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LE FORZE CHE MUOVONO LA STORIA SONO LE STESSE CHE RENDONO L’UOMO FELICE
Interviene S. Ecc. Mons. Christophe Pierre, Arcivescovo, Nunzio Apostolico negli Stati Uniti. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice
Ore: 15.00 Auditorium Intesa Sanpaolo A3
LE FORZE CHE MUOVONO LA STORIA SONO LE STESSE CHE RENDONO L’UOMO FELICE
Interviene S. Ecc. Mons. Christophe Pierre, Arcivescovo, Nunzio Apostolico negli Stati Uniti. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
EMILIA GUARNIERI
Siamo al primo incontro di questa trentanovesima edizione del Meeting. Innanzitutto ringraziamo S. Ecc. Mons. Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Stati Uniti, per questo gesto grandissimo di amicizia e di paternità con il quale ha voluto accogliere il nostro invito a essere qui oggi. Mi permetto, prima di dargli la parola, di introdurre e contestualizzare, all’interno del Meeting, questo suo intervento, questa sua presenza, anche perché vogliamo sottolineare che abbiamo vissuto questi ultimi giorni di lavoro di fronte al dramma di Genova, a quello che stava accadendo, condividendo nell’affetto, condividendo con il cuore, tanti di noi con la preghiera, il dolore delle famiglie, la preoccupazione degli amministratori, la generosa, come sempre, solidarietà dei liguri e, mentre non possiamo non augurarci che coloro che hanno responsabilità facciano tutto ciò che dipende da loro, ci sentiamo al contempo provocati a guardare in commosso silenzio ciò che invece non dipende da noi e che anche questa circostanza ci mette davanti. Ed è lo stesso silenzio che vi invito ora a condividere, in piedi per un minuto, nella memoria delle persone che il Destino ha chiamato con sé.
Grazie. Diceva Claudel che la pace, chi la conosce, sa che la gioia e il dolore in parti uguali la compongono. Credo che cominciare un Meeting in questi giorni significhi avere dentro questo. Claudel, che peraltro incontreremo alla grande questa sera, in occasione dello spettacolo inaugurale.
Vi do ora lettura del messaggio che il Presidente Mattarella ha inviato per l’apertura di questo Meeting
«Si apre una nuova edizione del Meeting e sono lieto di rivolgere un cordiale saluto e l’augurio più caloroso ai tanti giovani che lo animeranno con la loro partecipazione, ai volontari, agli organizzatori che anche questo anno sono stati capaci di offrire alla loro comunità e all’intera società italiana un’occasione così ricca di incontro, di riflessione, di cultura. Il dialogo, il desiderio di incontrare l’altro e di costruire insieme – nelle differenze – compongono l’humus di una società democratica e di una comunità solidale. Si tratta di valori quanto mai preziosi che vanno incessantemente alimentati pena un loro impoverimento.
Dalla propensione al rispetto, e dunque all’amicizia, dipende molto della qualità della vita e della forza di una società. Sostenere le proprie idee e affermare la propria identità non consiste nell’innalzare le barriere del pregiudizio e della contrapposizione irriducibile. Al contrario, è dal confronto, dalla consapevolezza che ciascuno, con il suo credo e le sue convinzioni, arricchisce il nostro essere persona, che nasce la possibilità di rendere davvero umano il mondo.
Così il Meeting ha dato il suo contributo alla formazione di cittadini attivi e responsabili. E sono certo che su questa strada nuovi risultati positivi verranno raggiunti.
Il tema scelto per il Meeting 2018 – Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice – offre molti spunti, che in questi giorni saranno opportunamente approfonditi.
La coscienza del legame tra la propria libertà personale e il bene della comunità della quale siamo parte è un patrimonio essenziale della civiltà e della cultura democratica. Tra le numerose e straordinarie opportunità che i tempi nuovi ci offrono vi sono anche i rischi della piatta omologazione e di chiusure individualistiche. L’esasperazione dell’interesse egoistico, così come il mediocre conformismo, limitano lo sguardo sul futuro e spingono a considerare il presente come l’unico orizzonte utile. Una gabbia, che riduce le nostre ambizioni e la fiducia nel domani e scoraggia i progetti per migliorare il mondo in cui viviamo.
Connettere la ricerca di felicità della persona con il desiderio di costruire una storia migliore per sé e per gli altri è una grande sfida di umanità. Tenere insieme persone e storie, vuol dire proprio rafforzare i legami tra l’individuo e la comunità, fare sì che nessuno rimanga indietro o si senta escluso.
È questo un grande impegno di rinnovamento civile che – nel corso del Meeting e dopo il Meeting – mi auguro possa unire sempre più coloro che, nel nostro paese, in Europa e nel mondo, credono in un comune destino.
Sergio Mattarella»
Credo che le parole del Presidente, che dopo mi permetterò anche di ri-sottolineare, siano veramente un affondo su ciò che ci anima nell’essere arrivati fino a qui nel lavoro su ciò che ci attende in questa settimana. Anche il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Gutierrez ha inviato quest’anno un suo messaggio personale di cui vi do lettura: «Dal 1980, il Meeting per l’Amicizia fra i Popoli di Rimini ha dato l’opportunità a persone di fedi e culture diverse di incontrarsi, di condividere le proprie esperienze e di rinnovare l’impegno per la costruzione della pace e dell’amicizia. È di questo spirito che abbiamo bisogno, oggi più che mai.
I conflitti divampano in molte parti del mondo. Xenofobia e razzismo sono fenomeni in aumento in alcuni paesi e regioni. Il Meeting di Rimini, che riunisce più di duemila persone provenienti da contesti etnici, religiosi e culturali diversi è un gradito antidoto a tutto questo. Le Nazioni Unite furono fondate con la convinzione che il dialogo, la mediazione e la riconciliazione possono contribuire a creare un mondo più pacifico. Siamo legati insieme da valori quali pace, giustizia, dignità dell’uomo, tolleranza e solidarietà, comuni a molte culture e religioni. Sono gli stessi valori fondamentali sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che sono anche alla base dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Per promuovere e mantenere la pace occorre affrontare le cause all’origine di crisi e conflitti, spesso legate a fenomeni di povertà, esclusione, disuguaglianza, discriminazione e violazioni dei diritti umani. Bisogna ascoltare, sostenere e dare autonomia a chi è spesso escluso o emarginato. In questo senso donne, ragazze, anziani, giovani, disabili e minoranze di ogni genere sono chiamati a svolgere un ruolo importante. Responsabilizzare i giovani è uno degli investimenti più importanti che possiamo fare per prevenire i conflitti e costruire una cultura di pace. È con questo spirito che invito tutti voi a perseguire la visione e l’obiettivo che abbiamo in comune, costruire su ciò che ci unisce e trovare modalità nuove per mettere ponti tra ciò che ci divide. Il mondo sarà più forte, più prospero e più felice se ci adopereremo, tutti insieme, per dimostrare rispetto reciproco, tolleranza e comprensione di ogni diversità tra culture, religioni, razze, etnie e opinioni. Vi auguro che il Meeting di Rimini 2018 sia un’edizione ricca di successi».
(Antonio Guterres, vicario generale delle Nazioni Unite)
Questa mattina abbiamo ascoltato il messaggio di papa Francesco in riferimento a quel desiderio di felicità – riparto da qui, riparto dal desiderio – quel desiderio di felicità e di cambiamento che tutti gli uomini portano nel cuore. Ricorderete quelle domande: «Chi salverà oggi questo desiderio che abita, seppur confusamente, nel cuore dell’uomo? Solo qualcosa che sia all’altezza della sua brama infinita. Se infatti il desiderio – proseguiva il messaggio – non trova un oggetto adeguato, rimane bloccato e nessuna promessa, nessuna iniziativa potranno smuoverlo». E proprio all’inizio di questa settimana di convivenza, di confronto, di dialogo, di lavoro vogliamo centrare lo sguardo su questo desiderio, tant’è che lo abbiamo messo al centro dello spettacolo inaugurale di questa sera “Attraverso il mare del desiderio”, ispirato a La scarpina di raso di Paul Claudel, perché vogliamo chiederci: ma che cosa produce questo desiderio nella vita degli uomini? Non solo nella vita personale, intima e interiore, ma che cosa produce questo desiderio o cosa può produrre nella organizzazione della società, della economia, nella ricerca, e questa ricerca della felicità può veramente cambiare la storia? E ancora, se questo desiderio è ciò che condividiamo con tutti, cioè se questo desiderio è il punto comune, – Pavese diceva «il punto infiammato» – allora le diversità che cosa rappresentano? Che cosa sono tutte le diversità, quelle di etnia, di lingua, di religione, di concezione della vita, ma anche la diversità delle storie personali, dei percorsi, le diversità delle competenze, le diversità di studio, di scelte di vita, che cosa sono le diversità rispetto a questo punto comune che tutti gli uomini condividono? Le diversità, io credo, possono essere un’apertura verso l’altro e non una guerra di difesa e possiamo vedere anche nell’esperienza come le differenze possono essere una ricchezza non solo da tollerare ma da valorizzare. L’esperienza di tutti questi anni di Meeting, io credo che ci abbia proprio mostrato più che dimostrato, ci ha mostrato come questo è vero e ci ha mostrato che l’altro può avere ciò che io non ho, ci ha mostrato che l’esperienza e la storia dell’altro possono aprirmi orizzonti che io non avevo ancora intravisto. In tale contesto, fatto da queste due grandi polarità, il punto infiammato comune e le diversità, in questo contesto ci sono mi pare come due grandi tentazioni particolarmente pericolose. Credo che possiamo definirle così: da una parte la paura di ciò che è diverso, la paura di quello che può succedere, la paura di ciò che c’è dietro la porta, che ci porta sempre a identificare i nemici da combattere e dall’altro l’omologazione al ribasso. Diceva il presidente Mattarella nel suo messaggio: «L’esasperazione dell’interesse egoistico, così come il mediocre conformismo limitano lo sguardo sul futuro e spingono a considerare il presente come l’unico orizzonte utile». Credo che quello che anche il Presidente ci offre sia uno sguardo da tenere veramente presente come giudizio sulla realtà che abbiamo davanti e vorrei concludere sottolineando un fattore che in maniera particolare, proprio in questo contesto, proprio in questo momento, mi pare particolarmente urgente. In un contesto così difficile, dove i segni della crisi sono così evidenti, in questo cambiamento d’epoca, dove nessuno può avere la presunzione di soluzioni prefabbricate, che cosa possiamo innanzitutto attenderci? Io credo che dobbiamo augurarci, proprio perché nessuno può avere la presunzione di soluzioni prefabbricate, che ognuno possa avere la libertà di fare il proprio percorso di ricerca personale, possa avere la libertà di far crescere il proprio volto, possa avere la libertà di mettersi insieme ad altri uomini nell’avventura di questi percorsi e che possano esistere dei luoghi in cui questi percorsi si possano confrontare e si possano valorizzare reciprocamente. Credo che il Meeting sia una risorsa in questo senso. Anche il Meeting vuole essere uno di questi luoghi per rappresentare un contributo alla crescita e all’incontro di questi percorsi umani ed è con questo spirito, con questo sentimento, che iniziamo ed è con questo slancio che do la parola a monsignor Pierre. Monsignor Pierre è persona nota, diplomatico vaticano noto, quindi non mi dilungo tanto, è nato in Francia, ha iniziato ben presto il suo percorso nel corpo diplomatico della Santa Sede, è stato in tantissime parti del mondo (Nuova Zelanda, Mozambico, Zimbabwe, Cuba, Brasile), è stato nella missione permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, è stato nunzio apostolico ad Haiti, è stato rappresentante papale in Uganda, tra l’altro proprio negli anni in cui era in Uganda, nel 2004, monsignor Pierre era già venuto al Meeting – come ricordavamo insieme questa mattina – è stato in Messico, nel 2016 è stato nominato nunzio apostolico negli Stati Uniti d’America e lo abbiamo invitato a introdurre il Meeting, a parlare di questo tema per la paternità e la magisterialità che abbiamo sentito nella sua persona e nelle sue parole. Gli cedo la parola, grazie.
S. ECC. MONS. CHRISTOPHE PIERRE
Cari amici, sono molto felice di essere qui, con voi, al Meeting di quest’anno, e ringrazio Emilia Guarnieri, Sandro Ricci e Marco Aluigi per il loro gentile invito. Sebbene sia il nunzio apostolico negli Stati Uniti, vi parlo oggi come amico del Movimento, che conosco bene almeno dal 1991. Vengo a voi, ovviamente, anche come Pastore, dopo aver servito la Santa Sede in svariate Missioni Diplomatiche, iniziando dalla Nuova Zelanda e continuando poi in diverse regioni del mondo, prestando il mio servizio come nunzio in Haiti, in Uganda, in Messico e attualmente negli Stati Uniti. Nelle mie varie missioni, mi sono reso conto che, non importa il Paese o la nazionalità, e indipendentemente dalla ricchezza o dalla povertà, gran parte delle persone cerca la felicità – perché ciò corrisponde al desiderio più profondo del cuore umano. Esse sono alla ricerca delle forze che muovono la storia, perché queste sono le stesse che rendono l’uomo felice.
Mentre questa ricerca continua, stanno avvenendo enormi cambiamenti nel mondo: cambiamenti drastici nella cultura, nella tecnologia, nella mobilità dei popoli, nella globalizzazione e nella rapida secolarizzazione. Papa Francesco ha detto che non viviamo tanto in un’epoca di cambiamenti quanto in un cambio d’epoca. Questi cambiamenti hanno reso difficile trasmettere la fede alle generazioni future. Di fronte al cambiamento, al conflitto, al relativismo e a desolanti prospettive per il futuro, la gente comincia a disperarsi sotto il peso della vita quotidiana e corre il rischio di dimenticare come essere protagonisti della storia.
È questo il tema che desidero affrontare oggi, meditando in primo luogo sull’incontro di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe (Gv. 4, 1-26), un passaggio che credo possa fornirci uno schema per aiutarci a comprendere come “l’incontro” risvegli il cuore della persona e lo apra alle possibilità del futuro.
Vorrei illustrarvi, poi, come Papa Francesco stia guidando la Chiesa e il mondo a fare esattamente lo stesso in questo momento di cambiamento epocale e, infine, vedere se, noi, come eredi del grande patrimonio lasciatoci da don Giussani, possiamo imparare dalla sua risposta al cambiamento e alle sfide ideologiche, per riscoprire veramente ciò che significa essere protagonisti del nostro futuro e scoprire cosa muove la storia e ci rende felici.
I Parte: La Samaritana al pozzo: un approccio rivoluzionario
Prima di iniziare la mia riflessione su questo bellissimo passaggio tratto dal Vangelo di San Giovanni, desidero proporvi le parole di Papa Benedetto XVI all’inizio della Sua Lettera Enciclica Deus Caritas Est
«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
L’incontro di Gesù con la Samaritana al Pozzo è bello, semplice e profondamente umano, e mi aiuta a capire la mia stessa vocazione. Da esso ho scelto le parole per il mio motto episcopale e ci ho pensato subito quando ho sentito il tema del Meeting di quest’anno: “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. In questo incontro, la Samaritana ha un “blocco” spirituale ed esistenziale, ma Gesù, attraverso il suo sguardo misericordioso e attraverso il dialogo, apre gradualmente i suoi occhi e il suo cuore per farle riconoscere ciò che la renderà veramente felice. L’incontro con Gesù rimuove la sua vergogna e soddisfa la sua sete di gioia, trasformando il suo modo di vivere. Si apre un orizzonte per un nuovo stile di vita. L’incontro le ha rivelato tutto ciò che era stato accuratamente nascosto nel suo intimo – la sua stessa umanità. Rafforzata e convertita da tale incontro e con un sentimento più profondo per la propria umanità, potrà diventare protagonista del suo futuro, testimoniando agli altri che ha trovato in Lui il Messia.
Con la storia della Samaritana al Pozzo, voglio descrivere l’idea della conversione come l’incontro e il riconoscimento dell’Altro – cioè del Cristo, della Presenza del Dio della Misericordia. Il Vangelo di Giovanni è pieno di “incontri” che cambiano la vita. Nel primo capitolo, Giovanni il Battista indica Gesù come l’Agnello di Dio, e i suoi due discepoli iniziarono a seguire Gesù, che chiede loro: «Che cercate?». Il Salvatore sta già cercando di risvegliare in loro la consapevolezza dei più profondi desideri del loro cuore.
A loro volta, i discepoli Gli chiesero: «Rabbì (che significa maestro), dove abiti?». Egli rispose: «Venite e vedrete». Trascorsero tutto il giorno con Lui ed essi poi ricordarono il loro primo incontro; erano circa le quattro del pomeriggio. Immediatamente, trasformato dall’incontro, Andrea disse al fratello Simone, «Abbiamo trovato il Messia». Avevano incontrato la Presenza – qualcuno veramente eccezionale che con la sola forza della Sua voce, con la Sua Presenza, con la speranza che Egli offriva loro, li aveva persino persuasi a lasciare Giovanni il Battista.
Nel secondo capitolo, Gesù compie il miracolo di Cana e i discepoli vedono la Sua gloria e credono in Lui. Il vero incontro, in tale circostanza, è l’incontro tra Dio e l’umanità.
Nel terzo capitolo, Gesù incontra Nicodemo. Nicodemo era un ebreo, uno studioso della Legge, un buon Fariseo e un membro del Sinedrio, eppure mancava ancora qualcosa nella sua vita. Il dialogo che Gesù ha avuto con Lui lo porterà poi alla sua lenta conversione. Fu lui che fece almeno il tentativo di intervenire affinché Gesù ricevesse un’udienza imparziale e che in seguito si appellò a Pilato per avere il corpo del Signore, provvedendo che fosse sepolto in maniera appropriata. Era in quello stesso terzo capitolo del Vangelo di Giovanni che il Signore disse a Nicodemo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui». Solo col tempo, gradualmente, Nicodemo avrebbe compreso il pieno significato di queste parole, ma il suo incontro iniziale con Gesù fu l’evento e l’occasione per rivelare questa verità al mondo intero. È stato l’incontro che ha aperto le porte alla speranza e tutto il resto sarebbe avvenuto in seguito a questo.
Ma ci sono, ovviamente, alcune differenze tra l’incontro di Gesù con Nicodemo ed il Suo incontro, nel capitolo 4, con la Samaritana al Pozzo. Nicodemo venne di notte; lei incontra Gesù durante il giorno. Nicodemo era un ebreo di spicco, un membro del Sinedrio; questa donna era una samaritana e si era impoverita. Nicodemo era una persona di grande condotta morale, che osservava la Legge; lei era una peccatrice che aveva avuto cinque mariti e che ora stava con un sesto uomo. Tutto ciò ci rivela qualcosa su Gesù: Egli è disposto a incontrare chiunque – sempre e ovunque. C’è sempre la possibilità di un incontro che cambi la vita!
Gesù è in viaggio attraverso la Samaria. Sta andando alle “periferie”, come potrebbe dire Papa Francesco. La misericordia di Dio non si può fermare. Gesù ha viaggiato dalla Giudea, nel sud, alla Galilea, nel nord, e fino alla Samaria proprio per incontrare questa donna. Quando Gesù la incontra, Lui è da solo e lei è da sola; l’incontro è personale. Si incontrano al Pozzo di Giacobbe. A qualcuno, secondo la mentalità ebraica, l’ambientazione del “pozzo” potrebbe far pensare al matrimonio. Il servo di Abramo, infatti, incontrò Rebecca vicino ad un pozzo e la condusse da Isacco. Anche Mosè incontrò Zippora ad un pozzo. Ora, una donna incontra un ebreo, in prossimità di un pozzo, all’ora sesta. Era come se Gesù desiderasse un incontro e fosse interessato alla libertà di questa donna. Come le cose sarebbero andate sarebbe dipeso dalla sua libertà. Poteva semplicemente andarsene, come aveva fatto il giovane ricco, o poteva diventare una protagonista nella storia, interessata alla propria umanità a motivo dell’interesse di Gesù per lei.
Certamente la Samaritana non intendeva incontrare nessuno. Era da sola. Dove erano le altre donne? Perché non stavano attingendo acqua? Probabilmente perché avevano già attinto la loro acqua all’inizio della giornata. Questa donna, invece, venne quando pensava che nessuno sarebbe stato al pozzo. Perché? Perché era una pubblica peccatrice! Doveva sopravvivere ma non voleva essere vista, non voleva essere giudicata e non voleva dare spiegazioni a nessuno. Si occupava di tante cose ma aveva dimenticato la propria dignità e quello che significasse essere una protagonista della storia. Si era lasciata guidare da forze che sembravano al di fuori del suo controllo.
Ma i suoi migliori piani per evitare un incontro fallirono. Gesù era lì che l’aspettava. Lui, un uomo ebreo, parlò con lei, una donna samaritana, in pubblico. L’amore e la misericordia di Dio attraversano le barriere e superano i confini. Dio non vuole distanze; vuole essere vicino – persino ai peccatori.
Qual è l’approccio di Gesù? Subito la coinvolge in un dialogo. Nella Sua umanità, Egli è stanco e assetato, ma la Sua vera sete è per la fede di lei. Le chiede da bere ma lei rifiuta. All’inizio, lei non vuole davvero parlare con Lui e sottolinea la differenza tra loro: ebrei e samaritani. Tuttavia, dà a Gesù un’opportunità per continuare il dialogo. Gesù risponde al suo rifiuto dicendo: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva».
Chiamandolo semplicemente «signore», gli chiede: «da dove hai dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe»? Rispose Gesù: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna».
In questo momento, c’è una presa di coscienza. La Samaritana riconosce di avere a che fare con una persona davvero eccezionale, qualcuno che vuole dirle la Verità. Dobbiamo pensare a quante volte è andata a quel pozzo per attingere acqua! La sua sete ha continuato a crescere; niente poteva soddisfare la sua sete. Dobbiamo riflettere su quante volte ha dovuto portare quella brocca al pozzo e quante volte l’ha riportata indietro, ovviamente molto più pesante al suo ritorno. Non importa quanta acqua possa avere attinto, essa non avrebbe mai potuto soddisfare la sua sete più profonda – la sete di felicità, la sete di qualcosa o di qualcuno che rispondesse al desiderio più profondo del suo cuore.
Non voleva più portare con sé questo peso. E così rispose: «Signore, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Lei riconosce il Signore come Colui che è capace di soddisfare la sua sete di Dio. Riflettendo su questo passaggio, Sant’Agostino dice che la brocca rappresenta il suo desiderio di concupiscenza. Ha cercato di soddisfare la sua sete con le cose terrene e si è ritrovata perennemente assetata, insoddisfatta e frustrata. Questa era la sua vita – una vita di dolore, di miseria, di solitudine, sentendosi usata e rigettata, ed infine scartata e messa da parte.
Tutto ciò non è molto diverso dalle nostre vite. Anche noi abbiamo le nostre brocche. Cerchiamo di far fronte ai nostri peccati, alle debolezze e alle inadeguatezze colmando le nostre vite con cose che pensiamo possano soddisfarci. Per alcune persone può essere l’alcol, le droghe o la pornografia; per altri può essere la ricchezza, il potere e il desiderio di rispetto umano. Potremmo cercare di avere tutto il possibile per sentirci meglio, ma alla fine nulla ci soddisferà. Proprio come quando Gesù fu avvicinato dai discepoli di Giovanni e chiese: «Che cercate?», Gesù sta ora chiedendo alla donna di identificare la sua vera sete. I sei uomini precedenti non erano stati in grado di soddisfare il vero desiderio del suo cuore. Nella tradizione ebraica il sei è un numero imperfetto; il sette, invece, è un numero perfetto, il numero dell’Alleanza. Gesù è il settimo uomo – è il compimento di ciò che mancava nei sei uomini precedenti e molto altro ancora. Lui l’ha aspettata al pozzo, e l’ha aspettata proprio per avere questa conversazione con lei.
Ma ogni conversazione che abbiamo con Gesù deve essere onesta. Non possiamo pensare di potergli nascondere la verità. Gesù conosce la situazione della donna, ma lei ancora non gliel’ha raccontata. Probabilmente si vergogna. Gesù le dice: «va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui». Lei risponde: «non ho marito», senza però dire tutta la verità. Lo facciamo spesso. Diciamo mezze verità per nascondere i nostri peccati e la nostra vergogna, per evitare giudizi o per non dover accettare la responsabilità delle nostre azioni. La donna cerca di nascondersi, ma Gesù desidera che la sua fede sia piena. Non lascerà che la sua conversione sia parziale. E le dice: «Hai detto bene “non ho marito”; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».
Piuttosto che ignorare – per falsa compassione – il peccato e la sua pena, Gesù le dice apertamente ciò che lei ha fatto alla luce della Sua verità – non per ferirla o per umiliarla ma per portarla a guarigione. Ora lei sta davanti a Lui, sapendo che Lui sa. Non possiamo nascondere a Dio i nostri peccati. Lui li conosce ma vuole guarirci. E quando le nostre debolezze vengono portate alla luce, ci mettiamo, per natura, sulla difensiva. Innalziamo le nostre difese per cercare di deviare “l’attacco”.
Questo è esattamente ciò che fa la Samaritana, ma c’è qualcosa che sta succedendo. Ora riconosce Gesù come un “profeta”. Non ancora pronta, però, ad accettare responsabilità per il suo futuro, cerca di distogliere l’attenzione da lei sottolineando la differenza tra ebrei e samaritani, i primi che adorano Dio a Gerusalemme e i secondi su quella montagna. Gesù sa bene che questo è un falso problema. Il vero culto, infatti, è adorare il Padre in Spirito e Verità (cfr. Giovanni 4, 23-24). Adorare veramente Dio significa abbracciare il Suo Spirito o lasciarci abbracciare dal Suo Spirito, e abbracciare la Sua verità o lasciarci abbracciare dalla Verità. Qualsiasi altra cosa è un’imitazione a basso costo. E tutto il resto è superficiale e non permetterà la vera guarigione e la pienezza di vita.
L’acqua che Gesù ha promesso rappresenta lo Spirito Santo, il “dono” per eccellenza che Gesù è venuto a portare a nome di Dio Padre. Chi rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo entra in una vera relazione con Dio, come figlio o come figlia.
Alla fine, la donna dice: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa». Guidata attraverso il dialogo, essa esprime il desiderio del Messia, l’adempimento delle sue speranze e dei suoi sogni – il desiderio della Verità che la renderà libera. Vuole conoscere tutto dell’amore e della misericordia di Dio. Gesù le dice: «Sono io, che ti parlo». C’è un riconoscimento. È passata dal chiamarlo semplicemente signore a riconoscere che è un Profeta per poi riconoscerlo, finalmente, come il Messia.
Al ritorno dei discepoli, raccontano le Scritture: «La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?». Lasciò la sua brocca d’acqua. È successo un miracolo. Non solo il perdono dei peccati o la conversione, ma il miracolo della libertà. Ha scelto di lasciarsi alle spalle il suo vecchio stile di vita e i suoi vecchi desideri per iniziare a vivere in un modo completamente nuovo.
Il suo incontro con una “Presenza Originale” l’ha portata a scoprire la sua propria umanità e le possibilità per il suo futuro. Lei che una volta non voleva incontrare nessuno, ora desiderava essere testimone di Cristo. Questo “vivere in un modo nuovo” significava raccontare agli altri del suo incontro.
Questo ci porta a una serie di domande: perché il suo impulso missionario scaturisce così “naturalmente” dal suo incontro con Gesù? L’incontro con Lui ci provoca a essere missionari? Cosa manca se non siamo missionari? Il Santo Padre ci chiama ad essere una “Chiesa in uscita”, a essere missionari, ma questo non significa semplicemente parlare agli altri di Gesù; essere missionari significa piuttosto essere impegnati in un nuovo modo di vivere – essere protagonisti del nostro futuro. Non è forse questo ciò che “conversione pastorale” significa veramente?
Alla fine altri samaritani vennero per incontrare Gesù e non credettero più semplicemente per la testimonianza della donna, ma perché essi stessi udirono e riconobbero «che questi è veramente il salvatore del mondo». È come quando Andrea disse a Simone: «Abbiamo trovato il Messia». La Samaritana, attraverso la sua testimonianza, ha risvegliato negli altri il desiderio di felicità e di incontrare Lui, che fa nuove tutte le cose.
Ascoltiamo ancora una volta Papa Benedetto: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Non è esattamente ciò che è successo con la Samaritana al Pozzo di Giacobbe? Non era un insieme di proposizioni, o sillogismi teologici, o verità che hanno portato alla sua conversione; è stato un incontro con una Persona. Il suo incontro con Gesù l’ha aiutata a vedere e discernere ciò che avrebbe veramente soddisfatto e placato la sua sete e ciò che, invece, non l’avrebbe mai veramente soddisfatta.
Il suo incontro l’ha aiutata ad abbandonare il fardello del suo peccato per testimoniare Cristo. In questo senso, la Divina Misericordia che ha ricevuto in dono è stata anche una chiamata ad evangelizzare, per creare un futuro migliore nella storia del mondo. La sua conversazione con Gesù non era stata una conversazione facile, ma era stata una di quelle che cambia la vita. A volte, forse, avrebbe avuto ancora ricordi dei suoi precedenti mariti, ma sarebbero pian piano impalliditi rispetto al ricordo di questo Evento. Non è semplicemente un ricordo storico di quello che è successo in quel giorno, è una memoria vivente, una consapevolezza continua della Sua Presenza, che ha cambiato la sua vita e che ha aperto un nuovo orizzonte – un nuovo modo di vedere il mondo, un nuovo modo di vita. La Samaritana al Pozzo fu trasformata non solo in evangelizzatrice ma in testimone di Cristo e in protagonista della storia.
II Parte: Papa Francesco e il Cambio d’Epoca: una nuova rivoluzione?
Io credo che quello che Gesù ha fatto per la Samaritana al Pozzo, è ciò che Papa Francesco sta cercando di fare per ogni persona che incontra, per la Chiesa e per questo nostro mondo: facilitare un incontro personale con Colui che risponde ai desideri più profondi del nostro cuore e che ci aiuta, allo stesso tempo, a riscoprire la nostra stessa umanità ed il suo potenziale.
Quando prendiamo in considerazione gli scritti del Santo Padre, come l’Evangelii Gaudium (La Gioia del Vangelo), che a ragione è considerato il Documento programmatico e paradigmatico del Pontificato di Papa Francesco; l’Amoris Laetitia (La Gioia dell’Amore), che ha fatto seguito a due Sinodi sulla famiglia; Gaudete et Exsultate (Rallegratevi ed Esultate), sulla chiamata universale alla Santità; e anche quando pensiamo all’imminente Sinodo sui Giovani – che si svolgerà nel prossimo mese di ottobre – il Papa sembra affermare con forza che è possibile per ciascuno di noi – sposati o single, giovani e anziani, praticanti o non praticanti, ricchi o poveri – arrivare a conoscere Cristo. Hai bisogno di conoscerlo se vuoi essere felice. Per il Papa, tutta l’opera missionaria prende inizio da un incontro con Cristo.
L’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium inizia con queste parole
«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia».
Questo incontro con Cristo avviene nella Chiesa e per mezzo della Chiesa. Esiste una dimensione ecclesiale dell’incontro. Il Papa chiama la Chiesa intera a prendersi la responsabilità di facilitare questa esperienza personale di Gesù, che riempie la vita di gioia. Alcuni anni fa, l’allora Cardinale Bergoglio commentava
«Nostro Signore Gesù Cristo irrompe nella nostra storia, segnato dalla sua vulnerabilità, con un dinamismo incomparabile, pieno di forza e coraggio. Questo è il kerygma, il nucleo della nostra predicazione: la proclamazione dell’irrompere nella nostra storia di Gesù Cristo, nella Sua Incarnazione, Morte e Risurrezione».
Il nucleo centrale della missione evangelizzatrice della Chiesa deve essere il kerygma: l’annuncio di una Persona o di un Evento. La dottrina è certamente importante, ma deve incidere sulla realtà. Il Santo Padre viene a volte criticato per non essere pienamente concentrato sulla dottrina, ma Egli è pienamente cosciente dei problemi della vita – non attraverso i libri di testo – ma attraverso la vita reale. Quando era in Argentina, come Pastore, è sempre stato vicino alla gente, ha ascoltato e capito la realtà contingente delle loro vite, incluse le situazioni di grande povertà. Esaminando i temi pastorali che ci mette davanti, possiamo constatare che sono quelli che toccano la famiglia, i giovani, i poveri e i migranti – persone reali in situazioni reali, con aspirazioni profonde, non soltanto per avere di più ma per essere di più e per essere felici.
Perché il Papa continua a reindirizzare la nostra attenzione su queste realtà? Dobbiamo ricordare che Francesco è un Papa che viene dall’America Latina. Nel Discorso rivolto ai partecipanti del 5° Convegno Ecclesiale Nazionale della Chiesa Italiana, ha detto: «Oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca». Il mandato missionario della Chiesa – formare nuovi discepoli ed evangelizzare – non avviene nel vuoto. Il contesto culturale di oggi, in costante evoluzione, richiede un nuovo approccio.
Prima della mia nomina come nunzio negli Stati Uniti, ero stato inviato in Messico, arrivando proprio ai tempi della Conferenza di Aparecida. I vescovi latinoamericani dovettero affrontare questa questione di cambiamento epocale quando videro i cattolici abbandonare la Chiesa o unirsi alle sette. Hanno rilevato che nella storia c’erano sempre stati determinati principi o valori che regolavano la vita delle persone, delle società e delle istituzioni. Questi erano diversi per ogni era: il periodo precolombiano, il periodo coloniale, il periodo dell’indipendenza e il periodo moderno. Ad un certo punto, alcuni dei valori “indiscussi” di ogni epoca sono stati messi in questione e poi rimpiazzati con altri valori. Il periodo moderno, caratterizzato dalla globalizzazione e dalla frammentazione della società, ha reso l’evangelizzazione sempre più difficile.
Simili cambiamenti di valori si riscontrano nella storia europea e in quella americana. Più recentemente, il 1968 ha segnato un momento spartiacque nell’Occidente. Il periodo moderno è stato praticamente investito dalla globalizzazione; da emergenti nuove tecnologie e mezzi di comunicazione; dalla grande mobilità o dal trasferimento delle persone; e dalla perdita di un’antropologia cristiana, la cui conseguenza è lo smarrimento sia dell’identificazione con la Chiesa, sia del senso di appartenenza. Questo, oggi, è ciò che risulta alienante per le persone, che soffrono di solitudine e insicurezza.
Zygmunt Bauman ha scritto
«Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami […], dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione. […] La paura generata da questa situazione di insicurezza […] si diffonde su tutti gli aspetti delle nostre vite».
Don Giussani ha descritto l’uomo moderno come caratterizzato da «il dubbio sull’esistenza, la paura dell’esistere, la fragilità del vivere, l’inconsistenza di sé stessi, il terrore dell’impossibilità; l’orrore della sproporzione tra sé e l’ideale».
Ad Aparecida, i vescovi latinoamericani hanno percepito questa insicurezza e i suoi effetti sull’evangelizzazione – la trasmissione della fede da una persona all’altra, da una generazione all’altra. Hanno dichiarato senza mezzi termini
«Le nostre tradizioni culturali non vengono più trasmesse da una generazione all’altra con la stessa facilità che in passato. Ciò influisce anche sul nucleo più profondo di ogni cultura, costituito dall’esperienza religiosa, che ora è altrettanto difficile da trasmettere attraverso l’educazione e la bellezza delle espressioni culturali. Raggiunge persino la famiglia stessa, che, come luogo di dialogo e solidarietà intergenerazionale, è stata uno dei veicoli più importanti per trasmettere la fede».
Come voi sapete, il vero “autore” del Documento Finale di Aparecida è stato il futuro Papa Francesco. Per affrontare efficacemente i cambiamenti e l’insicurezza, i vescovi hanno adottato un metodo. Qual era il metodo? Ascoltare la realtà. L’attenzione alla realtà rivela che nella storia, una cosa che è stata costante è il cambiamento, che influenza le condizioni per la trasmissione della fede. Quali sono le reali condizioni della nostra gente?
L’esperienza pastorale di Papa Francesco ha dato i suoi frutti ad Aparecida, quando i vescovi hanno chiesto collegialmente: possiamo trasmettere la fede nello specifico contesto dell’America Latina in un modo che offre alla gente la possibilità di un incontro con Cristo?
I vescovi non hanno fornito una risposta immediata; piuttosto, hanno ascoltato e dialogato con coppie sposate, famiglie, giovani, professionisti ed esperti. Quindi, hanno analizzato attentamente le condizioni del mondo di oggi, esaminando quelle cose che erano di ostacolo alle persone per perseguire le loro aspirazioni più profonde e che impedivano loro di porre domande vere e ricevere risposte vere, in ambito politico, sociale, economico e religioso.
Come Pastori, furono costretti a riconoscere la loro responsabilità di educare i giovani alla realtà, in modo che potessero prendere coscienza della propria umanità. Nel fare ciò, essi avrebbero riscoperto la loro aspirazione alla verità, alla giustizia, al bene, alla felicità e alla bellezza – le esperienze umane fondamentali costitutive del cuore umano. Sapevano che ciò sarebbe avvenuto solo attraverso un incontro con Cristo, che chiama ogni persona a seguirlo, ad essere un discepolo. Un discepolo, la cui vita è stata toccata dal Signore, non può fare a meno di condividere ciò che Cristo ha fatto per lui, e così questo discepolo si trasforma in un missionario che è testimone di Cristo nel mondo. Per questo parliamo di “discepoli missionari”.
Questo era vero non solo per i fedeli, ma anche per gli stessi vescovi. Si sarebbero trovati ad evangelizzare in un contesto cambiato. I vescovi avrebbero dovuto esercitare la loro responsabilità pastorale nel contesto latinoamericano, in una cultura influenzata dalla secolarizzazione ma aperta al trascendente. È una cultura in cui le persone si fermano ogni giorno per pregare, per riporre la loro fiducia in Dio e per chiedere il Suo aiuto. La loro preghiera non è sempre formale, ma le persone si rivolgono regolarmente al Dio che si è fatto uomo e che li accompagna lungo il loro cammino in vita. Anche l’Italia ha molti ricordi nell’arte, nella letteratura e nell’architettura di una cultura intrisa della fede in Cristo. È Lui che porta la speranza ai piccoli di questa terra, anche quando la vita è segnata da povertà, emarginazione e rifiuto. Queste persone imparano ad esistere e ad andare avanti anche nel mezzo di una cultura “usa e getta”.
Seguendo l’approccio dei vescovi ad Aparecida, il Santo Padre propone la visione di una Chiesa che facilita l’incontro con Cristo. Vuole che la Chiesa sia un “luogo” di incontro con il Dio che si è fatto uomo. Mi sembra che tutto ciò che il Santo Padre dice e fa, guardi in quella direzione. Il Papa attira la nostra attenzione sulla realtà parlando incessantemente dei poveri e dei migranti. Non vuole che sfuggano dalla nostra vista, né vuole che trascuriamo le nostre responsabilità. La missione evangelizzatrice della Chiesa esige un coinvolgimento con la realtà.
Papa Francesco mette in discussione e interroga il nostro modo di pensare, di vivere e di organizzare la nostra Chiesa. Come i profeti dell’Antico Testamento, è pronto a denunciare l’ingiustizia e a ricusare le false ed effimere soluzioni ai problemi. Vuole che la Chiesa aiuti tutti a superare la paura di andare avanti sulla via della misericordia. Il suo desiderio è per una Chiesa missionaria che vada alle periferie.
Questa missione richiede innanzitutto di prendere coscienza di ciò che esiste nel cuore dell’uomo: il senso della verità, della giustizia, del bene, della felicità e della bellezza. Il Santo Padre propone una Chiesa missionaria, inviata a placare la sete dell’uomo per la Presenza di Dio in Gesù. Lui stesso è testimone di questa Presenza e ci invita a dare pubblica testimonianza di Cristo. Ci spinge oltre le nostre situazioni di comodo per essere segno e sacramento di salvezza, rispondendo alle grida e dando risposta ai bisogni del cuore. Ci sfida ripetutamente, per non farci diventare stagnanti e autoreferenziali.
Durante questo cambiamento epocale l’amore di Dio rimane costante; è necessaria, tuttavia, una maggiore comunicazione del suo amore attraverso la testimonianza evangelica. Dio ama l’uomo e sta rispondendo – ed Egli è effettivamente la risposta – ai suoi bisogni più profondi. Questo è ciò che il Documento di Aparecida e l’Esortazione Evangelii Gaudium chiamano “conversione pastorale”. Papa Francesco ci chiama a passare da un piano pastorale di autoconservazione a una intensa attività missionaria, capace di soddisfare i più profondi bisogni del cuore umano. La sua elezione – a questo punto della storia – è veramente provvidenziale, perché con essa la Chiesa ha ricevuto un Pastore che la spingerà ad essere una Chiesa di incontro, di misericordia e di testimonianza, pienamente impegnata e coinvolta nella realtà.
III Parte: La Rivoluzione del 1968 e l’Eredità di don Giussani
Proprio come il Signore ha suscitato una testimonianza profetica in Papa Francesco per il “cambio d’epoca” che stiamo vivendo in questo momento, così il Signore ha chiamato Luigi Giussani ad essere sia un profeta, sia un testimone, fondando “Comunione e Liberazione” e guidando il movimento attraverso i tumultuosi tempi del 1968. Don Giussani ha affrontato esattamente la stessa sfida di trasmettere la fede in un periodo di profondi cambiamenti sociali e culturali. La storia del movimento – il vostro movimento – coinvolge la storia di un uomo che, come il Papa, ti indirizza verso una più profonda comprensione della vita e una ricerca più autentica di significato e di felicità nel tuo incontro con il Mistero.
Giussani era profondamente preoccupato per la felicità dei suoi studenti, specialmente intorno al 1968, il tempo della rivoluzione sessuale. Vi invito a leggere il capitolo 14 della Vita di don Giussani, scritta da Alberto Savorano, ma voglio citarne un passaggio
«Giussani ricorda che un giorno del 1969, mentre si sta aggirando per i corridoi della Cattolica, «dove dominava la rivoluzione», si imbatte in «un ragazzo di Varese […], il quale diceva energicamente […]: “Se non troviamo le forze che fanno la storia, noi siamo perduti!”». Commenta Giussani: «Io non voglio addentrarmi nella descrizione della ingenuità ultima – come è di ogni ideologia che pretenda l’universalità – di questa frase. Io voglio semplicemente dire quello che mi è venuto come contraccolpo dentro il cuore nel sentire quanto quello affermava: che le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice». Infatti, «la forza che fa la storia è un uomo che ha posto la sua dimora tra di noi, Cristo. La riscoperta di questo impedisce la nostra distruzione come uomini, il riconoscimento di questo introduce la nostra vita all’accento della felicità, sia pure intimidita e piena d’una reticenza inevitabile».
Già prima del 1968, Giussani, pur sapendo che Cristo era la risposta, osservò la disconnessione tra fede e vita. Mentre molti dei suoi studenti si professavano cattolici, recitavano il Credo e conoscevano il Catechismo, la fede come “esperienza vissuta” non veniva trasmessa; cioè, quando si trattava di emettere giudizi e decisioni su cose che un giovane considerava veramente importanti per la sua vita, i suoi ideali e le sue speranze di felicità erano modellati da una mentalità secolarizzata, in cui Cristo e la sua Chiesa erano in gran parte assenti. Le decisioni dei giovani furono modellate meno da Cristo e più dalle forze dell’era moderna, compresa l’ideologia dello scientismo, l’esaltazione del soggettivismo, la riduzione della fede all’etica o al moralismo, e un’enfasi sull’individualismo emotivo. C’era un netto divario tra la dottrina e la realtà della vita.
Educare i giovani e portarli a vedere l’attrattiva di Cristo come il centro della vita e l’adempimento dei loro desideri diventò il suo compito fondamentale. Lasciò il suo insegnamento in Seminario e iniziò il suo apostolato educativo che è fiorito nel vostro movimento. Il metodo di Giussani era quello di sfidare il secolarismo che dominava la mentalità dei suoi studenti, ispirandoli a condurre una rigorosa analisi di sé stessi, le esperienze fondamentali che caratterizzano la vita e le aspirazioni dell’uomo, e l’incapacità della cultura secolare moderna di rendere giustizia al mistero profondo del cuore umano. Voleva che verificassero la proposta del cristianesimo con la loro esperienza per vedere se essa corrispondeva al loro desiderio di felicità.
Egli credeva che quest’analisi avrebbe portato a una riscoperta del “senso religioso” dell’uomo, il carattere fondamentalmente religioso delle domande e dei desideri inscritti nel suo cuore. L’uomo è stato creato per Dio. Solo riconoscendo Dio e aderendo a Lui la persona può comprendere la verità di sé stesso e trovare la felicità. Giussani ha cercato di guidare i giovani ad apprezzare in modo più profondo il fatto che Dio ha reso quest’adesione a Sé stesso concretamente possibile, attraente e bella diventando uomo e perpetuando la Sua presenza incarnata nel mondo attraverso la Sua Chiesa. Questo era un “nuovo approccio” e riportò freschezza alla fede di molti, ma poi venne il 1968.
In un momento di sconvolgimento, molti giovani lasciarono il movimento. Molti erano ben intenzionati e desiderosi di creare un mondo migliore, ma il loro approccio era quello dell’attivismo sociale, tramutatosi in ideologia e politica. Durante il periodo delle proteste studentesche, c’era un genuino desiderio di autenticità nella vita pubblica. Molti sentivano il bisogno di abbandonare il vecchio ordine, pieno di ambiguità e inganno, e di sostituirlo con qualcosa di nuovo. Ciò portò ad un’ostilità verso il passato. Diventò impossibile ricorrere all’autorità o alla tradizione come punto di partenza. I cambiamenti avvennero molto rapidamente e lasciarono molti sconcertati. Il modo di affrontare il mondo adottato da molti giovani fu quello di tornare ai vecchi metodi, che non contemplavano l’incontro personale con Cristo.
Mentre sembrava che le cose scivolassero via, Giussani mostrò la sua vera preoccupazione paterna. Pose una semplice domanda: «cos’è che vogliamo?». Ha risposto alla sua domanda in questo modo
«Ciò che noi vogliamo, dando tutto il nostro tempo, la nostra energia, il nostro cuore, la nostra preoccupazione al movimento, secondo qualunque flessione, se vogliamo Cristo o se cerchiamo noi stessi, viene a galla nella prova. Se insisto è perché, dalle funzioni segretariali o “manovali” più semplici alle funzioni più alte, è realmente questo il punto che noi dobbiamo sempre tenere presente. Se non lo teniamo presente, noi, prima di tutto, non riusciamo a essere contriti minimamente (la contrizione può avvenire solo a questo livello) e, in secondo luogo, quando avremo la difficoltà, decideremo noi se tale difficoltà è sufficiente per farci andare fuori oppure non è sufficiente, e stiamo dentro ancora. Capite? Riteniamo in mano nostra il criterio ultimo per decidere se quel che facciamo è giusto o no! Se quello che cerchiamo è Cristo oppure è il nostro amor proprio, è l’affermazione di noi, sotto qualunque flessione, secondo qualunque versante, lo si vede, viene a galla, nel momento esatto della prova e della difficoltà: quando non ci si vede più o quando non ci dà più gusto quello che facciamo. È allora l’istante in cui il fascino mondano, e perciò la diabolicità, la menzogna, secondo la sua maschera attraente, si pone di fronte a noi e crea alternativa […]».
Un maestro spirituale come Ignazio di Loyola ci insegna a discernere e scegliere. Le nostre scelte, o condurranno alla felicità e alla consolazione, o alla desolazione e all’insoddisfazione. Dobbiamo confrontarci con la realtà e cercare le forze che muovono la storia e che rendono le persone felici. Cosa realmente ci attrae e ci fa muovere?
Per rispondere a questo, dobbiamo capire chi siamo come persone. Il genio di Giussani risiede nella sua antropologia religiosa, nella sua proposta del “senso religioso” come fondamento della consapevolezza che la persona umana ha di sé stessa e del suo impegno nella vita e nella realtà. Giussani ci propone di osservare noi stessi in azione e di investigare le disposizioni e le aspettative che determinano il modo in cui affrontiamo le circostanze della vita. In questo processo, scopriamo che il “motore” che genera la nostra attività e ci pone di fronte alle cose con un reale interesse per loro è qualcosa dentro di noi che è, allo stesso tempo, ragionevole e misterioso. In parole povere, è la ricerca della felicità – una ricerca portata avanti sia con la mente che con il cuore. Abbiamo bisogno di felicità, ma ciò comporta anche un’esperienza di essa.
L’autentica attività umana mira alla felicità poiché questa è la prima e la principale tra le risposte alle domande fondamentali. Quando agisce, il cuore di una persona, pieno di desiderio per qualcosa, è alla ricerca di qualcosa che ancora non possiede e che non può avere da sé stesso. Il cuore è attratto dal Mistero che cerca e diventa consapevole di questa Presenza. È lì e può essere conosciuto. In altre parole, l’antropologia proposta da Giussani è aperta al Trascendente.
Quali sono i bisogni fondamentali ricercati dal cuore se non verità, giustizia, bontà, felicità, bellezza? Mentre una persona insegue le cose che lo attraggono, questi bisogni diventano urgenti, trasformando il desiderio in domande: “Cosa mi renderà felice? Cosa corrisponderà al desiderio del mio cuore?”. Più seriamente prendiamo noi stessi e la nostra umanità, più ci rendiamo conto che non possiamo evitare queste domande.
L’antropologia proposta da Giussani in risposta alla crisi del 1968 è istruttiva; proprio come allora c’erano difficoltà nel trasmettere la fede, così anche ora ci troviamo di fronte a nuove, più gravi difficoltà, perché ciò che una volta era l’evidenza, ora non lo è più. Nel capitolo 3 de “La Bellezza disarmata”, Padre Carrón parla del “crollo delle evidenze”. C’è una maggiore debolezza di coscienza nelle persone di oggi. C’è una continua riduzione del sé, sotto l’influenza del potere terreno, che riduce la nostra capacità di guardare alla realtà. Il contesto culturale attuale è diverso, perché almeno prima la gente vedeva le prove o le argomentazioni per qualcosa e poteva accettarla o rifiutarla, ma oggi la gente non riesce nemmeno più a vedere.
Prima ho detto che le persone soffrono di un’incertezza esistenziale; i mezzi per rispondere a questa incertezza li hanno trovati in un impegno sociale basato sull’efficienza, con tinte di moralismo, dedicandosi alle attività, alla cultura e all’organizzazione, ma niente di queste cose reca sollievo o porta la novità di vita offerta da Cristo, manifestata nell’uomo nuovo. L’uomo moderno ha perso il contatto con la propria umanità, quindi nonostante le sue attività, l’uomo vecchio – quello insoddisfatto – rimane.
La necessità che la Chiesa si assuma la responsabilità di educare non potrebbe essere maggiore. Attualmente, nella mia missione negli Stati Uniti, vedo che i vescovi americani devono confrontarsi costantemente con il fenomeno dei “nones”, quelli che non professano nessuna religione. Un teologo laico, Hosffman Ospino, ha descritto la situazione in questo modo
«Nel 1991, circa il 3% della popolazione statunitense si identificò come priva di un’affiliazione religiosa di qualunque tipo, i cosiddetti “nones”. Oggi, 26 anni dopo, circa il 25% dell’intera popolazione nel nostro Paese si identifica come tale. La tendenza è molto chiara. Sappiamo che circa 20 milioni di persone nel nostro Paese, che sono nate e cresciute come cattoliche, non si identificano più come tali. È probabile che molti di loro, specialmente i giovani, si siano uniti ai ranghi dei “nones”».
Credo che il Movimento debba proporre un percorso che guardi avanti, applicando la sensibilità del metodo educativo proposto da Giussani alla nostra realtà attuale, affinché uomini e donne possano diventare consapevoli, non solo di quali siano i loro bisogni più profondi, ma anche di cosa hanno dentro sé stessi. Questa riscoperta della nostra umanità avviene solo attraverso un incontro vivente, un incontro vivo con Cristo che avviene attraverso la Chiesa.
In che modo Cristo risveglia l’umanità? Ci incontra, proprio come ha incontrato la Samaritana. Mette le persone davanti a una presenza umana che non è deteriorata – le mette alla Sua Presenza. L’impatto tra la nostra umanità e la Sua ci rende nuovamente coscienti dell’importanza dei nostri bisogni. I problemi che la persona ha oggi davanti a sé, non scompaiono come per magia ma, in qualche modo, deve tentare di affrontarli con un approccio diverso, non sempre diretto. La risposta più efficace è quella di esaminare anzitutto in profondità la persona umana, il soggetto stesso che li affronta. Cristo, infatti, è venuto per risvegliare il senso religioso e la nostra stessa umanità proprio perché noi possiamo affrontare questi problemi.
Nel contesto di un cambiamento epocale, noi, che dobbiamo annunciare il Vangelo, non possiamo farlo trascurando le nuove istanze che potrebbero influenzare le nuove generazioni, con le loro proprie aspettative e aspirazioni. In altre parole, mi sembra che, la ragione principale dell’esistenza di una difficoltà nella trasmissione intergenerazionale della fede, è radicata in modo specifico nella difficoltà che incontriamo nel “leggere” attentamente il cambiamento epocale in cui stiamo vivendo.
Di fronte a questa paura esistenziale e al crollo delle evidenze, un approccio potrebbe semplicemente essere quello di costruire un muro intorno a noi stessi, ma questo non libererebbe mai le persone dalla loro solitudine o dalla paura interiore. Questo in realtà non li aiuterebbe a vivere in un modo nuovo o a sperimentare la gioia che deriva dalla libertà offerta da Cristo e dal Vangelo.
L’alternativa alla costruzione di muri è il dialogo. Il compianto Cardinale Jean-Louis Tauran, nel corso di un’intervista, descrive come potrebbe essere questo dialogo
«La risposta è sempre e comunque il dialogo, l’incontro, […] l’unica strada percorribile è quella del dialogo disarmato. In sostanza, a mio avviso, dialogare significa andare all’incontro con l’altro disarmati, con una concezione non aggressiva della propria verità, e tuttavia non disorientati». “Non c’è un’altra strada?”, gli domanda l’intervistatore. «Assolutamente no. Siamo condannati al dialogo».
Al centro del dialogo c’è la comunicazione della propria vita personale agli altri. È una condivisione dell’esistenza degli altri nella propria esistenza. Non si tratta sempre di dimostrare di avere ragione. Si tratta di una condivisione reciproca tra persone che hanno a che fare con il modo di vivere. Come cristiani, il nostro dialogo dovrebbe esprimere l’esperienza cristiana vissuta, non come un tipo di moralismo, ma come una grazia che abbiamo ricevuto dal nostro incontro iniziale con Cristo.
Conclusione: La Vera Rivoluzione
Siamo alle soglie di un cambiamento epocale. Parliamo di una rivoluzione tecnica, una rivoluzione delle comunicazioni con Internet e Smart Phones. Alcuni parlano ancora di rivoluzioni marxiste e socialiste; mentre altri credono in un ritorno al nazionalismo. Stiamo persino cominciando a vedere, di fronte al cambiamento epocale, gruppi di persone che abbracciano la cosiddetta “Benedict option”, proposta da Rod Dreher, nella speranza di una rinascita o rivoluzione culturale, o forse segnalando una ritirata dal cambiamento. Ma quale è la vera rivoluzione?
La vera rivoluzione è la rivoluzione del cuore. Non possiamo costringere nessuno a credere, soprattutto non i giovani. Gesù non costrinse la Samaritana a credere; piuttosto, le ha dato, attraverso il dialogo, la possibilità di perseguire il vero desiderio del suo cuore. Anche noi possiamo offrire a coloro che incontriamo, specialmente ai giovani, l’opportunità di condividere la grazia che abbiamo ricevuto e invitarli ancora una volta ad appartenere a Cristo e alla Chiesa. Comunichiamo questa grazia attraverso la testimonianza della nostra vita. Il mondo oggi ha bisogno di testimoni: genitori, educatori, politici, compagni di lavoro e sacerdoti. Abbiamo bisogno di una Chiesa che testimoni la gioia dell’appartenenza a Cristo. Cristo era quella Persona ed è quella Persona che è così attraente e che ci aiuta a connetterci con la nostra stessa umanità.
È per questo motivo che il Santo Padre, come don Giussani, vuole una Chiesa vicina alla gente, una Chiesa che non sia autoreferenziale ma che sia in uscita con la gioia del Vangelo. Ci chiama ad essere una Chiesa che testimonia una gioia e una speranza nate dall’incontro con Gesù.
Credo che questo sia anche il motivo per cui Papa Francesco ha affermato che la misericordia non può essere una parentesi nella vita della Chiesa. Il peccato e l’alienazione che esso comporta sono come degli ostacoli alla ricezione della grazia che Dio vuole darci e alla condivisione delle esperienze con l’altro. Riempiono il cuore dell’uomo di ciò che mai potrà soddisfarlo. La misericordia è il rimedio, il balsamo curativo del Medico Divino.
Nell’incontro con Cristo, mediato attraverso la Chiesa, che mostra il volto del Padre Misericordioso, una persona può riesaminare le sue reali aspettative per la vita e per il futuro; può avere la possibilità di un incontro che cambia la vita – con la propria madre, con un educatore, con la Chiesa, e persino con uno straniero – in cui si sente valorizzata e comincia a riscoprire il potenziale che ha dentro, che a sua volta aiuta la persona stessa a trovare la felicità. Senza l’incontro e l’abbraccio della nostra umanità, che risveglia in noi il senso religioso, non verranno generati protagonisti e la storia rimarrà ferma.
Venti anni fa, don Giussani ci disse
«Il mistero di misericordia sfonda ogni immagine umana di tranquillità o di disperazione; anche il sentimento di perdono è dentro questo mistero di Cristo.
Questo l’abbraccio ultimo del Mistero, contro l’uomo […] non può opporre niente, non può opporre obiezione: può disertarlo, ma disertando se stesso e il proprio bene. Il Mistero come misericordia resta l’ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia.
Per cui l’esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo come mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo».
Nel 1968, da vero padre spirituale, Giussani avvertì i suoi figli di non abbracciare le false rivoluzioni e i suoi ideali, sia quelli della varietà socialista/marxista/atea, sia quelli della rivoluzione sessuale. Vide l’attivismo sociale del periodo come una sorta di rivoluzione: un nuovo tipo di Pelagianesimo che non avrebbe mai potuto portare la vita, la salvezza o il Regno nella sua pienezza. Sapeva che la vera rivoluzione era il cambiamento del cuore.
A questo riguardo, il Santo Padre e Giussani convergono, con il Santo Padre che parla di una “rivoluzione della misericordia” o della tenerezza. Sia Giussani che Papa Francesco vogliono che le persone siano libere dalle ferite del peccato e dalle sue conseguenze in modo che possano assumersi la responsabilità del loro futuro, verificando la verità della Fede attraverso una coscienza ben formata e istruita – una coscienza che conosce la Scrittura, la Tradizione, l’autorità del Magistero e l’esperienza, un’esperienza in relazione con la realtà. Piuttosto che essere gettati sulle onde della dittatura del relativismo, un’umanità rinnovata ha il potenziale per avanzare attraverso le tempeste del cambiamento verso un porto sicuro.
Se siamo disposti ad incontrare nuovamente Cristo, proprio come lo era la Samaritana al Pozzo, allora non abbiamo più bisogno di essere mossi dal potere terreno, dal peccato o dalla povertà, ma possiamo essere guariti dalla Misericordia e perseguire ciò che soddisferà la nostra sete di un nuovo modo di vivere e di coinvolgimento nella realtà. Non più limitati dai poteri di questo mondo o dalle ideologie, in libertà possiamo perseguire la bellezza, la verità e la bontà, che si trovano soprattutto nell’Infinito, che soddisfa i desideri del cuore e che può renderci felici.
Un’umanità risvegliata da Cristo può generare nuovi protagonisti nella storia del mondo: nuovi testimoni in grado di esprimere giudizi, capaci di discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, il bene dal male, il vero bene dal piacere che passa. Un’umanità risvegliata ha la capacità di vedere non solo con l’occhio ma anche con il cuore, e può verificare la verità della fede e proporla in questo momento di cambiamento epocale. Una gioiosa testimonianza cristiana mostra l’attrattiva di Cristo che fa dire agli altri: «Cosa fa muovere quella persona? Cosa spinge quella persona ad agire?».
Sappiamo che per noi è Cristo. Come dice don Giussani: «La forza che fa la storia è un uomo che ha posto la sua dimora tra di noi, Cristo. La riscoperta di questo impedisce la nostra distruzione come uomini, il riconoscimento di questo introduce la nostra vita all’accento della felicità, sia pure intimidita e piena d’una reticenza inevitabile».
Incontrare Cristo ed essere cambiato da Lui – la rivoluzione del cuore – questo è ciò che fa girare la ruota della storia! Questa è la vera rivoluzione!
Questa è l’eredità di don Giussani, il suo dono alla Chiesa, che vive in voi. Pertanto, sono grato a Dio per lui, per Papa Francesco e per tutti voi che continuate, in questo movimento, questo modo di vivere la fede come protagonisti nella storia del mondo. Sono grato, specialmente, ai molti genitori che fanno ogni sforzo per educare i loro figli in modo da aiutarli a scoprire la felicità.
Concludo con un video di mia nipote con le sue due figlie. Lei dice loro che sta aspettando un altro bambino. Notate il sorriso della più piccola alla notizia. La più grande delle due bambine, volendo verificare, chiede: «Per davvero?». Suo padre le chiede: «Sei contenta, piccola?». Lei annuisce con la testa per dire «Sì». Dopo la verifica del “fatto”, la più grande chiede: «E potremmo prenderci cura di lui?». Accetta la responsabilità di prendersi cura di un altro e così diventa una protagonista – una forza per un futuro migliore – felice per il suo nuovo fratello. Anche la bambina più piccola ha bisogno di verificare, chiedendo: «Dov’è il bambino?». Lei vuole vedere. Tocca la pancia di sua madre e dice: «Non c’è!». La sua ricerca continua, e così anche la nostra!
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EMILIA GUARNIERI
Eccellenza, potremmo continuare, potremmo continuare tanto con questo applauso, in cui credo che ci sia tutta l’emozione, la commozione, la gratitudine per quello che Lei ci ha detto e che abbiamo visto. Non lo facciamo, Lei però porti nel cuore che è come se noi continuassimo ad applaudire per non so quanto tempo. Abbiamo problemi di tempi, lo sapete, e quindi riduco al minimo anche l’avviso che diamo qui per la prima volta e daremo più diffusamente nei giorni e nei prossimi incontri. Vogliamo continuare possibilmente a fare il Meeting, perché credo che anche quello che abbiamo visto oggi sia un segno che questo gesto è una cosa bella. Al Meeting tutto è gratuito, lo sapete, tutto è gratuito perché tutti collaboriamo a farlo e allora possiamo continuare a contribuire alla costruzione del Meeting anche attraverso le donazioni. Lungo tutta la fiera ci sono le postazioni “dona ora” con il cuore rosso e le donazioni devono avvenire a questi desk dedicati dove ci sono i volontari con la maglietta color magenta, con la scritta “dona ora”. Grazie, liberiamo velocissimamente la sala per il prosieguo della giornata.
Trascrizione non rivista dai relatori