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LE POLITICHE ATTIVE PER IL LAVORO
Partecipano: Maurizio Del Conte, Presidente di ANPAL (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro); Alessandro Ramazza, Presidente di Assolavoro. Introduce Massimo Ferlini, Presidente di Formaper.
LE POLITICHE ATTIVE PER IL LAVORO
Ore: 17.00 MeshAREA TALK Intesa Sanpaolo B1
LE POLITICHE ATTIVE PER IL LAVORO
Partecipano: Maurizio Del Conte, Presidente di ANPAL (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro); Alessandro Ramazza, Presidente di Assolavoro. Introduce Massimo Ferlini, Presidente di Formaper.
MASSIMO FERLINI
Buonasera a tutti, apriamo questo incontro sulle politiche attive del lavoro e i servizi connessi. Come vedete, rispetto agli annunciati manca una persona: il sottosegretario Durigone è ammalato e non ha potuto raggiungerci, ci raggiungerà nei prossimi giorni per fare una visita al Meeting ma non riusciva a partecipare al dibattito di questa sera. Sono con noi però Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro all’Università Bocconi, oltre che presidente dell’Agenzia nazionale per le Politiche attive del lavoro, diciamo l’agenzia che in Italia, con l’ultima riforma significativa del mercato del lavoro, dovrebbe coordinare i servizi rivolti alle persone in cerca di lavoro o disoccupati e quant’altro. Invece Alessandro Ramazza, dopo un periodo in cui ha diretto importanti società nel mondo della somministrazione, è qui a rappresentare Assolavoro, che è l’associazione di rappresentanza delle Agenzie per il lavoro, potremmo dire l’agenzia per il lavoro “privata”, rispetto a quello che è l’iniziativa pubblica dall’altra parte. Non c’è contrapposizione, sono solo punti di vista diversi di chi intende collaborare perché funzionino meglio i servizi al lavoro; credo che questo sia non solo di auspicio ma la parte iniziale. Abbiamo voluto aprire la Mesh Area, questi incontri sul lavoro, dedicandola ai servizi al lavoro, perché per vecchia tradizione (tutti e due avete partecipato a più edizioni del Meeting quindi non sto a raccontare che cosa qui facciamo e come si svolge), il tema del lavoro è sempre stato affrontato ed ha avuto un ruolo centrale nel Meeting. Ce l’ha sempre avuto a partire dal come farci carico del bisogno di lavoro che incontriamo negli altri. Ora, il prendere in carico è anche una funzione esplicita dei servizi del lavoro che devono essere fatti, ma noi l’abbiamo sempre definito più un farci carico del bisogno di lavoro che la persona esprime, di come riuscire a riportarla a valorizzare pienamente le sue capacità nel mercato del lavoro. Io partirei da qui: come vedete oggi il problema, la possibilità, che chi ha bisogno di lavoro incontri qualcuno che si faccia carico del suo bisogno e che lo prenda in carico? Darei per primo la parola in questo giro di pareri a Maurizio Del Conte.
MAURIZIO DEL CONTE
Sì, grazie. Io partirei da una considerazione di contesto: noi abbiamo vissuto negli ultimi dieci anni una crisi drammatica di occupazione, cioè lavoro sì/lavoro no e soprattutto lavoro no, quindi, con una emergenza nel trovare un lavoro purché fosse, quindi qualunque opportunità lavorativa andava bene e il problema era avere un’opportunità lavorativa. Da questo punto di vista, i servizi al lavoro, paradossalmente, sono meno rilevanti nel momento in cui la domanda di lavoro non esiste. Diventano invece più strategici nel momento in cui la domanda di lavoro riprende. Perché a quel punto c’è davvero l’esigenza di cui parlava un attimo fa Massimo Ferlini, di incrociare correttamente l’offerta con la domanda, cioè di incrociare correttamente il desiderio, il bisogno e la volontà di spendersi, di spendere i propri talenti e le proprie competenze nel lavoro, con una corrispondente necessità di quelle competenze. Quindi non più un lavoro purché sia ma un lavoro funzionale alla realizzazione di un percorso di vita pieno, coerente, completo, da parte evidentemente della persona, e da parte dell’impresa. Uno dei drammi del nostro mercato del lavoro non è solo quello di avere un alto tasso di disoccupazione ma anche di avere un tasso di incrocio sbagliato. In termini tecnici si parla di disallineamento tra le competenze offerte e le competenze richieste. Tante persone infatti vanno a fare un lavoro sbagliato rispetto a quello che è il loro patrimonio di professionalità, e anche il loro patrimonio di aspirazioni, ambizioni, personali. Da questo punto di vista io credo che i servizi diventino ciò che fa veramente la differenza nella qualità dei mercati del lavoro. Noi sappiamo che i mercati del lavoro dove più è radicata la cultura dei servizi al lavoro sono quei mercati dove la produttività è più alta, dove il lavoro viene allocato più correttamente e quindi dove le imprese riescono ad avere dei margini di produttività più alti con un evidente effetto di redistribuzione nella ricchezza complessiva. Come si fa a creare questo sistema di servizi? In Italia mi pare che lo schema ormai sia abbastanza chiaro: mettendo a disposizione quei soggetti che nel tempo si sono in qualche modo autoselezionati, si sono autoselezionati nel mercato (e qui parlo in particolare dei soggetti privati, le agenzie per il lavoro innanzitutto, ma anche di altri soggetti privati che non sono agenzie per il lavoro, che concorrono comunque ad accompagnare la domanda e l’offerta e parlo anche, evidentemente, delle strutture pubbliche che non sono variabili indipendenti rispetto al contesto di mercato, perché laddove non funzionano sono realtà fallimentari che devono essere profondamente cambiate, se non addirittura cancellate e ricostruite). Quindi io credo che il punto di partenza sia complementarietà fra tutti i soggetti che operano all’interno del mercato del lavoro. Complementarietà vuol dire collaborazione, ciascuno per il suo pezzo e ciascuno per la sua funzione. Credo che sia sempre più importante individuare qual è il pezzo e qual è la funzione al fine di evitare sovrapposizioni, sprechi di risorse, duplicazioni di funzioni tra pubblico e privato, che a volte non ha molto senso mantenere, ma forte integrazione, collaborazione e coordinamento. L’Agenzia internazionale, l’Anpal, ha proprio questo scopo, mettere in fila, mettere in ordine, a sistema, questa rete (si chiama MeshAREA). Il concetto di rete è alla base della riforma del 2015 del JobsAct sulla revisione dei servizi per il lavoro, esattamente nel senso di complementarietà. Quello però che è importante è che ci sia una governance forte. È necessario, mi dispiace che oggi non ci sia il Sottosegretario, che a partire dall’impulso politico, che dà per forza e per coerenza le linee di indirizzo, si uniformi il complesso del sistema, in particolare l’Agenzia per le politiche attive, l’Anpal, e poi tutti gli altri soggetti, perché il sistema di governance non è un sistema di anarchia organizzata, ma è un sistema di ordine governato. Questo forse è un po’ mancato, devo dire la verità: nel disegno complessivo della legge c’era l’idea, ma probabilmente è mancata la capacità di far davvero rispettare a ciascuno il suo ruolo e quindi di fare davvero complementarietà, evitando che strumenti e misure di accompagnamento al lavoro si sovrapponessero. Questo non sempre è stato possibile realizzarlo. D’altra parte abbiamo anche tante esperienze virtuose di collaborazione tra pubblico e privato, non solo a livello, di sperimentazione, ma anche a livello sistemico. Noi abbiamo sviluppato degli interventi, come Anpal, con le Regioni, cioè con il livello territoriale. Quindi abbiamo una realtà sulla quale lavorare, non partiamo da zero. Il problema è migliorare l’efficienza, rafforzare la governance e lavorare insieme davvero, cosa che non è ovviamente facile, quando il contesto anche istituzionale di contorno è molto conflittuale, frammentato. Nei momenti di passaggio certamente questo diventa più difficile, ma le istituzioni ci sono, sono lì, i soggetti ci sono, sono lì, il lavoro si fa tutti i giorni. Si è parlato tantissimo dell’investimento che va fatto sui Centri per l’impiego: verissimo, è un investimento fondamentale, ma non è soltanto un investimento in termini di risorse finanziarie, è un investimento in termini di piani di progetti condivisi, di progetti comuni. Questa è, credo, la sfida che ci aspetta all’inizio di questa nuova legislatura, ed è una sfida di prospettiva. Dico sempre che parlare di servizi non significa avere i risultati concreti domani, nel brevissimo periodo, significa creare infrastrutture nel modo di operare, sistemi di governance che consentiranno nel lungo periodo di avere dei risultati stabili, un’efficienza del sistema nel suo complesso maggiore e credo che questo sia l’obiettivo che dobbiamo darci tutti noi che abbiamo interesse ad un mercato del lavoro più moderno e più competitivo.
MASSIMO FERLINI
Grazie Maurizio e la parola adesso a Alessandro Ramazza.
ALESSANDRO RAMAZZA
Vorrei partire dalla considerazione che faceva all’inizio Del Conte. Qui non stiamo parlando del fatto che noi creiamo posti di lavoro. I posti di lavoro li creano le imprese, li creano gli investimenti. Noi facciamo incontrare domande e offerte di lavoro, noi nel senso sia di soggetti pubblici che privati. Questo è bene sottolinearlo anche per non creare aspettative fuori luogo, però noi siamo in grado di svolgere un lavoro esattamente di qualità.
Mi pare che ci sia un grande tema che è il fatto di immaginare un nuovo welfare, adeguato ai grandi cambiamenti del nuovo millennio. Se parliamo di welfare nel campo del lavoro mi pare che ci siano dei pilastri su cui questo welfare dovrebbe poggiare: le politiche passive (oggi in Italia abbiamo il reddito di inclusione, abbiamo la proposta del reddito di cittadinanza), le politiche attive del lavoro e la formazione, perché su questo disallineamento tra le esigenze delle imprese, la figura professionale di cui le imprese hanno bisogno e le competenze e le capacità delle persone, bisogna assolutamente intervenire. Non è che si può intervenire cambiando le imprese, si può intervenire facendo acquisire capacità e competenze appropriate alle persone per andare a ricoprire quelle posizioni. Teniamo conto che in Italia (in particolare nel Nord Italia, concentrati tra il Triveneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna, valutazione di Excelsior, valutazione nostra, coerente) stiamo parlando di un numero tra trecentomila e cinquecentomila posti di lavoro disponibili che non vengono occupati, perché non ci sono i profili professionali adeguati. I profili professionali adeguati in questi casi sono tutti quei profili della filiera della manifattura industriale, in particolare delle macchine, della produzione di macchine e di tutta la filiera digitale. Questo è un gap notevole se pensiamo che è il due per cento dell’occupazione totale. Se prendiamo i lavoratori dipendenti, stiamo parlando di una percentuale che è intorno al 4-5 per cento dei lavoratori dipendenti. Prima Del Conte diceva: laddove i servizi per il lavoro sono evoluti, la produttività è più alta, la produttività del sistema paese è più alta. Uno dei problemi che ha oggi l’Italia è esattamente questo: questa scarsità di figure adeguate alle esigenze in particolare delle industrie e dello sviluppo digitale. Qui oltre alle politiche attive ci vuole un intervento di formazione e un intervento di formazione che anziché imperniarsi sui trascorsi formativi, prenda a riferimento le esigenze delle imprese, con tempismo, perché questo tema del tempo è assolutamente rilevantissimo. Se io ho oggi un’azienda che mi chiede un addetto alle macchine a controllo numerico, non è che gli dico «faccio un corso di formazione per giovani e te lo do tra due anni», perché lui ne ha bisogno adesso. Quindi ho bisogno di avere una capacità di reazione immediata a questa esigenza. Le agenzie per il lavoro, così come le associazioni imprenditoriali, il sistema delle imprese, sono in grado di dire quali sono questi fabbisogni. Qua occorre che anche questa, diciamo, questione del tempismo sia percepita dagli organi istituzionali, in primis le Regioni, che si occupano sia di formazione professionale che di politiche attive del lavoro. Prendo la questione delle politiche attive per il lavoro: la gran parte delle Regioni italiane utilizzano fondi provenienti dal Fondo sociale europeo e periodicamente emettono dei bandi. Sono amministratore, ho disponibilità delle risorse, decido di fare un bando, passa un tempo amministrativo per l’emissione del bando, poi ci sono i soggetti autorizzati che partecipano al bando (passa altro tempo) e, poi, vengono assegnate tutte le risorse. Tutta la prima fase è una fase in assenza di politiche attive per il lavoro, in assenza di intervento. Il ciclo è dominato dagli aspetti amministrativi, non è dominato dalle esigenze delle imprese e dall’esigenza di fare in modo che le persone, in particolare i giovani, acquisiscano rapidamente le competenze per andare ad occupare quei posti di lavoro. Questa è la prima questione che volevo sottolineare e che noi, come soggetti che siamo sul mercato a più diretto contatto con le aziende, sentiamo enormemente. Le agenzie private per il lavoro in Italia, operative, grosso modo sono circa ottanta. Teniamo conto che parliamo di dodicimila addetti distribuiti su tutto il territorio nazionale con 2500 filiali.
I centri per l’impiego hanno complessivamente ottomila addetti di cui all’incirca duemila concentrati in Sicilia con ottocento sedi. A me piace dire che le agenzie per il lavoro sono una infrastruttura sociale per il Paese, perché noi siamo più diffusi e più distribuiti di quanto non lo siano i centri pubblici per l’impiego. E, anche qui, convengo assolutamente con quanto diceva Del Conte, sul tema della complementarietà e della collaborazione tra il pubblico e il privato. Non c’è nessuna competizione e non ci può essere nessuna competizione tra il pubblico e il privato su questo campo. Quando a volte mi chiedono: se aumentano i dipendenti per i centri dell’impiego…noi siamo assolutamente felici e contenti. In Europa le agenzie private per il lavoro sono più sviluppate laddove sono più sviluppati i centri per l’impiego. La questione è quali servizi, quanti, che qualità, che distribuzione noi riusciamo ad avere. Chiaro che se i servizi per il lavoro rimangono asfittici, è un problema complessivo di sistema, al di là di noi come impresa. La collaborazione è anche effettivamente complementare. I centri per l’impiego devono svolgere un’attività amministrativa, di verifica delle condizioni per poter erogare l’assegno. Questo non possono farlo i privati. Io mi permetto di dirlo: non è giusto che lo facciano i privati. Sono soldi pubblici, gestiti dal pubblico che deve verificare con attenzione e deve garantire al soggetto che richiede quel contributo che ne abbia pienamente diritto. Non può farlo, parliamoci chiaro, un soggetto privato. Così come la prima presa in carico, io penso che sia giusto che stia molto presso il pubblico. Perché c’è anche una questione, per chi è disoccupato, di carattere sociale. Una condizione veramente difficile, che probabilmente nel pubblico dovrebbe trovare una risposta più adeguata. Noi siamo invece molto più efficaci nel rapporto con le imprese perché ne conosciamo le necessità, quindi siamo in grado di lavorare estremamente bene sull’inserimento lavorativo, sull’accompagnamento al lavoro e sulla formazione per trovare l’adeguato inserimento.
MASSIMO FERLINI
Grazie perché si sono aperti diversi filoni di riflessione e di discussione. Parto dal primo, perché è assente al tavolo, che non è il sottosegretario ma le Regioni. Lo dico perché ovviamente noi abbiamo, per quello che riguarda le politiche, i servizi anche che la persona può aspettarsi, un patchwork di opzioni a seconda delle Regioni, perché molto è deciso dalle politiche, dalle scelte dalle leggi, dalla normativa che le singole Regioni hanno fatto. Tuttora, nonostante i passi avanti, faccio l’esempio di quando si fece la riforma del mercato del lavoro in Lombardia, mi conviene risiedere al di qual del ponte del Po di Piacenza ed avere i servizi lombardi, se rimango disoccupato, che non risiedere dall’altra parte del ponte del Po e ricevere i servizi dell’Emilia Romagna. Stiamo facendo un confronto fra due che sono comunque fra le migliori offerte di servizi a livello europeo, non solo italiano; però ve lo butto lì, perché vorrei capire da un lato come si può lavorare perché ci sia almeno una similitudine se non una eguaglianza di quelle che sono le best practices offerte ai cittadini. Quello delle best practices è un problema che sia dal punto di vista della gestione dei servizi privati sia dal punto di vista della gestione dei servizi pubblici, mi pare sia molto sentito nel settore.
ALESSANDRO RAMAZZA
Dal nostro punto di vista è un problema persistente. Noi abbiamo in Italia venti politiche attive del lavoro, una per ogni Regione, nel senso che è pur vero che Anpal coordina e ha un governo nazionale, ma sulle singole politiche e i singoli bandi di cui parlavo prima, ogni regione decide a modo suo. Di venti diverse realtà, per esempio, lo dico riflettendo su di noi, ce n’è solo una che sostanzialmente non fa bandi ed eroga le risorse a nastro, non avendo lacune temporali, ed è la Lombardia; tutte le altre lavorano con i bandi, e quando finiscono le risorse di un bando, bisogna decidere di farne un altro, c’è il tempo amministrativo, c’è la selezione, poi si ricomincia e in quei mesi lì non ci sono politiche attive del lavoro. L’altra considerazione è questa: su una ventina di realtà regionali, grosso modo, in un terzo le Agenzie per il lavoro operano efficacemente, in un altro terzo con serie difficoltà, nel terzo rimanente addirittura molto spesso non sono prese in considerazione e non fanno politiche attive del lavoro. Se guardiamo la situazione con gli occhi dell’impresa privata, insomma fare un investimento su politiche attive del lavoro, per noi che siamo distribuiti su tutto il territorio nazionale, sapendo che una Regione è diversa dall’altra, insomma obiettivamente è molto difficile. La mia agenzia per il lavoro, quella nella quale faccio l’amministratore, quella nella quale fino a pochi anni fa facevo il presidente, non ha mai guadagnato soldi, è una attività in perdita, sostanzialmente, ed è un’attività che le agenzie per il lavoro fanno perché ritengono che sia giusto fare; ora è chiaro che qui c’è una difficoltà, una ruggine, non c’è fluidità in ciò; quando dico questo lo dico nell’interesse del bene comune, non di noi come soggetti, perché dovremmo immaginare una grande rete, pubblica e privata, fatta di Centro per l’Impiego e di agenzie per il lavoro che dia risposta alle persone, una grande rete che sia costantemente attiva e anche proattiva, che proponga formazione, che proponga progetti alle imprese, mi permetto anche di dire che proponga mobilità territoriale, perché è chiaro che ciascuno vorrebbe lavorare sotto casa sua, però, ripeto, nel nord est, in Lombardia, in Emilia Romagna ci sono da trecentomila a cinquecentomila posti di lavori oggi non coperti e nel sud abbiamo una overdose di offerta di forza lavoro, oltretutto di giovani estremamente ben preparati, perché anche le università del Mezzogiorno formano in maniera eccellente. Quindi, ci sarebbe una grande necessità di fluidità e di efficacia di queste politiche, però obiettivamente, non è una critica, obiettivamente quello che noi osserviamo e che viviamo tutti i giorni, è che questa articolazione su venti diverse governance regionali crea enormi difficoltà.
MAURIZIO DEL CONTE
Io sono convinto che questo della omogeneizzazione dei servizi su tutto il territorio sia, forse, il tema che oggi dovrebbe occupare tutti i soggetti della rete delle politiche attive, come obiettivo principale. Lo dico perché, comunque lo si prenda, cioè dal lato dell’utente o dal lato dell’efficienza del sistema nel suo complesso, la soluzione non può che essere questa. Dal lato dell’utente non è immaginabile che i diritti siano declinati differentemente a seconda del luogo in cui uno si trova a vivere o a lavorare; siamo in un Paese che ritiene di dovere garantire diritti uguali a tutti i cittadini, non è pensabile che questi diritti abbiano un assetto variabile in funzione della geografia. Dal lato del sistema mi pare evidente che laddove è possibile fare economia di scala e portare a sistema le esperienze migliori non possa che guadagnarci tutta la filiera del lavoro e della produzione e quindi del benessere complessivo della società. Se (questa è una riflessione che andrebbe forse fatta) le agenzie del lavoro che lavorano su tutto il territorio, esprimono disagio per la necessità di dovere cambiare regole di ingaggio, regole di funzionamento in ognuna delle ventuno realtà territoriali italiane, non credo che sia una posizione di tipo ideologico, centralista versus regionalista, credo che sia una posizione che segue un modello di efficienza; allora però l’efficienza vuol dire che chi opera necessariamente sul territorio sa che avere la disponibilità di strumenti nazionali, di avere la disponibilità di procedura nazionali, che avere la semplificazione di regole a livello nazionale è un elemento che migliora la performance, e quindi non può che essere nell’interesse del territorio, cioè del luogo dove la performance poi concretamente si realizza, quello di avere un sistema alle spalle massimamente efficiente, che riduce tutti i costi di transazione inutili e tutte le moltiplicazioni inutili di procedure che inevitabilmente poi si riflettono sul servizio erogato sul territorio. Sotto questo profilo io credo che sia arrivato il momento di aprire davvero un tavolo fra tutti i soggetti della rete per i servizi per il lavoro, con un obiettivo: costruire un modello comune di politiche attive, che non significa costruire un modello unico, significa costruire una infrastruttura comune, data la quale sia poi possibile articolare a livello territoriale le specificità. L’infrastruttura fondamentale, però, deve essere comune, io posso trattare la malattia del paziente, di ogni paziente se attrezzo il pronto soccorso con degli standard, con delle apparecchiature, con delle competenze che siano uguali per ciascun pronto soccorso, perché non è che il malato di Reggio Calabria è diverso dal malato di Milano. È evidente che ogni malattia ha bisogno di essere trattata secondo le specifiche che la letteratura scientifica medica ha elaborato per quella malattia, ma le attrezzature, le competenze, i protocolli devono essere condivisi da tutti, altrimenti si va verso l’inefficienza quando non verso l’improvvisazione. Io credo che se si vuole parlare delle nuove politiche attive non è possibile farlo senza condividere un modello comune; il che significa non soltanto avere un tavolo nel quale ognuno dice la sua, ma avere un progetto che passi dal confronto alla proposta, alla condivisione e poi all’azione. Un progetto degli stati generali delle politiche attive che veda una procedura, un percorso con dei tempi certi e possibilmente anche non troppo lunghi, con l’obiettivo di produrre un modello di governance, di gestione delle politiche attive condiviso, con delle regole minime. Nel nostro Paese tutto ciò ancora non si è realizzato ed è la causa di buona parte di ciò che ha appena detto il presidente Ramazza, cioè del fatto che ci sia un terzo di Regioni che funziona, un terzo che va così e un terzo che in realtà non funziona per niente, perché dove non funzionano i privati non è che funziona bene il pubblico, anzi, tutto sommato, il funzionamento dei privati anche in Italia coincide con il funzionamento del pubblico. Dove in Italia il pubblico funziona, funziona anche il privato, dove in Italia il pubblico non funziona, non funziona neanche il privato e viceversa. Quindi è necessario fare questo salto di prospettiva culturale, che nasce dall’idea che ciascuno deve affermare la propria identità e la propria autonomia, in una direzione nella quale ciascuno afferma la propria identità e autonomia in modo efficace soltanto se è all’interno di un sistema ordinato e regolato da regole chiare. Io faccio solo l’esempio dell’accreditamento per l’assegno di ricollocazione, sul quale tanto ci si è divisi a livello più ideologico, forse, che non pragmatico. Sembrava una sorta di lesa maestà quella di imporre l’accreditamento nazionale per i soggetti che fossero accreditati a operare sull’assegno di ricollocazione: lesa maestà dell’autonomia regionale! Ma in realtà è l’unico modo per avere un minimo di efficienza e di diffusione su tutto il territorio nazionale di uno strumento con delle caratteristiche standard. Poi è evidente che a livello regionale lo stesso strumento si declini in modo differente, magari aggiungendoci pezzi come la formazione o specializzandolo o ampliandone, per esempio, la portata su platee più vaste, come è stato fatto in alcune Regioni. Ma si deve partire da un elemento comune, altrimenti c’è il rischio di disperdere le risorse e di continuare ad avere un sistema in fase di sperimentazione cronica. Noi corriamo il forte rischio di non uscire da questa cronicizzazione di una occasionalità frammentaria delle politiche attive, che sono, a mio modo di vedere, questa occasionalità e frammentarietà, sono i peggiori ostacoli culturali alla diffusione della idea stessa delle politiche attive. Quindi io rinnovo e lancerò adesso con la ripresa di settembre questo appello e questo progetto comune, perché si lavori ad un obiettivo di modello condiviso di politiche attive nazionali.
MASSIMO FERLINI
Io credo che avremo modo durante la settimana di rilanciare questa proposta e di sottoporla al giudizio e alla valutazione di altri interlocutori, e lo dico perché per noi l’importanza del tema del lavoro è sempre stata quella di risottolineare l’universalità di questo bisogno. Il nostro amico Mortaletti, in un intervento fatto qui qualche ora fa, ricordava pochi importanti grandi numeri del mercato del lavoro italiano. Uno di questi, che riguarda i servizi, è che il 55 per cento circa delle persone usano dei servizi professionali per trovare lavoro, il 45 per cento invece usa canali familiari o amicali. Dentro questi due grandi numeri, che non segnalano un grande ritardo rispetto agli altri Paesi, segnalano però una spaccatura del mercato, quel 45 per cento che passa attraverso canali familiari o amicali si rivolge a professioni con bassissima professionalità e a bassissimo salario e a precariati, mentre quell’altro 55 per cento accede a lavori e a professioni che danno adito poi a percorsi di carriera e di inserimento lavorativo stabile. Io sono dell’idea che ci sia la necessità di rafforzare i servizi al lavoro per renderli più praticabili e utili per tutti. Lo dico perché noi abbiamo tre ritardi storici in Italia, che sono quelli che poi ci danno il fatto di avere un tasso di occupazione di grave ritardo rispetto al tasso di sviluppo economico del Paese: un’alta disoccupazione dei giovani, un bassissimo tasso di occupazione femminile e uno squilibrio nord/sud fortemente accentuato a scapito del mezzogiorno sia in termini di tasso di occupazione sia in termini di tasso di disoccupazione. Voi rappresentate un po’ quelli che dovrebbero migliorare l’incontro domanda e offerta di lavoro, allora vi chiedo: quali politiche o quali esperienze di questi anni segnalereste come best practices per rispondere a quelli che sono un po’ i nodi importanti del mercato del lavoro italiano?
MAURIZIO DEL CONTE
Io innanzitutto credo che il nostro mercato del lavoro sia stato finora poco trasparente anche in termini di conoscenza della sua composizione, cioè noi, in realtà, di informazioni qualitative sul mercato del lavoro ne abbiamo avute poche. Devo dire che da questo punto di vista l’indagine Excelsior sia, oltre ovviamente ai dati Istat, forse una delle fonti che più possono essere di aiuto all’intera filiera della formazione, e quindi degli intermediari del mercato del lavoro, per costruire percorsi coerenti con la domanda di competenze, perché noi sappiamo benissimo come troppo spesso proprio questo sistema dei bandi si sia basato su percezioni che non avevano un riscontro obiettivo di mercato. Il bando, infatti, di per sé costruisce delle offerte formative a blocchi, ma può essere affinato se è un sistema continuamente in itinere e quindi continuamente aggiornato e strettamente collegato ad una conoscenza giorno per giorno dell’evoluzione del mercato del lavoro. Se invece il bando della formazione è fatto sotto forte pressione dell’ente formatore, che tendenzialmente ha in pancia dei corsi già pronti, finisce con l’influenzare il committente del bando stesso. Non voglio naturalmente fare accuse a nessuno, ma insomma questa è una prassi che abbiamo visto in tante realtà. Dobbiamo dircele le cose: la formazione professionale in Italia è stata fatta o molto bene o molto male, e purtroppo, quando spesso succede, quando le esperienze sono negative, si riverberano negativamente anche sulle esperienze positive. Ci sono Regioni del nostro Paese che non possono certo lamentarsi per la quantità di risorse messe a disposizione, in particolare dai fondi europei, sulla formazione; risorse di svariate centinaia di milioni di euro per periodi di tre anni, dove di queste svariate centinaia di milioni di euro ne è stato speso qualcuno, qualche milione di euro, con un rapporto di uno a cento. Questo perché evidentemente c’è un problema nella costruzione dei percorsi formativi. È inutile che noi ci continuiamo a stupire del fatto che tante posizioni di lavoro non trovino effettivamente le competenze nei nostri ragazzi o anche nelle persone più mature; se tu non hai orientato l’offerta formativa sulla base della domanda, è difficile che quell’offerta formativa sia effettivamente efficace, ed è difficile che la domanda trovi effettivamente soddisfazione in ciò che esce dall’offerta formativa. Da questo punto di vista tutte le esperienze di raccordo nella filiera fra la scuola, la formazione professionale e il mondo del lavoro sono fondamentali. Noi sappiamo come in tutti i Paesi europei, dove i sistemi cosiddetti duali o di alternanza sono meglio strutturati, il tasso di occupazione ad un anno dal completamento del ciclo di studi è il più elevato, e viceversa dove non c’è questa cultura dell’alternanza, dove non c’è la cultura del raccordo fra scuola e lavoro, il tasso di occupazione è il più basso. Ci sono studi che fanno veramente impressione nel vedere la mappa dei Paesi europei, del tasso di occupazione ad un anno e del sistema duale come effettivamente corrispondono con precisione. Il problema è che da noi ci sono delle fortissime resistenze, ci sono ancora una volta delle fortissime resistenze culturali; io leggo in questi giorni che ci sono professori e intellettuali che dicono: cogliamo questo momento per contrastare la malsana idea dell’alternanza scuola-lavoro, cogliamo questo momento per cancellare le riforme fatte appunto dalla buona scuola sul duale e sull’alternanza, e ritorniamo alla purezza dello studio rispetto alla contaminazione, anzi vorrei dire alla corruzione, in questa accezione negativa che viene data del lavoro. Questo è veramente un pensiero a mio modo di vedere retrogrado, è un pensiero che questo sì, lasciatemelo dire, è figlio di un elitismo culturale di chi si poteva permettere di distinguere la formazione e l’educazione dal lavoro, perché sarebbe stato accompagnato dalla famiglia o dalle sue reti personali verso il lavoro a prescindere da qualunque esperienza avesse effettivamente maturato e c’è una sorta di revanscismo di questo elitismo che ritiene di poter rivendicare in questi giorni, in questo contesto storico, di nuovo la separatezza, la purezza dello studio rispetto al lavoro. Se si facesse quest’errore, cioè se ci facessimo suggestionare da questo pensiero, io credo che perderemmo ancora una volta contatto con i Paesi che hanno un approccio invece più pragmatico e che hanno una efficacia ed una efficienza del mercato del lavoro migliore, i Paesi nord-europei, e perderemmo un altro treno fondamentale per l’innovazione e per l’ammodernamento del nostro mercato del lavoro. Su questo io credo che sia fondamentale una battaglia culturale: la cultura non sta nella separazione fra il percorso educativo ed il percorso lavorativo, questa è sub-cultura che fa parte di un retaggio passato, ancora una volta un retaggio di pochi privilegiati e che coltivare oggi sarebbe davvero catastrofico.
MASSIMO FERLINI
Grazie. La parola a Ramazza.
ALESSANDRO RAMAZZA
Intanto faccio due dichiarazioni: la prima è che sono completamente disponibile e d’accordo, parlo a nome dell’associazione Assolavoro, sulla proposta che richiamava il presidente Del Conte nell’intervento precedente, cioè di dare vita agli Stati Generali delle politiche attive per il lavoro, per addivenire ad un modello condiviso delle politiche attive; la nostra disponibilità è totale, noi siamo assolutamente d’accordo, valuterà l’Anpal come organizzarla, come gestirla il ministero del Lavoro, la nostra disponibilità è assoluta in qualsiasi direzione, in qualsiasi forma di coinvolgimento voi riteniate possano essere coinvolte le agenzie per il lavoro. L’altra sottolineatura che io volevo fare riguarda un richiamo che ha fatto Del Conte sul fatto che nel nostro Paese abbiamo dati sul mercato del lavoro essenzialmente quantitativi. Noi alla fine di ogni mese leggiamo articoli sui giornali, dichiarazioni di esponenti politici, istituzionali e sindacali sull’andamento del tasso di occupazione, del tasso di disoccupazione; e che l’Italia vada bene o male dipende da uno zero, in più o in meno, tra l’altro molto spesso del tasso di disoccupazione giovanile, che è bene ricordare che è il tasso di disoccupazione di coloro che hanno tra i 16 e i 25 anni, e il tasso di disoccupazione è la percentuale dei disoccupati sul totale di coloro che cercano o che hanno lavoro, ma tra i 16 e i 25 anni, la prevalenza sono studenti e poi abbiamo i neet, che non studiano né lavorano, né cercano lavoro, quindi stiamo parlando di un centinaio di migliaia di persone e su questo si valuta l’andamento dell’occupazione del nostro Paese, mentre la grande questione, oltre che assolutamente quantitativa, è qualitativa. Excelsior è una fonte, qui vedo il professor Mezzanzani che ripetutamente ha fatto ricerche, per esempio sugli annunci che vengono fatti sul web di ricerca di lavoro, che è un dato se volete caldo, se volete empirico, però rilevante, si va a guardare effettivamente che cosa sta accadendo nel mercato del lavoro. Ferlini prima chiedeva: quali sono le esperienze che vi sentite di indicare come esperienze rilevanti e positive? Ne indico due: la prima gli Its, assolutamente gli Its, realtà formative post-diploma, biennali, incardinate o su un sistema territoriale o su un settore, su distretti industriali, laddove è possibile avere una pianificazione delle esigenze produttive o di quel settore o di quel distretto o di quel territorio, e quindi l’arco temporale biennale è un arco temporale che rassicura le imprese sul fatto di avere alimentazione di profili adeguati e allo stesso tempo rassicura i giovani e le famiglie sul fatto che seguendo quel percorso si ha una sicurezza di immediato inserimento lavorativo,
L’altra, lasciatemelo dire, è il nostro utilizzo del fondo di formazione Formatemp. Mentre gli Its sono, diciamo, degli interventi formativi che hanno una gittata a due, tre anni, Formatemp e il modo in cui noi lo utilizziamo, è in grado di fare interventi di formazione temporalmente molto più efficaci, immediati. Nell’arco di dieci giorni noi siamo in grado di organizzare un corso di formazione, magari non lunghissimo, più adeguato all’immediato inserimento lavorativo. Ecco, queste due esperienze, a mio modo di vedere, dovrebbero essere prese a riferimento. Sugli Its, invece, abbiamo dei vincoli molto, molto forti e sulla formazione professionale, quella finanziata con i fondi europei e gestita dalle Regioni, abbiamo dei tempi di decisione che solitamente sono molto più lunghi di quelli, per esempio, che noi abbiamo con Formatemp. Molti di noi hanno valutato in questi anni la possibilità di utilizzare anche queste risorse di formazione, ma noi incontriamo le esigenze delle imprese che ci chiedono per domani quel profilo professionale e la procedura per la formazione professionale regionale non è in grado di darci tempi ragionevoli per potere fornire capacità e competenze per un inserimento lavorativo rapido.
L’altra considerazione che voglio fare riguarda un tema che non è stato toccato, ma che gli anni passati sembrava essere il totem di questi ragionamenti e cioè il database del lavoro. Io voglio ricordare che nel nostro Paese, negli ultimi diciott’anni, tra clicklavoro, sistema informativo banca-dati lavoro e quant’altro avremo buttato alcune centinaia di milioni di euro, per fare la fortuna delle aziende che hanno lavorato a questi programmi, ma per non colpire in nulla, acqua sul marmo, l’andamento del mercato del lavoro.
Ho ascoltato l’audizione fatta dal Cnel, da Tiziano Treu e dalla professoressa Ciucciolino, presso la commissione lavoro del Senato, dove veniva presentato un lavoro fatto dal Cnel, con la proposta di utilizzare la tecnologia Blockchain sui database esistenti dell’Inps e dell’Inail e trovo che questo, tra le altre cose, sia quanto mai ragionevole, in primo luogo perché il vero grande database è quello dell’Inps e l’utilizzo della tecnologia Blockchain è in grado di mettere in comunicazione diversi database, segregandoli con un certo grado di sicurezza, senza stare a costruire nuovi grandi progetti di database. Sottolineo il fatto che nel nostro Paese svariate Regioni hanno anche finanziato database regionali del lavoro, senza approdare ad alcun significativo risultato. L’altro punto che volevo sottolineare è questo: le politiche attive servono ovviamente a coloro che cercano lavoro, ma voglio ricordare che ci sono anche situazioni, per esempio, di crisi occupazionali, in questi giorni abbiamo questa situazione in Toscana della Beckert, che intende uscire dal Paese, dismettere, chiudere quello stabilimento; ora, ci sono delle esperienze, best practices, ultima quella dell’Embraco in Piemonte, la gran parte delle quali fanno capo ad agenzie per il lavoro, che sono in grado di realizzare questo processo: prendersi in carico i lavoratori, cercare un nuovo subentrante nello stabilimento, che magari non fa le stesse produzioni che venivano fatte prima, ma ne fa di diverse, quindi non è in concorrenza con chi se ne va, fare formazione del personale e preoccuparsi del reinserimento presso i subentranti. Teniamo conto che il caso Embraco era un caso che sembrava assolutamente disperato: stiamo parlando di capannoni che sono tra Cuneo e Torino, in un posto dove intorno non c’è nulla, quindi pensare di ricollocare altrove o presso altre imprese quei lavoratori, era veramente un’impresa impossibile. In questa maniera invece, con due nuovi subentranti, la gran parte di quei lavoratori verranno formati e ricollocati presso lo stesso stabilimento e la stessa struttura. Stessa cosa si potrebbe fare per la Beckert. Queste sono esperienze che andrebbero assolutamente valorizzate e non è un soggetto pubblico che è in grado di realizzarle, perché qui c’è il problema del rapporto con l’impresa che se ne va, con l’impresa che entra, e lasciamo stare il fatto che l’impresa che se ne va debba pagare, abbia preso o meno soldi pubblici: io sono d’accordo che se uno ha preso soldi pubblici e poi se ne va non va bene, li deve dare indietro; però se uno non ha preso soldi pubblici e decide di andarsene, non è che possiamo tenerlo qua con il mitra, l’importante è l’occupazione, l’importante è l’insediamento produttivo.
L’ultima questione che sottolineo è quella dell’orientamento: io trovo che anche questo sia un grande tema sottovalutato, lo diceva anche Del Conte poco fa: tutto nasce anche dall’approccio culturale e dai percorsi formativi. Teniamo conto che l’orientamento scolastico delle scuole, l’orientamento professionale delle Regioni, l’alternanza scuola-lavoro ha svariati soggetti che operano. Si studia per formare la persona, ma si studia per prepararsi anche al lavoro, esasperare il primo punto ritenendo che non si debba studiare per prepararsi al lavoro, come diceva Del Conte, è una visione aristocratica del mondo che vale solo per coloro che se lo possono permettere. Coloro che hanno invece bisogno di lavorare per mantenersi fin da quando sono giovani, hanno bisogno di essere formati per potere lavorare. Orientare le persone spiegando loro quali sono le chance occupazionali di un determinato percorso formativo sia la scuola secondaria superiore, sia il percorso universitario, siano i percorsi di formazione professionale, credo che sia una cosa essenziale, poi ciascuno sceglie come meglio ritiene, però che sappia che se fa un percorso universitario di scienza della comunicazione, ha una determinata probabilità di avere un’occupazione coerente con ciò che ha studiato e se fa ingegneria meccanica ha un’altra completamente differente possibilità di inserimento lavorativo coerente con il suo percorso di studi, penso sia una cosa utile.
MASSIMO FERLINI
Grazie, io ringrazio entrambi i relatori perché hanno dato vita a una discussione e ad una segnalazione di spunti di riflessione per il lavoro che potremo fare nell’autunno, molto importante. Io credo e sono convinto che la riforma più importante fatta nell’ultimo periodo, sia stata quella dell’introduzione del sistema duale e che questo scardini e possa diventare determinante per ridisegnare il sistema della formazione professionale nel nostro Paese, aprendo prospettive di incontro fra disegno di percorsi professionalizzanti, sbocchi lavorativi certi per i ragazzi che vogliono seguirli e per recuperare così professioni che oggi non vedono nessuna formazione o percorsi formativi adeguati. Il fatto che vi siano alcuni percorsi di formazione e di studi che non danno sbocchi lavorativi, che non sono richiesti e nello stesso tempo che ci siano percorsi poco frequentati per quelle formazioni tecnico-scientifiche, rimane una base determinante, ed uno dei ritardi determinanti del Paese. Tornare indietro su questo segnerebbe sicuramente un errore importante e determinante proprio per il rapporto giovani-lavoro che si è venuto creando ed è stato fatto crescere nel corso di questi anni. L’altra cosa che credo sia importante è che la proposta lanciata deve arrivare in autunno negli Stati Generali per le politiche attive del lavoro, in modo tale da avere un modello unico di riferimento nazionale e avviare una collaborazione pubblico-privato su questo. Lo dico proprio perché l’insistenza con cui noi abbiamo portato avanti gli impegni perché si sviluppassero prima le politiche del lavoro, poi le politiche attive, poi i servizi, in modo tale che tutti potessero trovare chi si può far carico del loro bisogno di lavoro. Ringrazio tutti per l’attenzione. Chiudo con un appello e un richiamo che quest’anno i moderatori sono tenuti a fare: ciò che rende possibile il Meeting è soprattutto la gratuità, la gratuità di quelli che hanno lavorato a montarlo e a prepararlo, ma anche di quelli che lo sostengono, sottoscrivendo e sponsorizzando l’iniziativa del Meeting. Ora, proprio perché vorremmo mantenere la caratteristica della gratuità della manifestazione per chi vuole partecipare, abbiamo moltiplicato le postazioni “Dona ora”, che sono quelle ufficiali del Meeting, dove chi vuole può lasciare un contributo per mandare avanti e sostenere l’iniziativa anche per i prossimi anni. Grazie a tutti e buona serata!
Trascrizione non rivista dai relatori