conoscenza, altrimenti, come dicevamo prima, c’è solo il fantasma terribile, il mostro dell’ideologia.
Signori, grazie della vostra attenzione, buona notte.
(Trascrizione non rivista dai relatori)