L’EREDITÀ E IL FUTURO DELL’ITALIA

L'eredità e il futuro dell'Italia

Interviene Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio dei Ministri. Introducono Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli e Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà. In occasione dell’incontro Nassir Abdulaziz Al-Nasser, Alto Rappresentante dell’ONU per l’Alleanza delle Civiltà, darà lettura del messaggio di saluto del Segretario Generale delle Nazioni Unite.

 

EMILIA GUARNIERI:
Signori, buonasera, benvenuti a tutti. Benvenuto innanzitutto al Presidente Paolo Gentiloni, che oggi con noi inaugura questa 38° edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli. Benvenuti ai signori Ambasciatori, alle autorità e a tutti voi. È il primo incontro di questa 38° edizione del Meeting. Quello che abbiamo ereditato deve essere riguadagnato. A questo ci invita il titolo e questo è l’orizzonte di questo Meeting. È un orizzonte che non possiamo non dire che proprio in questo momento si carica ancora di più di domande drammatiche, proprio nel momento in cui ancora una volta siamo chiamati a confrontarci con la violenza nichilista di chi disprezza la vita, di chi disprezza la vita distruggendo la sua e quella degli altri. E sicuramente i fatti di Barcellona ci costringono a domandarci ancora con maggiore intensità se abbiamo ragioni adeguate per vivere e se abbiamo ragioni adeguate per vedere morire, perché un tempo come questo chiede non meno che ragioni di questo genere, credo. E anche questo Meeting non può non essere all’altezza di queste domande, all’altezza non di rispondere, ma di sapersi mettere in gioco con lealtà davanti a queste domande, perché se le risposte possano venire, vengano. E quindi cosa ci possiamo aspettare da questa settimana, dai dialoghi, dalle testimonianze, da tutto quello che guarderemo e scopriremo insieme? Io credo che ci siano alcuni guadagni che possiamo attenderci. Mi permetto di citarli. Il primo guadagno che possiamo aspettarci credo che sia che questo Meeting contribuisca a far crescere la consapevolezza che ognuno di noi è l’esito di un’eredità, è una consapevolezza che non necessariamente abbiamo, di cui non necessariamente siamo pieni: che consistiamo perché siamo intessuti da e di un’eredità, perché siamo figli, perché abbiamo un’identità nazionale, perché abbiamo un orizzonte di valori, in molti casi una religione. Tantissimi di noi vengono da settant’anni di pace, ognuno di noi è segnato da una storia, da un’educazione, da un incontro, da incontri che hanno determinato la vita. E questa è un’eredità di cui essere consapevoli. Credo che sia questo il primo guadagno da aspettarci. Il secondo possibile guadagno è che non possiamo non provare a verificare se questa eredità ricevuta, se tutto questo patrimonio dato tenga e sia utile oggi di fronte a questo immenso cambiamento d’epoca, di fronte a tutto quello che accade, e che, non possiamo nasconderlo, ci riempie di paura, di sgomento e di paura. Quindi, paragone con l’oggi, paragone con queste sfide, vedere se questa eredità tiene. Ma c’è un terzo aspetto, un terzo possibile fattore che può connotare queste giornate, che per me è il più affascinante, anche il più commovente dell’avventura che iniziamo oggi insieme, ed è che il percorso di verifica della mia eredità mi rende irriducibilmente compagno di tutti, non mi porta a chiudermi nella mia identità, nella mia eredità, ma mi rende compagno di tutti, di ogni uomo, qualunque sia la sua storia, qualunque sia la sua origine, qualunque sia la sua eredità. Perché ciò che abbiamo in comune tutti, ciò che io ho in comune con tutti è il desiderio di bene, di vero, questo è uguale per tutti, il cuore parla la stessa lingua su questo. E la sfida che la realtà ci pone d’altra parte è uguale per tutti. Le differenze sono gli strumenti che usiamo, le categorie di giudizio che applichiamo, le eredità culturali che ci definiscono, le sensibilità, le storie, gli accenti, ma è dentro queste diversità che, appunto, si intessono i fili del dialogo, dell’incontro e, dico con grande convinzione, del perdono reciproco. Credo che senza questo sarà difficile andare avanti. In questo contesto pertanto ringrazio ancora una volta il Presidente Gentiloni per la sua presenza che ci permette, a noi che organizziamo il Meeting, ma credo a tutto il popolo del Meeting, di mantenere vivo un dialogo che ci sta particolarmente a cuore, un dialogo con chi ha la responsabilità ultima della cosa pubblica. Perché tanti di noi hanno imparato da don Giussani ad avere stima di ogni aspetto della realtà, e non ultimo della politica, a guardare con impegno e responsabilità le urgenze e i bisogni nostri e degli altri. E abbiamo imparato che la vera risorsa in tutto questo è il desiderio di bene, desiderio di bene che tutti gli uomini portano con sé. Ecco, Presidente, noi vorremmo che anche questo nostro Meeting fosse un contributo a guardare con realismo i drammi, le sfide di oggi, ma a partire proprio da questo desiderio di bene. Non vorremmo cadere nel cinismo triste di chi tenta di denunciare i desideri e le speranze per il solo gusto di opporsi a tutto e a tutti. Vorremmo, al contrario, che anche queste giornate potessero essere l’occasione per guardare il positivo che c’è, per incontrarsi, per dialogare e per costruire insieme.
Proseguendo questo nostro avvio di Meeting, vi do lettura del messaggio che il Presidente della Repubblica ha voluto inviarci e di cui gli siamo estremamente grati, per questa compagnia, per questa autorevole compagnia che continua a fare alla nostra esperienza del Meeting:
“Nella giornata inaugurale del Meeting 2017 desidero rivolgere a tutti quelli che parteciperanno agli eventi di Rimini il mio saluto più caloroso e insieme l’auspicio che l’incontro produca buoni frutti, aiutando così l’intera società a rafforzare la propria coesione nello spirito dei valori propri alla nostra Costituzione. Il tema scelto per quest’anno Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo richiama la responsabilità nel passaggio generazionale, responsabilità degli adulti che non possono consumare il sovrappiù, beni e opportunità, sottraendoli ai proprio figli, responsabilità anche dei giovani, che sono chiamati a far proprie le storie e le cose per dare ad essi un futuro e divenire di questo protagonisti. Abitiamo un mondo che oggi si è fatto più piccolo e procede a velocità sempre più sostenuta: la globalizzazione da un lato, lo sviluppo delle tecnologie dall’altro, mettono in discussione l’autonomia stessa della persona. L’idea di libertà, il senso di comunità, l’ambizione di fare storia richiedono di essere continuamente riformulati, vissuti nel presente. I giovani possono e devono diventare artefici di questa trasformazione epocale. La crisi demografica appesantisce la nostra società e favorisce la tendenza a guardare orizzonti limitati, dimenticando di preparare il domani. Compito delle forze vive lungimiranti è di tenere sempre viva l’attenzione sulle conseguenze delle scelte di oggi e di contrastare il campo corto di chi rinuncia ad alzare lo sguardo e progettare il futuro. La consapevole responsabilità verso chi viene dopo di noi è come la solidarietà verso chi è più in difficoltà. Senza queste spinte vitali non esiste continuità nella vita di una comunità e le stesse capacità di sviluppo di una società vengono significativamente indebolite. La politica, le istituzioni, i soggetti economici, i corpi sociali hanno tutti un peso nel determinare gli esiti dei cambiamenti in atto. Complessità e interdipendenza non sono alibi per un disimpegno. L’attenzione verso i giovani deve tradursi in occasioni concrete e innovazioni, che aprano le porte a una mobilità sociale vera e a una piena cittadinanza a partire dal diritto al lavoro e all’istruzione, che sta alle radici della libertà delle persone della società. Così, investendo sul futuro, una collettività ritrova fiducia e raddoppia la propria forza.
Firmato, Sergio Mattarella”.
Grazie, Presidente, anche per questo messaggio con cui apriamo il Meeting. Invito ora a salire Nassir Abdulaziz Al-Nasser, l’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite per l’Alleanza delle Civiltà, che darà lettura del messaggio che il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha inviato per l’inizio di questo Meeting.

NASSIR ABDULAZIZ AL-NASSER:
Signor Presidente Paolo Gentiloni, Primo Ministro d’Italia, Eccellenze, Leaders religiosi, signore e signori, è per me un immenso piacere essere qui a Rimini ancora una volta, al Meeting per l’amicizia tra i popoli. Dico ancora una volta perché cinque anni fa, nell’agosto del 2012, partecipai al Meeting in veste di Presidente della sessantaseiesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Oggi invece ho il piacere di trasmettere un messaggio da parte di Sua Eccellenza il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, profondamente dispiaciuto per non poter partecipare egli stesso a causa di precedenti impegni. Il messaggio del Segretario Generale si basa sul tema che è stato scelto per la trentottesima edizione del Meeting, con la citazione del Faust di Goethe: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”. Questa citazione dall’opera di Goethe funge da ispirazione per il vostro programma di lavoro. Al fine di trarre un insegnamento dal Faust, al fine di poter trarre veramente vantaggio da un’eredità, dobbiamo prima capire la lezione, le responsabilità che sottostanno a tale eredità. Dobbiamo evitare di comportarci come Faust che, nonostante il suo successo, si sente insoddisfatto della sua vita e arriva a stringere un patto con il diavolo, vendendo la sua anima in cambio della conoscenza infinita e dei piaceri mondani, a discapito del suo amore e della sua eredità, finendo per perdere tutto. Arriviamo a questo punto del tempo e dello spazio plasmati dalle decisioni buone e cattive prese dai nostri padri. Quanto tempo e quanta attenzione dedichiamo davvero a imparare le lezioni e le responsabilità insite nel diritto che abbiamo alla loro eredità? Possiamo solo immaginare, per esempio, quanto più ricca potrebbe essere stata la nostra eredità senza gli orrori dei due conflitti mondiali. Ma auspichiamo di aver imparato e di esserci appropriati dei loro sacrifici, così come delle loro sagge decisioni, prese durante e in seguito a quei periodi problematici, come la Carta delle Nazioni Unite e la Convenzione Universale sui Diritti Umani e Civili. L’azione di guadagnarsi, riappropriarsi di qualcosa non è a senso unico. Significa anche trasmettere agli altri, a coloro che verranno dopo di noi, alle generazioni future. In realtà non riusciamo mai davvero ad appropriarci di qualcosa, ne entriamo in possesso soltanto per un momento, al fine poi di trasmetterlo alle future generazioni. Ciò che dobbiamo a coloro che verranno dopo di noi è pari, se non di più, di quanto dobbiamo a coloro che ci hanno preceduto. Uno dei concetti chiave emersi dal nostro dibattito sullo sviluppo sostenibile è l’idea dell’equità intergenerazionale. Quale eredità stiamo lasciando ai nostri figli e ai nostri nipoti a fronte dello sfruttamento delle risorse naturali e del maltrattamento del nostro pianeta, come se fosse una discarica per l’immondizia globale? Le minacce crescenti al futuro del nostro pianeta richiedono una maggiore attenzione da parte nostra su come produciamo e consumiamo beni. L’ecosistema è limitato e non saremmo in grado di sostenere una crescita eccessiva ancora maggiore. Lo squilibrio dell’impiego, l’acquisizione e il controllo delle risorse sono come una miccia per i conflitti regionali, le guerre e le diverse forme di estremismo, che servono pure a destabilizzare le popolazioni e a provocare ondate migratorie a discapito di tutti. L’aria, l’acqua e il cibo sono tre elementi fondamentali e indispensabili all’esistenza umana, che le persone nei paesi sviluppati danno sempre per scontato, in quanto ne hanno sempre avuto disponibilità. E poi cos’altro abbiamo ereditato? Ci è stato lasciato un mondo di persone piene di differenze: diverse culture, diverse tradizioni, diverse religioni, diversi colori della pelle, diverse idee e diverse esperienze, tutte da confrontare e condividere. La diversità è anzitutto un segnale del fatto che la famiglia umana è composta da una vasta gamma di persone, posizioni sociali e benessere. La diversità è una condizione umana inevitabile, è una caratteristica comune dell’umanità, e la diversità è pure presente in natura: diversità nei fiori, nelle piante, nei terreni, nelle risorse, nell’acqua, nella conoscenza umana e nel benessere, che dobbiamo condividere equamente tra tutti noi. Le sfide che ci troviamo ad affrontare sono grandi, le Nazioni Unite cercano collaborazione e leadership da diversi gruppi: le ONG, il settore privato, il mondo accademico, i leader religiosi e civili. Dove sono i leader pronti ad agire per le generazioni che non sono ancora nate? Quale eredità lasceremo ai nostri figli e ai nostri nipoti? Quale eredità lasceremo loro perché la trasmettano ai loro figli? La grande prova per la leadership umana e per le Nazioni Unite in questo secolo sta nell’assicurarsi che la Terra rimanga una casa abitabile per l’umanità. Non dimentichiamo che il racconto di Faust comincia in Paradiso. Però è sulla Terra che dobbiamo adoperarci per coltivare un’eredità basata sulla gioia di vivere e sulla felicità. Fine del messaggio. Grazie a tutti e vi auguro un ottimo lavoro.

EMILIA GUARNIERI:
Grazie del messaggio del Segretario Generale, grazie della sua presenza. Il Professor Vittadini ci introduce ora al tema specifico di questo incontro sulle prospettive dell’eredità e futuro dell’Italia, introducendo così il tema e l’intervento del Presidente Gentiloni.

GIORGIO VITTADINI:
Siamo tutti sconvolti da quello che abbiamo visto in questi giorni ancora in Europa, però noi siamo convinti che la vita non può che dominare sulla morte ed è per questo che facciamo il Meeting, per dire che il desiderio di vita, di bellezza, di giustizia, di verità può vincere; può vincere anche nella misura in cui ci chiediamo come. Assistiamo a un cambiamento d’epoca: è un tema che è stato discusso dal Presidente Violante e da Carrón in un incontro a Milano un po’ di mesi fa e che sarà argomento di un ciclo proprio promosso dal Presidente Violante in questo Meeting. Cosa sta succedendo in questo cambiamento d’epoca? Ecco, io provo a dire qualcosa di un po’ strano, che non è detto di solito, per quel che riguarda l’Italia; siccome faccio lo statistico, e tutti parlano sempre di medie, io voglio sottolineare che l’Italia adesso è il luogo della variabilità, delle differenze. Faccio degli esempi: problema demografico, crollo vertiginoso delle nascite che mette a repentaglio anche la nostra vita economica futura, eppure ci sono tante famiglie che fanno figli, non le più ricche, famiglie che rischiano ancora sul futuro; perché alcuni fanno figli e altri no? Prima domanda. Secondo esempio: l’immigrazione. Problema di turbamento per tanti, certi giornali fanno titoli apocalittici, molti anche poveri sono preoccupati eppure, lo vediamo anche in questo Meeting nella mostra “Nuovi italiani nuovi europei”, ci sono luoghi dove questo non è più un problema, è un fatto. Ci si integra, si lavora assieme, molti immigrati sono italiani, si arrabbiano se gli diciamo “siete la seconda generazione”, sono italiani, solo che sono gialli, neri, rossi, multicolori, ma sono italiani e lavorano in realtà educative, si aiutano a studiare. Perché in certi posti è cominciata una capacità di vita insieme che supera queste xenofobie? Qual è la differenza? E ancora, terzo esempio, l’imprenditoria: difficile ripresa di uno sviluppo che pur comincia a esserci, ma anche questo ha grandi differenze, ci sono imprese che non riescono a venir fuori dalla crisi, che sono bloccate; ma ci sono imprese che occupano ed esportano, che sono al livello del massimo cambiamento della tecnologia. Perché alcuni ce la fanno e altri no, perché alcuni sono capaci di cambiare e altri invece dicono “abbiamo fatto sempre così”? Perché ci sono mobilieri della Brianza, certi mobilieri che quando è arrivata l’Ikea, avendo sempre venduto intorno a Milano, adesso vendono a Teheran, vendono a Mosca, New York, a Melbourne, a Pechino? Cosa li fa cambiare, qual è la forza che li fa cambiare? Anche qui avremmo tanti esempi in questo Meeting, e poi il lavoro, il lavoro che è argomento di una mostra fatta da giovani laureati e non, giovani che raccontano il lavoro che cambia; anche qua un problema grave, il problema di non riuscire a lavorare, ma ci sono giovani italiani che vanno all’estero e sono i migliori, sia in università che fuori, o qui fanno tante start up, le ha visitate anche il Presidente Gentiloni prima, che hanno voglia di lavorare, di costruire; cos’ è che fa questa differenza? E infine, il problema educativo: noi abbiamo una scuola ancora burocratica, ancora centralista, produce centocinquantamila abbandoni, ma quanti bravi insegnanti abbiamo tra di noi, quanti studenti che lavorano! Quando i nostri studenti vanno all’estero a studiare, anche in America, non sono secondi a nessuno! Bagnano il naso agli americani oppure anche agli inglesi, ma perché c’è quest’eccellenza nella scuola? La domanda è da dove nasce la variabilità, perché aveva pur ragione Trilussa a dire che la statistica è quella secondo cui se io mangio un pollo e tu nessuno ne abbiamo mangiato metà per uno, ma Trilussa non conosceva la varianza; la varianza è importante, bisogna interrogarsi su dove nasce la varianza; e allora il titolo del Meeting secondo me ha questa questione, il titolo che dice “Quello che tu erediti dai tuoi padri riguadagnatelo, per possederlo”, spiega la varianza; perché noi veniamo da un Paese che aveva le toppe sul sedere, aveva tutto rotto, l’abbiamo ricordato l’anno scorso ricordando i settant’anni della Repubblica, in cui tanta gente, ventisei milioni di emigrati, è venuta qua e ha fatto la varianza, ha costruito, ha ridato lo sviluppo a un Paese che era morto. Perché non si può fare oggi? Ecco, ci son due errori: il primo errore è quello degli esterofili, che in questi anni ci hanno detto “ma l’Italia non funziona, è vecchia, bisogna diventare come l’Inghilterra, la Germania, gli Stati uniti”: ci hanno quasi rovinato, perché hanno sputato su una ricchezza ed una diversità; hanno sputato sul fatto che ci sarà pure Starbucks nel mondo, ma quando vai in un caffè italiano, da cui Starbucks ha preso, puoi prendere il caffè lungo, il caffè corto, corretto, corretto macchiato…c’è la diversità, c’è la genialità, c’è un’intelligenza, un amore alla bellezza che ci rende ancora su certe cose interessanti nel mondo, persino nella tecnologia perché tutti vogliono la Ferrari, che poi è tornata anche a vincere in Formula Uno. Diventando inglesi e tedeschi saremmo pessimi tedeschi, inglesi e americani, quindi dobbiamo guardare la nostra tradizione, ma dobbiamo guardarla in modo diverso da quelli che vanno sull’autostrada e voltano il collo, per vedere l’incidente dall’altra parte; abbiamo troppa gente che si guarda indietro e fa il rubbernecking della storia, guarda indietro e dice “com’era bella l’Italia cinquant’anni fa, trent’anni fa”. Basta rubbernecking, se no si blocca la fila! Bisogna avere gente che guarda avanti, che prende l’eredità per cambiare, per riguadagnarsela, questo è il tema. Ma per questo ci vuole quello che ci ha insegnato don Giussani: la tradizione va criticata, oggi, e ricostruita nel presente, come i giovani che han fatto la mostra sul lavoro; non si può ritornare a fare l’arrotino, non si può tornare a fare lo spazzacamino, dicendo “com’era verde la nostra valle”, bisogna costruire nel nuovo; per questo, bisogna prendere lo slogan che c’era in quella mostra: “il lavoro cambia, ma non i desideri che sono nel cuore dell’uomo, l’uomo è sempre protagonista”. Bisogna ripartire dal desiderio, dalla domanda, il cambiamento d’epoca è segnato dal cambiamento degli uomini che ricominciano a fare non le cose di prima, ma le stesse domande che avevano allora; e allora costruiranno missili invece di carretti, ma costruiranno con la domanda di rifare un nuovo, senza guardarsi indietro, prendendo la ricchezza della forza italiana e questa diversità per ricostruire. Allora, Presidente, noi vorremmo che fosse guardata la diversità, che anche dal punto di vista politico fosse premiato chi fa, chi occupa, chi esporta, chi investe, chi studia; bisogna che anche la politica finisca con le medie, che danno a tutti un po’, a pioggia, bisogna premiare questa diversità in atto, perché questa diversità farà il bene anche di quelli che fanno fatica a cambiare. Questo Meeting è per cercare di descrivere questo riguadagnare con questa diversità, con questa voglia di fare, con questa voglia di costruire, senza più guardarsi indietro. Grazie.

EMILIA GUARNIERI:
Presidente Gentiloni, ora ascoltiamo il suo intervento, grazie.

PAOLO GENTILONI:
Cara Presidente Guarnieri, caro Giorgio Vittadini, credo che il trentottesimo Meeting non possa in effetti che aprirsi anche da parte mia con un omaggio alla Catalogna e a Barcellona, questa città straziata che anche stamattina, con la Messa per la pace che si è svolta nella Sagrada Familia, ha dato un messaggio di forza umana a tutta l’Europa; è per questo noi dal Meeting diciamo alla splendida e amica Barcellona che noi siamo al suo fianco, e che abbracciamo dal Meeting le famiglie di Bruno Gulotta, di Luca Russo, di Carmela Lopardo, i tre cittadini italiani che hanno perso la vita in quell’attentato. L’Isis è stato sconfitto, ha perso la sua partita fondamentale che era l’idea di cercare di trasformare in uno stato, in un controllo di un territorio la propria presenza terroristica, ma la sua minaccia continua e dobbiamo dirci che questa minaccia riguarda tutti; io non credo alla propaganda di questo o quel sito jihadista, ma sono consapevole che nessun Paese, e quindi certo neanche l’Italia, può sentirsi al riparo da questa minaccia; e quindi è decisivo che venga da tutti noi il sostegno a quelle forze dell’Intelligence, forze dell’ordine, militari impegnati nell’operazione “strade sicure” che si impegnano per garantire la nostra sicurezza. Dobbiamo far sentire il Paese unito attorno a queste forze che tutelano la nostra sicurezza. Vorrei dire è altrettanto importante di quanto sia importante il ripetere, e noi lo ripetiamo, lo ripetiamo anche da qui, che i terroristi non ci costringeranno a rinunciare alla nostra libertà. Quindi noi difenderemo la nostra libertà ma lo faremo ringraziando chi di noi ogni giorno lavora per rendere possibile a tutti noi di continuare a vivere come siamo abituati a vivere, liberi. Quello che erediti è il tema del Meeting di quest’anno. Ma di quale eredità stiamo parlando? Io comincerei da questo. Ci sono molti giovani qui. Giovani che abitano il mondo ed è dal mondo che dobbiamo partire. Oggi nel mondo il passato come bene rifugio è all’origine di molte semplificazioni: semplificazioni sbagliate in molti casi, sia nelle loro versioni imperiali di piccoli o grandi imperi sia quelle nostalgiche di improbabili e intatti piccoli mondi antichi. In entrambe queste versioni il rifugio nel passato non funziona. Sovranismi, nazionalismi, protezionismi economici ma anche individualismi esagerati, culto dei privilegi, irresponsabilità verso gli altri e verso l’ecosistema, verso gli equilibri climatici, verso il nostro Paese. Insomma è l’affermazione prepotente di un primato nazionale o individuale che spesso viene spacciata come omaggio al passato. Io lo dico forte e chiaro cari amici, se questa è l’eredità, se questo è il richiamo del passato, questa è un’eredità alla quale noi rinunciamo volentieri. Chiediamoci piuttosto da dove viene questo vento di chiusura, perché se ci limitiamo ad ignorarlo contrapponendo al vento della chiusura un’esaltazione dell’apertura, sappiamo che corriamo dei rischi. George Orwell osservava che per vedere quello che abbiamo davanti al naso serve uno sforzo costante. Il fatto è molto semplicemente che i livelli di benessere e di sicurezza, di conoscenza senza precedenti convivono con inedita diffusione di paura del futuro. Perché grandi fattori di progresso contengono minacce che non possiamo ignorare. La globalizzazione ha portato un miliardo e duecento milioni di essere umani a uscire dalla povertà, soprattutto in Asia e nell’America Latina. La globalizzazione ha aumentato l’aspettativa di vita, ha sconfitto alcune malattie e ha persino in generale nelle medie, lo dico al prof. Vittadini, ridotto il livello di violenza. C’è un livello di violenza inferiore a quello che c’è stato nel nostro pianeta nel corso di migliaia di anni di storia. E certamente la rivoluzione digitale ha offerto a miliardi di esseri umani capacità di conoscere e di comunicare senza precedenti. Eppure, pur essendo vero tutto questo, l’illusione di una pace universale e dell’onnipotenza dell’individuo cosmopolita, quello che immaginava di poter dominare il mondo, è durata un attimo. Quel breve periodo che è la nuova Belle Époque degli anni Novanta, tra la caduta del muro di Berlino e il crollo delle torri gemelle ha generato la grande illusione di quei dieci anni. Ma oggi è chiaro che la globalizzazione e la rivoluzione digitale lasciano sul terreno i loro perdenti. E’ chiaro, è davanti al nostro naso ma dobbiamo fare uno sforzo costante per renderci conto di quello che è davanti al nostro naso. Per dirla con Sigmund Baumann, il confronto tra l’enorme ventaglio di possibilità dischiuso e ciascuno di noi e la realtà crea uno stato di infelicità. La rivincita della storia sull’illusione non è stata indolore. Tra i suoi effetti, c’è stata sicuramente la diffusione della solitudine. Guardate in alcune delle più grandi città europee il numero delle famiglie composte da una sola persona e vi rendete conto che siamo in molti casi ben oltre un terzo dei nuclei familiari. La solitudine, l’esclusione che ha colpito le fasce, gli strati più deboli della nostra classe media e che colpisce in alcune parti del Paese in modo particolare i giovani. La paura che talvolta, anzi spesso, si alimenta di un sentimento di minaccia per la propria identità, la paura per l’identità minacciata. Quindi l’eredità di cui parliamo va collocata in questo passaggio storico, che poi significa sul piano nazionale capire di che parliamo quando parliamo di identità italiana, per metterla a frutto, innanzitutto capirla. Noi frequentiamo molto, troppo a mio avviso, i punti deboli di questa nostra identità italiana, non perché non ci siano, ci sono i punti deboli di questa nostra identità. Certo che c’è un rapporto difficile tra i cittadini e uno Stato relativamente recente, certo che ci sono le differenze tra Nord e Sud, certo che c’è la mancanza di un racconto nazionale delle élites, della classe politica, dei responsabili dei media; si soffre la mancanza di un racconto nazionale, ma dobbiamo abituarci a far valere gli straordinari punti di forza della nostra identità e non soltanto frequentare i più o meno veri fattori di debolezza. Dobbiamo abituarci a frequentare i punti di forza della nostra identità. È un patrimonio, il nostro, che può aiutare l’Europa intera a non farsi contagiare, anzi ad essere alternativa al vento delle chiusure. Io sono orgoglioso del fatto che in occasione dei sessant’anni dei Trattati di Roma, proprio in Italia si sia, in un certo senso, manifestato l’inizio di un certo risveglio di orgoglio europeo, della sensazione che l’Unione Europea possa essere, oltre a tutti i guai che l’attraversano, anche una risposta in positivo, una risposta in avanti alle difficoltà, alle crisi d’identità, al ritorno dei nazionalismi di cui parlavo prima. Insomma, se è vero che oggi servono radici, dinamismo, cultura, capacità di lavoro e di impresa, coesione sociale, apertura, chi meglio di noi italiani può essere capace di stare al mondo, in questo mondo, nel mondo che noi oggi viviamo? Perché noi siamo aperti al mondo da secoli: lo sono le nostre città, lo sono le nostre imprese, quelle che in gergo si chiamano multinazionali tascabili, vi accennava prima Vittadini, che hanno molto spesso delle radici fortissime nei loro territori, portano in giro per il mondo la cultura che i genitori, i nonni, il genius loci dei loro territori ha costruito in decenni di attività. Le multinazionali sono multinazionali, ma hanno radici nel territorio. Questa è l’Italia che oggi ha la forza di stare nel mondo in modo competitivo. E allora come investire questa eredità? Come far fruttare questo vero e proprio capitale italiano? La crescita è finalmente tornata, frutto del lavoro di questi anni, dell’impegno per le riforme, portato avanti, in particolare, dal governo guidato da Matteo Renzi e che noi stiamo proseguendo. Non era scontato tenere assieme la crescita e l’avanzo primario che i nostri conti continuano ad avere da anni e anni. Non era scontato riuscire ad impedire che alcune crisi bancarie mettessero a repentaglio il risparmio di milioni di famiglie di italiani. Non era scontato ma non basta! La sfida dei prossimi anni sarà la qualità della crescita, in termini di lavoro e di contrasto all’esclusione sociale. Io sono certo che noi faremo nuovi passi nella direzione giusta, nella prossima legge di bilancio che, del resto, sarà un passaggio chiave per concludere in modo ordinato la legislatura, che è il compito che io oggi mi pongo e sul quale impegnerò con tutte le mie forze il governo. Grazie al lavoro di questi anni, grazie alla manovra correttiva di primavera, grazie alle condizioni ottenute a Bruxelles negli ultimi mesi, la legge di bilancio consentirà alcune limitate misure per accompagnare la crescita nella direzione giusta. Non ho usato a caso l’espressione “alcune limitate misure”. Non sarà una legge di spesa facile, Sarà una legge con interventi molti selettivi. E l’impegno che io prendo al Meeting davanti a voi, davanti a tanti giovani presenti, è che nell’ambito di questi limiti intendiamo concentrare questi impegni, innanzitutto sul lavoro per i giovani. Lo faremo attraverso incentivi permanenti, stabili, all’assunzione dei giovani, consolidando il risultato del jobs act, lo faremo attraverso un impegno straordinario sulle politiche per il lavoro, che sono, come sapete, il vero tallone di Achille nel nostro sistema. Noi veniamo da una storia nobile di difesa del lavoro, intesa prevalentemente come difesa dei posti di lavoro esistenti e siamo per altro tuttora impegnati: ci sono oltre cento tavoli al Ministero dello Sviluppo Economico, insieme a imprese, sindacati impegnati nella difesa dei posti di lavoro in crisi di imprese esistenti. Ma per far fruttare i talenti di ciascuno, di fronte all’enorme velocità dell’innovazione, non basta la difesa dei posti di lavoro esistenti, serve la capacità di facilitare l’ accesso, e qui alcune norme di incentivo possono essere fondamentali, soprattutto se sono stabili. Serve poi la capacità di accompagnare la ricerca del lavoro, quando si rende necessaria, di aiutare il cittadino, la persona, l’impegno per l’alternanza scuola- lavoro e l’impegno per l’industria 4.0 non possono essere due strade parallele, devono incrociarsi in un grande progetto di politiche attive del lavoro, capace gradualmente, e non sarà facile, di tenere il passo e il ritmo dell’innovazione, sapendo che le norme, anche se fossero sufficienti, non basteranno, che il copione dei percorsi di vita e di lavoro individuale è sempre meno già scritto e che mettere a frutto i talenti dipenderà comunque dall’impegno di ciascuno. Mi ha colpito vedere nella mostra, che prima abbiamo visitato, quanto chiara sia questa consapevolezza, almeno in coloro che questa mostra hanno organizzato, che chiedono norme, chiedono l’impegno della Repubblica, dello Stato, ma sono consapevoli che senza il rischio e l’impegno individuale ricostruire questo percorso di lavoro non sarà facile, perché i copioni già scritti sono sempre meno frequenti e sempre meno possibili per i nostri giovani. Al tempo stesso cercheremo più forza nel contrasto alla povertà e alle diseguaglianze. Io mi vergogno di un pianeta in cui un grande banchiere può guadagnare in un anno 185 milioni di dollari. Non è accettabile una cosa di questo genere ed è un problema per il mondo, per l’opinione pubblica, per il senso comune che dobbiamo costruire insieme. Siamo orgogliosi di aver dato vita al reddito d’inclusione. Pe la prima volta uno strumento nazionale per far fronte, almeno per alcune delle famiglie in condizioni di povertà, a questa situazione. Siamo orgogliosi del metodo che ha visto il governo lavorare per quest’obiettivo con un’alleanza di corpi intermedi e di volontariato, ossia di tanta parte del tessuto connettivo del nostro modello sociale. E infine allarghiamo il nostro sguardo, cari amici del Meeting. Si è parlato molto in questi mesi dello sguardo di Magellano, cioè di guardare il mondo dalla meta raggiunta dall’esploratore, non dall’origine. Dobbiamo adottare lo sguardo di Magellano sapendo che Magellano sempre portoghese rimase e sempre italiani rimasero i tanti italiani che con Magellano viaggiarono e quindi che il loro sguardo da fuori, il loro sguardo globale non perdeva la propria identità. La sfida, se adottiamo questo sguardo, è, innanzitutto per noi, quella di investire in Africa e nel Mediterraneo, promuovendo quello sviluppo che la Populorum progressio definiva il nuovo nome della pace e rendendo gestibili i flussi migratori attraverso la sconfitta del traffico di migranti clandestini. Il fenomeno è di lunga durata. Già Seneca ricordava l’incessante peregrinare dell’uomo e la geografia e la demografia, da cui siamo circondati, ci dicono che il fenomeno resterà lì, che dovremo farci i conti a lungo, che chi semina odio e facili illusioni non farà un buon raccolto, in questo contesto, trattandosi di un fenomeno permanente e di lunga durata. Ma dire che si tratta di un fenomeno di lunga durata non significa rinunciare a gestirlo, non significa non porsi l’obiettivo delle regole e dei limiti che dobbiamo insieme decidere e portare avanti. Io rivendico al governo italiano, che certo non accetta da nessuno lezioni in campo umanitario, l’alta opera compiuta, perché ha fatto bene Jean Claude Ducher quando ha detto che l’Italia ha difeso l’onore dell’Europa sulla questione immigratoria. Questo stesso governo è anche quello che promuove le regole attraverso, ad esempio, il codice di condotta con le organizzazioni non governative, che contribuisce alla stabilizzazione della Libia e che, attraverso queste iniziative, comincia a vedere dei risultati in una gestione meno disordinata e in una riduzione, anche numerica, dei flussi di migrazione controllate dai trafficanti. Non siamo arrivati all’obiettivo – non facciamoci illusioni – ma la strada si dimostra una strada giusta, sulla quale continueremo. Il governo, alla luce di questi risultati, non deve avere paura di riconoscere diritti e di chiedere rispetto di doveri a chi giunge in Italia, e ancor più a chi in Italia è nato e studia nelle nostre scuole. Se abbiamo a cuore il futuro della sicurezza e della convivenza sociale, la risposta è nel governo dei flussi migratori e nel contrasto alla radicalizzazione islamista. La risposta non è nell’esclusione, la risposta non è nella negazione della realtà, perché l’esclusione e la negazione della realtà alimentano ogni forma di reazione negativa e di minaccia. Non sono una garanzia di sicurezza, sono una garanzia di insicurezza per il nostro Paese. Riguadagnare l’eredità come Paese, vuol dire dunque non avere paura dei nostri talenti, non avere paura di questo capitale italiano, avere a cura il nostro interesse nazionale, senza alcuna concessione a muri e protezionismi Semplicemente sentirsi italiani. Non esiste un’identità cosmopolita, ma le radici, che tu devi rivendicare, devono guardare al futuro. E noi italiani possiamo guardare al futuro con il bagaglio della nostra storia e con la forza della nostra esperienza, meglio di tanti altri, se solo avessimo il coraggio e la forza finalmente di esserne consapevoli! E mi rivolgo soprattutto ai giovani tra voi, perché toccherà molto a voi la consapevolezza di questa straordinaria potenzialità che è sentirsi italiani e poter investire il capitale italiano, puntando sulle reti d’impresa, sui corpi intermedi, sulla famiglia, sulle comunità. Il modello italiano che vince è fatto anche di questa coesione sociale. Tornando a Baumann, “la felicità comincia a casa”, scriveva, in contatto con le altre persone, nelle discussioni, nei tentativi di negoziazione, nei litigi, nel provare a capire le ragioni dell’altro. E quindi non sovranismo ma patriottismo, soft power italiano. Un grande figlio della Catalogna il sociologo Manuel Castells, diceva: “Le élites sono cosmopolite, ma la gente è locale”. E noi dobbiamo avere la consapevolezza che le cose stanno così come le raccontava alcuni anni fa Manuel Castells. Su questa eredità di radici, di memoria, di cultura e territorio aperti al mondo, possiamo investire il capitale italiano. Su questa identità l’impegno di tutti e di ciascuno di noi può far vincere l’Italia.

EMILIA GUARNIERI:
Vorremmo proprio, quasi corrispondendo a questo appassionato interesse per i giovani, proseguire con alcune domande, poste dai giovani su alcune dei temi che sono stati già affrontati dal Presidente Gentiloni. Marco Saporiti.

MARCO SAPORITI:
Buongiorno Presidente, quest’anno insieme a Giuditta e Maddalena ed altri coetanei ho curato la mostra “Ognuno al suo lavoro”.
Sono un designer e 4 anni fa – prima ancora di laurearmi – ho aperto una partita IVA e ho iniziato a lavorare nell’ambito della comunicazione. Oggi, la prospettiva è quella di iniziare una piccola impresa di comunicazione.
Nella costruzione di tale progetto, riscontro ostacoli di natura burocratica e fiscale che non facilitano la libera iniziativa privata.
Come il sistema economico italiano guarda a queste micro realtà che hanno tutto il desiderio di nascere e crescere?

PAOLO GENTILONI:
Se lui è quello che ha fatto la mostra, che ha coordinato il lavoro della mostra, è abbastanza… come si dice, nasce imparato, quindi conosce il meccanismo della comunicazione abbastanza bene, almeno da quello che ho visto visitando la mostra. Io ho avuto l’occasione, dieci-undici anni fa, di fare il Ministro delle Comunicazioni, tra l’altro sono stato l’ultimo Ministro, perché hanno chiuso il Ministero dopo la mia performance, e vi confesso che all’epoca, ma forse soprattutto negli anni precedenti a questa esperienza, avevo una qualche perplessità sul proliferare di imprese, attività nel campo della comunicazione. Anche le università, le facoltà di scienze delle comunicazioni erano tra le facoltà le più… devo dire che negli ultimi dieci anni queste perplessità non hanno più ragione di essere, perché indubbiamente se c’è un settore nel quale la capacità di impresa, la capacità di rischiare, la capacità di metter insieme imprese innovative, è effettivamente possibile, è tutto il mondo che ruota attorno alla comunicazione in generale e all’uso del Web in particolare. Quindi la mia risposta è: crederci – lo dico perché so che tu ci credi, perché ne abbiamo parlato mentre abbiamo visitato la mostra – che è la cosa fondamentale, perché non c’è nessuna normativa tra virgolette favorevole che possa sopperire alla volontà di chi si cimenta in questa attività di rischiare e di intraprendere. Noi abbiamo cercato, soprattutto negli ultimi due anni, di fare dei passi che rendessero, diciamo così, più facile la vita lavorativa alle partite iva, a chi porta avanti questo tipo di esperienza. Abbiamo anche, oltre ad approvare il nuovo regime forfettario, abbiamo anche approvato in Parlamento quello che abbiamo definito, forse in modo un po’ altisonante, “il jobs act del lavoro autonomo”. Dobbiamo fare ancora molto, mi pare di aver intravisto in sala un giornalista del Corriere della Sera che scrive molto di queste cose ed è molto insistente sui limiti che ancora abbiamo nel facilitare l’attività delle piccole e piccolissime imprese. Quindi la mia valutazione è che alcune cose si sono fatte (regime forfettario, facilitazione degli obblighi dei pagamenti, facilitazioni per le start-up e anche per le pmi innovative), molto resta da fare. Il segreto è nella capacità di iniziativa e di impresa dei giovani che in prima persona rischiano di intraprendere questa strada. Questa almeno è la mia risposta.

EMILIA GUARNIERI:
Proseguiamo ancora sul tema del lavoro con Maddalena Saccaggi, che è un’altra delle curatrici della mostra sul lavoro.

MADDALENA SACCAGGI:
Buongiorno Presidente, nell’esperienza lavorativa di questi anni post laurea, in cui sto svolgendo la pratica forense continuando a collaborare con l’Università, è essenziale incontrare maestri e imparare, riguadagnare il loro sapere, per possederlo un giorno, spero non lontano.
Tuttavia, due problemi sorgono all’orizzonte, da un lato il costante “ricatto” presente nel nostro mercato del lavoro per cui se non ce la fai, c’è sempre un altro dietro di te che ti può sostituire, anche a un salario minore e lavorando più ore; dall’altro il futuro della ricerca nell’Università italiana spesso immobilizzato e poco incentivato, che spinge molti di noi a fuggire all’estero.
Davanti a tali limiti, quali aiuti ci può dare il sistema Paese per realizzarci e offrire in tal modo un servizio e una professionalità alla società civile?

PAOLO GENTILONI:
Sì, grazie. Dicevo nel mio intervento che una delle misure principali, sulle quali puntiamo nella prossima legge di bilancio, è proprio una misura tesa a incentivare, consolidando i risultati del jobs act, le assunzioni per i giovani, mi auguro almeno in parte, rendendole convenienti al punto da ridurre quella competizione al ribasso di cui prima parlava. C’è sempre qualcuno che magari si offre di lavorare di più a un compenso inferiore. Per quanto riguarda l’Università, la ricerca, noi adesso stiamo avviando un nuovo esperimento, che è l’esperimento di individuare i centottanta dipartimenti di eccellenza delle Università italiane, di dare a questi dipartimenti delle facilitazioni economiche, dei finanziamenti, a condizione che assumano ricercatori. Vediamo se funziona, mi auguro, penso che possa essere un buon incentivo. Contemporaneamente stiamo lavorando sulla diffusione dell’Università – che sembra un obiettivo scontato, ma, se paragoniamo l’Italia ad altri Paesi europei, scontato non è affatto – attraverso anche misure di agevolazione che secondo i nostri calcoli potrebbero raggiungere circa seicentomila studenti tra no tax area da un lato e tasse calmierate dall’altro, al fine di incentivare chi magari, anche per ragioni economiche, non va all’università, ad andarci; siamo indietro nei confronti internazionali su questo. Ampliare la base della popolazione universitaria, rafforzare la ricerca, soprattutto nei dipartimenti di eccellenza, in generale rendere il nostro sistema universitario più attraente e più competitivo a livello globale. Io non ho paura di un sistema universitario globalizzato, in cui studenti e ricercatori di diverse nazionalità frequentano Paesi diversi da quello in cui sono nati; ho paura che l’Italia non sia sufficientemente competitiva. Noi siamo al quarto posto in Europa quanto a popolazione universitaria, ma detto questo, mentre non mi stupisce che siamo molto indietro rispetto al Regno Unito o alla Francia, mi stupisce che siamo meno della metà della Germania, con un numero di studenti stranieri nelle nostre università. Se pensiamo alla qualità delle nostre università e delle nostre città e del vivere nel nostro Paese, penso che possiamo fare molto meglio. Quindi non abbiamo paura di un sistema europeo, dobbiamo essere come Italia molto più competitivi dentro questo sistema europeo.

EMILIA GUARNIERI:
Concludiamo con l’ultima domanda, che credo ci porti su altri orizzonti, di Andrea Avveduto.

ANDREA AVVEDUTO:
Signor Presidente, la drammatica situazione del Mediterraneo e del vicino Oriente, oltre all’emergenza dei migranti, chiede a tutti gli attori europei una grande responsabilità. Al di là dei facili slogan populistici, cosa può e cosa deve fare l’Italia per dare a queste crisi risposte credibili e concrete? Come si sposa il concetto di sostenere le popolazioni là dove sono, quando i paesi in cui vivono – penso ad esempio alla Siria – è vittima di un embargo e sanzioni provocate proprio della Comunità internazionale? E quando l’Italia recupererà una posizione di rilevanza – ormai persa da tempo – all’interno del Mediterraneo?

PAOLO GENTILONI:
Io non sono del tutto entusiasta dell’ultima frase della tua domanda. Nel senso che, come Italia, nel Mediterraneo noi abbiamo una centralità che forse non abbiamo cercato, ma che ci dà la geografia e l’attualità nelle politiche migratorie dell’Unione Europea; abbiamo una centralità in una delle grandi crisi del Mediterraneo, la crisi libica; abbiamo tra i Paesi europei uno dei ruoli fondamentali nella lotta contro Daesh, il terrorismo che si è fatto, si faceva stato; ricordo a tutti che dopo gli Stati Uniti siamo il Paese che ha il numero maggiore di forze militari impegnate nel contrasto a Daesh, abbiamo un ruolo fondamentale in Libano. Se la vogliamo metter in termini economici, considerando il Mediterraneo allargato, l’Italia è uno dei quattro grandi partner economici di questa grande area del Mediterraneo allargato e gli altri tre si chiamano Stati Uniti, Germania, Cina. Quindi io non mi butterei tanto giù. Contemporaneamente mi butto giù eccome, perché il problema del Mediterraneo è che la chiave per la stabilizzazione del Mediterraneo, per la soluzione delle crisi, non è stata ancora trovata. Dov’è questa chiave? Ogni tanto sento da qualcuno la nostalgia dei tempi nei quali si pensava che ci potesse essere qualcuno che dal di fuori potesse costruire l’ordine. L’esperienza ci ha dimostrato che non è così, che non funziona. Che cosa serve nel Mediterraneo? Io penso che serva uno schema multilaterale, in cui anche nei momenti più difficili si possa perseguire la pace. E questo è un momento molto difficile, perché abbiamo una crisi irrisolta in Libia, una crisi irrisolta nello Yemen, una crisi che forse vede qualche barlume di speranza in Siria, una tensione rinnovata e pericolosa nel Golfo. Ecco, quindi anche in questi momenti così difficili serve una capacità multilaterale di tessere la trama di relazioni possibili di pace. Noi abbiamo avuto un’esperienza in Europa, durante la guerra fredda, quella che poi ha dato vita ai trattati di Helsinki, ed era l’esperienza in cui si cominciava a discutere di cose semplici: la convivenza, i confini, il rispetto di alcuni principi basilari. Ci sono alcuni Paesi che stanno lavorando in questa direzione, non so, il Kuwait per esempio, l’Italia è uno di questi, che cerca di tessere una trama, anche in un momento di grande disordine. Abbiamo bisogno di mettere alla prova un nuovo multilateralismo nel Mediterraneo, perché non c’è più una grande potenza che detti le regole a tutti, non ci sarà un ritorno a egemonie imperiali di potenze regionali, anche se qualcuno magari spera che si possa realizzare. Ci deve essere una lenta, faticosa, graduale, costruzione di un ordine multilaterale. L’Italia, io credo, non è indietro, sta facendo la sua parte, può farla naturalmente molto di più. Grazie. E grazie a tutti.

EMILIA GUARNIERI:
Grazie Presidente da parte di tutti noi per essere venuto qui e per avere voluto ascoltare e guardare anche a quello che stiamo facendo.

Data

20 Agosto 2017

Ora

15:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri