Le invenzioni del linguaggio. L’umano e il suo enigma

Stefano Arduini, Professore ordinario di Linguistica all’Università di Roma Link Campus; Andrea Moro, Neurolinguista e scrittore, Professore di linguistica generale, Scuola Universitaria Superiore IUSS, Pavia; Davide Rondoni, Poeta. Introduce Monica Scholz-Zappa, Docente di Scienze Linguistiche e Culturali all’Università Albert-Ludwig di Friburgo in Brisgovia.

L’essere umano è connotato tra tutti i viventi per una straordinaria capacità di invenzioni nei suoi linguaggi e di libertà compositiva. Scienza linguistica, arte della parola e della traduzione sono vie appassionanti per confrontarsi con l’enigma che siamo. 

LE INVENZIONI DEL LINGUAGGIO. L’UMANO E IL SUO ENIGMA

Scholz-Zappa: Buonasera a tutti e il più cordiale benvenuto a voi qui in sala e a tutti coloro che ci seguono in streaming da casa. Il titolo del nostro incontro è particolarmente intrigante e promettente. “Le invenzioni del linguaggio, l’umano e il suo enigma”. Se guardiamo a queste quattro parole: linguaggio, umano, enigma, siamo di fronte a un mondo. Questa sera cercheremo di avventurarci in questo mondo e siamo molto contenti di poterlo fare insieme e grazie ai nostri amici e ospiti di questa sera che vi invito a salutare con me. Il professor Stefano Arduini, il professor Andrea Moro e lo scrittore e poeta Davide Rondoni. Solo un accenno di presentazione, facciamo gli onori di casa. Stefano Arduini è professore ordinario di linguistica all’Università di Roma Link Campus ed è presidente della Fondazione Unicampus Sanpellegrino, che è associato al Nida Institute di Philadelphia all’interno della United Bible Society. Al momento è impegnato con la traduzione del Qoelet, il primo dei cinque Meghillôt, i rotoli dell’Antico Testamento, appunto il Qoelet, Ruth, il Cantico dei cantici, Lamentazioni ed Ester. Fra le sue ultime pubblicazioni vorrei citare “Con gli occhi dell’altro. Tradurre” e “Traduzioni in cerca di un originale: la Bibbia e i suoi traduttori”. Questi ultimi lavori di traduzione legati all’Antico Testamento sono veramente entusiasmanti e quindi siamo molto grati della tua presenza stasera fra noi. Il professor Andrea Moro è neurolinguista, scrittore, è professore ordinario di linguistica generale presso la Scuola Superiore Universitaria di Pavia e studia la struttura delle lingue umane e la sua relazione con il cervello. Tra i vari testi divulgativi citerei il suo esordio narrativo con il romanzo “Il segreto di Pietramala” col quale ha vinto anche il premio letterario Flaiano, e la recentissima uscita “I segreti delle parole” con Chomsky. Ma mi permetto di aggiungere a questo curriculum ufficiale il tuo contributo non scritto, a mio parere, quello che secondo me è il più significativo biglietto da visita tuo. Lo farei grazie ad una citazione di un fisico francese, Perrin, che tu stesso spesso citi e che per me è la descrizione più efficace del tuo intento divulgativo. “Il compito della scienza è spiegare ciò che è invisibile e complicato con ciò che è visibile e semplice”. Io credo che i tuoi studi sul linguaggio che hai generosamente condiviso in tutti questi anni al Meeting hanno generato non solo curiosità ma ci hanno aperto nuovi varchi e facilitato l’accesso ad un ambito, quello delle neuroscienze, che sono ormai diventati patrimonio di molti di noi e di cui anche stasera vogliamo ringraziarti, noi del Meeting. Da ultimo Davide Rondoni. Che dire di Davide Rondoni, se non che è un creativo, direi, prima di tutto, ma ce lo dirà lui stesso. Davide Rondoni è poeta, scrittore, ha pubblicato diversi volumi di poesia, collabora a programmi di radio e televisione e anche come editorialista per diversi quotidiani, ha fondato il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna e la rivista Clandestino. Vorrei segnalare l’ultimissima pubblicazione e cioè il suo libro “Cos’è la natura?”. Una passione per l’uomo è il tema di questo Meeting 2022. È una passione per qualcuno che conosciamo molto bene. È uno di noi, siamo noi, qualcuno che è così intimo tanto da poter dire “io”. “Io sono, io penso, io amo, io parlo”. Ma è anche qualcuno che non conosciamo, che è mistero a noi stessi, tant’è che possiamo altrettanto dire, chiedere: “Io che sono?”, “Io chi sono?”. L’uomo si muove in questa tensione del dirsi, in questa avventura della conoscenza di sé, l’uomo vuole conoscersi e questa è la prima passione per l’uomo, la prima passione per sé stessi. Ma come? San Tommaso, nella sua spiazzante perspicacia ha scritto: “L’occhio non vede sé stesso”. Ed è vero. “L’occhio non può vedersi direttamente ma si concepisce attraverso gli atti della visione”. Così potremmo dire dell’uomo: si percepisce in azione attraverso i suoi atti, perché solo così viene a galla l’uomo che siamo e cerchiamo. Se c’è un tratto imponente nel dinamismo umano, questo è il linguaggio, perché infatti è anche attraverso l’accadere della parola quotidianamente, che qualcosa di noi si rivela. Così che indagare il mistero del linguaggio è indagare quel mistero che è l’uomo. Ho detto plasticamente: il linguaggio non è tanto o solo quel che viene detto dall’uomo ma qualcosa che dice dell’uomo. Il Meeting, in modo lungimirante ha dato sempre ampio spazio a questo tema del linguaggio. Lo vogliamo fare anche questa sera, vogliamo approfondire questa sensibilità soffermandoci su un particolare aspetto: la sua capacità inventiva. Lo faremo secondo tre esperienze, tre punti di osservazione molto particolari e diversi tra loro e cioè, dal punto di vista della traduzione, della neuro linguistica e dell’arte poetica; e vedremo poi a quali esiti queste esperienze ci condurranno. Quindi io inizierei da te, Stefano, perché l’azione del tradurre viene sempre percepita con una certa ambivalenza. Cioè, da una parte c’è un desiderio di sondare nuovi orizzonti, di sfrondare la superficialità delle parole, ma al contempo c’è un impaccio, la paura di uscire dall’impaccio, di essere infedeli, quindi accompagnato da un senso di disagio e di inadeguatezza. Tu stesso dici che il linguaggio porta con sé un paradosso e cioè il linguaggio è una facoltà universale ma ci sono tantissime lingue. Quindi questa diversità si presenta come incommensurabilità, tu dici, una impossibilità di far dialogare le lingue. Quindi la mia domanda è questa: che esperienze paradossale è dunque quella della traduzione? Cosa intendi quando dici che il tradurre è un’esperienza conoscitiva?

 

Stefano Arduini: Allora, sì, partiamo dal paradosso, la traduzione in realtà è piena di paradossi ma il paradosso diciamo forse più importante è quello appunto che tocca il linguaggio stesso, la sua propria radice. Niente di più universale ma niente di più locale. Alla fine del ‘700, alle origini della linguistica scientifica, Humboldt, uno dei padri della nuova disciplina era partito da questo paradosso per sviluppare la propria filosofia del linguaggio. Perché tante lingue? Perché tanta dispersione? Si chiedeva Humboldt. Humboldt diceva che il modo migliore per capire che cos’è una lingua è quello di considerarla come un frammento del linguaggio universale. Aggiunge, con una concezione poi ripresa da Walter Benjamin: “Tutte le lingue assieme assomigliano ad un prisma di cui ogni faccia mostra il modo in un colore, in una sfumatura diversa”. Era un inno alla diversità, alla molteplicità, che sottolineava come questa diversità fosse necessaria per comprendere la realtà, le diverse lingue guardano da diversi punti la realtà. Perché appunto la molteplicità delle lingue può offrire quella varietà di sguardi che è la nostra ricchezza. Ma come tenere assieme la molteplicità e la singolarità? Chomsky risponde con la sua teoria della sua grammatica universale e di questo non posso dire niente perché abbiamo qui Andrea vicino. Ma Humboldt rispondeva anche traducendo perché la traduzione permette, sono parole di Humboldt più o meno, la relazione con altre forme di umanità, un incontro che apre al nuovo, un incontro appunto che crea nuova conoscenza. Dunque bisogna tradurre, bisogna tradurre perché questo compie il nostro desiderio di relazione e la traduzione esiste certo perché esistono lingue diverse, ma in quella diversità gli uomini trovano una possibilità di completamento, trovano un valore. Nell’incontro con l’altro rappresentato dalla lingua diversa provocato dal tradurre, qualcosa di nuovo viene creato che non appartiene più né alla lingua d’origine né a quella in cui si traduce. Lo sappiamo, siamo perfettamente consapevoli che ci manca qualcosa nel leggere la realtà e che abbiamo sempre bisogno di un altro che ci aiuti. Ecco, per le lingue è lo stesso. Solo quando siamo esposti alla estraneità che le altre lingue ci impongono riusciamo a comprendere che quella estraneità può essere una ricchezza, che l’io deve aprirsi all’altro per leggere la realtà, solo in quel momento abbiamo come la sensazione di potere andare oltre la nostra finitezza. Dunque tradurre è un’esperienza, insisto sulla parola esperienza e non una pratica, un’esperienza di conoscenza che si oppone a un’idea che esista un significato invariante e a un’idea che subordini il rapporto con l’alterità all’io. Ad esempio ancora oggi ma ormai sempre di meno a dire il vero, circolano molte idee sulla traduzione che si richiamano a concetti come equivalenza, fedeltà, oppure parlano di cogliere il senso originario, oppure di dire la stessa cosa, di dire anche quasi la stessa cosa. Qui ci sono due fallacie, in tutte queste concezioni, due punti sbagliati di guardare le cose. Una riguarda appunto l’idea di significato, cioè che si pensa che il significato sia un oggetto che può essere trasferito intatto cambiando veste. Ma questa è un’idea che una lunghissima tradizione filosofica ha messo in crisi e che da tempo è facile contestare, basterebbe semplicemente pensare che quando traduco cambio codice linguistico, una lingua diversa è un sistema di valori diverso, qualcosa per forza cambia. La seconda fallacia, però, il secondo errore dal mio punto di vista è più pericoloso perché si fonda sull’idea nascosta che qualunque incontro con l’alterità avvenga sempre a partire da sé stessi, l’altro può essere avvicinato, compreso, può essere conosciuto solo se viene fatto proprio, senza riconoscerne l’irriducibile distanza che lo separa da noi. Da questa prospettiva la realtà dell’altro o è negata perché è talmente lontana da venire rifiutata, o là si avvicina tanto da renderla simile a noi. In traduzione la conseguenza è che un testo o una cultura sono rifiutati o sono assimilati, comunque non sono più riconoscibili per quello che sono. Vorrei però qui proprio in due parole proporre una prospettiva che pone il tema dell’incontro, nella traduzione, nell’incontro con l’altro, fuori di qualunque logica binaria di uguale-diverso, vicino-lontano, amico-nemico, pensando che l’altro, e quindi l’altro che incontriamo nel tradurre, l’altra lingua, l’altra cultura, l’altro, non è distante, non è uguale ma è prossimo, una prossimità non fondata su un’idea di identità ma sul fatto che l’altro mi è vicino perché condividiamo lo stesso destino, anche noi, come l’altro, siamo stati stranieri da qualche parte. È questa consapevolezza che permette di far spazio in sé dell’altro come diceva sabato monsignor Pozzi, fra l’altro. Pensare l’altro in questi termini è un modo per dare significato agli altri. C’è qualcosa che ci turba dell’altro, che ci mette a disagio, come se fosse un ostacolo al nostro stare al mondo. Occorre esserne consapevoli perché come diceva Wael Farouq in un incontro del 2018, non ci sono ponti che attraversiamo passando sopra le nostre differenze, perché proprio le nostre differenze sono il ponte. Questo è bellissimo, le nostre differenze sono il ponte. C’è la distanza ma c’è anche il desiderio di trasformare questa distanza in prossimità, quando capiamo che l’altro, proprio per la sua alterità, mi assomiglia perché siamo entrambi altri per qualcun altro. C’è un brano della Torah che ci viene in mente a tal proposito: in Levitico 19,34 troviamo infatti un comandamento famosissimo, a cui però spesso non badiamo, che dice più o meno in traduzione così: quando qualche straniero abiterà con voi nel vostro paese, non gli farete torto, tratterete lo straniero che abita fra di voi come chi è nato fra di voi. Tu l’amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Cioè nello spazio etico che si apre in Levitico 19,34 e un po’ prima, 19,18, lo straniero che dimora fra gli ebrei è come gli ebrei perché essi stessi erano stati stranieri in Egitto. In altre parole, l’amore per il prossimo dipende dal fatto che il soggetto e l’altro condividono un elemento essenziale, il fatto che entrambi sono stranieri. Questa estraneità condivisa costituisce l’elemento su cui si può fondare un qualche tipo di solidarietà. Con una ripresa della frase del Levitico, il prossimo appare come noto nei vangeli e in modo perturbante in quello di Luca, nel brano che introduce la parabola del buon samaritano, quando all’enunciazione del comandamento dell’amore verso il prossimo segue, in puro stile rabbinico, una domanda dei dottori della legge, che sottolinea l’ambiguità dei termini messi in gioco. Cosa significa? Chi è il prossimo? Dove lo incontro? Poi cosa vuol dire amare? E più ancora: cosa vuol dire amare me stesso? Come rispondiamo a questo? In un quadro del 1890 che si intitola “Il buon samaritano”, Van Gogh sembra darci una risposta concreta perché ci mostra il samaritano che prende su di sé, letteralmente, sopra le proprie spalle, il dolore dell’altro, e si fa prossimo. Non chiede come vivere il comandamento dell’amore ma proprio lui, lo straniero, vive nell’esperienza il rapporto con l’altro, lo accompagna. Un samaritano, un popolo che gli ebrei disprezzano, non passava dalla Samaria per andare da un lato all’altro di Israele, gli ebrei, per non contaminarsi, quindi è proprio uno straniero. Ma anche il viandante derubato è uno straniero, non sappiamo nulla di lui. Qualcuno che il sacerdote e il levita non vedono nemmeno, ignorano, uno che è distante, abissalmente altro nel suo dolore, ma a differenza del sacerdote e del levita, il samaritano riconosce quel dolore, ne vede il volto, l’abbandono, la solitudine, l’essere l’altro perduto, riconosce che ciò che lo unisce a quell’uomo ferito è che lui è straniero quanto l’altro è straniero e si fa prossimo. L’estraneità dell’altro, il suo essere altro dagli altri dà senso alla sua estraneità, alla sua alterità. Credo che qui sta il perché del tradurre. Si traduce perché il corpo a corpo col testo straniero dà senso allo stare con gli altri, un desiderio di definire il proprio sé nella relazione con l’altro, come se nell’estraneità dell’altro potessimo meglio accettare il nostro essere degli Ulisse senza un’Itaca. Ma ancora come di più come se con questo fosse possibile superare la nostra limitatezza, traduciamo perché andiamo al di là dei nostri limiti, riconoscere che siamo simili perché ognuno di noi è stato straniero e prende su di sé l’altro, un modo per pensare il tradurre. Tradurre dunque è necessario perché è quell’esperienza che ascolta l’altro che parla, accetta che l’altro è diverso da me proprio come io sono diverso dagli altri, riconosce la condivisione di un destino e realizza quell’ospitalità linguistica che è il modello per qualunque altro tipo di ospitalità. Siamo differenti in tutto se non per il fatto che anche noi siamo stati stranieri in qualche dove. Per questo traduciamo, perché nel tradurre diamo un senso al nostro essere stranieri, al nostro sapere che non ci sarà mai un punto d’incontro con nessuno se prima non riconosciamo la nostra stessa erranza. Io credo che questo è il senso vero, profondo, del motivo per cui traduciamo e ci impegniamo in questa cosa che sembra una pazzia ma che proprio perché è una pazzia dà senso alle cose che facciamo. Grazie.

 

Scholz-Zappa: Grazie Stefano. Proprio da questi contrasti e da questa alterità che si alimenta, si origina questa possibilità di creazione, qualcosa di apparentemente impossibile e se quindi parliamo di impossibili arriviamo a te Andrea. Cioè, tu hai dedicato diversi esperimenti e studi a questa possibilità inscritta nella lingua, cioè i linguaggi impossibili, che hai chiamato anche lingue inventate, lingue impossibili. Molto semplicemente: di cosa si tratta quando parliamo di lingue inventate, di lingue impossibili, e quali tratti dell’umano questi esperimenti ci dimostrano o ci mostrano.

 

Moro: Dunque innanzitutto grazie di questo invito, grazie a voi di avermi tollerato e grazie a voi di essere qui. Allora io misuro sempre così l’efficacia degli interventi quando vado a qualche comunicazione: se uscite di qui con qualche domanda in più ce l’ho fatta, se uscite con qualche certezza scordatevelo, se uscite intatti, va beh, ho sbagliato. Allora anch’io voglio partire da uno scandalo e anche nel mio caso si parte da un paradosso, come nel caso di Stefano. Il linguaggio dipende da un oggetto fisico, che è il nostro cervello ma nessuna espressione linguistica è prevedibile sulla base delle condizioni fisiche con le quali viene utilizzato. Se io decido di dire: fragolina di bosco, non c’è niente in questo ambiente che mi abbia portato a dirlo, in questo senso sono creativo. Uno dice: va bene, allora il linguaggio è scandalosamente sconnesso dall’ambiente fisico. Però c’è un fatto. Pur essendo libero dal mondo fisico, il linguaggio è comunque limitato da alcuni gradi di libertà per lo più inconsci che costituiscono la grammatica e di cui Stefano è un esperto, quando sposta da un sistema all’altro. Dunque il punto centrale che voglio osservare, al quale voglio portarvi, però ha una premessa: intanto il linguaggio è un universo, il linguaggio è fatto di suoni, di parole, col linguaggio si può ordinare, descrivere, imprecare, pregare, scherzare, ironizzare, si può fare di tutto. Come diceva Galilei, uno non può avere una teoria del tutto, bisogna prendere una prospettiva e cercare di capire come funziona. La prospettiva che a partire dagli anni cinquanta si è scelta come privilegiata è quella della sintassi. Che cosa vuol dire la sintassi? Vuol dire che l’impronta digitale del linguaggio umano è la capacità di generare infiniti significati permutando gli stessi elementi. Tutti gli animali hanno un linguaggio ma forse ce l’hanno anche le piante, anche i gerani chiacchierano tra di loro, solo che i gerani sono completamente condizionati dall’ambiente, e noi siamo gli unici esseri viventi che a partire dagli stessi elementi se cambiamo il loro ordine generiamo significati nuovi. Immaginate di prendere due nomi e un verbo, Caino, Abele e uccise. Se io dico: Caino uccise Abele dico una cosa, Abele uccise Caino stesse parole ma tutt’altro. Ecco questa qui è la cosa che sappiamo fare noi esseri umani, nessun altro essere sa fare questa cosa. Possiamo dirla in questi termini: gli esseri umani hanno dizionari di parole, quelle che noi conosciamo tutte, con le quali costruire frasi sempre nuove, gli animali hanno dizionari di frasi fatte. Dunque indagando la sintassi noi indaghiamo, come dicevi prima tu Monica, una cosa che è propria solo dell’uomo, da qui in poi se indaghiamo la sintassi tutto quello che troviamo si riferisce solo a noi quindi capite che la posta in gioco è notevole. Come è fatto il linguaggio umano? Lo capite anche voi, la grammatica di un linguaggio è talmente complicata che riuscire a discuterne e a presentare in pochi minuti è decisamente impossibile. Però voglio darvi un’idea di qual è il cuore della grammatica di tutte le lingue umane. Perché questo ha un impatto sulla teoria generale della conoscenza sorprendente, ci arriviamo per gradi. Primo, nelle lingue naturali le parole si raggruppano per così dire figurativamente in scatole. Cosa vuol dire? Che io prendo una parola come Maria e Maria può essere inclusa in un sistema di nomi un pochino più grande: gli zii di Maria, Maria come chiusa in una scatola. Poi posso prendere gli zii di Maria e metterli in una scatola più grande, le amiche degli zii di Maria. Potrei andare avanti quanto voglio: le cugine degli zii di Maria, le nuore dei cugini delle amiche, poi per fortuna la mia memoria si ferma e quindi non riesco più ad andare avanti. Sperando che questa immagine che vi faccio vedere rimanga un’immagine di buonumore e di gioco, funziona come le matrioske, cioè noi possiamo immaginare scatole contenute nelle altre scatole. Ad una conferenza mi hanno chiesto di togliere questa immagine: resisto fino in fondo perché speriamo rimanga veramente ancora il ricordo di una situazione di gioco. Ora però vi faccio vedere una cosa sorprendente che noi utilizziamo sempre per parlare di linguaggio ed è vero, per parlare di noi, parlare di come siamo fatti. Vi faccio vedere una regola semplicissima, la regola dell’accordo nome-verbo. Prendiamo un nome e un verbo, la solita Maria e il verbo correre. Vedete? Si incollano insieme e fanno una frase, Maria corre. In questa lingua, l’italiano, come in molte altre lingue per esempio non il cinese, il sintomo che questa colla ha funzionato è l’accordo di numero, singolare con singolare. Attenzione, cosa succede se invece che Maria prendo una scatola più grande, cioè prendo gli zii di Maria? Succede questo, invece che l’accordo del nome col verbo, se io dico gli zii di Maria devo dire corrono, cioè in un certo senso Maria non è più visibile al verbo, è visibile solo il nome della scatola più grande. Ma nessuno ce l’ha insegnata questa cosa, la famiglia prende il bambino e dice: mi raccomando copriti, mi raccomando non dire queste cose qui ma nessuno dice: mi raccomando, che è solo il nome più grande della scatola sia visibile al verbo. Cioè, se avete un papà e una mamma così, oltre ad essere linguisti sono anche criminali e allora sarà il caso di…

Ma qual è la conclusione? La conclusione è che le regole sintattiche vedono le scatole, non vedono l’ordine lineare fisico e questa è una scoperta straordinaria, sorprendente. Perché? Pensateci bene. La conoscenza del linguaggio e il suo apprendimento spontaneo ignorano una proprietà fisica come l’ordine delle parole e si basa su uno schema cognitivo che precede l’esperienza, quello delle scatole. Quando noi parliamo mettiamo le parole in fila. Ecco, questa fila di parole non è quello su cui costruiamo la regola, le regole vengono fatte su questi schemi a scatole di cui nessuno ci ha mai parlato e poi ci sarebbe da chiedersi perché abbiamo la grammatica. Ecco la grammatica funziona come un setaccio. Intanto è comune a tutte le lingue, tutte le lingue funzionano a scatole e questo permette l’apprendimento e poi l’uso delle parole limitando la complessità, cioè il bambino quando ha un verbo non va a controllare tutti i nomi ma sceglie soltanto quelli delle scatole più ampie. Noi nasciamo con un’istruzione che precede l’esperienza e ci impedisce di considerare delle lingue piatte. Ora, la grammatica costituisce un insieme di combinazioni indipendenti dal significato, tra l’altro, perché uno potrebbe dirmi: guardi, in realtà lei non ci ha mai parlato di significato. In realtà questa impalcatura a scatole precede il significato. In un certo qual modo, forse Davide su questo sarebbe d’accordo, è quello che permette ai bambini di giocare con le parole. L’abbiamo fatto anche noi, in un esperimento di tanti anni fa, di vent’anni fa al San Raffaele, dove i nostri soggetti, inseriti in questo caso in una PET, in una macchina ad emissione di positroni, sentivano frasi come: il gulco gianigeva le brale e sti poveri cervelli, come i vostri adesso, stanno cercando nei loro dizionari cos’è un gulco, cosa vuol dire gianigiare, anzi gianigere, come mi hanno detto i miei ossessivi fan. Noi non sappiamo cosa vuol dire che il gulco gianigeva le brale ma se vi chiedo cosa è successo alle brale voi dite: sono state gianigiate dal gulco. È chiaro che questa istruzione a voi viene dal sistema, nessuno ve l’ha detto, no? Allora, come faccio io a farvi uscire di qui dandovi delle ragioni per credere che quello che vi ho detto non dipende da un’istruzione esplicita o da un’imitazione ma dipende dalla struttura biologica? Si può fare solo con un esperimento, la cui premessa è questa: se la limitazione della libertà del parlante è imposta da una guida biologica che precede l’esperienza, allora devono esistere lingue impossibili, cioè strutture coerenti, magari semplici, che il linguaggio tuttavia non riconosce come prove non per motivi culturali ma neurobiologici. Qui arriva l’esperimento che ha un po’ fatto partire la teoria delle lingue impossibili. Ve lo dico in poche parole: abbiamo utilizzato in questo caso l’esperimento che vi faccio vedere è stato portato a termine all’Università di Amburgo e di Jena, Maria Cristina Musso ha somministrato questi dati. Abbiamo utilizzato una risonanza magnetica e cosa abbiamo fatto? Siamo andati a misurare un pezzettino di cervello che di solito è responsabile per la computazione della grammatica. Abbiamo inventato delle lingue che contenevano delle regole a scatole, come l’italiano, ma anche delle lingue piatte, e siamo andati a vedere cosa faceva il cervello. Siamo andati a misurare da una parte la padronanza, dall’altra il flusso ematico di quel pezzettino di cervello e poi abbiamo confrontato le due regole. Con le regole possibili, all’aumentare della padronanza, cioè della capacità di utilizzare quelle regole, aumentava il flusso ematico, vuol dire che quel pezzettino di cervello aveva riconosciuto come proprie, come linguistiche, quelle regole a scatole. Poi abbiamo misurato cosa accadeva quando il parlante interpretava delle regole piatte tipo: gli amici di Maria corre, con quell’errore di prima. Beh, in questo caso abbiamo ottenuto il risultato lampante, quello per cui nei laboratori quando succede si brinda, cioè l’opposto. Più diventi bravo, meno sangue aumenta in quel pezzettino di cervello che è deputato a coordinare la computazione di tipo sintattico. Dunque la conclusione è che i confini di Babele sono l’espressione del cervello. L’attivazione di circuiti diversi per lingue possibili e impossibili infatti prova che l’esistenza di lingue impossibili non può essere il frutto di una convenzione culturale di natura arbitraria o un programma imposto nel cervello, le lingue sono l’espressione stessa del cervello. Poi ovviamente all’interno di questi confini, è per questo che alla fine non so se riuscirò con un minuto a dire una cosa su quello che ha detto prima Stefano; comunque le lingue dentro a questi confini sono libere di mutare e svilupparsi per cultura e storia. C’è una conseguenza: dal momento che la lingua dei genitori non condiziona l’apprendimento della lingua madre, cioè se un bambino nasce con la pelle scura da due genitori, non è che se lo fate vivere a Tokyo gli viene la pelle chiara; viceversa se un bambino parla il dialetto di Berghem de Hura, se lo crescete a Tokyo non è che si porta dietro il dialetto di Berghem de Hura, parlerà la lingua di origine. Vuol dire che quell’istruzione biologica deve essere sensibile per essere compatibile con il sistema di arrivo. Allora quella che vi faccio vedere è un’altra citazione – ti ringrazio di avere citato prima il premio Nobel Perrin, è uno dei miei dogmi. Questa è una delle prime rappresentazioni a mano della tavola periodica degli elementi. Ecco, il sogno dei linguisti è di arrivare ad una tavola periodica delle lingue, cioè un sistema così complesso e bene organizzato che tu sai dire che grammatica hai. In questo caso le variazioni superficiali tra le grammatiche non dipendono da nessun fenomeno cognitivo. Questo è molto importante, qui tra di noi se c’è qualcuno che si occupa di neuroscienze capisce che questa seconda frase vuol dire non solo che noi esseri umani abbiamo linguaggi unici ma che il linguaggio all’interno della struttura dell’essere umano è unico dal punto di vista cognitivo, noi siamo una singolarità evolutiva. Chiamo che siamo sottoposti alla teoria dell’evoluzione di Darwin ma siamo una singolarità, come sistema di comunicazione ma anche come organismo visto che c’è un aggancio tra grammatica e cervello. Sé questa cosa è vera, vuol dire che non esistono lingue migliori di altre. Io avrei tanto voluto, in un mondo ideale, che il Dante del De vulgari eloquentia venisse veramente letto dai suoi contemporanei e fosse diventato una colonna portante dell’occidente, non è stato così. Nella seconda metà dell’Ottocento un linguista bavarese che scrive in Inghilterra, che si chiama Max Müller dice che c’è una società nobile che ha relazioni nobili, che un’economia nobile, che parla una lingua nobile e che ha una razza nobile. Nobile in questa lingua si diceva ariano. Questa è stata la più grande mistificazione che si potesse fare, agganciare la razza alla lingua. Poi lui si è pentito, ha cercato di smentirlo, ma la propaganda occidentale, non soltanto quella tedesca, l’ha fatta propria, fino a poi arrivare alle leggi razziali a cui poi anche il nostro paese ha aderito. Dante lo sa: nel De vulgari eloquentia Dante se la prende con chi crede che parla la lingua migliore e pur essendo un saggio scritto in latino per gli intellettuali, sapete, quando Dante si arrabbia usa l’ironia. Guardate che cosa dice: allora, Pietramala è un paesino nell’Appennino, e dice questo: “In questa, come pure in molte altre questioni, Pietramala diventa una città grandissima, diventa la patria della maggior parte dei figli di Adamo. Infatti chiunque ha un modo di ragionare così osceno (obscenus, in latino, dice Dante) da credere che quello della propria nascita sia il luogo più piacevole esistente sotto il sole, costui stima anche più di tutti gli altri volgari il proprio volgare, cioè la propria lingua materna, e ritiene di conseguenza che sia lo stesso usato da Adamo”. Ecco, Dante vuole prendere in giro quelli che credono di parlare la lingua perfetta, la lingua migliore, e lo fa in un modo che purtroppo non è stato così osservato. La cosa che voglio aggiungere, soltanto una. Tu hai detto una cosa bellissima, una delle cose belle di questi incontri che poi anch’io torno a casa con più domande e più cose. La questione di come mai gli esseri umani parlano lingue diverse. Io ho continuato a dirmi: ma se noi… dovrebbe essere un cammino in cui tutti si confluisce in una lingua comune e Babele è un danno. Poi nel 2019, poi capirete perché è importante la data, io mi son detto: cosa sarebbe stato dell’umanità se avessimo parlato tutti la stessa lingua, quando non c’era tecnologia. Avremmo fatto come l’effetto spiaggia, tutti insieme. Prova tu a gestire una megalopoli quando non hai tecnologia: dovresti gestire l’acqua, l’inumazione, il cibo, i trasporti. L’incomprensibilità tra gruppi probabilmente ha fatto in modo che l’umanità potesse crescere in comunità ridotte, maneggevoli. Quindi forse Babele non è stata una condanna, è stata un dono, quello di permetterci di costruire delle comunità piccole. Guardate, questa non è una teoria scientifica perché non posso provarla, è una congettura ma alle volte si va avanti anche con le congetture. Certo, questa cosa qui ci fa vedere la vera rivoluzione: se quello che ho detto è vero, tutto quanto abbiamo visto capovolge radicalmente la visione tradizionale sul rapporto tra linguaggio e cervello, ci porta alla sorprendente ammissione che è la carne che si fa verbo. Voi potete dirmi: ma l’esperimento manca, manca l’esperimento centrale, quello che per fortuna noi non possiamo fare, cioè allevare dei bambini con delle lingue impossibili. È un po’ di questo che, siamo vicini a Natale e allora faccio pubblicità ai miei libri, permettetemi. In questo libro soprattutto Chomsky, io sono un chiosatore di Chomsky, cerchiamo di parlare di queste cose, però ho fatto un’altra cosa, ho fatto in tempo ad essere sia allievo sia collega, senza successo alcuno in entrambi i casi, di Umberto Eco. Che una volta scrisse, scimmiottando evidentemente Wittgenstein: ciò di cui non si può teorizzare bisogna narrare. Allora mi son detto: se l’esperimento non posso farlo, me lo posso inventare. Ed è per questo che ho scritto questo romanzo che è la stessa cosa dell’altro libro però raccontato. Con questo vi ringrazio.

 

Scholz-Zappa: Il filo è sempre quello dell’invenzione del linguaggio. Abbiamo visto appunto che il linguaggio non è un cammino lineare ma proprio che questi contrasti lo portano avanti così che la creatività non è questo momento geniale solo ma è un insieme di attimi di genialità nella nostra quotidianità. Davide volevo chiederti questo: se non sbaglio sono trascorsi 35 anni dal tuo primo intervento qui al meeting, può essere? Nel 1987. Mi interessa questa cosa e cioè, proprio rispetto a questa sorgente della parola, il momento sorgivo della creatività. Dopo questi 35 anni dove sicuramente tu hai riflettuto anche su questa questione, quali ti sembrano i tratti più descrittivi, proprio descrittivi, di questo attimo sorgivo della creazione, dal punto di vista anche della poesia, dell’opera poetica, della canzone. Mi permetterei di aggiungere, valutalo tu, che ruolo gioca l’affettività in questo attimo della creazione.

 

Davide Rondoni: Intanto grazie, grazie agli amici di essere qui. Riprendendo una conversazione che al meeting già si è fatta qualche anno fa, la prima volta che invitai Andrea si è fatta una conversazione assieme a Stefano tanti anni fa, bisogna continuare a dialogare attorno a queste cose. Io però voglio dare un piccolo contributo anche rispondendo alla tua domanda, che è leggervi una poesia. Noi creativi, come si dice, facciamo questo, non sono un professore, non sono un teorico. Vi leggo una poesia che ho scritto recentemente che forse c’entra un po’ con quello che hai chiesto e che poi proverò molto velocemente a dettagliare. La poesia dice così:

 

(POESIA)

 

In questa poesia, al di là del valore in sé che non so se lo è, c’è un indizio della risposta alla domanda che dicevi tu. Un grande pensatore che si chiama Pavel Florenksij, in maniera molto chiara in un suo libro molto bello che si chiama “La magia della parola” dice: “la parola è energia” e ti inchioda a questa cosa. Cosa vuol dire che la parola è energia? Vuol dire tutte le cose che abbiamo sentito prima, che c’è una connessione tra il cervello, cioè tra la nostra vita energetica vera, biologica vera, il linguaggio non procede solo da un’invenzione, da una serie di trattative culturali, ma ha a che fare col vitale. Il vitale in noi coincide (questo l’ha già capito Sant’Agostino ma adesso non voglio fare citazioni, son più bravi loro a farle) con un inseguimento, è un inseguimento che coincide con l’amore. Noi siamo fatti a metà, se avessimo voluto avere un linguaggio autosufficiente, auto comprensibile, ci avrebbero fatti come delle palle. Ci han fatti a metà. Nella metà c’è questa nostalgia di altro di cui parla Ungaretti, di cui la traduzione è segno, di cui il linguaggio è continua energia, una continua energia che ci sorprende, che addirittura nella parte sua di sintassi più elevata, che chiamiamo normalmente poesia ma non la poesia appena come genere letterario, dirò qualcosa fra poco, nella sua forma di sintassi più elaborata, è sorprendente all’autore stesso, non sai quello che dici. Molto spesso, è esperienza di tanti che scrivono poesie, che sono qui, mi dicono: ma ho letto una tua poesia, dici questa cosa, non lo sapevo. Ma questo lo dice già Dante: tutta l’energia di Dante della costruzione della Commedia finisce in un balbettio infantile, uno che non sa cosa dire, come se questa fosse la radice stessa della parola, non un capire, una captazione del significato, di qualsiasi altra cosa, del mondo, dell’albero, dell’incanto, del tuo volto, la parola non possiede, insegue, è un continuo inseguire, come nel Cantico dei cantici, l’amore è un continuo inseguimento, non è uno stai qui sul divano con me, no, è un inseguimento continuo. La parola della poesia non è un’altra parola rispetto alle altre, io su questo sono sempre stato molto feroce, cioè, non credo che la letteratura abbia le sue regole come in un armadietto proprio. La letteratura pesca le sue regole o meglio le sue dinamiche fondamentali da quelle che sono le dinamiche fondamentali del linguaggio comune, non c’è una distinzione. Una delle dinamiche fondamentali è che noi, è un esempio che faccio spesso, quando abbiamo una persona cara, una figura cara, la soprannominiamo, la inseguiamo con un altro nome, non ci basta il nome dell’anagrafe. Perché questo inseguimento, che addirittura diventa, come diceva Bacone, relazioni illegali, degli incontri illegali, le metafore sono relazioni illegali, non previste. Ecco, la forza di questo inseguimento, Florenskij la dice subito chiara, è questa energia. Io credo, e qui mi attacco avendo ascoltato prima gli amici, siamo stranieri, diceva giustamente Arduini, siamo tutti stranieri tra stranieri. Rispetto a cosa? Il problema è questo. Io ti riconosco straniero a te perché sono straniero anch’io, rispetto a cosa? Non appena rispetto al fatto che tu sei straniero nella mia patria e io straniero nella tua, siamo tutti stranieri di una nostalgia che ci abita e ci abita la nostalgia di quella parola che è l’unica che crea. Noi poeti componiamo, non creiamo niente. Questa è la nostra condanna, la nostra infinita insoddisfazione e la nostra inutile utilità, di essere segno di una nostalgia di quella parola che dice la luce e la luce fu. Tu invece la luce puoi evocarla, puoi farla immaginare, puoi chiamarla in scena ma non succede. Anche quando dici: amore, non succede, lo stai inseguendo. Ora, questa nostalgia ci fa stranieri, non è un’estraneità etnica. Anche, ovviamente, anzi come diceva giustamente Andrea, Babele per fortuna ci educa ad una nostalgia attraverso una estraneità anche etnica, anche linguistica. Allora, e finisco, per rispondere alla tua domanda, l’energia del linguaggio c’entra con l’affetto, forse più che con l’amore, come si intende normalmente, con la voglia di legame, non solo con l’altro ma con qualcosa che mi abita e che, nell’esperienza della poesia per tutti è chiara, è altro da me. Quando Dante dice: “M’I sono uno che quando amore detta”. Io sono uno che detta a me stesso. O Rimbaud, che è l’unico poeta che io avvicino a Dante, con buona pace di Pessoa che forse è abbastanza depresso per i miei gusti ma insomma, Rimbaud dice: “Je est un autre”. Io è un altro. Non è Freud, non è freudismo questo, questa è ontologia, che è un’altra cosa. Ora, lo dico perché questa nostalgia non è appena una nostalgia verso una specie di alterità indefinita ma è qualcosa che mi genera. Finisco, così faccio pubblicità anch’io a un libro, come ha fatto Andrea. Un libro che è appena uscito, dove abbiamo fatto raccontare a tanta gente che ha conosciuto don Giussani, su questa figura, perché una volta gli ho detto: don Gius, tu quando parli ti si ascolta. Magari dici le stesse cose che dicono altri ma quelli dopo un po’ ti rompono le scatole, non li ascolti più. Qual è la differenza (mi guardava con questi occhioni azzurri)? Che tu parli poetico. Non scrivi poesie, anche se Giussani come sappiamo era molto nutrito, non a caso, di letteratura, questo a volte può servire. Ma perché in lui la tensione del linguaggio era l’inseguimento dell’oggetto di cui parlava. Non ti spiegava Gesù perché lo sapeva già, lo stava guardando mentre te ne parlava. Questo valeva per Gesù, come per il vino, come per la matematica. Una persona che ti convince, ti lega alla sua parola, non è perché sa già ciò di cui parla ma perché lo sta inseguendo con un’energia che ti trascina e che ti fa imparare parole, ti fa imparare un linguaggio. In questo senso la cosa più straordinaria dell’affectus, e finisco, è la trasmissione di un linguaggio. La cosa più straordinaria è che il linguaggio di un uomo (penso a tanti poeti che ci hanno regalato dei versi che hanno illuminato la nostra vita, io andando a trovare mia madre in ospedale, lo racconto spesso, mi ripetevo i versi di Luzi “Mia madre, mia eterna margherita”. Vedi tua madre malata in un altro modo), questo regalo di linguaggio da un uomo a un altro è la cosa più straordinaria che possa capitare e forse è un grande gesto d’amore.

 

Scholz-Zappa: Davide, secondo me tu hai in un certo senso rispondo già alla seconda domanda che volevo porti, poi guarda tu. Mi sembra, da quello che tu dici, io né traduco né spiego, però… ci siamo imbattuti in una posizione oppure in una esperienza di linguaggio che non ha nulla a che fare con un naturalismo, con un meccanicismo ma ha a che fare con una sofferenza. Quindi è qualcosa che ha in sé qualcosa di divino e ci porta fuori dagli spazi stretti in cui noi normalmente parliamo di linguaggio, immaginiamo la poesia come se fosse… tu dicevi di reazione ma io dico non di una istintività fine a sé stessa. Per questo vorrei concludere con una domanda a Stefano, perché è come un esempio che ci porta fuori quasi dai ranghi soliti con i quali noi approcciamo anche il tema del linguaggio. Cioè, nella tua riflessione sul linguaggio, sulla traduzione, ti sei soffermato su due figure e cioè Ulisse e Abramo. Due uomini appassionati, due uomini che vogliono conoscersi. Ma noi di solito siamo legati ad una narrazione di Ulisse, di un’immagine di Ulisse privilegiata, identitaria, la summa dell’identità. Mentre come tu spieghi Abramo, ci introduci ad una visione rivoluzionaria anche del concetto di identità, che penso sia molto utile non solo nel nostro contesto storico ma anche proprio per guardare a questo fenomeno misterioso che è la lingua. Cosa ci puoi dire?

 

Stefano Arduini: Allora, come si forse si è capito da prima, io identifico il discorso del tradurre col discorso del rapporto con l’alterità, con l’altro. Diciamo che fra Abramo e Ulisse vediamo due rapporti diversi, due figure che si rapportano in maniera diversa all’alterità. Pensiamo appunto a Ulisse, che ritorna ad Itaca e ad Abramo che lascia per sempre la sua terra per qualcosa che è sconosciuto. Sono due percorsi che se ci pensiamo bene rappresentano sue idee di identità. Penso al viaggio di Ulisse ma penserei anche agli Argonauti, non solo ad Ulisse e al viaggio di Abramo. Tutti partono per un peregrinare in qualche luogo, i primi due per ritornare, il terzo verso l’incognito. Ulisse ritorna a quello che era, il suo viaggio è circolare, passa mille incontri ma alla fine torna a ciò che conosce, un’apertura al diverso, certo, perché incontra mille popoli, mille imprese, che però deve per forza ritornare al proprio, che non può uscire dal sé. Anche Giasone è così, pensate ad un viaggio circolare, inizia con la consapevolezza che l’unica meta che conta è quella di trovare il vello d’oro per ritornare e diventare re nel regno dove è stato spodestato, dunque l’unica ragione per partire è per ritornare. Abramo invece sperimenta totalmente altro, risponde ad una chiamata paradossale, si vota all’erranza, è l’hebrew, l’ebreo, che letteralmente significa: colui che viene da una sponda e va verso l’altra sponda senza più tornare. È diverso il viaggio di chi ritorna, o pensa di ritornare, o viaggia per ritornare, e di chi va senza ritorno. Ulisse parte di malavoglia, lo sappiamo, è guidato dal ritorno alla sua casa. È un ritorno a ciò che già conosce, è un ritorno alla sua identità. Giasone parte per eseguire una richiesta che gli avrebbe ridato il regno perduto, quindi di nuovo ritornare all’origine. Abramo risponde ad una chiamata che lo mette in cammino verso l’imprevisto, all’incontro, a ospitare e ad essere ospitato. È un’identità nomade, sa che qualunque incontro riserva delle sorprese e che questo mette in discussione tutto, le proprie certezze, ci obbliga costantemente a ricentrare le nostre identità. Lo porta a un altro che non sarà mai compreso del tutto ma al quale chiede comunque un rapporto. Cioè Abramo va verso una direzione e imprevista, impossibile da immaginare anche avendo fiducia nella promessa che l’aveva mosso. Partire come fa Abramo è perdere qualcosa di sicuro senza sapere se si avrà qualcos’altro in cambio. È un po’ come tradurre, appunto: di sicuro perdi qualcosa, non sai che cosa avrai in cambio. Rischiare di non ritrovarsi, come accade nella traduzione, ma affidarsi a qualcosa, non temendo la simmetria data dal fatto che l’altro non è afferrabile, e trasformare la simmetria in ospitalità e in amicizia. Dunque rappresenta un’esistenza in transito, e proprio in quanto tale Abramo è il simbolo dell’ospitalità e dell’amicizia, è uno straniero di passaggio. Il suo essere in cammino per terre sconosciute non fa altro che affidarsi all’ospitalità altrui, all’amicizia, e può offrire solo altrettanto, perché l’ospitalità puoi ripagarla solo con l’ospitalità. È il segno di essere degli stranieri in cammino. Dunque quello che vorrei dire, quello che secondo me è la sintesi del viaggio di Abramo è questa: la relazione con l’altro è sempre erranza senza ritorno, perché la sua distanza ci mette inevitabilmente dentro all’imprevisto. Ma l’imprevisto per essere ospitato ha bisogno di un guardare che escluda il rifiuto, l’annessione e l’adeguamento. Il rifiuto, cioè l’allontanamento dell’altro, l’annessione, cioè l’inclusione all’interno del proprio sistema di valori, o al contrario l’identificarsi col sistema di valori altrui. Occorre allora che sia riconosciuto nell’altro un valore che dia senso al movimento dell’io verso l’esterno, un valore che sta nella possibilità di dare consistenza all’io senza cancellarlo. Questo è l’amicizia, dove l’altro non viene rifiutato perché incommensurabilmente lontano, non viene annullato annettendolo al proprio sistema di valori, e infine non conduce al sé ma viene accolto in un patto di reciprocità che definisce la relazione d’amicizia. È una contraddizione, è un paradosso anche questo, le relazioni con l’altro sono paradossi, che però non lascia solo il soggetto di fronte all’impenetrabilità dell’altro ma, come posso dire, è attraverso questo paradosso che costruiamo la nostra identità. Grazie.

 

Scholz-Zappa: Come ha detto Andrea, se questa sera la domanda si è acutizzata, se usciamo con domande abbiamo centrato il segno. Noi ne siamo gratissimi, contentissimi, siamo molto grati di come i nostri amici ci hanno traghettato verso spazi e passioni più ampie. Parole come paradosso e come inseguimento, e questo è parte anche della nostra quotidianità, bisogna avventurarsi e non censurare nulla. Quindi vi ringrazio, ringrazio anche i nostri ospiti ancora una volta, ringrazio voi tutti qui presenti, i tecnici di tutti i tipi e ringrazio voi qui presenti per la vostra viva attenzione partecipazione perché di questa partecipazione vive e si alimenta il Meeting.

Data

23 Agosto 2022

Ora

17:00

Edizione

2022

Luogo

Sala Open Fiber A2
Categoria
Incontri