Chi siamo
LE RELIGIONI SONO PARTE DELLA SOLUZIONE, NON IL PROBLEMA
Le religioni sono parte della soluzione, non il problema
Partecipano: Azzedine Gaci, Rettore della Moschea Othmane di Villeurbanne, Francia; Haïm Korsia, Gran Rabbino di Francia; S. Em. Card. Jean-Louis Tauran, Presidente Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli. In occasione dell’incontro proiezione del video-intervento di Ban Ki-moon, Segretario Generale ONU.
EMILIA GUARNIERI:
Grazie. Credo che questo applauso sia a tutti voi per essere qui, da parte di ognuno di noi, perché ancora una volta il Meeting sta iniziando. Porgo il mio saluto particolare al Cardinale Tauran, al Rabbino Korsia, al professor Azzedine Gaci, Rettore della Moschea di Villeurbanne, che interverranno nell’incontro successivo, saranno protagonisti di questo grande incontro di apertura. Saluto tutte le autorità presenti che ringrazio per la loro vicinanza a questo inizio del Meeting. Abbiamo ringraziato, e credo non sia fuori luogo iniziare ringraziando, perché il Meeting è un gesto di gratitudine: è nato così, è nato per la gratitudine all’esperienza umana che abbiamo incontrato e ogni anno riaccade per questo. E quindi esprimo sinceramente gratitudine a tutti coloro che – relatori, artisti, curatori delle mostre, partner, volontari, amici – in vario modo hanno contribuito e contribuiscono alla costruzione del Meeting. Ma in questo momento c’è una gratitudine particolare, a papa Francesco e al Presidente Mattarella, che ci permettono di aprire il Meeting con il contributo alto, profondo, delle loro parole. Adesso lo ascolterete, se già non avete avuto occasione di leggere i testi, un contributo carico di affettuosa partecipazione verso di noi e verso quello che oggi stiamo iniziando. Vi do ora lettura dunque del messaggio che attraverso il Segretario di Stato Pietro Parolin, papa Francesco ha voluto far pervenire al Vescovo di Rimini:
Messaggio del Cardinale Segretario di Stato
Dal Vaticano, 17 agosto 2015
A Sua Eccellenza Reverendissima
Mons. FRANCESCO LAMBIASI
Vescovo di Rimini
Eccellenza Reverendissima,
a nome del Santo Padre Francesco e mio personale, rivolgo un cordiale saluto a Lei, agli organizzatori e ai partecipanti al XXXVI Meeting per l’amicizia fra i popoli.
La suggestiva e poetica espressione scelta come tema di quest’anno – “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?” (Mario Luzi) − pone l’accento sul “cuore” che è in ciascuno di noi, e che sant’Agostino ha descritto come “cuore inquieto”, che mai si accontenta e ricerca qualcosa all’altezza della sua attesa. È una ricerca che si esprime in domande sul significato della vita e della morte, sull’amore, sul lavoro, sulla giustizia e sulla felicità.
Ma per essere degni di trovare una risposta occorre considerare in modo serio la propria umanità, coltivando sempre questa sana inquietudine. In tale impegno – ci dice Papa Francesco – «è possibile ricorrere semplicemente a qualche esperienza umana frequente, come la gioia di un nuovo incontro, le delusioni, la paura della solitudine, la compassione per il dolore altrui, l’insicurezza davanti al futuro, la preoccupazione per una persona cara» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 155).
Qui vediamo emergere una delle grandi questioni del mondo di oggi: davanti a tante risposte parziali, che offrono solo dei «falsi infiniti» (Benedetto XVI) e che producono una strana anestesia, come dare voce agli interrogativi che tutti si portano dentro? Di fronte al torpore della vita, come risvegliare la coscienza? Per la Chiesa si apre una strada affascinante, come fu all’inizio del cristianesimo, quando gli uomini si affannavano nella vita senza il coraggio, la forza o la serietà di esprimere le domande decisive. E, come accadde a san Paolo all’Areopago, parlare di Dio a chi ha ridotto, censurato o dimenticato i suoi “perché?”, risulta una stranezza che sembra lontana dalla vita reale con i suoi drammi e le sue prove.
Perciò nessuno di noi può iniziare un dialogo su Dio, se non riusciamo ad alimentare il lumino fumigante che arde nel cuore, senza accusare nessuno per i suoi limiti – che sono anche i nostri – e senza pretendere, ma accogliendo e ascoltando chiunque. Il compito dei cristiani – come ama ripetere Papa Francesco – è iniziare processi più che occupare spazi (cfr ibid., 222). E il primo passo è proprio ridestare il senso di quella mancanza di cui il cuore è pieno e che così frequentemente giace sotto il peso di fatiche e speranze deluse. Ma “il cuore” c’è, ed è sempre in ricerca.
Il dramma di oggi consiste nel pericolo incombente della negazione dell’identità e della dignità della persona umana. Una preoccupante colonizzazione ideologica riduce la percezione dei bisogni autentici del cuore per offrire risposte limitate che non considerano l’ampiezza della ricerca di amore, verità, bellezza, giustizia che è in ciascuno. Tutti siamo figli di questo tempo e subiamo l’influsso di una mentalità che offre nuovi valori e opportunità, ma può anche condizionare, limitare e guastare il cuore con proposte alienanti che spengono la sete di Dio.
Ma il cuore non si accontenta, perché, come disse Papa Benedetto XVI parlando ai giovani a San Marino, «è una finestra aperta sull’infinito» (19 giugno 2011). Perché dobbiamo soffrire e alla fine morire? Perché c’è il male e la contraddizione? Vale la pena vivere? Si può sperare ancora davanti a una “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” e con tanti fratelli perseguitati e uccisi a motivo della loro fede? Ha ancora senso amare, lavorare, fare sacrifici e impegnarsi? Dove va a finire la mia vita e quella delle persone che non vorremmo perdere mai? Che cosa stiamo a fare nel mondo?… Sono domande che si pongono tutti, giovani e adulti, credenti e non credenti. Prima o poi, almeno una volta nella vita, a causa di una prova o di un evento gioioso, riflettendo sul futuro dei propri figli o sull’utilità del proprio lavoro, ciascuno si trova a fare i conti con uno o più di questi interrogativi. Anche il negatore più incallito non riesce a estirparli del tutto dalla propria esistenza.
La vita non è un desiderio assurdo, la mancanza non è il segno che siamo nati “sbagliati”, ma al contrario è il campanello che ci avverte che la nostra natura è fatta per cose grandi. Come ha scritto il servo di Dio monsignor Giussani, «le esigenze umane costituiscono riferimento, affermazione implicita di una risposta ultima che sta al di là delle modalità esistenziali sperimentabili. Se venisse eliminata l’ipotesi di un “oltre”, quelle esigenze sarebbero innaturalmente soffocate» (Il senso religioso, Milano 1997, 157). Il mito di Ulisse ci parla del nostos algos, la nostalgia che può trovare soddisfazione solo in una realtà infinita.
Per questo Dio, il Mistero infinito, si è curvato sul nostro niente assetato di Lui e ha offerto la risposta che tutti attendono anche senza rendersene conto, mentre la cercano nel successo, nel denaro, nel potere, nelle droghe di qualunque tipo, nell’affermazione dei propri desideri momentanei. Solo l’iniziativa di Dio creatore poteva colmare la misura del cuore; ed Egli ci è venuto incontro per lasciarsi trovare da noi come si trova un amico. E così noi possiamo riposare anche in un mare in tempesta, perché certi della sua presenza. Ha detto Papa Francesco: «Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. […] Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio» (La Civiltà Cattolica, 19 settembre 2013, 470).
Con il tema di quest’anno, il Meeting può cooperare a un compito essenziale della Chiesa, cioè «non consentire che qualcuno si accontenti di poco, ma che possa dire pienamente: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20)» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 160), perché quello di Gesù «è l’annuncio che risponde all’anelito d’infinito che c’è in ogni cuore umano» (ibid., 165). Gesù «è venuto a mostrarci, a rendere visibile l’amore che Dio ha per noi. […] Un amore attivo, reale. […] Un amore che guarisce, perdona, rialza, cura. Un amore che si avvicina e restituisce dignità. Una dignità che possiamo perdere in molti modi e forme. Ma Gesù è ostinato in questo: ha dato la vita per questo, per restituirci l’identità perduta» (Papa Francesco, Discorso nel Centro di rieducazione a Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, 10 luglio 2015). Qui sta il contributo che la fede cristiana offre a tutti e che il Meeting può testimoniare innanzitutto con la vita delle persone che lo realizzano.
Per questo il Santo Padre augura agli organizzatori e ai volontari del Meeting di andare incontro a tutti sostenuti dal desiderio di proporre con forza, bellezza e semplicità la buona notizia dell’amore di Dio, che anche oggi si china sulla nostra mancanza per riempirla dell’acqua di vita che scaturisce da Gesù risorto. Egli chiede di pregare per il Suo ministero e invia di cuore a Lei, Eccellenza, e a tutti i partecipanti al Meeting la Benedizione Apostolica.
Nell’unire anche i miei migliori auspici, profitto della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio.
Pietro Card. Parolin
Segretario di Stato
Vi do ora lettura del telegramma del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella:
Prof.ssa Emilia Guarnieri
Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia tra i popoli
Agli organizzatori, ai volontari e a tutti i partecipanti al Meeting per l’amicizia tra i popoli desidero rivolgere il saluto più cordiale e l’augurio affinché anche questa XXXVI edizione abbia il successo sperato.
La persona è il fondamento della comunità e dello Stato. La sua libertà, il valore incomprimibile del suo essere unica e irripetibile, l’integralità dei diritti umani preesistono, come indica l’articolo 2 della nostra Costituzione, agli stessi ordinamenti. Da questa radice è nato il Meeting, che nel tempo ha prodotto centinaia di incontri e discussioni, ha arricchito il dialogo, ha sviluppato maturazioni e amicizie.
In questa esperienza si sono formati tanti giovani, è cresciuta e si è fatta adulta la vostra associazione, ne ha tratto ricchezza il pluralismo della nostra società e della nostra cultura.
L’intensa poesia di Mario Luzi dalla quale avete tratto il titolo del Meeting di quest’anno – “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?” – scava ancor più in profondità nell’animo umano, alla ricerca della fonte di quell’incessante bisogno di verità, che sospinge le nostre energie spirituali e sociali. Viviamo in un mondo di comunicazioni immediate, di straordinarie potenzialità tecnologiche, di connessioni multiple e all’apparenza infinite. Sono opportunità che vanno messe al servizio del progetto di un umanesimo integrale, premessa dello sviluppo civile, evitando che sia la tecnica a dominarci. Ogni volta che siamo assaliti da sensazioni di strapotere scopriamo che si tratta soltanto di un’illusione se perdiamo di vista la nostra umanità, la fraternità, il desiderio del bene e di ciò che è bello, il valore della legalità, la percezione dei limiti invalicabili agli stessi poteri pubblici, l’aspirazione a una condizione di pace, di maggiore giustizia e uguaglianza.
L’ideale personalista è una grande aspirazione dell’uomo moderno che trova nelle formazioni sociali e nei corpi intermedi il suo pieno compimento. È un impegno di popolo, al quale ciascuno è chiamato a contribuire nel pluralismo delle convinzioni e delle culture. Tutti ne trarremo beneficio. A partire dalle istituzioni e dalla politica.
Il rischio di chiusure settarie, o di tentazioni fondamentaliste, è sempre in agguato. Basta guardare attorno a noi il riemergere di populismi e nazionalismi. Ebbene, la risposta viene offerta da tante testimonianze di moralità, di solidarietà, di impresa responsabile, di Governo dei conflitti, di ricostruzione del diritto laddove la sua rete è stata lacerata.
Personalismo e solidarietà, valori che si trovano alla base della nostra Costituzione, hanno bisogno di essere continuamente realizzati. E chi lo fa con generosità, accresce anche gli anticorpi per affrontare le difficoltà che si presentano nelle diverse stagioni.
La nostra società, dopo una lunga crisi economica, che ha lasciato ferite così profonde, avverte ancor di più l’esigenza di valori e di percorsi ispirati a ideali sinceri. E ha bisogno di testimoni credibili, che conducano la loro azione con coerenza e moralità, rompendo l’area grigia dell’opportunismo, che purtroppo sfocia spesso nella corruzione, germe distruttivo della società civile.
La XXXVI edizione del Meeting si apre con un importante incontro sulle religioni. Dalla capacità di dialogo, di comprensione reciproca, di collaborazione tra le religioni monoteiste dipenderà la pace nel mondo. Di questo dobbiamo essere consapevoli. Il terrorismo, alimentato anche da fanatiche distorsioni della fede in Dio, sta cercando di introdurre nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Africa i germi di una terza guerra mondiale.
Sta alla nostra responsabilità fermarla.
Sta a noi prosciugare l’odio, far crescere il fiducia e la cooperazione, mostrare i vantaggi della pace.
L’Europa ha un compito di grande rilievo perché il dialogo tra le religioni monoteiste può svilupparsi già all’interno delle nostre società, divenute plurali e multietniche.
L’umanità che mostreremo nell’accogliere i profughi disperati, l’intelligenza con cui affronteremo i fenomeni migratori, la fermezza con cui combatteremo i trafficanti di esseri umani saranno il modo con il quale mostreremo al mondo la qualità della vita democratica. La democrazia si esporta con la cultura e con l’esempio.
Con questo spirito seguirò i vostri lavori, rinnovando il mio sincero augurio.
Sergio Mattarella
Invito ora a salire sul palco le tre importanti personalità che entrambi i messaggi hanno in qualche modo anticipato, che saranno protagoniste di questo primo incontro del Meeting 2015: il cardinale Jean-Louis Tauran, il Rabbino Capo di Francia Korsia, e il professor Azzedine Gaci, Imam della Moschea di Villeurbane di Lione.
Le religioni sono parte della soluzione, non il problema, come appunto ci veniva anticipato. Era l’inizio del 2015, l’inizio di quest’anno, stavamo cominciando ad entrare nella riflessione sul titolo del Meeting ed erano appena accaduti i fatti tragici di Parigi: l’attentato alla sede di Charlie Hebdo e l’attacco, il giorno successivo, al negozio kosher di Port de Vincent, dove erano stati assassinati cittadini francesi di origine ebraica. Eravamo appunto all’inizio di questa riflessione sul cuore dell’uomo, sulla sua mancanza strutturale, su quella mancanza che sospinge ognuno di noi ad accorgersi che c’è qualcosa oltre, che c’è un “richiamo”, come dice il prosieguo del testo di Luzi che uno di questi pomeriggi leggeremo. Ci appariva evidente il valore che ha il riconoscimento di questa mancanza, il valore profondo di questa nostalgia di altro, lo spessore che ha una posizione così. Ma, nello stesso momento, ricorderete, in quei giorni ci siamo trovati immersi in un dibattito, che immediatamente è seguito a questi drammi, nel quale, in modo più o meno esplicito da parte di tanti, pareva che quasi si incolpassero le religioni di ciò che stava accadendo, sembrava che si volesse quasi invocare una sorta di laicità, di laicità del vuoto, di laicità senza religioni, attribuendo spesso addirittura alle religioni l’origine dell’intolleranza. Ed è stato proprio in quel momento che dalla voce di uomini religiosi – cristiani, ebrei, musulmani -, è stata viceversa riaffermata la certezza che le religioni, proprio in quanto sono un baluardo contro il nichilismo, in quanto sono una riproposizione all’uomo della sua dignità, rappresentano all’interno delle moderne società laiche un bene per tutti, non un patrimonio da salvaguardare per alcuni ma un bene per tutti. Perché un uomo che riconosce il suo bisogno di infinito è un uomo che nella società si muove in maniera aperta, proprio perché sa che non è lui a possedere la definizione ultima di sé, ed è per questo che è disposto ad accogliere e a incontrare gli altri; perché ha bisogno della diversità degli altri. E viceversa, è la presunzione della propria autonomia, il dogmatismo di questa presunzione, che sia ideologica, che sia etnica, che sia religiosa, ma comunque che sia la presunzione dell’autonomia, ciò che genera la violenza. E da qui, dalla consapevolezza del valore non solo intimo della religione, ma del suo valore anche sociale, civile, abbiamo intravisto un nesso profondo fra il tema della mancanza, del desiderio, della nostalgia e il valore delle religioni. Da qui è nato il titolo, Le religioni sono parte della soluzione, non il problema. Le religioni sono parte della soluzione proprio in quanto (perché ci sono alcune connotazioni che vanno sottolineate) affermare il valore della religione significa al tempo stesso affermare la libertà religiosa, il diritto che l’uomo ha, all’interno di qualsiasi tradizione sia nato, di compiere il suo percorso di ricerca della verità. Perché la religione è una tappa di un percorso personale di ricerca della verità. Un percorso personale secondo modi e tempi che solo il Mistero conosce e che nessuno ha il diritto di determinare e di violare. Anche noi cristiani non parliamo per altri quando invochiamo il tema della libertà come fattore inscindibile, inseparabile dalla ricerca della verità; anche noi cristiani abbiamo imparato dalla nostra lunga storia (perché le tentazioni possiamo averle avute tutti) che non esiste alcun accesso alla verità che non passi attraverso la libertà. E in tal senso, le religioni hanno piena cittadinanza in ogni società laica proprio in quanto fanno riferimento, attengono al rapporto personale con l’infinito, il rapporto che ogni uomo ha con l’infinito. E quindi non possono mai diventare appannaggio di nessun potere, perché il rapporto con l’infinito è qualcosa che è della persona. In tal senso, non esiste religione senza libertà e non esiste religione che non sia gesto della persona, mai gesto di una collettività, qualunque essa sia. Intorno a questo tema, abbiamo chiamato tre autorevoli rappresentanti delle tre religioni monoteiste. Abbiamo con noi il Rabbino Haïm Korsia, Rabbino capo di Francia. Ha studiato al Seminario Ebraico di Francia, è stato Segretario generale dell’associazione dei Rabbini francesi, Vicepresidente del Gruppo di studio sulle Sette dell’Istituto degli Alti Studi del Ministero degli Interni, laureato alla Sorbona, eletto nel 2014 Rabbino Capo di Francia, eletto anche membro dell’Accademia della Scienza Morale e Politica. Vorrei citarvi una sua frase che mi ha colpito, pronunciata subito dopo l’attentato al supermercato. “C’è un versetto molto bello: «Dio rinnova ogni giorno la creazione del mondo». Oggi non è il seguito del giorno precedente, è questo il perdono: non essere prigionieri degli errori del giorno precedente, essere in grado di inventare un mondo nuovo, di reinventare i nostri rapporti umani e sociali. E’ quello di cui ha bisogno oggi la Francia”. Con questa frase, vi consegno il Rabbino Korsia. Il secondo ospite che abbiamo con noi è Azzedine Gaci, algerino, Rettore della moschea di Villeurbanne, è stato Segretario del Consiglio regionale del culto musulmano della regione del Rodano Alpi, di cui poi è stato per due mandati Presidente. Dal 1995, è fortemente impegnato nel dialogo religioso. Ricordiamo un episodio legato alla sua storia anche recente: nel 2007 ha organizzato un viaggio in Algeria che prevedeva una sorta di pellegrinaggio sulla tomba dei monaci trappisti uccisi nel 1996. A questo pellegrinaggio ha invitato il cardinale Barbarin che racconta: “Quando venne a chiedermelo, gli dissi: partiamo domani mattina”. Quel pellegrinaggio fatto sulla tomba dei monaci uccisi a Tiberine è diventato in qualche modo un grande gesto di amicizia tra cristiani e musulmani. All’imam Gaci si deve nel 2011 il primo Forum islamo-cristiano che è diventato poi un appuntamento ed un evento mondiale. Nel 2015, proprio nei giorni delle vicende di Parigi, una delegazione di imam francesi, impegnati in questo dialogo interreligioso, aveva effettuato una visita in Vaticano. Di questa delegazione faceva appunto parte Gaci e anche il Rettore della moschea di Bordeaux, Tareq Oubrou, che al Meeting abbiamo già avuto occasione di ascoltare insieme al Cardinale. Vorrei consegnarvi il nostro amico Gaci con una frase detta dopo i fatti di Parigi: “Colui che ama Dio non sopporterà l’odio, il risentimento, la violenza contro gli uomini”. Questo è il nostro secondo ospite. Il nostro terzo ospite, mi permetto di dire senza offendere gli altri due, è un ospite a noi molto noto, grande amico del Meeting, grande maestro del Meeting, il Cardinale Tauran. Abbiamo veramente imparato e stiamo imparando, io sto imparando sempre tantissimo di che cosa sia la verità della propria identità e la capacità di dialogo e di apertura nei confronti di tutti. Il cardinale Jean Louis Tauran è Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, è arrivato nella diplomazia vaticana dopo tante esperienze e in tante nunziature all’estero, nella Repubblica Dominicana, in Libano, dopo esperienze di conferenze internazionali di ogni genere e di ogni tipo. Nel 2007, Benedetto XVI lo ha appunto nominato Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, che tuttora regge. Non ve lo consegno con una frase, come è stato per gli altri due, per il semplice motivo che la frase che dà il titolo all’incontro di oggi è del Cardinale Tauran, e quindi lo consegniamo con il suo titolo. Ma prima di dare loro la parola – mi scuso anche con loro se li abbiamo fatti attendere ma state condividendo l’inizio del Meeting – vi introduco un altro protagonista di questa inaugurazione: il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon ci ha inviato un suo videomessaggio in occasione della apertura delle trentaseiesima edizione.
VIDEO-MESSAGGIO DI BAN KI-MOON:
Desidero esprimere un cordiale saluto a tutti i partecipanti al trentaseiesimo Meeting per l’amicizia fra i popoli e congratularmi per un incontro così animato, che vede la partecipazione di migliaia di persone di diverse fedi, culture e tradizioni, unite per l’amicizia e la pace. Il nostro mondo di oggi è segnato da conflitti, incomprensioni e divari crescenti. Ma ovunque mi rechi vedo persone che favoriscono la comprensione, la riconciliazione, la speranza. Questo è ciò che vi porta a Rimini e questo è ciò che porterà i leader mondiali, tra cui Sua Santità Papa Francesco, a New York il mese prossimo, a settembre. Adotteremo una nuova agenda per lo sviluppo sostenibile al fine di trasformare il nostro mondo entro il 2030. Lavorando assieme, possiamo riuscirci. Io credo nella forza delle persone, degli ideali e del cuore umano. Vi ringrazio per esservi riuniti al fine di immaginare un mondo migliore e di costruirlo insieme. Grazie.
EMILIA GUARNIERI:
Ora la parola al Rabbino Haïm Korsia.
HAÏM KORSIA:
Grazie di condividere con me questa riflessione sull’Altro che ci fa riflettere su una questione molto importante, perché sia necessario parlare con le altre religioni. Credo che la logica di base sia che l’ebraismo non si considera detentore della verità: ognuno ha la sua verità, la propria verità. Il fatto di non avere la verità in mano ci costringe ad alimentarci delle verità degli altri e a raggruppare le verità di ciascuno di noi. L’umanità raggruppa i geni di tutte le culture, il genio di tutti noi. Lo vediamo anche nella Bibbia, in maniera sorprendente nell’Esodo, quando gli ebrei fuggono dall’Egitto, e dietro, il suocero di Mosè dice a Mosè: “Non puoi continuare così”. Quando il popolo esce dall’Egitto, rifiuta tutto ciò che gli ricorda la schiavitù e l’Egitto. E quindi Mosè gestisce il popolo parlando a tutti loro. Suo suocero gli dice: “Devi essere capo di tutti, devi essere capo di dieci, di cento, di mille, di tutti. Ognuno giudicherà gli altri dal proprio punto di vista e tu invece giudicherai le cose importanti. Ma essere capo di dieci, di cento, di mille, di diecimila persone significa costruire una piramide e la piramide è l’Egitto”. Quindi Pietro dice a Mosè, nel testo stesso in cui Mosè riceve i dieci Comandamenti: “Guarda verso la verità dell’Egitto, verso la verità di quella piramide”. Ed è una lezione straordinaria: anche in Egitto c’è una lezione che possiamo imparare. A più riprese nella Bibbia si scrive: “Amerai l’Egitto perché sei stato alloggiato ed ospitato dall’Egitto, sicuramente come schiavo ma sei stato ospitato dall’Egitto”. Questa capacità di avere un’altra verità, una verità diversa da quella evidente, quella normale, la troviamo anche in un trattato del Talmud, il trattato del Sinedrio, che ci racconta una storia incredibile. In una piccola città, Shilo, prima che il tempio diventasse tempio di Gerusalemme, c’era il tabernacolo. E a tre chilometri di distanza c’era un tempio idolatra: quando si faceva un sacrificio in entrambi i luoghi, il fumo si alzava in cielo e i fumi delle due parti convergevano insieme in cielo. Il Talmud ci racconta che gli angeli chiedono a Dio: vuoi che andiamo a distruggere questo tempio idolatra che impedisce al fumo di salire in cielo? E Dio dice loro: no, state tranquilli. Dio spesso dice agli estremisti di stare tranquilli, ma è una cosa che non sempre gli estremisti ascoltano. Quindi, Dio dice agli angeli: calmatevi. Perché il culto idolatra di questo idolo consiste nel portare del cibo che possa essere mangiato dai poveri e dalla gente che passa. Sicuramente l’idolatria è condannabile, sicuramente non è una verità ma, visto che fa del bene a chi ne ha bisogno, Dio lascia fare. Possiamo ritrovare lo stesso principio dell’accoglienza dell’Altro con un passaggio che lo stesso trattato del Talmud commenta su Timna, una donna sconosciuta che, nella Bibbia, nella Genesi, vuole entrare nella famiglia di Abramo. Viene respinta, rifiutata da Abramo, respinta da Isacco suo figlio e da Giacobbe, decide di diventare la concubina di Elifas, che è figlio di Esaù. Quindi ci sono Abramo, Isacco, Giacobbe, Esaù fratello di Giacobbe e il figlio Elifas. Il figlio che la donna avrà con Elifas si chiamerà Amalek, ed è il peggiore del popolo ebraico. Il commento del Talmud dice: “Questo figlio che nasce dall’odio del popolo d’Israele, è venuto al mondo semplicemente perché sua madre non è stata accolta in maniera adeguata”. L’idea di accogliere qualcuno, di accogliere la verità che ha insita in sé, è alla base stessa dell’umanità. E’ un paradosso incredibile, che troviamo anche con la cicogna. E discutevo con questa meravigliosa traduttrice prima della conferenza stampa che mi ha spiegato che in Italia anche voi avete la stessa tradizione, come noi in Francia. Pensate che le cicogne portino i bambini. Perché le cicogne? La cicogna in ebraico si chiama chassìd, significa la devota, la pia, la religiosa, perché è un uccello che ha un amore infinito per i propri figli. Ecco perché, sia in Francia che in Italia, si pensa che la cicogna porti i bambini. Il paradosso è che questo animale, questo uccello non si può mangiare, è proibito. E come mai un animale che si chiama il pio, il religioso, non può essere kashèr? La risposta è incredibile: la cicogna fa vedere la propria bontà solamente nel rapporto con i propri figli, mai verso gli altri. Una bontà che non si rivolge a sé; se si rivolge a sé non è una bontà. Se non ci si apre alla sofferenza degli altri, allora non si può accogliere nessuno. Quando sono arrivato a Bologna, mi sono detto: “Beh, adesso sono in Italia”. Quindi ho messo una suoneria italiana sul mio telefono, Zucchero. E Luca, mio giovane accompagnatore, mi ha spiegato come Zucchero scrive le sue canzoni: beve molto, beve ancora un po’, dopo finisce tutto quello che c’è da bere e poi scrive le canzoni. E questo mi ha fatto pensare a Noè, perché anche Noè ha la responsabilità di ricostruire l’umanità dopo il diluvio e beve, beve per rifiutare le proprie responsabilità. Ma, come Zucchero, alla fine ci riesce. E visto che anche Noè ci è riuscito, ha messo insieme le qualità dei suoi tre figli. Non ha detto che uno dei tre aveva ragione e che bisognava seguire solamente lui. Li ha messi insieme, gli uni con gli altri. E per ricostruire il mondo oggi – la Presidente ha ragione nel ricordare il sogno che dobbiamo condividere tutti, cioè costruire tutti i giorni un mondo nuovo – bisogna essere in grado di sognarlo insieme. La grande differenza tra il diluvio e la torre di Babele è che, per il diluvio, gli uomini si uccidono tra di loro, e Dio sradica questa umanità. Mentre nella torre di Babele, Dio si accontenta di disperderli in giro e di mischiare insieme le loro lingue. Perché Dio è molto più severo con il diluvio che non con la torre di Babele? Ci sono due cose: prima di tutto si può dire che Dio preferisce che si sia uniti contro di Lui piuttosto che essere disuniti nel suo nome. Durante il diluvio, ognuno voleva uccidere l’altro, mentre nella torre di Babele erano in ribellione contro Dio, ma insieme. Un po’ come don Camillo e l’onorevole Peppone, insieme. E poi c’è una grande idea, che il diluvio era l’odio degli uni contro gli altri ma la torre di Babele era la volontà di essere se stessi. L’uniformità è pericolosa per l’uomo, è l’unità la cosa importante, il nostro obiettivo: e l’unità porta alla differenza. C’è una grande differenza, perché l’unità è il dialogo e la progressione del dialogo, se siamo gli stessi non ci possiamo dare qualcosa l’uno all’altro, non possiamo avere uno scambio e quindi nessuno progredisce, nessuno avanza. In Francia, c’è questa possibilità di dialogare e di darsi dei contributi, gli uni agli altri, di scambiarsi cose, proprio con il concetto di cui lei ha parlato, cioè la laicità. In Francia la laicità è la neutralità dello Stato, e ognuno ha la propria verità, propone la propria verità, la sua religione oppure la sua mancanza di religione. Ma ognuno nel rispetto dell’altro.
Per concludere, vorrei tornare sul titolo che è magnifico e forse definisce proprio il sogno del dialogo interreligioso, perché definisce la perfezione dell’uomo, La perfezione dell’uomo è la sua perfettibilità, un uomo che va, che progredisce verso la perfezione. È il bisogno dell’altro che è una mia parte, il mio io è detenuto dall’altro. Ed è proprio questa parte che mi manca, come in me ho una parte di ognuno di voi, che bisogna semplicemente saper accogliere, ricevere. E per sapere accogliere questa parte, bisogna dare amore: l’amore è al cuore del dialogo, senza annichilirsi e annegare nell’altro, senza sincretismo, sapendo chi siamo ma accettando comunque di incontrare l’altro, di andare verso l’altro per scoprirsi.
EMILIA GUARNIERI:
Grazie a Korsia. Adesso la parola al professor Gaci.
AZZEDINE GACI:
Grazie, signora Presidente, Monsignore, signor Gran Rabbino, signore e signori, fratelli, sorelle. Innanzitutto vorrei esprimere il mio immenso piacere per essere qui con voi oggi, in questo importantissimo Meeting. La mia presenza permette anche di mostrare come sia possibile vivere insieme gli uni con gli altri, e non gli uni contro gli altri. La mia presenza permette anche di rintracciare il concetto di vivere insieme, perché viviamo in un’epoca contrassegnata dalla diversità, dalla divisione e da una complessità molto profonda. Ciascuna delle grandi religioni come l’islam, il cristianesimo e l’ebraismo hanno dovuto lasciare lo spazio dove sono nate e diffondersi in tutto il mondo. Vediamo che è in corso una globalizzazione delle religioni: fenomeni di mobilità, di immigrazione, nonché le autostrade dell’informazione e i social network contribuiscono a questa globalizzazione. Questa globalizzazione però ha anche effetti positivi sulle religioni stesse, poiché ha consentito a queste religioni di porsi degli interrogativi su di sé e anche di tararsi rispetto alle altre religioni. A mio vedere, oggi ci sono tre questioni fondamentali che dovremmo affrontare rispetto alle tre grandi religioni monoteiste. La prima domanda è questa: come l’islam, l’ebraismo e il cristianesimo riusciranno in futuro a vivere insieme nella stessa Europa, ma anche all’interno di uno stesso Paese, che sia l’Italia, la Francia, la Germania o il Regno Unito?
La seconda grande domanda è: riusciranno queste tre religioni a contribuire alla pace, alla coesione sociale oppure alimenteranno focolai di intolleranza, di estremismo e terrorismo?
La terza grande domanda che spesso ricorre nelle nostre anime è questa: oggi stiamo andando verso uno scontro di civiltà oppure, come molti di noi vorrebbero, verso un dialogo tra le culture, le religioni e le civiltà? Ebbene, questi sono i tre grandi interrogativi che in realtà vi conducono alla grande domanda che è il tema dell’incontro di oggi: le religioni sono più una soluzione o un problema per la convivenza? E’ una domanda fondamentale e cercherò anche di riformularla, cercherò di spiegare quali sono le condizioni che permettono alle religioni di convivere e non di vivere le une contro le altre. Quali sono questi prerequisiti fondamentali alla convivenza? A mio vedere ci sono due tipologie di esigenze: ci sono delle esigenze personali, individuali, perché ciascuno di noi individualmente è responsabile di fronte a Dio e agli uomini. E poi ci sono esigenze istituzionali, collettive. Vorrei insistere in particolare sulle esigenze personali ed individuali, poiché ritengo che ancora prima di costruire la società della convivenza, bisogna innanzitutto cercare di avere individui che siano animati dal desiderio di convivenza, da un profondo rispetto, e che siano quindi desiderosi di vivere con gli altri e non contro gli altri.
A mio parere, ci sono tre condizioni che sono molto importanti: è quello che io dico il venerdì, durante le preghiere nella moschea, una cosa molto importante non solo per i musulmani ma per tutti coloro che sono portatori di fede e di spiritualità. Il primo elemento che rientra nel rispetto della diversità è la conoscenza dell’altro: bisogna innanzitutto definire l’altro. L’altro è tutto ciò che non sono io, quindi è altro da me, è qualcuno che non mi assomiglia e che non è portatore della stessa fede o spiritualità. Quindi, primo elemento del rispetto della diversità, primo fondamento della convivenza, è la conoscenza dell’altro, l’altro che non sono io e che non porta la stessa fede. Questa conoscenza dell’altro è il primo passo verso la convivenza. Dobbiamo conoscere l’altro per poterci arricchire reciprocamente attraverso lo specchio della differenza. Questo è fondamentale: l’arricchimento attraverso lo specchio, quindi la differenza. Nel mio dialogo interreligioso, utilizzo spesso un versetto coranico che i musulmani citano molto e che va proprio nella direzione del rispetto dell’altro e della convivenza. Questo versetto dice che le persone sono state create a partire da un uomo e da una donna e poi sono diventate popoli e nazioni, “affinché possiate conoscervi”. Sono parole molto importanti, perché si tratta proprio di conoscersi reciprocamente, non solo di conoscere l’altro. E’ una conoscenza che deve andare nei due sensi, quindi ad un livello più profondo e non superficiale. Ho bisogno di sapere chi sei tu che stai di fronte a me. Ho bisogno di conoscerti, di sapere in che cosa credi e cosa porti dentro di te al livello più profondo: questa è la conoscenza reciproca. Questo versetto del Corano racchiude due messaggi molto importanti: ci viene detto che esiste un’unica, sola umanità, perché noi tutti discendiamo da Adamo ed Eva. Dio ci dice che c’è un unico genere umano, declinato in tanti popoli con tradizioni diverse, lingue diverse. Ci possono essere anche colori diversi, ci possono essere religioni diverse, ma l’essenziale è conoscersi reciprocamente, tessere legami di amicizia, costruire, gettare ponti di fiducia gli uni verso gli altri. Ed è questo che conta, che è fondamentale, poiché una umanità senza differenze di cultura, di lingua, religione e tradizione sarebbe la fine dell’umanità stessa. Noi siamo umani proprio attraverso le nostre differenze, ed è questo il primo messaggio importante di questo versetto coranico. Il secondo messaggio critico è proprio quello che si rivolge a tutti coloro che portano una fede. Un vero credente è qualcuno che è costantemente abitato dalla presenza di Dio. Non è una presenza destabilizzatrice o che disturba, è invece una presenza che tranquillizza, calma, dà pace interiore. Quindi, questo versetto in realtà si rivolge a tutti perché ci dice: musulmani, cristiani o ebrei, non saprete mai cosa significa essere soli perché sarete sempre con Dio e gli uni con gli altri. Se riesci a convivere con gli altri, che hanno altre fedi e spiritualità, attraverso la tua presenza con gli altri potrai interpretare anche la tua presenza con Dio, poiché ovunque tu sarai, nello spazio e nel tempo, ci sarà Dio intorno a te e dentro di te. Ebbene, essere solo con Dio richiede un rispetto e un’umiltà profondi: umiltà e rispetto che si imparano solo rispecchiando chi è diverso da te e non ha la stessa fede o la stessa spiritualità. È cosi che la conoscenza diventa l’elemento fondante. Devo accelerare perché ho pochi minuti a disposizione. Il secondo elemento, dopo la conoscenza dell’altro, è il rispetto dell’altro. Questa mattina il Gran Rabbino ha espresso un concetto davvero strategico: rispetto, non tolleranza. Come il Gran Rabbino ha detto durante la conferenza stampa, ritengo che il concetto della tolleranza debba essere superato, perché non traduce affatto quello che viviamo. Conosco il Cardinale Tauran da diversi anni, è venuto spesso a Lione. Come ha detto anche la Presidente poco fa, ogni volta esco arricchito da questi incontri, davvero arricchito profondamente come musulmano. Poi c’è anche il Cardinale Barbarin a Lione che è un grande amico: insieme siamo impegnati nel dialogo interreligioso da molti anni, abbiamo un’amicizia profonda che ci lega aldilà delle nostre religioni. Con il Cardinale Barbarin siamo riusciti a passare dalla fase della diffidenza a quella della fiducia: non siamo sempre d’accordo su tutto ma siamo capaci di parlare di tutto, perché tra di noi c’è una fiducia profonda, un’amicizia, un affetto. Quello che dico del Cardinale, posso dirlo anche a proposito del Rabbino di Lione con cui mi confronto spesso in varie sedi. Insisto molto su questo tema del rispetto perché i rapporti che ci sono tra noi oramai vanno bene al di là del concetto di tolleranza, anche perché la tolleranza in realtà richiama un’idea di sofferenza della presenza dell’altro. Io non sono d’accordo con questo concetto, anzi, penso che sono qui oggi non perché la mia presenza è considerata una sofferenza ma un arricchimento. Sono qui e mi pongo verso l’altro che non è come me, che non ha la mia spiritualità e fede, e cerco di dire a questa persona: Dio vuole che tu sia, Dio vuole che esista questa diversità religiosa, Dio vuole che ci siano cristiani, musulmani, ebrei. Io rispondo che è quello che Dio ha voluto e rispettato. Bisogna insistere su questo concetto di rispetto, dobbiamo imparare a rispettare il sentimento, le forme di amore verso coloro che non condividono la nostra stessa fede. E’ così che possiamo costruire il nostro futuro perché viviamo insieme, negli stessi paesi, le nostre responsabilità sono condivise. Siamo diventati una comunità di destini. Vorrei addentrarmi di più su questo tema ma invece passerò ad un terzo elemento, che ritengo essenziale e segue in modo logico quello della conoscenza dell’altro e del rispetto per quello che è, per quello che crede, per quello che porta dentro di sé. Il terzo elemento conseguente è cercare di rivolgere uno sguardo positivo all’altro, arricchirsi con la presenza dell’altro. Questo significa essere all’ascolto dell’altro, sapere che è proprio con la differenza di cui è portatore l’altro che io posso arricchirmi, migliorarmi. È l’altro che può aiutarmi a capire meglio la mia fede, ad approfondire quello che ho già dentro di me. Il Gran Rabbino lo ha detto poco fa e sono d’accordo con lui: non si tratta di perdersi nell’altro, di annegare nell’altro ma di costruire e progredire insieme a lui. Non vogliamo assolutamente appiattire le differenze. È questo l’obbiettivo. Quando si parla con qualcuno che non ha la stessa fede o spiritualità, si è un po’ destabilizzati: tutto quello che nell’altro vi ricorda ciò che siete vi rassicura. Quando si parla la stessa lingua, si è nella stessa cultura, si ha una certa concezione della vita e del mondo, si è rassicurati. Ebbene, il mio ruolo è questo: dirvi che io sono diverso da voi ma non voglio destabilizzarvi, non sono qui per questo. Al contrario, sono qui per rassicurarvi. Quindi, rivolgere uno sguardo positivo verso l’altro richiede qualcosa di molto difficile. Ho sentito spesso il Cardinale Tauran ripeterlo: prima di andare verso l’altro bisogna innanzitutto sapere bene chi siete, conoscere bene voi stessi, la vostra fede, la vostra spiritualità. Cercherò di esprimerlo con le mie parole: si può essere aperti verso gli altri soltanto quando si sa davvero chi si è. L’apertura verso l’altro richiede un lavoro intellettuale e spirituale profondo, un lavoro quotidiano, continuo. Si può essere aperti verso gli altri soltanto quando si sa bene chi si è, quando si conosce se stessi. Avere uno sguardo positivo sull’altro significa guardare colui che è diverso, che non condivide la vostra fede e spiritualità, e dire a questa persona che non ci assomiglia: “Non sei come me ma sono pronto a conoscerti, ad ascoltarti, a conoscere le tue certezze e anche a camminare con te affinché io possa mettere in discussione le mie. Non per essere come te ma per essere meglio come individuo in quello che sono”. Io sono pronto anche a rimettere in discussione le mie certezze ma per vivere meglio quello che sono, la mia fede, quello che porto nel profondo di me stesso. La conoscenza dell’altro, il rispetto (e non la tolleranza) e questo sguardo positivo verso l’altro, sono le condizioni necessarie a livello personale, individuale. Purtroppo non ho tempo sufficiente per sviluppare l’altro grande tema che volevo affrontare, quello delle quattro esigenze collettive e delle istituzioni. Li citerò soltanto. La prima esigenza sul piano istituzionale è quella del rispetto della dignità umana. Tutti quelli che si impegnano sul piano della convivenza e della dignità umana devono innanzitutto rispettare la dignità umana. Ancora prima di essere ebrei, cristiani, musulmani, siamo degli esseri umani a cui Dio ha dato una dignità e dobbiamo rispettarla ovunque ci troviamo nello spazio e nel tempo. Cito un versetto del Corano, probabilmente ci sarà l’equivalente anche per gli ebrei: “Chi sopprime una vita sopprime l’umanità e chi salva una vita è come se salvasse l’umanità”. La seconda esigenza è quella dell’uguaglianza degli esseri umani. C’è un Dio, unico. Ebbene, l’Unico ha voluto l’uguaglianza degli esseri umani. Siamo tutti uguali, non ci sono differenze tra noi! La qualità di un essere umano non si misura sulla sua filosofia, in base ai suoi beni materiali, al suo livello di potere o di sapere, non si misura in base allo spessore del suo portafoglio bensì rispetto alla qualità e alla disposizione del suo cuore. Ebbene, questo versetto del Corano dice appunto che il più pio e il più nobile tra di noi – non quello che ha più sapere, ricchezza o beni – è colui che, come ha detto la Presidente poco fa, mette Dio nel proprio cuore e ha la vita nelle proprie mani, non il contrario, cosa che invece purtroppo si tende a fare oggi. La terza esigenza è il rispetto della libertà di coscienza: siamo uguali davanti a Dio e ciascuno è libero rispetto alle proprie scelte. Ciascuno è libero di fare le proprie scelte, ciascuno di noi quindi deve essere rispettato per quello che è, per quello che porta e anche per la spiritualità che racchiude nel suo profondo. Purtroppo non ho tempo di sviluppare la quarta esigenza fondamentale, che riguarda il rispetto del libero esercizio di culto. Quindi, i portatori di fede, di spiritualità, tutti, indipendentemente dalla religione, devono poter essere liberi di vivere la loro fede, la loro spiritualità, nello spazio e nel tempo, ma ovviamente sempre nel rispetto delle leggi del Paese in cui vivono. Ecco, ho chiuso. Un’ultimissima conclusione che è molto importante per me. Ritengo che il concetto di diversità sia fondamentale: quando il concetto si capisce bene, la diversità diventa una ricchezza perché ci permette di unire, di aggiungere e non di sottrarre. Ma quando viene mal capita, la diversità diventa, o meglio si traduce, il rifiuto dell’altro, il rinchiudersi su se stessi: è quello che purtroppo viviamo spesso oggi. Ci sono tanti problemi, non si può nascondere, non si può sottovalutare. Ma la spiegazione di questi problemi è di natura globale e la risposta deve essere globale. Non ci si può più permettere di pensare a sé senza l’altro e ancora meno contro l’altro. Dobbiamo pensare insieme, gli uni con gli altri e non gli uni contro gli altri. Proprio per opporsi a tutti coloro che predicano l’odio, a tutti coloro che manipolano le coscienze, per opporsi a tutti coloro che invece intraprendono e fomentano la violenza, grazie.
EMILIA GUARNIERI:
Grazie anche al professor Gaci e ora la parola al Cardinale Tauran.
S. EM. CARD. JEAN-LOUIS TAURAN:
Il 25 agosto dell’anno 1900, a Weimar, moriva nella solitudine e nella follia Frederich Nietzsche. Qualche anno prima, nella sua autobiografia, dal titolo alquanto sacrilego, Ecce homo, egli aveva posto la domanda: “Dov’è Dio?”. La risposta fu: “Ve lo voglio dire: siamo stati noi ad ucciderlo, voi ed io. Si, i suoi assassini siamo tutti noi. Dio è morto. Dio è morto!”. Nasceva così la corrente di pensiero che, per più di un secolo, è stata conosciuta come “la morte di Dio”. Lo scientismo, poi, ha affermato che soltanto la scienza è in grado di rivelare all’uomo tutta la verità. Solo la scienza è il fondamento della saggezza. Può esistere una morale senza Dio. Certamente, guardando il mondo di oggi, non si può non essere sorpresi nel constatare un ritorno al sacro dopo la fine dell’unanimità culturale, lo sviluppo del pluralismo, la messa in quarantena della religione nella sfera privata, e l’annacquamento dei valori e dei modelli. Ebbene, la religione è diventata, nel giro di pochi anni, un fattore fondamentale della vita politica, economica, culturale. Certamente, la pratica religiosa nella vita delle società occidentali è diminuita. Siamo all’epoca del believing without belonging. Tuttavia, si constata, almeno in Europa, una ricomposizione del paesaggio religioso, su una modalità più individualistica ed emotiva, che si potrebbe attribuire a quattro fattori:
1. la proliferazione delle sette;
2. il sorgere di nuove comunità nate dal movimento carismatico cattolico;
3. il successo riscontrato dalle religioni asiatiche (buddismo);
4. la presenza ormai duratura di musulmani (più del 3% della popolazione europea).
Ma il paradosso è che le religioni sono spesso percepite come un pericolo: fondamentalismo, fanatismo, derive settarie, sono spesso associati alla religione. In particolare, ciò avviene a causa di atti terroristici ispirati da motivi religiosi, perpetrati da una minoranza di adepti traviati di una religione: l’islam. Non si tratta, ovviamente, del vero islam praticato dalla maggioranza dei seguaci di quella religione. “Nessuna circostanza vale a giustificare tale attività criminosa, che copre d’infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione, abbassando così la pura verità di Dio alla misura della propria cecità e perversione morale” (Benedetto XVI, Al Corpo diplomatico, 9.01.2006).
Sappiamo, in effetti, che le religioni possono compiere il meglio e il peggio, porsi al servizio di un progetto di santità o di alienazione, predicare la pace o la guerra. In realtà sarebbe più esatto affermare che non sono le religioni ad essere violente, ma i loro seguaci. Onde la necessità, per i responsabili religiosi, d’insegnare il contenuto delle proprie convinzioni, coniugando fede e ragione.
In realtà, non esistono oggi conflitti religiosi. E’ necessario distinguere meglio ciò che appartiene alla politica, da ciò che appartiene alla religione. Così, nei conflitti, che in modo troppo sbrigativo definiamo come “identitari”, le religioni sono particolarmente presenti. La religione è, in certi casi, lo strumento di cui si servono i responsabili politici per costruire una nazione. Ad esempio, l’idea “iugoslava” e l’ideologia della grande Serbia hanno generato degli esclusivismi identitari, nutriti da riferimenti religiosi cristiani e ortodossi, o musulmani. In certi casi, il divario religioso svolge pure un ruolo nella determinazione delle frontiere interne. Basti pensare agli Stati africani dopo il periodo coloniale. La Nigeria, o la Costa d’Avorio, dove la linea di demarcazione si sovrappone a uno spartiacque che è insieme etnico e religioso, tra cristiani e musulmani.
In altre parole, si può pensare che non sia in discussione la fede. Le guerre confessionali non si presentano come guerre per la religione o per costringere a un cambiamento di religione. Piuttosto, la religione serve per definire il gruppo e manifestarne i valori.
Dunque, di fronte a questa situazione, vi sono delle posizioni da evitare:
1. Non usare mai la religione come vettore di legittimazione della violenza. Non si può uccidere in nome di Dio, come ripete spesso papa Francesco.
2. Non trasformare la religione in un fattore di mobilitazione. Quando la religione finisce col confondersi col gruppo, o assume una funzione politica, diventa etnica, perdendo la sua funzione di universalità: si passa dall’ethos all’ethnos.
3. La religione non può essere una leva di potere. Non si può sostituire ai governi nella soddisfazione dei bisogni primari della popolazione.
Considerando ciò che ho appena esposto, oso dire che s’impone più che mai un dialogo tra autorità politiche e religiose per il bene comune. Il fatto religioso s’impone nella misura in cui esso si pratica in seno a una comunità. Per il loro numero, la longevità delle loro tradizioni, la visibilità offerta dalle loro istituzioni e dai loro riti, i credenti sono visibili e reperibili. Le autorità civili sono indotte a collaborare con i responsabili religiosi senza confondersi con loro, e a frequentarsi senza contrapporsi.
Lo Stato laico non riconosce alcuna confessione per conoscerle tutte. Quando i responsabili della cosa pubblica riescono a stabilire relazioni di fiducia con i responsabili religiosi, possono facilmente attingere al patrimonio spirituale delle diverse religioni, quei valori suscettibili di contribuire all’armonia degli spiriti, all’incontro delle culture, e al consolidamento del bene comune.
Tutte le religioni difendono la vita e la dignità della persona umana, sono consapevoli della dignità della famiglia, sanno come riunire le persone più diverse, promuovono la fraternità e l’aiuto reciproco, si esprimono in tutte le culture.
Dobbiamo riconoscere che le grandi religioni svolgono già un ruolo importante al livello della carità, della cultura, nonché della mediazione sociale. Già esiste una cooperazione possibile e necessaria. La vita in società è interesse di tutti. Se ci pensiamo bene, tutte le religioni difendono la vita. Sono consapevoli della dignità della famiglia. Sanno come riunire le persone più diverse in una comunità. Promuovono la fraternità e l’aiuto reciproco. Si esprimono in tutte le culture.
Penso che i rappresentanti delle altre religioni che sono qui con me stasera, saranno d’accordo per dire che nessuna congiuntura politica, nessuna cultura, ci proibiscano di perorare il rispetto delle persone create dall’unico Dio, la libertà di scrutare il mistero della condizione umana (libertà di pensiero, di coscienza, di religione), il senso critico che permette di scegliere tra vita e morte, tra vero e falso, l’accettazione del pluralismo che ci aiuta a considerarci diversi, ma uguali per dignità, il rispetto della religione altrui, dei suoi simboli, delle sue pratiche.
Non mi pare impossibile che tutti i popoli possano aderire a queste convinzioni. In ogni caso, noi cristiani, ebrei e musulmani, professiamo che ogni persona possiede una dignità inalienabile che viene da Dio, che noi tutti, uomini e donne di questa terra costituiamo la famiglia umana e che, quindi, esiste un bene universale.
Siamo quindi chiamati a condividere le ricchezze delle nostre culture e praticare le nostre religioni nel rispetto delle nostre specificità. Onde la necessità del dialogo interreligioso, che deve mirare pure a elaborare una cultura che permetta a tutti di vivere nella libertà con dignità e nella sicurezza.
I credenti esistono, appartengono a questo mondo, sono solidali con la storia dei nostri giorni, sono cittadini a pieno titolo, non cittadini o credenti, ma cittadini e credenti. Offrono a tutti quel supplemento d’anima (Bergson), di cui ogni società ha bisogno. Papa Francesco afferma nella sua ultima enciclica, Laudato sii: “La maggior parte degli abitanti del pianeta si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità” (n. 201).
Carissimi amici, lo avrete capito! Non si può vivere e riflettere sul futuro della nostra società senza prendere in considerazione la dimensione religiosa della natura umana. Di fronte alla grande crisi culturale che viviamo, noi ebrei, cristiani e musulmani dobbiamo ritrovare non solo le nostre radici culturali, ma anche quelle religiose, e non temere di trasmetterle ai giovani. Se no, avremo generazioni con eredi senza eredità e costruttori senza modelli. Per orientarci verso il futuro, dobbiamo ricordare che la nostra Europa non è una sfera, ma un poliedro, e imparare a coltivare la trasversalità e la multipolarità nelle relazioni: “Ciò non si può fare senza ricorrere al dialogo, anche inter-generazionale. Se volessimo definire oggi il continente, dovremmo parlare di un’Europa dialogante che fa sì che la trasversalità di opinioni e di riflessioni sia al servizio dei popoli armonicamente uniti”. (Papa Francesco, Al Consiglio di Europa, 25.11.2014).
Noi credenti vogliamo essere in prima linea in questa nobile causa. Facciamo parte di questo mondo, il mondo che Dio ama, e al quale dobbiamo offrire la possibilità d’incontrarlo. Noi desideriamo essere riconosciuti per ciò che siamo. Siamo cittadini di questo mondo, non siamo dei “richiedenti-asilo”. Più che mai, nelle nostre società pluralistiche, le religioni e i loro seguaci devono essere sul terreno, benevoli e solidali con tutti, consapevoli però di essere chiamati a raccogliere una triplice sfida. La prima è il dovere dell’identità, la seconda il coraggio dell’alterità e la terza la sincerità delle intenzioni. Allora scopriremo che il futuro non è altro che il presente messo in ordine per permettere che si realizzi il disegno di Dio, cioè rendere felice ogni persona umana.
Vorrei ringraziare voi membri di Comunione e liberazione che ogni anno invitate a Rimini per condividere la gioia di sapere chi siamo e dove andiamo. Grazie a voi che aprite la porta per dire al viandante: “Venite e guardate, Dio non è morto”. Grazie.
EMILIA GUARNIERI:
Grazie, Eminenza, non voglio aggiungere nulla sul suo intervento ma soprattutto su questa sua ultima sottolineatura, su questa sua ultima frase: “Dio non è morto, venite a vedere”. A voi tutti, l’appuntamento ai prossimi incontri del Meeting: in particolare, perché prossimo e imminente, allo spettacolo di questa sera, L’impronta. Grazie.