LE MIGLIORI CONDIZIONI PER CONIUGARE LAVORO, CRESCITA PROFESSIONALE, VITA PRIVATA E SOCIALE

In diretta su La Stampa

Marco Ceresa, Group CEO Randstad; Rita Ghedini Componente della Presidenza Nazionale di Legacoop con Delega al Buon Lavoro Cooperativo; Enrico Giovannini, economista e statistico, cofondatore e direttore scientifico ASVIS, presidente comitato scientifico Randstad Research; Mario Mezzanzanica, professore di Computer Science and Engineering, Università Milano Bicocca, Dipartimento Lavoro Fondazione per la Sussidiarietà; Tiziana Nisini, vicepresidente della XI Commissione Lavoro pubblico e privato. Modera Giorgio Vittadini, presidente Fondazione per la Sussidiarietà

Il cambiamento è una costante nella vita professionale, influenzato da mega trend come globalizzazione, innovazione tecnologica, demografia e transizione ecologica, oltre a fenomeni come la “great resignation” e il “great reshuffle”. Le persone cercano migliori condizioni lavorative, che comprendono un miglior equilibrio tra vita professionale e privata e opportunità di avanzamento di carriera. La ricerca di Randstad Research e Fondazione per la Sussidiarietà analizza i fattori e i potenziali interventi che qualificano e rispondono al desiderio di trovare una corretta combinazione tra vita personale e lavorativa, e, allo stesso tempo, i fattori che consentono di garantire lo sviluppo di una professionalità.

Con il sostegno di Eni, Randstad, Montello

LE MIGLIORI CONDIZIONI PER CONIUGARE LAVORO, CRESCITA PROFESSIONALE, VITA PRIVATA E SOCIALE

LE MIGLIORI CONDIZIONI PER CONIUGARE LAVORO, CRESCITA PROFESSIONALE, VITA PRIVATA E SOCIALE

Giovedì 22 agosto 2024 ore 15:00

Sala Conai A2

Partecipano:
Marco Ceresa, Group CEO Randstad; Rita Ghedini Componente della Presidenza Nazionale di Legacoop con Delega al Buon Lavoro Cooperativo; Enrico Giovannini, economista e statistico, cofondatore e direttore scientifico ASVIS, presidente comitato scientifico Randstad Research; Mario Mezzanzanica, professore di Computer Science and Engineering, Università Milano Bicocca, Dipartimento Lavoro Fondazione per la Sussidiarietà; Tiziana Nisini, vicepresidente della XI Commissione Lavoro pubblico e privato.

Modera:

Giorgio Vittadini, presidente Fondazione per la Sussidiarietà

Vittadini. Buongiorno, benvenuti a questo incontro che ha come tema il lavoro, uno dei temi importanti di questo Meeting, perché nell’essenziale c’è il lavoro. Tuttavia, questo incontro ha una caratteristica particolare: è una prima discussione su una ricerca che la Fondazione Sussidiarietà ha condotto insieme, in collaborazione con Randstad, sul tema delle migliori condizioni per coniugare lavoro, crescita professionale, vita privata e sociale. Quindi, un titolo veramente impegnativo, perché non si tratta della classica ricerca semplicemente sul lavoro, sulla quantità di occupati, che è compito, caso mai, dell’ISTAT, ma è qualcosa che va a fondo per capire il tipo di persona di cui c’è bisogno oggi nel lavoro e cosa stanno cercando le imprese. Ma, prima di introdurre più dettagliatamente, vorrei sottolineare che questo è un incontro ad altissimo livello per la qualità delle persone presenti. Abbiamo tra di noi, leggendo in ordine alfabetico, Marco Ceresa, che è il CEO del gruppo Randstad, ospite quasi fisso del Meeting, e aggiungo grande curioso e studioso, oltre che amministratore delegato, proprio un uomo interessato a conoscere il lavoro. Poi abbiamo Rita Ghedini, componente della Presidenza nazionale di Legacoop, con delega al Buon Lavoro Cooperativo. Anche qui è interessante perché questo è un aspetto che il Meeting ha sempre ritenuto fondamentale: il lavoro con questo aspetto di socialità. E poi abbiamo una personalità di livello internazionale, che è Enrico Giovannini, economista e statistico, co-fondatore e direttore scientifico di ASviS, che conosciamo tutti per essere il punto di riferimento più avanzato in Italia nello studio della sostenibilità, e presidente del Comitato scientifico di Randstad Research. È stato ministro, presidente dell’ISTAT e dell’OCSE, quindi possiamo dire che non sbagliamo se ci affidiamo a ciò che lui ci dice su cos’è il lavoro e il lavoro sostenibile. Infine, Tiziana Nisini, vicepresidente della Commissione Lavoro pubblico e privato, un ruolo importante perché per noi il nesso tra impresa, ricerca e politica è un nesso virtuoso, a differenza di quello che può avvenire altrove.
Quindi, introduco brevemente l’incontro per dire che ci inseriamo nelle analisi effettuate sul mercato del lavoro dopo la pandemia. Che cosa è cambiato? Troviamo che crescono le assunzioni con contratti a tempo indeterminato e le trasformazioni di contratti da tempo determinato a indeterminato, ma dall’altra parte crescono le dimissioni volontarie dal lavoro. Una volta si diceva “meno male che ho un lavoro”, adesso invece si sentono frasi come “great resignation” e “burnout”, con persone che si dimettono. Questo è un cambiamento molto importante. Oggi, come ci diranno poi i nostri ospiti, chi cerca lavoro non chiede solo “per favore”, ma si informa su quanto smart working è possibile, quali sono le condizioni, fino a quando dovrà lavorare. L’aspetto umano è quasi un contro-interrogatorio da parte del candidato rispetto a ciò che l’azienda cerca. Dall’altra parte, le imprese, e sembrerà strano perché parliamo sempre di disoccupazione e altro, dicono che mancano i lavoratori. Mancano i lavoratori, potremmo dire, “white collar”, ma mancano anche i “blue collar”. Voglio dire che i temi fondamentali, retribuzione e benefit, visibilità del percorso di carriera e il bilancio tra lavoro e vita privata, sono oggi complementari. Non si tratta più solamente di ottenere un lavoro fisso e uno stipendio. Dunque, do solo i titoli della ricerca che il professor Mezzanzanica, che ho lasciato per ultimo perché è colui che ha condotto la ricerca e, soprattutto, è direttore del mio dipartimento, quindi un po’ di spazio glielo devo per motivi personali, ci presenterà. La ricerca si focalizza su tre argomenti: la formazione e le soft skills, una nuova centralità. Lui ci spiegherà cosa sono queste soft skills e perché sono diventate così centrali nella ricerca, che non riguarda solo ciò che si conosce, ma anche le competenze trasversali e altro. Il secondo tema è la conciliazione tra vita e lavoro. Io ho a che fare con tanti giovani, e questo è un tema sentito da tutti, particolarmente dalle donne. Abbiamo un problema di natalità, ma molte donne mi dicono: “Vorrei lavorare e avere figli, avere una vita”, anche gli uomini sentono la stessa esigenza. E questo cosa significa? È il bisogno di significato. Questa è una novità, perché quando si parla di lavoro, si parla sempre di numeri, ma l’aspetto del significato, che è incluso nella ricerca, è sempre stato poco considerato. Infatti, il terzo tema è proprio il significato del lavoro, sia dal punto di vista personale che collettivo. Anche qui, ripeto, è qualcosa di nuovo. Le ricerche sul lavoro, una volta, erano solo ricerche quantitative. Questo aspetto umano, che magari era sottolineato quando si parlava a livello di Legacoop, non era così enfatizzato. Ma se andate a leggere i 17 obiettivi di sostenibilità, come ci dice sempre il professor Giovannini, essi includono non solo il cambiamento climatico, ma anche questi temi, che magari sono meno evidenziati. Vogliamo innanzitutto ascoltare la presentazione della ricerca dal professor Mezzanzanica, poi ci sarà un primo giro di interventi di 8-10 minuti e, infine, una parte più veloce con i nostri interlocutori. Prego quindi, professor Mezzanzanica.

Mezzanzanica. Grazie e buongiorno a tutti. Provo a dare molto velocemente alcuni flash che nascono dalla ricerca, poi c’è l’opportunità di scaricarla dal sito di Raster Research e anche dalla Fondazione per la Sussidiarietà, e quindi coloro che sono interessati possono approfondire alcuni temi che verranno toccati. Parto da un quadro velocissimo di contesto, che prima è stato accennato dal professor Vittadini, cioè noi siamo davanti a un mercato del lavoro che, dopo la pandemia, aveva destato preoccupazione per il blocco dei licenziamenti. Tutti temevano che ci sarebbe stata un’esplosione dei licenziamenti e una conseguente caduta degli indicatori primari del mercato del lavoro. Invece ci siamo trovati di fronte a una crescita significativa che ha raggiunto addirittura il massimo storico del tasso di occupazione, arrivato al 62,3%, cosa che non era mai successa nel nostro Paese. Questo indica sostanzialmente che c’è la possibilità di una maggiore partecipazione delle persone al mercato del lavoro, soprattutto della partecipazione femminile e dei giovani. Questo dato positivo, cioè l’aumento del tasso di occupazione e la riduzione del tasso di disoccupazione, non è però l’unica caratteristica del mercato del lavoro. Permangono alcune criticità presenti da lungo tempo. Innanzitutto pesa il fatto che esista un’incidenza di occupati sovraistruiti, soprattutto tra i giovani. Per dare un’idea, il 39% dei giovani si trova in questa situazione, nonostante ci sia una grande richiesta di professionalità da parte delle imprese, e in particolare la popolazione femminile è penalizzata dal fenomeno della sovraoccupazione. Un altro aspetto critico riguarda l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro: sebbene il tasso di occupazione giovanile sia cresciuto, i giovani continuano a incontrare difficoltà, e anche in questo caso le donne sono particolarmente penalizzate. Ma forse il dato più critico è il diffondersi del cosiddetto “lavoro povero”, ossia un lavoro che offre un salario insufficiente per il mantenimento della famiglia. Per dare un’idea quantitativa, i lavoratori poveri in Italia sono l’11%, contro una media dell’8,2% nell’UE a 27 Paesi. Per avere un’idea del valore del “lavoro povero”, così come definito da Istat ed Eurostat, in Italia si parla di un valore mediano di 11.155 euro come salario. Questo evidentemente non consente ai lavoratori di mantenere una famiglia. In questo contesto, dove ci sono fattori positivi ma permangono forti criticità, abbiamo cercato di analizzare cosa stia succedendo in termini di dinamiche lavorative. Attraverso i dati delle comunicazioni obbligatorie relative alle assunzioni, alle cancellazioni, alle proroghe dei contratti di lavoro, un database gestito dal Ministero del Lavoro che offre la possibilità di analizzare un campione di questi dati, abbiamo osservato la mobilità lavorativa, ossia ciò che prima è stato menzionato dal professor Vittadini: le persone cambiano lavoro. Abbiamo analizzato questo fenomeno tra il 2019 e il 2023. Vi do due spaccati di queste analisi. Sostanzialmente, il 70% dei contratti a tempo determinato si chiude nello stesso anno in cui è avvenuto l’avviamento, ossia l’inizio dell’attività lavorativa, e si arriva al secondo anno con una chiusura pari al 90%. Questo era abbastanza atteso per i contratti a tempo determinato. La cosa forse meno attesa riguarda i contratti a tempo indeterminato. Per i contratti a tempo indeterminato, il 48% degli avviamenti si chiude entro tre anni, cioè le persone si dimettono entro tre anni, e entro sei anni ben il 60% di quei contratti si chiude. Questo è un dato piuttosto interessante, che indica una fortissima dinamicità del mercato del lavoro: le persone cambiano lavoro. Questo dato si è accentuato durante e dopo la pandemia, con il fenomeno prima citato delle “grandi dimissioni”, che nel tempo è stato poi definito “grande rimescolamento”: le persone non si dimettono per non fare nulla, ma per fare un altro lavoro e trovare nuove opportunità.
Nella ricerca ci siamo chiesti quali siano le domande e le motivazioni che spingono a cambiare lavoro, se i cambiamenti sono così significativi. Abbiamo preso come riferimento una ricerca internazionale che ha coinvolto circa 170.000 persone, di cui 7.000 in Italia, in tutto il mondo, per capire quali siano i fattori di attrattività di un posto di lavoro, cioè quali elementi una persona ritenga importanti per qualificare un posto di lavoro. Da questa ricerca, riassumo alcuni dati, è emerso che l’equilibrio tra la vita lavorativa e la vita privata, l’atmosfera piacevole sul lavoro e la retribuzione con benefit sono i tre principali fattori che le persone considerano rilevanti nella scelta o nel cambiamento di un lavoro. Questo è estremamente interessante, poiché supera il 50% delle risposte, e certamente ci sono differenziazioni per fasce d’età: ad esempio, i giovani tra i 18 e i 24 anni sono molto attenti alla visibilità del percorso di carriera, mentre le persone più adulte, tra i 55 e i 64 anni, guardano con molta attenzione il tema della sicurezza del posto di lavoro o della solidità finanziaria.
A questo punto ci siamo chiesti cosa fanno le imprese rispetto a queste domande, a queste esigenze, a questo fenomeno di grande cambiamento. Abbiamo analizzato gli annunci di lavoro pubblicati in Italia, circa 5 milioni e 400 mila, e abbiamo osservato quali elementi, emersi come fattori di cambiamento nelle persone, trovano riscontro nelle imprese. I dati hanno mostrato qualcosa di piuttosto interessante. Abbiamo esaminato i dati del 2019 e del 2023, poiché uno dei segni più importanti di cambiamento degli ultimi tempi è stata la pandemia. Dalle analisi sugli annunci di lavoro emerge che le aziende, negli annunci, evidenziano di cercare persone offrendo condizioni che rispondono a questi driver di cambiamento in modo estremamente simile a quanto emerso dalla ricerca di Rastan sulle persone: il 48% degli annunci contiene queste possibilità offerte dalle aziende come risposta ai bisogni delle persone. Questo è un dato in forte crescita, particolarmente nei settori dell’istruzione, delle attività finanziarie e assicurative, delle attività sanitarie e sociali, e nel settore dell’informazione e della comunicazione, dove si registra una crescita significativa tra il 2019 e il 2023 del driver dell’equilibrio lavoro-vita privata e della possibilità di lavorare da remoto. Ad esempio, nel settore dell’industria manifatturiera, è significativa l’attenzione alla retribuzione e ai benefit. Le parole che esprimono in modo significativo queste relazioni, come ad esempio la visibilità del percorso di carriera, si trovano negli annunci di lavoro, dove le aziende propongono supporto alla rete professionale, formazione continua, attenzione al percorso di crescita professionale e quindi alla carriera. Sul tema dell’equilibrio tra vita lavorativa e privata, l’attenzione è rivolta alla prospettiva di settimane lavorative corte, alla flessibilità degli spazi di lavoro e al concetto di flessibilità oraria. Questi elementi stanno emergendo significativamente anche all’interno delle imprese come risposta ai bisogni delle persone.
L’altro tema che abbiamo affrontato è proprio quello delle competenze, come ha accennato il professor Vittadini, poiché tutto il tema delle prospettive di sviluppo professionale e di carriera è strettamente legato alle competenze. Analizzando questi annunci di lavoro, è risultato estremamente interessante il fatto che, se le competenze digitali sono molto significative nelle professioni ad alto livello di skill, come quelle intellettuali e scientifiche (laureati in ingegneria, sviluppo della produzione, finanza, ecc.), ciò che ci ha colpito è che, nel complesso delle skill richieste, le competenze trasversali pesano tra il 34% e il 50% per le professioni di alto livello di skill, tra il 24% e il 26% per gli artigiani e gli operai specializzati, e arrivano al 58% per le professioni non qualificate. Le competenze più richieste sono, ad esempio, la capacità di sviluppare idee creative, l’adattabilità al cambiamento, la responsabilità personale, la responsabilità sociale d’impresa, e la capacità di stabilire relazioni collaborative con i team di lavoro. Infine, uno scenario che abbiamo esplorato riguarda l’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro. Abbiamo fatto un’analisi particolare: abbiamo chiesto all’intelligenza artificiale, fornendole delle professioni e delle attività svolte in queste professioni, di valutare quanto fosse capace di sostituirsi o di essere complementare a tali attività. È emerso che il 40% delle professioni analizzate, che erano oltre 900, appartiene al gruppo maggiormente esposto all’AI, ossia le professioni altamente qualificate, mentre le professioni non qualificate sono meno impattate dall’intelligenza artificiale. Questo è un dato nuovo e piuttosto interessante, poiché ormai tutte le analisi concordano sul fatto che l’intelligenza artificiale sarà complementare al lavoro, non tanto una sostituzione, quanto una forma di supporto. La cosa interessante è che essa diventa più complementare per le professioni più qualificate. Questo aspetto è estremamente interessante perché, dove l’intelligenza artificiale non è in grado di sostituire l’uomo, è nelle professioni in cui la relazionalità umana è fondamentale. Questo sottolinea l’importanza delle competenze trasversali, poiché la creatività non sarà mai gestibile da una macchina: la macchina può programmare qualcosa che simula un concetto di creatività, ma non sarà mai capace di essere realmente creativa. Da questo punto di vista, con l’avvento futuro dell’intelligenza artificiale, alcuni aspetti della personalità diventeranno ancora più importanti. Sarà sicuramente rilevante approfondire le competenze legate all’alfabetizzazione digitale e all’intelligenza artificiale e capire come questa può impattare i processi, ma sarà altrettanto importante avere persone capaci di interpretare e valutare quanto i risultati dell’intelligenza artificiale possano rappresentare un vero valore aggiunto per le organizzazioni. Arrivo semplicemente a delle sintetiche conclusioni, che non sono poi delle conclusioni. Tutti questi aspetti che abbiamo toccato portano a osservare, come diceva il professor Vittadini, il mercato del lavoro da un angolo un po’ diverso dal solito, e a cercare di capire come tutte queste domande di cambiamento, questa crescita delle competenze, sia sul fronte delle persone che delle imprese, abbiano un filo conduttore: un bisogno di senso, un bisogno di significato. È come se tutto portasse alla necessità di riscoprire ancora di più il senso e il significato del proprio lavoro. Questo diventa un elemento da non perdere in questo momento, perché potrebbe essere l’elemento fondamentale per costruire nuovi assetti organizzativi e gestionali capaci di tenere conto dei bisogni che abbiamo identificato. Grazie.

Vittadini. Allora, comincerei con le domande a Marco Ceresa per verificare una cosa, perché noi che lavoriamo in università abbiamo di solito l’accusa di parlare di cose astratte che non avvengono nella realtà, almeno così mi dicono i miei amici. E allora volevo chiedere a un uomo d’azienda come lui, che però è attento, come dicevo, alla conoscenza, se riscontra questi cambiamenti di cui parlava Mezzanzanica nella sua lunga attività, che ha proprio come cuore, oggi, anche il ruolo di amministratore delegato di una delle più importanti società di somministrazione nel mercato del lavoro, e il perché, cosa voglia dire questo cambiamento.

Ceresa. I cambiamenti ci sono, e se parto dal 1986, quando ho iniziato a lavorare, vedo dei grandi cambiamenti rispetto a quelli che sono le situazioni e le tematiche di oggi. Allora, noi come Randstad riteniamo che sia importante fare queste ricerche perché ti serve avere delle tue tesi, che magari nascono nella vita quotidiana del lavoro in azienda, e vedere se queste tesi sono confermate oppure no. Poi è molto importante capire che non tutte le persone sono uguali, perciò bisogna capire quali sono, diciamo, le persone che tu desideri avere in azienda e quali sono invece le persone che forse potrebbero essere più contente di lavorare in altre aziende. Ma se dobbiamo approfondire il discorso del cambiamento, ci sono delle cose che sono proprio evidenti. Ad esempio, mi ricordo che nei primi colloqui che facevo, una domanda era: “Ma se un sabato c’è bisogno di lavorare, tu sei disponibile?” E io rispondevo: “Certo che sono disponibile”, perché volevo iniziare a lavorare. Oggi invece la domanda che spesso ti fa il candidato è: “Quanti giorni di smart working mi dai?” Per cui c’è proprio un cambiamento piuttosto forte da questo punto di vista. Il mio vecchio capo, persona brillantissima in Philips, se gli avessi detto “Lavoro da casa”, mi avrebbe risposto: “Ma cosa stai dicendo? Se lavori da casa, stai a casa”, non lavori. Per cui questo è uno dei cambiamenti. Però le ricerche, ad esempio, confermano determinate cose. Una cosa che è molto chiara, soprattutto nei giovani oggi, è il fatto che c’è una sorta di sfida con l’azienda, in cui ti dicono: “Tu dimmi quali risultati devo portarti e in quali tempi, ma voglio sapere quanto mi farai crescere, non solo da un punto di vista di carriera ma anche economico”. E poi sono anche disposti a capire che, se non raggiungono questi obiettivi, cambiano e vanno da un’altra parte. C’è molta più mobilità rispetto a quella che c’era tanto tempo fa. E su questo non si può fare altro che dire che quello che si vede nella vita quotidiana viene confermato dalle ricerche. I cambiamenti ce ne sono tanti, come quello dell’equilibrio vita privata-vita lavorativa. È vero, anche perché forse una volta si aveva più una famiglia alle spalle che ti aiutava a essere ben concentrato su quello che è il mondo del lavoro. Oggi le famiglie sono diverse, magari non c’è più la mamma che fa la casalinga, ma la mamma deve lavorare. Per cui, diciamo, le persone hanno bisogno di quel tempo che serve anche per vivere. Allora è molto importante, diciamo, analizzare quelle che sono le vite delle persone per riuscire poi a offrire loro qualcosa di interessante. Questo è un po’ il presente e il passato. Invece, un altro trend, che qui sfido e dico: “Ok, dobbiamo vedere l’anno prossimo”, un trend che nel resto d’Europa sta crescendo molto, ma in Italia non ancora, si vedono alcune iniziative, è quello del lavoro autonomo. Tante persone decidono non più di lavorare per un’azienda, ma di lavorare per sé stesse e offrono i propri servizi alle aziende. Le aziende all’estero stanno abbracciando molto questa forma lavorativa, e anche le persone, perché raggiunge determinati obiettivi, come il dare la possibilità di avere un equilibrio migliore tra la vita lavorativa e la vita privata, e permette di guadagnare qualche soldo in più subito, perché non ci sono tutte quelle garanzie che offre il lavoro da dipendente, per cui possono anche decidere quando investire e su cosa non investire. Per cui questa sarà una delle cose che mi piacerebbe vedere nel prossimo futuro, se anche in Italia il lavoro autonomo diventerà più diffuso rispetto a quello che è oggi. Ma questo riguarda il futuro. Per il resto, l’intelligenza artificiale credo che, non essendo programmabile, non dà un risultato certo, ma altamente probabile. Per cui la si può utilizzare dove l’errore è ammesso, e non dove l’errore non è ammesso. E come diceva la ricerca, cambierà il lavoro, ma non toglierà lavoro alle persone, perché come ben sappiamo oggi, per noi, ci sono molte più aziende che ci chiedono persone rispetto a quelle disponibili. E qui la scelta che il nostro Paese deve fare è se essere inclusivo e perciò mantenere la dimensione economica del nostro Paese, oppure non essere inclusivo, e allora organizzarsi per un declino che può essere anche piacevole. Ma qualsiasi scelta si prenderà, sarà una scelta che avrà un impatto nel medio-lungo periodo, e bisognerà organizzarsi per riuscire a vivere bene nonostante il declino o l’inclusione.

Vittadini. Mi sembra molto interessante. Allora volevo continuare, passando prima la parola a Giovannini, per dire: ma dentro la tua idea di economia sostenibile, che come dicevamo prima non è solamente il cambiamento climatico, tante volte ci hai detto che c’è questa gamba. Cosa vuol dire questo cambiamento dell’idea di lavoro che l’impresa ha a che fare con questa transizione di cui tu studi da tempo?

Giovannini.
Sì, certamente ha a che fare, ma il mercato contrasta questo tipo di cambiamento perché ci aspetta una rivoluzione che però o viene abbracciata o appunto viene contrastata. Non so se lo sapete, ma voi in questo momento state lavorando. Lo sapete? Sì. Dal 20 ottobre 2023, la nuova definizione di lavoro che è stata stabilita a livello internazionale, quindi prendete un po’ con beneficio d’inventario tutto quello che diciamo perché dovremo cambiare il linguaggio e così via, sulla base, tra l’altro, del rapporto che facevamo nel 2019 sul futuro del lavoro all’Organizzazione Mondiale del Lavoro, sostanzialmente definisce il lavoro come tutto quello che facciamo quando non dormiamo e non ci curiamo, anche se l’igiene personale può essere considerata. Perché? Perché noi in qualche modo contribuiamo alla società con tutto quello che facciamo, a casa, quando ci muoviamo e così via. È solo la definizione economica del lavoro che dimentica il lavoro delle donne, il lavoro per imparare autonomamente, non retribuito. Quindi l’Organizzazione Mondiale del Lavoro ha finalmente riconosciuto che anche il lavoro non retribuito contribuisce al benessere. Dite: “Ma ci avete messo così tanto tempo?” Sì, perché il mercato invece dice no, l’unica cosa che conta è quello che passa per la produzione e dunque la remunerazione. Tra qualche settimana, a livello ONU, ci sarà il summit sul futuro. Noi non ne parliamo, parliamo di pandori, parliamo di queste cose molto importanti per il nostro futuro, mentre l’ONU sta per definire finalmente, dopo vent’anni di battaglie, l’idea di andare oltre il prodotto interno lordo e quindi misurare finalmente il benessere, la sostenibilità, tutte cose che, come sai bene, in Italia abbiamo fatto anche prima di altri paesi del mondo. E questa è una rivoluzione, una rivoluzione che però chiederà un cambiamento profondo nel funzionamento della società, in cui, come abbiamo sentito prima, le persone sempre di più riconoscono come denso di valore qualcosa che il mercato non può riconoscere o oggi non riconosce, magari un domani forse sì. Questo è un cambiamento, ripeto, non banale, perché poi per tante persone il mercato discrimina, prima il professor Mezzanzani ci ha ricordato alcuni dati negativi sul mercato del lavoro italiano. Abbiamo 3 milioni di lavoratori irregolari in Italia. C’è gente che o non ha un contratto di lavoro o viene pagata meno di quello che formalmente dovrebbe essere pagato e così via. Ricordiamoci questa cosa ogni volta che sentiamo magnificare anche le condizioni del nostro mercato del lavoro. Tre milioni di lavoratori irregolari sono una quantità inaccettabile. Questi sono quel lavoro, e invito tutti a leggere la ricerca che, tra l’altro, è molto leggibile e comprensibile anche per i non esperti, quelli che fanno un lavoro part-time involontario, cioè riescono ad avere un po’ di remunerazione ma certamente insufficiente, e poi c’è il lavoro povero, per cui io lavoro anche a tempo pieno ma il salario che ottengo non è soddisfacente. Quindi abbiamo dei problemi purtroppo enormi, interni, che sono strutturali al nostro Paese, perché di fatto non abbiamo mai creduto veramente in questa cosa del capitale umano, dell’importanza delle persone, altrimenti non avremmo così tanti incidenti sul lavoro. Quindi quello che oggi stiamo discutendo è un cambiamento profondo che sarà faticoso, ma su cui l’Italia potrebbe anche imparare da altri, perché altri mercati del lavoro sono molto più avanzati. Certo, abbiamo un problema strutturale di piccole imprese che, essendo piccole, sono poco produttive e dunque pagano poco. E poi abbiamo anche un problema per cui molte grandi imprese pagano molto meno di quanto pagano i loro omologhi europei. Quindi, va bene la soddisfazione, va bene magari abitare vicino a casa, insomma lavorare vicino a casa, però un dottore di ricerca, diplomato in Italia, va all’estero e guadagna 1500 euro netti al mese in più. E questo spiega perché tantissime delle nostre risorse migliori vanno all’estero. Non vuol dire che in Italia non ci siano opportunità, attenzione. Però è chiaro che c’è uno squilibrio molto forte. Cosa si può dunque dire da un punto di vista delle scelte collettive? Primo, riconoscere che finalmente, soprattutto i giovani, si sono svegliati. Forse la pandemia ha aiutato l’educazione, l’internazionalizzazione, e cioè si pongono di fronte alle imprese in un atteggiamento meno fantozziano, se posso usare questo termine, anche perché ci sono imprese che hanno abbracciato una logica di competitività fatta di sostenibilità ambientale, di rispetto delle persone, di inclusione e così via, per cui, se si può, perché non dovrebbero scegliere imprese che vanno in questa direzione. Piccola parentesi: grazie all’Europa, a partire da quest’anno, anche le medie imprese dovranno cominciare a rendicontare sulla sostenibilità e dunque non solo sull’impatto ambientale, ma anche sul rispetto dei diritti umani, delle retribuzioni, la parità di retribuzione tra uomini e donne, tutte cose che speriamo rappresentino per le nostre medie imprese una scossa nella direzione giusta, da accompagnare ovviamente. Secondo elemento, abbiamo un problema strutturale economico. Il governatore Panetta lo ha ricordato anche ieri, ma lo abbiamo sentito pochi minuti fa, e cioè se non vogliamo declinare in termini economici, perché l’intelligenza artificiale non pagherà le pensioni in futuro, questo chiariamocelo, dobbiamo avere un atteggiamento più aperto, più inclusivo, ovviamente di accompagnamento a chi lavora, a chi è presente già oggi e a chi eventualmente verrà in Italia. Vi faccio solo un esempio: l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile prevede che noi, entro il 2030, avremmo dovuto avere una quota di laureati pari al 50% dei giovani. Siamo da sempre intorno al 30%. Questo è solo un esempio per dire che magari abbiamo anche dell’immigrazione, che non formiamo, e se quella è una quota crescente, è chiaro che non riusciamo a preparare le persone alle opportunità e anche alle sfide future. Terzo elemento, e con questo concludo. L’intelligenza artificiale se ne sente parlare quasi quanto dei pandori, non ci siamo ancora, ma insomma io sono un grande punto interrogativo, Mario, sono molto interessato e ammiro enormemente i ricercatori che stanno cercando disperatamente di capire l’impatto. Sono però anche molto preoccupato, di nuovo, per una struttura produttiva italiana che, essendo fatta di piccole imprese, non ha la capacità di investire su cambiamenti di questo tipo. Ma il cambiamento più forte, concludo con questo, me l’ha insegnato una delle mie nipotine di 7 anni, lei molto sveglia. Per darvi un’idea, quando ha incontrato Alexa per la prima volta, e qui non parliamo di intelligenza artificiale, le ho detto: “Sai, puoi fare delle domande, tipo che tempo fa?”. E lei ha domandato: “Dov’è Dio che non riusciamo a vederlo?”. Quindi avete capito il tipo. E l’altro giorno, parlando appunto mi chiede: “Ma tu sei all’università, ma quanti lavori fai?”. Io dico: “Ne faccio diversi, per esempio in ASviS, e non vengo pagato”. Mi ha guardato come a dire: “È un lavoro?”. Ecco, abbino questi due elementi perché il concetto di lavoro, nel senso dell’ILO, che noi trasferiamo ai nostri bambini, può e deve cambiare, imparando a rapportarsi con l’intelligenza artificiale ma anche imparando che il dono di sé si fa anche se il mercato non lo riconosce. Finisco questa storia, non so se conoscete Asimov, grande scrittore di fantascienza. Gli abbiamo fatto un’intervista recentemente, l’abbiamo fatta anche a Marilyn Monroe, a Giuseppe Garibaldi sull’autonomia differenziata, insomma tutta una serie di cose. Asimov inventa tra l’altro la quarta legge della robotica. Cito Asimov perché nel breve racconto degli anni ’60 “L’ultima domanda” racconta di questo algoritmo a cui gli umani domandano per millenni: “Ma in base al principio dell’entropia, l’universo collasserà?”. E l’algoritmo dice: “Non ho abbastanza dati, non so risponderti”, finché l’universo collassa. A quel punto l’algoritmo ha la risposta, ma non ha nessuno a cui dare questa risposta. E cosa fa l’algoritmo? Dice: “Sia la luce”, e la luce fu, e ricomincia la storia.

Vittadini. Ha visto questo quadro operativo e sotto il profilo globale è interessante. Adesso allora sentiamo Rita Ghedini perché addirittura mi incuriosisce questa delega al buon lavoro cooperativo, perché penso che abbia a che fare questo buon lavoro cooperativo con quello di cui stiamo parlando, ma chiedo a lei visto che noi abbiamo.

Ghedini. Definito questo impegno, che è della cooperazione, della struttura della cooperazione, a valorizzare il tema del lavoro nelle nostre politiche per due ragioni sostanziali: una di carattere identitario. La cooperazione non è tutta cooperazione di lavoro, lo scambio mutualistico in cooperativa riguarda tutti i bisogni a cui le persone possono scegliere di rispondere in maniera collaborativa, in maniera cooperativa per l’appunto, ma qualsiasi sia l’oggetto dello scambio a cui si decide di rispondere in maniera cooperativa attraverso la realizzazione dell’impresa, di un’impresa cooperativa, il lavoro risulta centrale per il perseguimento di quello scopo. Quindi ragionare di buon lavoro cooperativo per noi è un elemento identitario, a cui abbiamo voluto dare enfasi negli ultimi anni perché, viceversa, nel corso del tempo si era strutturata nel Paese una narrazione legata anche a pratiche negative per cui il datore di lavoro cooperativo veniva individuato nell’opinione corrente come un cattivo datore di lavoro. Per questa ragione, noi abbiamo cercato di mettere in evidenza, viceversa, i dati fattuali della cooperazione vera, a fronte di fenomeni che della cooperazione hanno il nome ma non la sostanza, non la fattualità collegata, per l’appunto, alla qualità del lavoro. Abbiamo utilizzato lo strumento della ricerca per parlare informati, parlare di dati, e dalle nostre ricerche, lo dicevo prima con i colleghi confrontandoci prima di questo evento, emergono dati sostanzialmente coerenti con quelli della ricerca di Ronstadt, che giudico effettivamente molto, molto interessante. Ne cito brevemente alcuni. Il primo riguarda il passaggio, che probabilmente dovrebbe essere un passaggio riconosciuto anche nelle politiche pubbliche, dall’enfasi sulla criticità della precarietà del lavoro. Noi per anni abbiamo discusso di come contrastare la precarietà del lavoro, a un dato invece di aumento della stabilità del lavoro. La cooperazione, che si riconosce nelle grandi centrali cooperative riconosciute al CNEL, quindi la cooperazione vera, ha tassi di stabilità del lavoro, cioè di contratti di lavoro a tempo indeterminato, che si attestano intorno al 90%, quindi elevatissimi tassi di stabilità lavorativa. Noi facciamo un monitoraggio quadrimestrale degli andamenti del lavoro in cooperativa e rileviamo una domanda crescente di lavoro. Le nostre associate, da sei quadrimestri a questa parte, mettono in evidenza la difficoltà a reclutare un numero di lavoratori e lavoratrici adeguato ai bisogni di sostituzione e di sviluppo dell’impresa come primo elemento di criticità. Primo elemento di criticità anche un anno e mezzo fa, quando eravamo in piena crisi energetica, quando abbiamo di nuovo toccato tassi di inflazione a due cifre. La difficoltà a reclutare un numero di lavoratori e lavoratrici adeguato ai tassi di sostituzione e allo sviluppo dell’impresa è la prima criticità segnalata. Il quadrimestre che si è concluso con il mese di luglio è il primo quadrimestre dopo sei che vede una leggera flessione, che è coerente anche con una leggera flessione dei tassi di crescita, ma che mantiene comunque questo elemento al primo posto. Il secondo elemento centrale è quello che è stato citato sia nella ricerca sia, poco fa, da Enrico Giovannini: quello dell’adeguatezza delle retribuzioni, specifico delle retribuzioni complessive, cioè del reddito generato dalle retribuzioni e non dei salari, perché la cooperazione riconosciuta applica in maniera ordinata e ordinaria i salari previsti dalla contrattazione collettiva sottoscritta dai sindacati maggiormente rappresentativi, ma incorpora soprattutto negli ambiti ad alta intensità di lavoro, ad esempio tassi di part-time elevatissimi. E allora il reddito che si può derivare dal proprio lavoro diventa, soprattutto per le donne e per i giovani al loro primo ingresso nel mercato del lavoro, un reddito non sufficiente a sostenere progetti di vita autonoma. Di qui una richiesta che è certamente quella di poter accedere a forme di reddito differito o a forme di integrazione del reddito, ad esempio il welfare. Una delle domande ricorrenti è quale livello di welfare sia garantito insieme alla retribuzione o all’interno della retribuzione contrattuale. Con riferimento al contratto nazionale, con riferimento ai contratti aziendali, che per fortuna cominciano ad avere un livello di diffusione interessante anche nel nostro Paese e anche in cooperazione nell’offerta di lavoro, in particolare per le donne. Potere conoscere quali sono i livelli di welfare che il datore di lavoro mette a disposizione, non solo in termini di flessibilità organizzativa, flessibilità oraria, ma in termini di benefit, sanità integrativa, possibilità di accedere a forme di facilitazione per la conciliazione tra lavoro e impegni di cura o benefit per l’accesso ai servizi di cura sono forme di integrazione del reddito fondamentali per garantire condizioni di vita autonoma e quindi la possibilità di accedere al lavoro come veicolo per una progettualità di vita autonoma. Ancora, uno degli elementi che riguardiamo con grande attenzione è questo delle forme di integrazione. Da una ricerca recentissima che abbiamo fatto insieme a Prometeia, con riferimento al 2030 che ormai utilizziamo tutti come Benchmark, mancheranno almeno 150.000 lavoratori all’anno, cioè c’è un saldo negativo fra uscite ed entrate nel mondo del lavoro di 150.000 lavoratori. Ora, noi crediamo, e l’abbiamo detto in molte sedi, ma autorevolmente più di ogni altro l’ha detto qui ieri il direttore Panetta, che se non si passa da politiche di mera gestione dell’immigrazione a politiche di progettazione e programmazione dell’immigrazione legate alle attese di sviluppo che le imprese di questo Paese hanno nelle loro pianificazioni strategiche, noi dovremo interrogarci su quali siano le forme di gestione del declino, non solo produttivo, ma anche sociale, economico e sociale di questo Paese. Parlare di integrazione progettata e programmata significa molte cose, ma fra queste ci interessa in particolare ragionare di sistemi per la formazione, sistemi per l’educazione, prima ancora che per la formazione, di sistemi per l’accoglienza. Vi do un altro elemento. Dalle nostre indagini quadrimestrali nell’ultimo anno è emerso come elemento di limitazione importante della capacità delle imprese di reclutare personale, in termini quantitativi e qualitativi adeguati ai propri bisogni, il tema della casa, della capacità di accoglienza che i territori rendono disponibili rispetto ad abitazioni a livelli di costo accessibili in rapporto alle retribuzioni. Ancora, l’Italia non è tutta uguale e noi abbiamo registrato un gradiente nella qualità del lavoro, anche nella qualità del lavoro cooperativo, che peggiora i livelli di reddito e i livelli di integrazione andando da nord verso sud, assolutamente rilevante. Questo gradiente, insieme a tutti gli altri elementi di limite che sono stati richiamati, ha ridotto, sta riducendo in maniera importante la mobilità interna al Paese, non solo l’integrazione di persone che vengono da altri Paesi, ma la mobilità interna al Paese che per decenni ha sostenuto la produzione nelle Regioni del Nord e ha garantito anche in cooperazione l’afflusso di masse di lavoratori e di lavoratrici che venivano attratte. Questo flusso di mobilità interna è molto rallentato, si è quasi fermato e sta generando criticità enormi in alcuni settori in cui la cooperazione è molto presente, ad esempio quello della sanità privata e dell’assistenza, che sono settori nei quali – e qui mi fermo – l’interesse delle lavoratrici e dei lavoratori a essere coinvolti attraverso un’esplicitazione della propria prospettiva di carriera, così come attraverso un’esplicitazione che viene richiesta delle prospettive di impegno dell’azienda, fa però il paio anche con un’organizzazione del lavoro che non lascia spazi alla flessibilità. Tutto il tema dello smart working, ad esempio, riguarda, lo diceva bene prima, introducendosi, lo dicevi bene prima tu, Giorgio, riguarda il white collar. I blue collar non sono spariti, e oggi non sono più gli operai in catena di montaggio laddove invece il livello di autonomia e di competenza, anche tecniche tecnologiche, è molto aumentato, ma sono le lavoratrici e i lavoratori dei servizi che non hanno la possibilità di richiedere e quindi di fruire livelli di flessibilità che hanno altri, che quindi possono e devono essere attratti solo garantendo un livello di senso maggiore, prospettive di reddito importanti e crescenti e integrazione del reddito attraverso strumenti di facilitazione di accesso al welfare che consentano di qualificare il proprio progetto di vita e di vederlo proiettato nei decenni.

Vittadini. E quindi allora la parola a Tiziana Nisini. La domanda è: la politica, rispetto a questo cambiamento, deve intervenire in qualche modo? È qualcosa che deve governare solo il mercato? Cosa suggerisce questo mutamento del mercato del lavoro?

Nisini. Buon pomeriggio a tutti e grazie per l’invito e anche grazie per questo studio, questa ricerca che ha messo in evidenza tanti aspetti del mercato del lavoro che forse quotidianamente la politica non tratta. Ci sono quelli sul salario povero, ci sono quelli sulle competenze, sulla formazione, ma quello sui lavoratori sovrastruiti normalmente la politica ne parla poco ed è un tema importante, perché non ci sono solamente i giovani che scappano all’estero per trovare un lavoro più remunerato, più di qualità, ma ci sono anche i giovani che decidono di rimanere nel nostro Paese. Questi giovani fanno un percorso formativo importante e competente, ma non trovano un lavoro adeguato rispetto alle competenze acquisite. Diciamo che il periodo del Covid ha messo in evidenza dei problemi che già c’erano e forse la politica nel tempo, nel nostro Paese, non ha mai fatto abbastanza. Il Covid ha messo in evidenza queste problematiche, queste criticità nel mondo del lavoro, ma erano problemi che già esistevano, e quindi noi ci siamo ritrovati con un tasso di disoccupazione comunque importante. Ci siamo trovati con le aziende che, nonostante tutto, si sono riorganizzate e, tra mille difficoltà, sono ripartite. Alcune aziende che si sono riprogrammate avevano in programma anche importanti investimenti in termini di capitale umano, ma si sono trovate con una popolazione che non aveva le competenze adeguate. Siamo entrati in un processo di digitalizzazione, ma il 48% della popolazione italiana non aveva le competenze digitali di base, quindi ci siamo trovati in un vero e proprio cortocircuito. La politica deve fare qualcosa. Probabilmente, se nel passato avesse fatto di più, avesse programmato di più le politiche afferenti al mondo del lavoro, ascoltando maggiormente le esigenze del tessuto economico e produttivo del nostro Paese e delle associazioni datoriali, anche con il supporto delle associazioni sindacali, e avesse fatto una programmazione per il futuro, probabilmente tanti problemi oggi esisterebbero ancora, ma sarebbero in percentuali molto più ridotte. Quindi, oggi, cosa deve fare la politica? E cosa sta facendo? La politica deve innanzitutto ascoltare, perché non è la politica che crea occupazione: l’occupazione la creano le imprese, le creano le aziende. La politica deve essere di supporto, come l’intelligenza artificiale deve essere complementare, non deve sostituirsi, ma deve incentivare le aziende, metterle in condizione di creare lavoro, come ha fatto durante il Covid, quando sono state adottate misure straordinarie proprio per accompagnare le aziende. Questo deve essere fatto quotidianamente e in maniera strutturale. Tutte le misure che la politica deve mettere in campo devono essere equilibrate. Devono pensare sì al lavoratore, ma devono pensare anche all’azienda. Molto spesso abbiamo visto una politica che ha guardato solo al lavoratore, e questo è giusto perché il capitale umano è essenziale per le aziende e per il nostro Paese. Ma quando una misura è disequilibrata, è una misura zoppa, che non è efficace e non è efficiente. Ho avuto la fortuna, e anche tante difficoltà, nella passata legislatura di essere nel governo Draghi al Ministero del Lavoro, un momento molto complicato, è scontato dirlo, e complicato anche per il governo stesso, che era molto ampio e quindi con vedute molto diverse. Quello che questo governo ora, eletto dal popolo, sta facendo, tra mille difficoltà, è forse anche con un po’ più di coraggio, perché la politica deve avere anche il coraggio di cambiare, di ascoltare, di andare incontro alle esigenze, di recepirle, di capirle e di metterle in pratica, è ridurre l’assistenzialismo. Assistiamo le aziende per incentivare l’occupazione, ma tenendo sempre ben presente che al centro di tutto c’è il capitale umano. Si è parlato di salari poveri, quindi salari dignitosi, e del benessere che rispetto al passato i lavoratori mettono al primo posto. Le aziende, con tanta fatica, si stanno adeguando. C’è il tema dei salari, che nel nostro Paese negli ultimi anni non sono cresciuti rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, dove sono cresciuti del 30%. Ma è un processo lungo, dovuto anche alla mancata programmazione della politica a supporto delle aziende, che non possiamo risolvere in un giorno, in una settimana o in un anno. Ma la politica deve accompagnare le aziende, come ho già detto, con politiche come quelle messe in campo nell’ultima legge di bilancio. È vero, non sono ancora strutturali, ma se si va incontro al welfare aziendale con una deducibilità, agli sgravi contributivi per quei segmenti di popolazione che sono più in difficoltà, dove il livello di disoccupazione è più alto, andando incontro anche alle esigenze delle imprese e dei lavoratori, si va incontro a quella richiesta di benessere fatta dai lavoratori, alla conciliazione vita-lavoro richiesta in particolar modo dalle donne, che purtroppo ancora oggi sono costrette a scegliere tra famiglia e lavoro. È un percorso che va portato avanti. Tanti cambiamenti sono stati fatti, tanti passi in avanti sono stati compiuti, ma ancora non abbiamo raggiunto un obiettivo sufficiente. La politica deve mettersi a disposizione delle aziende. Noi siamo qui con Randstad, oggi la somministrazione, ancora oggi nel nostro Paese, nonostante le agenzie di somministrazione svolgano un servizio importante per le imprese, viene vista come precariato. Ecco, nella passata legislatura, quando ero in Commissione Lavoro al Ministero del Lavoro, ho notato che ci sono ancora colleghi che purtroppo anche in Parlamento vedono la somministrazione come precariato, quando invece la somministrazione offre un servizio di cui le aziende hanno bisogno, un servizio che costa anche di più, perché all’interno della somministrazione dei contratti, siano essi a tempo determinato o indeterminato, c’è una formazione qualificata, la formazione che le aziende richiedono. E quindi sì, la politica deve fare anche dei passi culturali in avanti, mettere da parte la demagogia ed essere pratica e pragmatica, perché molto spesso alla politica oggi manca proprio il pragmatismo. Dobbiamo mettere al centro l’uomo. Abbiamo parlato dei giovani, e la politica deve accompagnare anche questo processo che il ministro Valditara sta portando avanti, questo grande cambiamento all’interno del mondo dell’istruzione, cercando di programmare anche l’orientamento dei nostri ragazzi per ridurre, da un lato, la dispersione scolastica e, dall’altro, per mettere veramente in evidenza il capitale umano dei nostri giovani e aprirgli la strada per costruirsi un futuro in base anche alle loro ambizioni, ai loro desideri, alle loro capacità, cosa che fino a poco tempo fa non era possibile. È per questo che il Ministero dell’Istruzione e del Merito, con a capo il ministro Valditara, ha istituito due nuove figure all’interno delle scuole, i docenti tutor e i docenti orientatori, proprio per accompagnare i ragazzi e anche le famiglie, che spesso sono in difficoltà e non riescono ad assistere i propri figli, per cercare di creare un percorso consapevole che vada incontro anche alle esigenze delle aziende, capire quali sono le reali necessità di personale richiesto dalle aziende e creare quella sinergia fra mondo dell’istruzione e mondo delle imprese, mettendo insieme il pubblico e il privato. Non deve far paura, perché il pubblico da solo non può fare tutto, mentre il privato ha una conoscenza più concreta delle problematiche e delle richieste del lavoro, perché le vive, perché le affronta quotidianamente. Dobbiamo superare tutte queste barriere ideologiche, fare un salto culturale nella politica, metterci insieme alle aziende, ai lavoratori e alle associazioni datoriali e sindacali proprio per ridurre tutti questi problemi che ancora oggi esistono.

Vittadini. Allora, siamo andati lunghi, per cui non possiamo fare il secondo intervento, anche perché ci sono altri incontri in programma. Io sintetizzerei brevemente quello che è stato detto, aggiungendo una cosa: le questioni trattate mi sembrano indicare che la ricerca oggi apre a un nuovo scenario del lavoro, in cui sia dal punto di vista micro che dal punto di vista macro, che dal punto di vista del buon lavoro e della politica, vede una partecipazione della persona, della qualità della persona, molto più fondamentale rispetto al passato. Non è scontato, perché quello che diceva il professor Giovannini è fondamentale: c’è un mercato che non accetta questo cambiamento. Ma quello che riguarda un po’ tutti noi è che la qualità personale, quella che prima era semplicemente un aspetto della vita privata, della vita familiare, l’aspetto del carattere – tanto è vero che in una delle definizioni di Heckman di “non cognitive skills” si parla di “character skills”, che in italiano non si traduce come “carattere”, ma piuttosto come “habitus”, il nostro habitus, la nostra posizione – è fondamentale sia nel percorso personale del lavoro che nella transizione globale. Oggi è più vero che mai che il lavoro è un incontro: un incontro tra un’impresa e una persona, e che questo incontro non è semplicemente adeguarsi alla vita di un’azienda, entrare in una scatola, ma in qualche modo partecipare a generare uno spazio diverso. Da questo punto di vista, cose che sembravano vecchie, superate da 70 anni fa, dal dopoguerra – il gusto del lavoro, la voglia di lavorare, la capacità di guardare la realtà, la disponibilità al sacrificio, la resilienza, cioè la resistenza a momenti difficili, come la disoccupazione, la fine di un settore, il cambiamento di città – sono aspetti fondamentali che si fondono col tema della qualità. E quindi il messaggio di oggi è che ognuno di noi è protagonista del lavoro che fa. Non dobbiamo limitarci a confrontarci con qualcosa di strutturale, di dato, come un muro, ma dobbiamo costruire insieme delle barriere flessibili che si modellano in base a ciò che c’è. Anche dal punto di vista personale, questo è fondamentale per fare carriera in senso buono. Non c’è solo un mondo già dato, ma, come avveniva nel 1948 e come è avvenuto nel primo dopoguerra, il lavoro – e anche l’impresa, il lavoro autonomo, il lavoro in impresa – è frutto di questa nostra capacità umana. Questo ci dice la ricerca, e sarà interessante nei prossimi anni vedere se questo approccio progredirà e contribuirà a costruire qualcosa. In fin dei conti, anche questo fa parte di quell’essenziale di cui ci stiamo interrogando. Ringraziamo i nostri ospiti e ricordo la sottoscrizione per il Meeting: il Meeting annuncia che parte di questa sottoscrizione sarà donata al Cardinal Pizzaballa affinché sia destinata, attraverso di lui, alle persone che vivono a Gaza. Grazie e buon lavoro.