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L’EDUCAZIONE MODERNA: SPECIALISTI DEL NULLA?
L'educazione moderna: specialisti del nulla?
Partecipano: Sergio Belardinelli, Docente di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi alla Alma Mater Studiorum Università degli Studi di Bologna; Giorgio Israel, Docente di Matematica all’Università La Sapienza di Roma. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.
L’EDUCAZIONE MODERNA: SPECIALISTI DEL NULLA?
Ore: 11.15 Salone B7
ALBERTO SAVORANA:
Buongiorno, benvenuti a tutti a questo incontro su “L’educazione moderna: specialisti del nulla?”.
Il titolo è volutamente provocatorio, ma non intende essere accusatorio nei confronti di alcuno, vuole piuttosto porre l’accento su quel fattore, su quell’elemento decisivo in ogni dinamica, in ogni processo educativo, che è il soggetto, che è l’io, l’io di chi educa e l’io di chi è educato, che oggi è il vero nervo scoperto di quella che ormai – se ne parlò per la prima volta alcuni anni fa qui al Meeting – quella che ormai tutti chiamano emergenza educativa. Ed è una emergenza innanzitutto perché è in gioco il futuro di una società, di un popolo. È una società che non è in grado di educare, di formare dei soggetti, degli io capaci di stare nella realtà senza essere travolti dalla prima circostanza sfavorevole, dalla prima difficoltà, dal primo accenno di fatica della vita, è una società che firma la sua condanna all’estinzione. E allora noi abbiamo voluto oggi invitare due figure, due personalità del mondo culturale, accademico italiano, che in questi anni abbiamo apprezzato per avere accettato a un livello di riflessione culturale il tema dell’emergenza educativa. E’ alla mia sinistra il professor Sergio Belardinelli, che è docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università di Bologna e alla mia destra il professor Giorgio Israel, docente di matematica all’Università la Sapienza di Roma. Li abbiamo invitati perché, per esperienza, sappiamo che non sono specialisti del nulla, anzi la loro stessa attività e il loro lavoro sono una battaglia, una battaglia culturale per smentire, attraverso gli strumenti della loro professione, attraverso la loro attività, questo che sembra un destino inesorabile. Va detto anche che a questo tema, che oggi vogliamo affrontare, tanti in questi anni hanno cercato di rispondere, identificando la soluzione come un mero problema di riforme, di nuove tecniche, di nuove strategie, ma forse l’esperienza di tanti insegnanti lo documenta. Il problema non è innanzitutto quello di un rinnovamento delle strutture, ma di un rinnovamento del soggetto che abita, che trascorre la sua vita nelle strutture. Lo documenta in qualche modo la mostra del Meeting, “L’imprevedibile istante”, dove, nella sezione dedicata appunto alla scuola, ci sono testimonianze di insegnanti che, senza aspettare le riforme, senza aspettare che cambiassero le condizioni esteriori, hanno cominciato a cambiare loro e cambiando loro, hanno cominciato a cambiare qualcosa della scuola e lo hanno fatto perché loro portavano qualcosa, avevano qualcosa su cui poggiavano, che volevano comunicare e per questo hanno accettato la sfida di un mondo giovanile da tutti dipinto come indifferente, incapace di interessarsi ad alcunché e hanno ridestato curiosità e desiderio. Nella mostra, c’è una breve intervista a Paola Mastrocola, che è insegnante e scrittrice, che dice: “Se vedessi che ho davanti dei ragazzi che non stanno bene nella vita, io gli spiegherei Montale, Dante, gli fare conoscere Michelangelo, userei la grandezza del nostro patrimonio culturale per dare un’alternativa, un’altra idea, una forza, l’idea di una grandezza, metterei accanto a loro i grandi per vedere se si contagiano”. Questo può accadere, sta accadendo in tante situazioni, questa scommessa sul cuore dei giovani che di fronte a qualcosa di bello, vero, grande, giusto, si riaccendono, ritrovano una passione che sembrerebbe impossibile ridestare. C’è una frase che ha scritto Pasolini che racconta della sua esperienza e dice: “Per far studiare i ragazzi volentieri, entusiasmarli, occorre ben altro che adottare un metodo più moderno e intelligente. Si tratta di sfumature, di sfumature rischiose ed emozionanti. Bisogna tener conto, in concreto, delle contraddizioni, dell’irrazionale, del puro vivente che è in noi. Può educare solo chi sa cosa significa amare. Chi tiene presente la divinità”. Don Giussani, su questa percezione della grandezza dell’educazione e della portata di un rapporto educativo, ha costruito tutta la sua proposta, quando diceva che l’educazione è una comunicazione di sé, cioè del proprio modo di rapportarsi con la realtà. E l’alternativa a questo, ne abbiamo tante testimonianze intorno, è quella che riduce l’educazione a una tecnica, a un addestramento, a un allenamento, a possedere delle competenze, non che tutto questo non sia importante, ma non si può scaricare su questo l’avventura di fare crescere degli io, dei protagonisti nel presente, nel futuro. E da questo punto di vista una piccola parentesi. La triste esperienza dei test per il TFA forse ci deve insegnare qualcosa, di una possibile riduzione dell’insegnante, e di quella porzione di insegnanti che saranno gli insegnanti del futuro, a persone da valutare in base a qualche indicatore tecnico. C’è ben più in gioco, c’è ben più di fronte alla sfida educativa che abbiamo oggi, c’è di più di centralismo, burocrazia, uniformità, c’è bisogno di più libertà. Il professor Giuseppe Bertagli, in un suo libro, e poi cedo la parola ai nostri ospiti, ho già abusato troppo del tempo, in un suo libro racconta di un intervento di Luigi Einaudi durante la Costituente che raccontava il colloquio del Ministro dell’Istruzione Pubblica all’epoca di Napoleone III, il quale vantava, con uno straniero che aveva visitato la Francia, la forza del sistema scolastico educativo francese: “Sono le 11:00, in tutti i licei francesi pubblici e privati si commenta quel determinato passo di Tacito”. Una uniformità come unica soluzione di un problema educativo. E Tocqueville nel 1800 gli faceva eco: “Anche l’educazione, come la carità, è divenuta in quasi tutti i popoli di oggi un affare nazionale. Lo stato riceve, spesso prende il bambino dalle braccia della madre per affidarlo ai suoi incaricati e si assume il compito di ispirare in ogni generazione i dovuti sentimenti e di darle delle idee”. L’uniformità regna negli studi come in tutto il resto. La diversità e la libertà vi scompaiono ogni giorno di più. Noi vorremmo che questo non fosse l’amara profezia di qualcosa che sta accadendo anche in Italia e per questo abbiamo chiesto al professor Belardinelli, al professor Israel di aiutarci a leggere i dati della situazione, per sostenere la speranza di tanti che non vogliono rassegnarsi a questo. La parola al professor Belardinelli.
SERGIO BELARDINELLI:
Grazie in modo particolare per l’introduzione, la quale a mio modo di vedere ha detto già l’essenziale sul tema di questa mattina. Insieme a questo grazie, ovviamente devo dire la soddisfazione di essere qua. Considero un piacere e un onore essere invitato al Meeting a parlare di educazione, perché so bene cosa significa parlare di educazione al Meeting. Significa parlare di uno dei temi cruciali di un’esperienza che, sappiamo tutti, è molto più vasta di ciò che pure in modo grande emerge nel Meeting. Ora, il tema è già stato detto, è un tema formulato in modo provocatorio, però devo dire che a me piace molto questa formulazione: “L’educazione moderna: specialisti del nulla?”. Mi piace molto perché mette a fuoco quello che sicuramente è uno dei rischi più drammatici dell’educazione moderna. Ora, il discorso che farò sarà un discorso molto teorico, ognuno fa le cose che un po’ sa fare, cercherò proprio di far vedere in che senso, appunto, corriamo il rischio di diventare specialisti del nulla. L’educazione moderna, io penso in particolare a Rousseau, entra in scena in un contesto socioculturale che è contrassegnato con quella che potremmo dire la crisi della concezione classica dell’uomo. Una crisi antropologica. E una crisi che a mio modo di vedere è ben rappresentata da uno dei libri più importanti che siano stati pubblicati nel secolo appena trascorso, penso ad After Virtue, dopo la virtù, di un filosofo americano che al Meeting è sicuramente noto e che è Alasdair MacIntyre. Un libro che ha più di trent’anni, ma che a mio avviso proprio sul tema dell’educazione potrebbe essere molto utile per evidenziare, enucleare alcuni temi cruciali. La trama di questo libro, il suo nucleo fondamentale sono ben noti e vengono espressi fin dalle prime battute come se si trattasse di un racconto di fantascienza. Chi ha letto il libro sa che si racconta di uomini che, a seguito di una non meglio precisata catastrofe – così dice MacIntyre: “catastrofe” – hanno perduto il senso della cultura nella quale vivono. Della società scomparsa, come macerie, sono rimaste, e cito due righe di MacIntyre: “i frammenti di uno schema concettuale, parti ormai prive di quei contesti da cui derivava il loro significato. Sono rimasti simulacri di morale”. Sono rimasti altresì, aggiungo io, parole come felicità, educazione, formazione, ma ciò che è scomparso è la concezione dell’uomo dalla quale questi termini traevano il loro significato. È scomparso il contesto socio-relazionale all’interno del quale la vita umana appare ancora come la vita di un io, che non è soltanto un fascio di ruoli o una qualche abilità professionale o un luogo dove si accentrano delle competenze, ma appunto una vita unitaria, una vita intera, una biografia valutabile come un tutto. Venuta meno l’antica teleologia naturale, venuto meno il telos, a partire dal quale l’uomo comprendeva se stesso e dal quale traeva in ultimo la propria misura, non restano, e questo noi lo sappiamo quasi tragicamente, non restano che le infinite possibilità di un soggetto che non ha più limiti. Di qui a mio modo di vedere le sperimentazioni più spericolate, vuoi verso il ritorno, assolutamente impossibile, alla spontaneità dello stato di natura, ossia all’homme naturel, come lo chiamava Rousseau, vuoi verso l’uomo totalmente sociale, quello che Rousseau chiamava il cittadino. Spontaneismo e socializzazione diventano gli errori tipici di un certo modo di concepire l’educazione, dal quale lo stesso Rousseau, a dire il vero, ma noi non dobbiamo fare della filologia roussoiana, dal quale lo stesso Rousseau aveva preso le distanze, ma che purtroppo ha continuato a persistere anche nella pedagogia contemporanea. Alla base di questi errori sta una perniciosa mancanza di senso della realtà e una altrettanto perniciosa propensione all’astrazione. L’epoca tardo moderna o post-moderna nella quale viviamo ha frantumato sia l’unità del contesto socio culturale nel quale ognuno di noi agisce, sia l’unità del nostro io. Come ha mostrato un sociologo del quale mi sono occupato per tanto tempo, molto famoso, morto alla fine del secolo appena trascorso, nel 1998, che si chiama Niklas Luhmann, il quale andrebbe letto non per condividere quello che dice, ma per la capacità che ha di dire come la nostra società rischia di essere, ecco, questo sociologo ci dice che la nostra società è una società differenziata. Dire che è una società differenziata significa dire che i sistemi sociali tendono ad operare in modo sempre più autoreferenziale, sono sempre più chiusi uno rispetto all’altro e quel processo dietro al quale indubbiamente sta un aumento di efficienza, un aumento di vantaggi materiali, se si vuole persino di libertà, dietro questo processo sembra vacillare proprio la centralità dell’uomo e della nostra libertà. Il funzionamento dei diversi sistemi sociali sembra guidato sempre più da codici che non hanno nulla a che fare con ciò che è umano e Luhmann lo dice espressamente, perché è un uomo che non ha timore di essere cinico – del resto è meglio essere cinici, che patetici – e lo dice espressamente: l’uomo non è più il metro di misura di questa società. Anche l’uomo non è altro, se non nella testa di Luhmann, che un sistema che è relegato ormai nell’ambiente dei sistemi sociali. I sistemi sociali in generale, la scienza, la politica, ognuno ci metta quello che crede, funzionano sempre di più come se gli uomini non esistessero. Io di solito prendo questo autore come esempio che segnala in modo emblematico quella che definisco l’ascesa e la rovina del soggetto moderno. Ascesa e rovina della città di Mahagonny è un opera di Brecht, ma ho scritto una cosa proprio richiamando questo titolo: Ascesa e rovina del soggetto moderno. Perché ascesa e rovina del soggetto moderno? Perché se noi pensiamo a una certa filosofia moderna, al modo in cui è stato concepito il soggetto in una certa filosofia moderna, almeno nelle sue varianti più note, ecco, questo soggetto moderno vuole essere soprattutto individuo. Dire che vuole essere individuo vuol dire che vuole soprattutto emanciparsi da qualsiasi legame sociale, da qualsiasi legame tradizionale, dalla famiglia alla Chiesa, alla politica. Tutti i legami tendono ad indebolirsi. Bene, se questa è l’aspirazione principale del soggetto moderno, emanciparsi dai legami sociali, quello che, a mio modo di vedere – lo dico in modo un po’ stravagante – Luhmann ci dice, è che quel soggetto ha realizzato oggi il suo sogno e si è davvero emancipato, è diventato davvero individuo, è diventato davvero, ha una libertà che almeno in apparenza gli consente di fare le scelte più strane, più stravaganti. La pedagogia si adegua insistendo sulla necessità di valorizzare la spontaneità dei fanciulli. Bene, il prezzo però che si paga, qual è? E’ che la società funziona sempre di più come se questi individui non esistessero. E, a mio modo di vedere, questo è un paradosso sul quale davvero vale la pena riflettere, specialmente quando ci occupiamo di educazione, perché il prezzo di questa libertà – che evidentemente ha in se stessa qualcosa che non funziona, non è certamente la libertà di cui parla don Giussani – è una crescente solitudine, un crescente spaesamento, una crescente irrilevanza sociale; come dicevo prima, la società funziona come se gli uomini non esistessero. MacIntyre, che ho citato, ci direbbe: abbiamo perduto il contesto della nostra vita, abbiamo perduto il legame costitutivo di ciascuno di noi con la storia o le storie che contraddistinguono ciò che siamo. “Educare l’uomo – così recita uno degli aforismi più fulminanti di quel genio che è Nicolas Gomez Devila – educare l’uomo è impedirgli la libera espressione della sua personalità”. Ecco una bella provocazione per gran parte della pedagogia contemporanea. Non si tratta infatti di ribadire, magari contro Rousseau, il senso di una educazione autoritaria. Ormai credo che un salutare antiautoritarismo sia stato digerito pressoché da tutti. Si tratta piuttosto di non dimenticare la realtà, di non dimenticare che non rimarremo per sempre bambini e che la nostra riuscita nella vita, la nostra felicità dipenderanno soprattutto dalla “coscienza” che avremo acquisito della realtà e di noi stessi, nonché dalla nostra capacità di vivere in armonia con entrambi, senza velleitarismi, abdicazioni o risentimenti. Abbiamo dunque bisogno di educazione, non per liberarci da ogni condizionamento sociale, non abbiamo bisogno di educazione nemmeno per diventare buoni cittadini, non abbiamo bisogno di educazione nemmeno perché vogliamo diventare dei buoni cattolici, abbiamo bisogno di educazione soprattutto perché vogliamo trovare la nostra strada, perché, direbbe Hannah Arendt, vogliamo sentirci a casa nel mondo che abitiamo e diventare in questo modo ciò che siamo, uomini, persone libere, la cui irripetibile unicità si esprime sempre in un tessuto di relazioni costitutive, esattamente quello che la nostra epoca sembra voler dimenticare.
Viviamo, lo si sente dire spesso, in una società ipotetica, orgogliosa della propria debolezza normativa e intellettuale. La libertà di ciascuno di orientare a piacimento la propria vita è diventata una sorta di dogma da far valere in ogni sorta di ambito della vita individuale e sociale, quindi anche nelle istituzioni educative, le quali, proprio per questo, penso alla famiglia e alla scuola, hanno finito per navigare a vista, senza una rotta precisa, né un obiettivo ideale da raggiungere. Grazie alla scienza, alla tecnica, potremmo anche dire al dubbio metodico, ci siamo messi sempre più al riparo rispetto alla realtà. Quest’ultima, la realtà ci resiste sempre di meno. E’ sempre di più un semplice pretesto sul quale esercitare le nostre scorribande per diventarne padroni, e sembra essere la cosa che ci interessa di più, ma l’effetto forse imprevisto e comunque indesiderato di questo processo è quello di una sempre più paralizzante paura nei confronti della vita, della realtà, la quale, come sappiamo, è incerta per definizione e tale resta e resterà sempre, nonostante il nostro potere, nonostante i nostri calcoli. L’unica realtà che riusciamo più a sopportare è quella che dipende da noi, quella “fatta” da noi; la luce che illumina le nostre azioni non è più data da un “ideale di vita”, ma da un progetto “tecnico”; al mondo reale si sostituisce insomma una sorta di mondo di plastica, un universo simbolico fatto di infinite possibilità, tutte ugualmente possibili, dove una sorta di nichilismo tragico e divertito sembra danzare ormai il suo tripudium. Quando dico nichilismo divertito penso a tanti autori, che vanno per la maggiore, e che con troppa disinvoltura parlano del nulla, come se il nulla non fosse qualcosa di lacerante. I giovani hanno un’altra idea di quel nulla, ne sentono i morsi sulla pelle, e forse sono meno divertiti di quanto siano certi intellettuali. La maggiore libertà di cui tutti godiamo, i grandi strumenti di dominio di cui disponiamo, i vecchi e nuovi mezzi di comunicazione avrebbero esigito maggiore consapevolezza e responsabilità da parte di tutti i soggetti coinvolti nei diversi processi educativi. Invece abbiamo abdicato proprio su questo punto, generando una situazione paradossale e drammatica. Mai come oggi l’educazione è stata tanto necessaria, visto che essendo tutti più liberi e più bombardati da tante informazioni, siamo tutti anche più esposti, specialmente i ragazzi, i giovani, al rischio di non venire a capo della nostra vita e al tempo stesso mai come oggi l’educazione, e qui lo sappiamo meglio che altrove, risulta essere un bene, è risultato essere un bene tanto scarso. In questi anni abbiamo parlato molto di amicizia tra genitori e figli e tra maestri e allievi, molto di tecniche educative, ma troppo poco di educazione, ossia di responsabilità, serietà, doveri; abbiamo parlato troppo poco di bellezza, di passione, di questioni sostanziali collegate ai valori, alle convinzioni, alle tradizioni culturali dei popoli, senza accorgerci che, in questo modo, stavamo semplicemente, piano, piano, fuggendo da noi stessi. E oggi lo scontiamo in termini di spaesamento, sradicamento, disagio sempre più profondo, sia da parte degli adulti che dei giovani. I primi sempre più impauriti di fronte alle loro responsabilità, sempre più accondiscendenti e incapaci di testimoniare alcunché, i secondi sempre più esigenti, capricciosi e incapaci persino di mostrare esplicitamente la loro rabbia. Anziché puntare alla formazione della persona, abbiamo puntato retoricamente sulle competenze, quasi che la formazione, la famosa Bildung, come la chiamano i tedeschi, fosse un concetto antitetico alla competenza o viceversa quasi che fosse possibile trasmettere competenze prescindendo dall’informazione. Ora qui non dobbiamo fare la storia. C’è stato sicuramente un tempo in cui la Bildung è stata usata come una cattiva ideologia, come una specie di privilegio per pochissimi. Poi per un lungo periodo, diciamo tra la fine degli anni ’60 e oggi, la Bildung è stata accantonata a vantaggio di altri ideali educativi. Oggi credo che ci stiamo rendendo conto che si è trattato di un errore molto grave, destinato peraltro a impoverire anche il molto di buono che è stato prodotto nel tentativo di rendere la scuola più adeguata ai nuovi tempi.
Come era facile prevedere, l’accantonamento della Bildung, della formazione dell’uomo, ha finito per generare disinteresse per ciò che umano. Mi spiego in questo modo. La crisi delle nostre scuole, incapaci ormai non solo di formare, ma anche di istruire, o di offrire competenze, salvo eccezioni. Quelle eccezioni, cui faceva riferimento il nostro presentatore, quelle eccezioni dove c’è ancora gente che è capace di istituire relazioni educative degne del nome, capace di impegnare la propria libertà per mobilitare la libertà degli altri, e per fortuna ce ne sono tante, anche nel nostro Paese, di queste persone. Dicevo, anziché puntare alla formazione della persona, ci siamo affidati alle metodologie, ai saperi da trasmettere, alla neutralità delle nozioni e dei valori insegnati. La Bildung, la formazione è molto di più che un sapere o una semplice competenza, meno che mai essa può essere ridotta a informazione. Ci siamo erroneamente illusi che l’educazione potesse essere, come si accennava prima, una materia da esperti; in questo modo abbiamo dimenticato le poche, semplici, evidenze elementari, su cui da sempre si fondano le vere relazioni educative: convinzioni profonde, amore, esempio e soprattutto, sottolineo questo aspetto, soprattutto nessuna pretesa, da parte degli educatori, di essere padroni della situazione. Un progetto educativo non è, non può essere un progetto tecnico, è un progetto di generazione di una persona e per questo esposto sempre al rischio della libertà che ciascuno di noi è. Hannah Arendt direbbe: lo siamo in virtù del semplice fatto di essere nati, di essere venuti al mondo. La novità che siamo, per il fatto di essere nati, è la metafora di quella novità che saremo poi capaci di mettere in moto con le nostre azioni libere, quella imprevedibilità legata alla libertà che siamo. Di questo dovremmo occuparci quando ci occupiamo di educazione. “La vita è ciò che accade mentre stai facendo altro”, questo lo cantava John Lennon, A beautiful boy, quando la maggior parte dei presenti, credo, ancora non fosse neanche nata. Ecco. Io non so se John Lennon avesse ragione, – oltretutto è una frase di Schopenhauer, però allora, quando la ascoltavo, non conoscevo Schopenhauer, e quindi per me resta una frase di John Lennon – e ripeto non son sicuro che John Lennon avesse ragione nel dire che la vita è ciò che accade mentre stiamo facendo altro, di sicuro sono però d’accordo che l’educazione è ciò che accade mentre stiamo facendo altro. Sempre, se ci pensiamo bene, le persone che hanno influito di più sulla nostra vita, lo hanno fatto grazie a ciò che con l’esempio, con la parola, con uno sguardo, ci hanno insegnato implicitamente, non esplicitamente. Per questo, per me, è estremamente sbagliato, anche difficile, trasformare l’educazione in un protocollo da seguire, a meno che, e qui davvero riprendo il titolo, a meno che non si voglia diventare specialisti del nulla. A differenza degli altri animali, gli uomini hanno bisogno di molto tempo per trovarsi, per imparare a dire io, per condurre una vita all’insegna dell’autonomia, della libertà e della responsabilità. Hanno bisogno di relazioni significative con altre persone che li amino e che amandoli sappiano schiudere loro la bellezza, come si diceva prima, del mondo e della vita. Ciò che siamo dipende in primo luogo dalle persone che ci hanno amato e dall’educazione che abbiamo ricevuto. Proprio per questo non possiamo, è estremamente importante, non dimenticare il significato di una vera relazione educativa. Abbiamo a che fare con una pratica che è vitale per l’uomo e come ogni pratica – il concetto di pratica è un concetto sul quale chi ha voglia può veramente studiare, pensando a MacIntyre, approfittando di MacIntyre – come ogni pratica, dicevo, anche l’educazione vive non solo di tecniche o di competenze, ma vive dell’esercizio di determinate virtù: la passione per ciò che si insegna, la veridicità con la quale si insegna, la giustizia con la quale si giudica e si potrebbe continuare. Sullo sfondo di questa pratica sta una domanda fondamentale: in che cosa consiste il bene di un uomo? Educare è in ultimo un farsi carico, di fronte ai nuovi venuti, di questa domanda e assumersi una grande responsabilità, di fronte alla quale non possiamo fuggire dicendo che saranno poi i nostri figli da grandi a scegliere in che cosa consisterà il loro bene. Questo infatti, e aggiungo per fortuna, avverrà comunque. Ma come avverrà? Il modo in cui avverrà dipenderà, molto di più di quanto non si creda, dall’educazione che saremo stati capaci di suscitare. A tal proposito qualcuno dirà, e mi avvio alla conclusione, che in una società pluralista esistono diverse concezioni del bene e quindi non ha alcun senso che alcune di queste possa diventare criterio da seguire nelle pratiche educative, senza che a rimetterci siano il pluralismo, l’autonomia, la libertà, magari la laicità dello stato o la felicità delle persone, degli individui. In fondo, in questi ultimi anni, ci siamo illusi che pluralismo e autonomia potessero significare una sorta di legittimazione a priori di qualsiasi stile di vita. La fatica dell’educazione, lo sappiamo, ha lasciato il posto a una capricciosa, diciamo così, spontaneità del desiderio. Ma oggi incominciamo a renderci conto che tale criterio non funziona più o almeno non è più sufficiente per garantire, sia sotto il profilo individuale che sociale, una vita soddisfacente. Proprio se abbiamo a cuore una società migliore, un maggior grado di benessere, una migliore qualità della vita individuale e sociale, non possiamo più rinviare una discussione di fondo sulle idee di vita buona o di felicità e quindi di educazione che intendiamo perseguire. Non discutere queste idee perché in una società pluralista esse stanno diventando sempre più controverse, significa fare come gli struzzi, per non vedere quello che certamente è uno dei motivi non secondari dell’odierna crisi dell’educazione e dell’odierno malessere sociale. In ogni caso, e davvero qui concluderei, su questo genere di ripieghi e sulla convinzione che alla fine si tratta semplicemente di accrescere la nostra capacità di consumo, le nostra capacità di scelta, o il nostro, la nostra capacità di benessere materiale, senza guardare a ciò che si sceglie, ecco, su questo genere di ripieghi che accantonano, diciamo, il criterio normativo che guida le nostre scelte, vedo incombere come un macigno una pagina molto bella di Horkheimer: “Anche se le rivoluzioni e il progresso tecnico consentono nuovi ordinamenti con una maggiore giustizia materiale, tuttavia la cultura non ha diffuso in maniera corrispondente, fra coloro che furono oppressi, quella capacità di felicità che un tempo fu propria dei signori”. E’ una citazione molto bella. Varrebbe la pena ripartire da qui per far vedere come questa capacità di felicità delle persone, non solo dei signori, di tutti, è esattamente ciò che dipende dall’educazione.
Grazie.
ALBERTO SAVORANA:
Io sottolineo solo un passaggio di questa ricchissima comunicazione del
professor Belardinelli, che è un passaggio che mi pare particolarmente rilevante e decisivo, perché è quello in cui il professore ha sorpreso il punto sorgivo, l’inizio di quella situazione per cui oggi si parla di “nichilismo tragico e divertito”, quando ha detto che “il soggetto moderno vuole essere individuo, vuole emanciparsi da qualsiasi legame”. Noi oggi possiamo dire che la storia, la storia di questi secoli ha dimostrato, coi fatti, la falsità di questa pretesa. Questo individuo che si è preteso libero, svincolato da qualunque legame, non esiste, perché l’uomo per sua natura è ‘rapporto con’. Ecco allora che torna il titolo del Meeting di quest’anno. Questo individuo che pretendeva di possedere tutto si trova precipitato, come diceva il professore, nella paralizzante paura rispetto alla vita.
Ora ascoltiamo il professor Israel.
GIORGIO ISRAEL:
Per qualche minuto vi sembrerò fuori tema, ma vorrei citare una lettura estiva che ho fatto. Ho letto un antico libro, un libro di un mistico ebreo della Spagna del secolo undicesimo, Bayha ibn Paqûda, intitolato Introduzione ai doveri dei cuori. E’ un libro che essenzialmente è rivolto al richiamo di una visione spirituale della religione, contro delle deviazioni di carattere materialistico che danno troppa importanza ai doveri materiali rispetto a quelli spirituali. Infatti Paqûda dice: l’uomo è anima e corpo e questo significa doveri dell’anima, doveri del corpo, doveri pratici che anche la religione chiede. Lui osserva che i doveri dell’anima sono molto più numerosi e importanti di quelli del corpo, perché quelli del corpo, dice, sono intermittenti, mentre i doveri dell’anima ci accompagnano in modo assolutamente continuo, come amare Dio, avere fiducia in Lui, amare il prossimo come se stessi, amare lo straniero come il prossimo.
Perché lo cito? Non voglio parlare di questo libro, perché questo libro fu tradotto durante la seconda guerra mondiale e poi pubblicato subito dopo da un celebre studioso ebreo André Chouraqui e da un altrettanto celebre intellettuale cattolico francese, Jacques Maritain. In questa edizione si racconta come fu fatta questa traduzione: Chouraqui nella Francia occupata dai nazisti partecipava alla Resistenza e faceva delle azioni, tornava la sera e ogni sera traduceva qualche pagina di questo libro. Sembra una dissonanza quasi.
Nella introduzione del libro lui dice: “Dovevamo far fronte al più inimmaginabile scatenamento di odio che avesse insanguinato il mondo e il nostro dovere era di opporgli le nostre sole forze e la nostra volontà di amore. Nel corso di viaggi incessanti, tra montagne e foreste […] la meditazione dell’opera che traducevo iniziava alle discipline interiori provate dalla testimonianza dei martiri e dei santi. Bayha insegnava la lunga pazienza alle sorgenti dell’essere, dove l’unità trionfa di tutte le violenze, l’unità dell’amore più potente dei frutti amari di tante morti. Al ritorno di ogni missione ritrovavo la pagina da completare, maturata nell’azione quotidiana”. Ecco perché ho citato questo, non è fuori tema e spiego subito perché. Mi sono chiesto, di fronte a un esempio come questo, come è possibile affrontare una crisi drammatica senza un alimento di spiritualità, senza un alimento di senso dell’esistenza? E’ questa la lezione che ci viene data, cioè non l’uomo materiale soltanto, quello che Husserl chiamava il “mero uomo di fatto”, può vincere una crisi, ma la persona, sintesi di materialità e di spiritualità, sintesi di doveri pratici-etici e di doveri morali. La persona soltanto può affrontare una crisi.
Certo, noi non viviamo una crisi paragonabile a quella e pur tuttavia viviamo in un periodo che per certi versi, dal punto di vista del prosciugamento di morale che lo pervade, non è meno grave e, tanto per stabilire alcuni raccordi, non è per captatio benevolentiae che io citerò una frase di don Giussani, ma perché mi si è prodotta nella mente una interazione proprio quando l’amico Savorana mi chiese un articolo per Atlantide, mi mandò alcune citazioni di don Giussani e mi colpì molto questa: “Quando la morsa di una società avversa si stringe attorno a noi fino a minacciare la vivacità di una nostra espressione, e quando una egemonia culturale e sociale tende a penetrare il cuore aizzando le già naturali incertezze, è venuto il tempo della persona”, cioè la persona come risposta a questa crisi. Don Giussani parla dell’autocoscienza, di una “percezione chiara e amorosa di sé, carica della consapevolezza del proprio destino”, quindi il tempo della persona come risposta a una crisi.
Ma tutto ciò non ha a che fare proprio con l’educazione, perché non è forse l’educazione l’atto più importante con cui una società si autoperpetua? E come può affrontarsi il tema dell’educazione se non come un problema di rapporti di persone? E come può affrontarsi una crisi educativa se non chiamando in gioco il tempo della persona, la definizione del suo destino, dei fini spirituali che individuano e guidano questo destino?
E ha senso affrontare invece questa tema e questa crisi, anziché in termini di persone, di rapporti di persone, e di fini di persone, parlando di capitale umano, concependo l’istruzione come un incremento misurabile, un “valore aggiunto” del capitale umano, magari misurabile come un’utilità marginale?
Veramente pensiamo che con questa visione dell’educazione e dell’istruzione noi possiamo sormontare una crisi, riducendola a un problema di carattere economicistico? Ma d’altra parte, vedete, tutto si tiene, perché a questo economicismo, a questo formalismo, corrisponde una tendenza sempre più forte, che non è, badate, nell’animo degli educati, cioè dei giovani, che chiedono altro, ma troppo spesso nell’animo di cattivi educatori; una tendenza che francamente amareggia anche chi, come noi, da molto tempo insegna e vede questa degenerazione, cioè un crescente disinteresse per i contenuti, un crescente disinteresse per la cultura, per la conoscenza e un interesse esclusivo per i metodi, per le tecniche. E allora ancora qui pongo una domanda: ma per cosa esiste il processo dell’istruzione se non per trasmettere e aiutare ad acquisire con le proprie gambe entrambe le cose? E la trasmissione di che cosa? Di concetti, di contenuti, di conoscenze, di cultura, di quella conoscenza che è strumento di libertà. Noi diamo la conoscenza per la libertà. Io ti do questa conoscenza, ti do gli strumenti per rafforzare la tua conoscenza e poi deciderai di farne quello che vuoi – come disse Pico della Mirandola – abbassarti anche, se vuoi, a un livello bestiale, oppure quello di esprimere al massimo la tua libertà. La conoscenza come strumento di libertà, ma senza questa che cosa resta? Il vuoto guscio del metodo della conoscenza. Il processo dell’istruzione e più in generale dell’educazione è semplicemente annientato se viene ridotto a tecniche di apprendimento. Vedete, laggiù abbiamo scritto il tema del Meeting di quest’anno, “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”. Bene, io, come è stato detto nella presentazione, io sono un matematico, anche se più uno storico della matematica. Un grande matematico del Novecento disse: la matematica è la scienza dell’infinito. Il problema dell’insegnamento della matematica è un problema educativo di istruzione centrale, non si fa altro che parlarne e dire che la matematica è sempre più centrale ma che malauguratamente la si sa sempre meno, che è sempre più detestata, che è la materia più odiosa, repellente, antipatica e come uscire da tutto questo, visto che questo strumento, così fondamentale, è allo stesso tempo così repellente?
E’ proprio un tema su cui, anche insieme a mia moglie Ana Millàn, ho scritto un libro, frutto di anni di riflessione. Abbiamo tentato di dare una risposta al problema dell’insegnamento della matematica. A nostro avviso in modo semplice, restituendo la matematica alla cultura, cioè facendo capire come la matematica è una delle tante grandi imprese intellettuali dell’uomo, che si collega con la filosofia, persino con la teologia e che solo così può essere capita.
Del resto – torniamo così al tema dell’infinito -, la matematica, più che la disciplina che serve a fare i conti della spesa, a calcolare quanto costa l’assicurazione dell’auto, a fare la dichiarazione dei redditi o cose del genere, la matematica, innanzitutto, è la disciplina che ha sfidato il tema dell’infinito, che è il tema centrale in fondo, che più ci intriga, se ci pensiamo, da quando è nata la riflessione filosofica e teologica: come mai l’essere umano, essere finito, riesce a pensare l’infinito, e può veramente pensarlo fino in fondo?
Uno studio profondo e non meramente pratico della matematica conduce proprio a questa domanda, in definitiva irrisolta, se non in questo senso: che la matematica è riuscita nell’impresa di manipolare l’infinito mostrando al contempo l’impossibilità di dominarlo. Per cui, essa contribuisce a farci capire come la caratteristica paradossale dell’uomo sia di intuire e pensare l’infinito pur restando irriducibilmente separato da esso, da una sua completa acquisizione. Non pensate che questa sia la via giusta per rendere accattivante una materia repellente; poi le tecniche verranno, se l’interesse e la passione c’è. Se invece si crede che la matematica debba essere acquisita riducendola a pratica, a calcoli della vita quotidiana, allora abbiamo quella matematica che denigrava Benedetto Croce, quella squallida controfigura della matematica che viene chiamata “la matematica del cittadino”, tanto in voga nella pedagogia di oggi. Se si fa questo, andrà sempre peggio, sarà una cosa sempre più repellente e sempre meno ne sapremo e sempre meno sapremo anche calcolare. Perché ho fatto questo esempio? Perché questo è l’esempio di un modo di trasformare un insegnamento di contenuti, di concetti, di conoscenze basato sull’interesse e la passione, in una tecnica, in una cosa vuota.
E ne pontificano oggi persone che magari non capiscono nulla e non sanno nulla di questa forma di conoscenza, però sono dotti in un’altra scienza. Quanto oggi si usa il termine scienza per cose che con la scienza non hanno nulla a che fare, cioè la tecnica dell’apprendimento! Ecco, esattamente gli scienziati del nulla. In realtà è una pseudo-scienza che è praticata da un esercito di esperti del nulla, che però è rivestita di metodo. In nome di un approccio tecnico si distrugge l’unico autentico motore del processo educativo, che è la passione e l’interesse.
Ed ecco perché oggi assistiamo all’accantonamento progressivo, alla denigrazione anche, talvolta persino al linciaggio, diciamolo, di tutte quelle persone che, dotate di cultura e di conoscenza, ne rivendicano l’importanza a favore degli esperti, i quali, curiosamente, non devono mai rendere conto delle loro competenze per questo paradosso, perché essendo esperti e basandosi soltanto sulla metodologia, sulle tecniche, non devono rispondere a nessuno. Per cui, oggi, c’è quella che viene chiamata ormai comunemente la dittatura degli esperti, la dittatura della tecnocrazia, i dittatori dei test, coloro che sostituiscono la valutazione di merito con la statistica, con le statistiche. Abbiamo visto, del resto, nei fatti – lo accennava anche Savorana prima – che cosa dà tutto questo.
Sempre per entrare appena di sfuggita nell’attualità, si è citato questa incredibile vicenda dei test del tirocinio formativo attivo, in cui è avvenuta la realizzazione del noto proverbio, declinato in molti dialetti, secondo cui la toppa è peggiore del buco, per cui l’hanno aggiustati facendo ancora peggio. Pensate al concorso per i dirigenti scolastici, con quelle centinaia di domande di cui Ministero stesso ha riconosciuto che molta parte, fino al 30 per cento, fosse da buttare via. E che dire dei test di ammissione all’università? In molti casi, voi credo lo sappiate, i test di ammissione all’università non li fanno più neanche i professori, vengono commissionati a ditte private e non si sa chi li prepara, e in base a quali competenze. Ma non importa, sono degli esperti qualificati, non si sa come e da chi.
Vedete, giorni fa ho letto un’intervista di un Presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida, che ha fatto un ricorso contro una di queste valutazioni numerologiche, cui accennerò un momento subito dopo, e osservava questo: le valutazioni in generale devono farle le comunità scientifiche o professionali di riferimento, non delegate ad esperti che per lo più sono spesso di nomina politica e anche di nomina politica non trasparente. Ecco, questo sembra oggi completamente abolito. Le valutazioni non le fanno le comunità scientifiche di riferimento, non le fanno più i professori universitari, non le fanno più i professori nelle scuole, le fanno altri, le fanno, appunto, gli esperti, che per lo più sono oggi economisti della scuola, questa curiosa nuova specializzazione, oppure gli statistici, nobile professione, ma che dubito da sola riesca a dominare l’intero scibile, oppure anche altre curiose invenzioni come, ad esempio, che potrebbero far parte di una parodia, come gli esperti di gestione di sistemi complessi, cose di questo genere, sono questi che valutano coloro che conoscono. Tutto questo in nome di un mito dell’oggettività. Vedete, la scienza si rovescia, la scienza non c’è più, ma c’è una tecnica che, in nome dell’oggettività, valuta la conoscenza.
Leggevo proprio l’altro ieri un articolo di uno di questi economisti della scuola, che diceva: “Non vuole la valutazione chi non capisce che queste cose si possono misurare come si misura la temperatura e chi non la vuole, vuol dire che butterebbe via il termometro, lo romperebbe”. E’ tragico che lo dica poi un professore universitario, chiunque abbia un minimo di cultura scientifica sa che persino la temperatura non era considerata una grandezza misurabile, fino a che la fisica non ha scoperto la temperatura assoluta, figuriamoci la cultura, figuriamoci le conoscenze.
Qual è l’unità di misura delle conoscenze? L’unità di misura della lunghezza è il metro; se ci mettiamo d’accordo quanti siamo qui a misurare questo tavolo otterremmo, a meno di errori, lo stesso risultato, perché abbiamo un metro che è definito secondo gli standard dell’ufficio internazionale degli ordini delle misure. Qual è il metro delle conoscenze? I test, come mi rispose una volta uno di questi esperti. Bene i test li fanno delle persone: per uno è buono, per l’altro è cattivo. Io ho reputato ad esempio molti test INVALSI pessimi, altri li hanno difesi. E’ opinabile, ma non è certo oggettivo come un metro.
Però questa turlupinatura della nozione di oggettività va avanti. Cito ancora un esempio: proprio a Ferragosto, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca – l’ANVUR – ci ha dato le cosiddette mediane – non insisto, chi conosce un minimo di statistica forse sa cos’è – che sono quei numeri, calcolati sulle citazioni dei lavori scientifici, in base alle quali si decide se un professore può entrare in una Commissione di concorso, oppure un candidato può presentarsi, se sta sotto non può. Bene, il risultato è ad esempio che la comunità scientifica cui appartengo, gli storici della matematica, essendo a cavallo tra i matematici e gli umanisti e quindi pubblicando per lo più libri che non vengono mai valutati, perché non sono nel database delle società private internazionali che fanno questo genere di misura, ebbene la nostra comunità è stata cancellata: nessuno potrà presentarsi come Commissario e neanche come candidato e anzi io stesso, lo dico senza vergogna, per i parametri che hanno messo, nonostante tutti i miei lavori, non potrei neanche presentarmi a un concorso, perché tutto quello che ho fatto non é indicizzato. Come ha detto un collega, noi aspettiamo serenamente che il Ministero ci mandi una lettera in cui dichiari che non siamo atti a entrare in una Commissione di concorso per affiggere questa lettera incorniciata nello studio, come un titolo di onore. Questo è il livello. Oggi tutto questo viene promosso da una curiosa alleanza tra un dirigismo statalista, che si annida nel Ministero e questa corte degli esperti che gravitano attorno a questo dirigismo statalista. Burocrazia ministeriale e dittatura degli esperti stanno producendo in Italia delle forme di dirigismo statalista senza precedenti. Questa è una questione che va detta come una denuncia civile e vi spiego perché. Non è che i procedimenti di valutazione numerica non siano fatti all’estero, vengono fatti eccome. Negli Stati Uniti li hanno inventati, però chi abbia un minimo di buona fede si può informare, negli Stati Uniti c’è un dibattito ampissimo su questo, al punto per esempio che alcune comunità scientifiche – matematici, ingegneri – hanno recentemente detto che si opponevano all’uso della valutazione numerica, bibliometrica, a costo di essere messi fuori. C’è un dibattito e siccome gli Stati Uniti sono un Paese basato sulla struttura privata, sull’iniziativa privata e le università son per lo più – anche le migliori – private, una li usa, una li usa in un modo, una in un altro, una non li usa, una assume in un certo modo, insomma c’è un pluralismo estremo. In Australia la bibliometria è stata posta all’indice, è stata eliminata; in Francia, che è un Paese dirigista, non c’è. In Italia – e sarà il primo Paese al mondo in cui lo Stato usa questi criteri di carattere statistico per valutare la conoscenza, la cultura, l’università e la scuola – è qualcosa che neanche in Unione Sovietica è stato fatto.
Ecco perché dico che questa è una forma di dirigismo statalista, senza precedenti.
Nei minuti che mi rimangono io concludo con una riflessione che, anche questa, può apparire strana e invece ha un collegamento preciso con quello che ho detto finora, che intitolerei: difendiamoci dal materialismo. Sia ben chiaro, questo non vuol dire che uno non abbia diritto a essere materialista, ognuno ha diritto ad essere quel che vuole. Può apparire strana questa frase. Sembra o che io voglia mettere in discussione la legittimità di essere materialisti o di dirsi tali, oppure che io voglia qui mettermi a sollevare problemi filosofici, forse insolubili, che vanno avanti da quando esiste l’uomo. Però il problema è appunto questo: difendiamoci dalla filosofia di Stato del materialismo. Questo è il problema. Ognuno ha diritto di essere come vuole, ma, come non deve esistere una filosofia di stato spiritualista, non deve neanche esisterne una materialista. Lo scientismo di oggi, la tecnocrazia, il materialismo come filosofia di Stato, come ideologia, c’è, ce l’abbiamo addosso, c’è questa tendenza a cercare di far vergognare chiunque non accetti certe metodologie, che sono definite a priori – non si sa perché – come scientifiche, perché viene immediatamente accusato di essere contrario al metodo scientifico, contrario all’oggettività, contrario al merito e alla meritocrazia. Parentesi: da tempo mi sono convinto che forse dovremmo prendere – visto che le parole appunto sono pietre – una buona abitudine di parlare di incentivazione, di promozione e di premio del merito, ma magari non di meritocrazia, che è una parola un po’ antipatica, perché meritocrazia e il governo di coloro che hanno il merito. Non mi piace molto come idea, molto meglio dire promozione del merito. Chiusa la parentesi.
Ricordo la frase iniziale che ho citato di don Giussani, quando parlava dell’egemonia culturale che si stringe come una morsa attorno al nostro cuore, sfruttando naturali incertezze; quello di cui ho parlato fino adesso è esattamente questo tipo di egemonia culturale. Egemonia culturale che, essendo promossa a livello statale, sta diventando una filosofia di Stato. Questo è il problema.
Oggi dire: non accetto il tipo di valutazione bibliometrica, non accetto l’educazione come tecnologia dell’istruzione, non accetto questo, non accetto quello, significa sentirsi dire: sei un retrogrado, sei un nemico addirittura dell’istruzione, sei una persona da accantonare. Questo che nel dibattito lo si possa dire, io lo accetto pienamente. Che questo diventi un’ideologia di governo, un’ideologia di Stato, questa è una cosa estremamente pericolosa.
In particolare, l’ultima questione che voglio toccare, quando parlo di materialismo ne parlo anche a ragion veduta, perché oggigiorno un’altra cosa che sembra essere diventata una verità indiscutibile, è che per essere razionali, progrediti e scientifici, quando si parla di educazione, bisogna anche parlare in termini di cervello, di neuroni e di sinapsi. Ora, so che c’è stato un dibattito qui su questi temi, ne ho letto i resoconti, mi pare molto interessante. Bene, io vorrei dire che naturalmente anche questo è un problema filosofico famoso, antico, però – ognuno ha il diritto di pensarla come vuole, nessuno vuol denigrare le neuroscienze, ci mancherebbe altro – è altrettanto evidente che aveva ragione il celebre filosofo cristiano Paul Ricoeur, quando diceva: è interessantissimo sapere quel che accade nel cervello quando si pensa, ma il cervello è un oggetto di conoscenza, non è un soggetto, è un oggetto della scienza e parlare di cervello che pensa, diceva Ricoeur, è un ossimoro, tanto è vero che Aristotele, Sant’Agostino, Maimonide, Galileo, Newton, tanto per citarne qualcuno, hanno ragionato benissimo senza sapere che esistessero neuroni e sinapsi. Io non ho bisogno neanche di sapere di avere un cervello per ragionare. Io non ho bisogno di sapere che ho un cervello per ragionare; ragiono e poi tra i miei ragionamenti c’è anche lo studio scientifico del cervello, con tutta la sua nobiltà, che è quello delle neuroscienze, ma trasformare le neuroscienze nella verità del pensiero è dissolvere la filosofia, la teologia anche, perché quando si parla addirittura delle strutture neuronali in cui ci sarebbe l’idea della trascendenza significa distruggere, dissolvere teologia, religione, eccetera, nelle neuroscienze.
Bene questo non è solo un progetto fallimentare – perché lo è di fatto, basta studiarlo a fondo per rendersene conto – ma è un progetto che prosciuga il terreno di un approccio gravido di contenuto e di senso e qui penso ai tentativi di risolvere i problemi dell’insegnamento con le neuroscienze, dai quali non esce nulla, salvo che gonfiare quel drammatico fenomeno che è la medicalizzazione dell’istruzione, che sta trasformando troppe difficoltà di apprendimento in patologie talora dubbie, talora di fondamento inconsistente, come una di cui posso dirlo – lo dico per competenza diretta – come la discalculia, che un’invenzione completa. Il che non significa dire che non esistano i problemi di disabilità, ma è un’offesa all’autentica disabilità arrivare al punto di cominciare ad ampliare la fascia dei bambini che hanno problemi al 5, al 10, fino al 15 per cento, in certi casi, di malati, di persone disturbate, di persone in cui il problema dell’apprendimento viene trasformato in un problema di carattere medico-sanitario. Questa è una fuga dalle responsabilità, questa è un’altra distruzione dell’educazione. Fuga dalle responsabilità, rinuncia, è una resa, è il rifiuto di affrontare con l’amore e la competenza anche quelle difficoltà. L’insegnante che alla prima difficoltà di insegnare le tabelline dice subito che il bambino è una DSA, come si dice, uno che ha disturbi di apprendimento o la famiglia che, immediatamente alla prima difficoltà, subito chiede la diagnosi di questo, stanno compiendo qualcosa di grave, fanno una fuga di responsabilità, una resa, una pigrizia, una mancanza di volontà di affrontare, ripeto, con amore e competenza quello che può essere risolto per tale via. Quello che non può essere risolto lo si affronta con altri mezzi, con tutto l’amore e il rispetto che gli si deve.
Concludendo, se vogliamo salvare l’educazione, far sì che l’educazione contribuisca a vincere la crisi, occorre rimettere al centro la conoscenza, l’interesse, la ricerca del senso, la passione e soprattutto ribadire che il centro dell’educazione deve essere il rapporto tra maestro e allievo. Ancora qui ricorderò che don Giussani ha scritto delle belle parole sull’educazione per testimonianza, spiegando come gran parte di ciò che noi apprendiamo, lo apprendiamo per testimonianza e che sarebbe ridicolo pensare di ricostruire tutta la conoscenza da soli. Molte esperienze di fisica mi si dice che son vere, io lo accetto, perché la testimonianza che mi si dà che sono veritiere è affidabile. Quello che dice don Giussani in generale è vero anche per la fisica, per la biologia e così via. Nessuno può pensare di andare a riverificare tutto quello che è stato fatto. L’educazione senza la testimonianza sarebbe, cito proprio don Giussani, muoversi in un metro quadrato, non fare niente, sarebbe distruggere in realtà la conoscenza.
Senza la testimonianza di un maestro, di maestri sulle cui spalle salire, noi non andremo da nessuna parte, anche se, naturalmente, i maestri sono coloro che sono capaci di addestrarti a muoverti con le tue gambe, trasmettendo conoscenza. Quindi l’educazione è in primo luogo testimonianza e concludo con questa domanda: come può esistere una testimonianza che non offra contenuto e ricerca di senso?
ALBERTO SAVORANA:
Ringrazio anche il Professor Israel per questo suo contributo, perché, come vedete, se la pretesa dell’individualismo, di un io isolato, produce il nichilismo di cui abbiamo parlato, la riduzione della realtà ad apparenza, la sua misura materialisticamente intesa, produce una dissoluzione del pensiero, una perdita dell’io e, ultimamente, dal punto di vista dell’adulto, una fuga dalle responsabilità.
Ecco, noi siamo grati al professor Belardinelli e al professor Israel perché il loro lavoro è già all’inizio la documentazione che questo può non essere e non è l’esito unilaterale dell’educazione, anche oggi di fronte a una sfida epocale, così che non si avveri la profezia del filosofo Kierkegaard, che qualche secolo fa diceva: “Ogni comunicazione di verità è diventata per tutti un’astrazione, perché nessuno ha più il coraggio di dire io”, cioè di affermare questa entità che, nel suo DNA, ha iscritta la natura di rapporto, di essere relazione-con. Allora si capisce bene perché la parola, che ha usato alla fine il professor Israel, è la grande arma di una battaglia senza armi, apparentemente impotente: la testimonianza, che sembra la cosa più effimera, più insignificante, eppure è l’unico punto su cui si può attestare una ripresa.
Allora potremmo alla fine re-intitolare questo incontro non “specialisti del nulla” ma, riscattando il termine tanto vituperato dai nostri professori, “esperti dell’umano”; ma esperti nel senso dell’etimologia antica, di expertus, cioè di colui che ha fatto esperienza e per questo non ha paura di esporsi nel rapporto con l’altro, non chiede una sottomissione in nome di un qualunque principio di autorità laica o religiosa, ma accetta la sfida di un rapporto, esibendo le proprie ragioni, esibendo la consistenza di sé. Per questo può essere in grado di ridestare interesse, curiosità, passione e ricerca del vero.
In un libro che è stato ripubblicato di recente di don Giussani, Il miracolo dell’ospitalità, c’è una frase che mi ha molto colpito di don Carrón, nella Prefazione, dove dice che l’ospitalità – ma noi potremmo mettere al suo posto la parola educazione – “l’ospitalità [o l’educazione] è senza misura ed è senza calcolo, è infatti il comunicarsi di un pieno sul quale la vita poggia”.
Auguriamoci una briciola di questa esperienza, così che possiamo essere veramente esperti nella quotidiana lotta per l’educazione, per quel rischio eminentemente umano che è la comunicazione di sé all’altro, perché ci sia futuro. Grazie e buon Meeting.