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LAVORO PUBBLICO E BENE COMUNE. DALLA CASTA ALLA COMUNITÀ PROFESSIONALE
LAVORO PUBBLICO E BENE COMUNE. DALLA CASTA ALLA COMUNITÀ PROFESSIONALE
Partecipano: Francesco Delzio, Manager e scrittore, Autore di “Opzione Zero. Il virus che tiene in ostaggio l’Italia”; Marco Gay, Presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria e Vice Presidente Confindustria; Giovanni Pitruzzella, Presidente Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Introduce Salvatore Taormina, Dirigente Regione Siciliana/Fondazione per la Sussidiarietà.
SALVATORE TAORMINA:
Buon pomeriggio a voi tutti, grazie di essere qui per questo incontro dedicato al tema “Lavoro pubblico e bene comune. Dalla casta alla comunità professionale”. Cogliamo l’occasione per salutare le tante persone che in questo momento ci seguono in diretta streaming. “Siamo in piena crisi di costume, tema delicato e immenso. Esso si estende ad un programma quanto mai vasto e impegnativo che parte da un’azione concorde per la moralizzazione della vita privata degli individui e delle famiglie per giungere all’intera società e far risentire i suoi benefici effetti fino nella vita pubblica e nelle sue molteplici istituzioni”. Queste parole che sembrerebbero scaturire da dei fatti di cronaca più recenti, venivano pronunciate nel 1964 da Papa Paolo VI. Più di 50 anni fa esse esortavano profeticamente a puntare lo sguardo su una natura complessa e profonda di una crisi che col suo avanzare mostra di incidere oggi ancor più di ieri su tanti aspetti della vita pubblica italiana. Siamo di fronte a tensioni radicali che attraversano la sfera sociale del nostro Paese per scuotere i cardini della stessa convivenza civile, come lo stesso Papa Francesco ha richiamato nel 2014 ai vescovi italiani, affermando testualmente che il bisogno di un nuovo umanesimo è gridato da una società priva di speranza, scossa in tante sue certezze fondamentali, impoverita da una crisi che più che economica è culturale, morale e spirituale. Sottovalutare dunque la portata del cambiamento che questo bisogno porta in se stesso, coltivando magari l’attesa di un semplice ritorno ad equilibri passati, sarebbe davvero un grave errore, specie per tutti coloro che esercitano responsabilità pubbliche operando professionalmente a servizio della collettività. Così, proprio nel momento in cui, con l’approvazione dei decreti delegati, ricordo che sono bene 14 previsti dalla riforma Madia, il Governo sta portando a compimento una nuova rivoluzione organizzativa nel settore pubblico, ricordiamo che l’ultima era stata quella del ministro Brunetta nel 2009, il nostro incontro vuole essere un tentativo per mettere a tema la natura più profonda della sfida sottesa all’impegno quotidiano dietro la scrivania di un Ministero o di un Assessorato, con l’auspicio di offrire un contributo di comprensione e di proposta atipico, rispetto agli standard con cui i temi della pubblica amministrazione vengono usualmente affrontati nei talk-show e nello stesso confronto politico. E che questo tentativo nasca con le premesse migliori, è testimoniato dalla presenza e dalla qualità dei nostri relatori, che ringrazio particolarmente a nome del Meeting e della Fondazione per la Sussidiarietà di avere accolto il nostro invito e che voglio brevemente presentare. Il Professore Giovanni Pitruzzella, Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; Marco Gay, Presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria e Vice Presidente Nazionale di Confindustria; e Francesco Delzio, manager e scrittore, autore tra l’altro di un recente ed interessantissimo volume sul tema di cui ci occuperemo, dal titolo Opzione Zero. Il virus che tiene in ostaggio l’Italia, di cui magari poi ci dirà qualcosa. Sappiamo tutti come dibattiti su uffici e dipendenti pubblici normalmente oscillino tra infuocate performance mediatiche e disarmanti semplificazioni concettuali, a cui di solito si fa ricorso nel tentativo, che non sempre riesce per la verità, di cavalcare, magari anche elettoralmente, un diffuso sentimento di indignazione popolare verso le tante storture della burocrazia; un sentimento che tende spesso all’antipolitica. Ora tra furbetti del cartellino e tangentisti alla ribalta, che purtroppo non mancano, l’argomento ricorrente è quello di addossare esclusivamente su dipendenti, meglio se dirigenti, ignavi e corrotti, il peso delle inefficienze e della vessazione consumate ai danni di cittadini e di imprese. In questo scenario spesso si omette un adeguato riferimento critico alla produzione legislativa del nostro Paese, che per quantità e livello di complicazione può assurgere a vero e proprio elemento criminogeno per chi quelle leggi dovrebbe poi applicarle. E’ una considerazione che è stata autorevolmente richiamata nell’inaugurazione dell’anno giudiziario di quest’anno dal Presidente della Corte dei Conti, Squitieri. Né a superare il conformismo di letture tanto interessate e parziali, può giovarci il rimpallo delle responsabilità tra la politica e la dirigenza pubblica. A imporsi come prioritaria rispetto alla dimensione meramente organizzativa e funzionale appare, infatti, la radice antropologica della questione, nella consapevolezza che il mutamento di cui l’Amministrazione Pubblica ha bisogno passa, innanzitutto, dalle donne e dagli uomini che in essa operano. A questo riguardo colpiscono, anche per la fonte, le affermazioni pronunciate a Taranto nel maggio scorso da Pier Camillo Davigo, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, che prendendo parte ad un seminario su trasparenza e anticorruzione organizzato dall’Università di Bari testualmente ha dichiarato: “Ciò che distingue la Pubblica Amministrazione Italiana da quella francese o britannica è l’orgoglio di appartenenza, che qui manca. Per decenni – ha proseguito Davigo – si è raccontato che i nostri dipendenti pubblici sono fannulloni o nella migliore delle ipotesi inefficienti. Non ci vuole molto a distruggere l’orgoglio di appartenenza, ma per ricostruirlo ci vogliono generazioni”. Ma che la persona sia il vero punto di ripartenza di fronte alla crisi, lo sa bene anche chi opera nel mondo dell’impresa, caro Presidente Gay, come ad esempio Nick Hayek junior che è il patrono della Swatch, il quale nel pubblicare i risultati economici in significativo calo per il suo gruppo, ha dichiarato che tra le misure di riduzione dei costi non ci sarebbero stati tagli sul personale perché, ha spiegato ai suoi azionisti, “nell’orologeria i bravi operai sono merce rara, perderli adesso potrebbe significare avere un ritardo e dei problemi di professionalità nel momento in cui il mercato ripartirà”. Ricostruire questo orgoglio, restituendo qualità ed efficienza agli apparati pubblici, vuol dire allora investire in primo luogo proprio sulla persona e sulla sua natura relazionale, identificando in essa la principale risorsa di quella transizione culturale necessaria per ricomporre una vera e propria comunità professionale. Scommettere su quest’ultima, in funzione motivazionale e responsabilizzante, può davvero costituire il passo significativo di una virtuosa alleanza, necessaria tra quanti operano nel palazzo e quelli che ne stanno al di fuori; per restituire ai primi l’intima convinzione, prima ancora che l’obbligo giuridico, di concorrere con il proprio lavoro a una condivisa edificazione sociale ed economica, tanto nell’ambito di una città, così come di una Regione o di un’intera Nazione. Solo questa ritrovata dimensione comunitaria del lavoro pubblico potrà essere efficacemente contrapposta all’idea di casta, caratterizzata invece da un vincolo tra omologhi in funzione di interessi da tutelare o accrescere ad ogni costo; recuperando al contrario la coscienza e la competenza necessaria a fare del bene comune lo scopo e la misura del proprio agire professionale. Condizione di partenza di tale percorso ci sembra quella di ammettere che anche nel settore pubblico esiste una vera e propria emergenza educativa. Essa richiede di riappropriarsi dal basso, prima ancora che attraverso le pur necessarie azioni della politica, di una consapevolezza generativa, di quella moralità necessaria allo svolgimento di un servizio adeguato alle esigenze della collettività. In assenza di esperienze capaci di alimentare questa tensione ideale, gli stessi interventi, volti a restituire un clima etico agli uffici, rimarrebbero circoscritti all’irrigidimento di procedure e controlli e apparati sanzionatori, col rischio di ridurre gli obblighi derivanti dalla normativa anticorruzione, che comunque costituisce uno strumento da utilizzare al meglio, a un insieme di adempimenti formali, come di recente ha posto in evidenza il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Cantone nella sua relazione al Parlamento. In questo scenario può risultare determinante allora il protagonismo di quelle esperienze di partecipazione, condivisione della conoscenza e confronto, che in un mix di patrimonio ideale e condiviso e dimensione tecnica, diventino ambiti idealmente motivanti e professionalmente responsabilizzanti aperti allo stabile coinvolgimento in chiave critica anche di soggetti esterni all’amministrazione, componente indispensabile per una costruttiva rivisitazione dei suoi modelli operativi. La dinamica descritta è di quelle che scoraggiano sul nascere l’idea di demandare il cambiamento a visioni utopiche dell’amministrazione o a taumaturgici interventi della politica, in attesa dei quali giustificare la propria inerzia morale e professionale con l’irrilevanza del singolo comportamento rispetto ad un intero sistema che non funziona. Questo va detto con estrema chiarezza: la battaglia prima che attorno a noi è dentro di noi, la battaglia per il cambiamento è innanzitutto dentro di noi. Il primo compito che ne consegue, e con questo auspicio nasce anche il tentativo di oggi, è quello di abituarsi a riconoscere e valorizzare gli esempi di una corresponsabilità già in opera tra quanti questa battaglia per il cambiamento non rinunciano a combattere varcando giornalmente la soglia del proprio ufficio: esperienze e pratiche di lavoro, non importa se di piccola o grande entità organizzativa o finanziaria, riconoscibili però come un effettivo punto di novità già in atto. Guardare innanzitutto a ciò che c’è, cercando magari di capire perché c’è, più che attaccarsi a quello che manca, costituisce dunque il primo esercizio per non smarrirsi nei meandri di uno scetticismo e di un cinismo dagli effetti, altrimenti, corrosivi. Su questo orizzonte e su queste provocazioni iniziamo adesso il nostro dialogo dando la parola al Presidente Gay.
MARCO GAY:
Bene, grazie mille. Grazie soprattutto per l’invito e per poter parlare di un tema che credo sia un tema, soprattutto oggi, assolutamente centrale. Soprattutto oggi perché molti parlano e si parla molto spesso di un’epoca di grande cambiamento e di cambiamenti vari. In realtà io ritengo, e parto anche dalla visione di quella che deve essere l’impresa e il fare impresa, che in realtà siamo davanti a un cambiamento di epoca sostanziale. Noi siamo sempre molto concentrati a guardare quale sarà il prossimo cambiamento e molto spesso ci sfugge un fatto dominante, che stiamo vivendo in un mondo diverso da quello che era anche solo 6 o 7 anni fa, cioè un periodo in cui si identificava una grande crisi economica con un momento di difficoltà. E dico quindi di cambiamento perché vuol dire che l’approccio che noi dobbiamo avere al concetto di casta, al concetto di impresa, al concetto di istituzione, di amministrazione, deve necessariamente essere diverso, deve partire da una base totalmente diversa. La prima riflessione che faccio, è che bisognerebbe tornare a parlare di umanesimo industriale, quindi di mettere la persona al centro di quelle che sono le attività, lo sviluppo, la produzione, l’amministrazione, la concertazione tra le varie attività che ci devono essere. Umanesimo industriale perché bisogna prendere consapevolezza che il posto di lavoro non si identifica più con il luogo, ma si identifica oramai con la persona che lo svolge, a prescindere dal ruolo; e quindi la valorizzazione del talento, del capitale umano, della capacità di rendere fruibile, di lasciar esprimere questo talento, questa capacità, deve essere il primo obiettivo che ci si deve porre. Questo sicuramente nel settore privato, ma anche nel settore della Pubblica Amministrazione e del Pubblico, senza cadere nel luogo comune che tanto chi lavora nel Pubblico non ha obiettivi di risultato, obiettivi di performance, obiettivi di raggiungimento di eccellenza, cosa credo che per altro rimanga e sia meramente un luogo comune. In quest’ottica credo che il cambiamento vero sia quello di dare sfogo e di dare attuazione a quelle che per me sono le comunità del cambiamento. Quella del Meeting è a tutti gli effetti una comunità di cambiamento, i giovani imprenditori sono una comunità di cambiamento, cioè tutti quei soggetti che tendono a voler cambiare il mondo in cui vivono. Lì ci deve essere un’alchimia, ci deve essere una visione che deve essere, secondo me, prima di tutto dei cittadini: se il cittadino è responsabile, se il cittadino svolge la sua funzione, la sua attività di responsabile manutentore e attore della società in cui vive, questo porta sicuramente al risultato, a far sì che queste comunità del cambiamento producano dei risultati. Circa il rapporto tra pubblico e privato, partiamo da una mezza provocazione: il pubblico ha sicuramente bisogno del privato, perché l’apparato, la macchina, l’istituzione si basa e si fonda sul fatto che ci sia efficienza nel mondo del privato, che esso paghi le proprie imposte, le proprie tasse e permetta alla macchina di funzionare e lavorare al meglio; ma il privato ha assolutamente bisogno di un pubblico, di un’istituzione, che lavori al meglio delle proprie possibilità. Oggi c’è un grandissimo dibattito sul discorso della produttività, come andare ad individuare la produttività, quali sono i parametri su cui basare la produttività nelle aziende private. Questo discorso deve necessariamente riguardare anche l’azienda pubblica, l’istituzione, perché se non si guarda la produttività di quello che viene fatto, sono abbastanza sicuro che non si ottenga poi nessun tipo di risultato. In quest’ambito ci deve essere un rapporto stretto, sinergico, sincero e franco fra chi porta avanti l’Istituzione quindi chi lavora nel settore pubblico, e chi lavora nel settore privato. Ed è per questo che in un’epoca di cambiamento non c’è più spazio per la casta, non c’è più spazio per chi protegge il proprio orticello, per chi protegge il proprio campanile, che sia del settore pubblico o privato questo è assolutamente ininfluente, ma c’è spazio per tutti quelli che hanno voglia di produrre del cambiamento, di disegnare delle ipotesi di cambiamento, di farne parte e di attuarle. Nella mia esperienza di rappresentante di impresa in Confindustria, devo sottolineare che la volontà di far parte del cambiamento, la volontà di costruire policy, quando si mettono attorno al tavolo persone che appartengono al mondo dell’istituzione pubblica, al mondo dell’istituzione privata, che mettono da parte la solita lista della spesa di rivendicazioni, ma si concentrano su qual è l’obiettivo da portare a casa, genera dei successi, dei cambiamenti. Il punto su cui l’impresa si deve basare, è di avere un’istituzione pubblica sempre più efficace e sempre più efficiente e per fare questo deve sicuramente fare la propria parte, ma deve anche pretendere, come viene preteso da chi fa il mestiere dell’impresa, il rispetto dei tempi, il rispetto dei luoghi, il rispetto dell’etica, il rispetto di quei valori che poi sono quelli che ci permettono di costruire e ci permettono di realizzare il nostro obbiettivo: creare ricchezza, benessere, sviluppo. Un altro elemento sostanziale del cambiamento di epoca che si sta vivendo, è la voglia nel trovare equità su come ridistribuire questa ricchezza. Questo è un forte passo avanti per andare oltre lo stereotipo, e oltre quello che è il luogo comune di come fare. Chiudo questa prima riflessione con due spunti veloci. Il primo spunto, le policies, che secondo me sono il miglior punto di incontro fra il pubblico e il privato. L’ultima policy efficace ed efficiente che ricordo e che è diventata poi permanente nel tempo, risale al 2012, quindi parliamo di ben 4 anni fa, quando si è fatta la prima policy per favorire la nuova imprenditorialità, le start up. Lì c’è stato un incontro funzionale fra chi poteva come amministrazione favorire lo sviluppo d’impresa e fra chi l’impresa la faceva. Il secondo spunto è la necessità di avere più policies di medio e lungo periodo, nel senso che oggi, se veramente si vuole guardare oltre al luogo comune e si vuole far sì che l’alchimia fra pubblico e privato diventi efficace, bisogna iniziare a costruire policies, a guardare al futuro in maniera sostanziale, a guardare cosa si può fare veramente per l’impresa e per il nostro Paese per i prossimi dieci anni, piuttosto che avere gli occhi puntati sullo specchietto retrovisore e guardare cosa non si è fatto negli ultimi trent’anni. Grazie.
SALVATORE TAORMINA:
Quindi le policies, il loro ruolo, la necessità di superare rendite di posizione sia nel pubblico che nel privato come condizione necessaria per affrontare la crisi, ma spesso di fronte a questa crisi si scontrano degli effetti paralizzanti di cui ci parla il volume pubblicato nel 2015, per i tipi di Rubettino, da Francesco Delzio, dal titolo Opzione Zero. Quindi vorrei che iniziasse il suo intervento dicendo che cosa è questa “opzione zero”.
FRANCESCO DELZIO:
Grazie. Grazie per l’invito. Ovviamente non posso fare il riassunto del libro altrimenti distruggerei il convegno in un attimo.
Rispondo subito alla domanda. Opzione Zero è esattamente quello che oggi molti di noi vedono nel rapportarsi alla pubbliche amministrazioni. Che cosa vedono? Condivido del tutto il ragionamento sul rapporto tra pubblico e privato che ha fatto Marco Gay, però, con il permesso del moderatore, sarò ancora un po’ più radicale.
Quello che spesso vedo è una serie di funzionari pubblici preparati, competenti ed esperti, anche perché l’età media della nostra pubblica amministrazione, come sappiamo,
è molto alta. L’età media supera i cinquanta anni, ed è purtroppo il record di vetustà nel mondo avanzato, non solo nell’Europa, però questo porta esperienza, competenza e capacità, tuttavia questi funzionari pubblici non hanno alcuna ragione per assumersi delle responsabilità. Questa è l’Opzione Zero. Abbiamo costruito senza accorgercene, passo passo, con una dolorosissima sequenza di errori, ciò che blocca, che impedisce, immobilizza, paralizza, in molte pubbliche amministrazioni, la buona, positiva, responsabilità, nonché ogni assunzione di rischio da parte dei singoli funzionari.
Approfittando della pazienza del direttore di Avvenire, io ho fatto un piccolo esperimento oggi, ho utilizzato la mia rubrica settimanale su Avvenire, a pagina 3, per dare una piccola anticipazione del dibattito che stiamo svolgendo. E il mio commento inizia citando, in realtà, colui il quale ha inventato il termine “burocrazia”. È un economista francese, si chiama De Gournay, ed ha inventato la burocrazia, come termine dispregiativo per indicare i funzionari pubblici, che appunto, come dice bene il titolo di questo dibattito, si facevano casta, costruivano un sistema di potere chiuso e in questo modo soppiantavano o cercavano di soppiantare, di ridurre il potere del Sovrano.
Oggi noi siamo in uno scenario diverso, in cui il Sovrano è il popolo, quindi un sovrano diffuso rispetto al sovrano unico al quale si riferiva De Gournay, e tuttavia quello che nei decenni abbiamo costruito è un sistema nel quale si favorisce la costruzione di caste piuttosto che di comunità. Allora come possiamo sbloccare tutto questo? Iniziamo con il dire che, il sistema dei controlli, che oggi presiedono l’attività amministrativa e il sistema delle retribuzioni dei dipendenti pubblici, sembrano costruiti apposta per incentivare l’Opzione Zero, cioè per spingere a non assumere rischi, a considerare l’ottimo paretiano l’immobilismo assoluto. Questo è il punto di partenza dal quale deve partire qualsiasi nostra riflessione, ed è un punto di partenza oggettivo, non soggettivo. E’ inutile continuare a dire che i dipendenti pubblici, i funzionari pubblici, sono mediamente meno preparati, meno capaci e quindi meno produttivi rispetto ad un lavoratore privato. Non è assolutamente così. E’ addirittura dimostrabile scientificamente che non sia così. Quindi se ci liberiamo da questo falso mito, se ci liberiamo da un altro falso mito che è quello per il quale i dipendenti pubblici sono troppi in Italia rispetto ad altri Paesi Europei in rapporto al numero della popolazione, che anche questo è falso, possiamo iniziare ad affrontare i veri problemi che creano l’Opzione Zero, che immobilizzano l’amministrazione. Ce n’è uno fondamentale, sul quale la riforma Madia inizia più o meno timidamente a intervenire, che è quello del merito. L’abbiamo ormai pronunciata tante volte la parola “merito” che inizia a diventare un refrain inutile. Per qualcuno è diventata una parolaccia, perché se dici merito vuol dire che vuoi punire qualcuno per esaltare qualcun altro. E invece no. Il merito nella pubblica amministrazione è ancora assente, per esempio, dai meccanismi retributivi. Se io concedo ancora oggi, sostanzialmente, premi a pioggia per una serie di operatori pubblici, a prescindere dai risultati che portano, dal livello di pro-attività che dimostrano e dalla qualità di rischi che assumono, evidentemente costruisco un sistema nel quale, il funzionario pubblico che decide, il funzionario pubblico che si assume il rischio e la responsabilità di una decisione, è una specie di eroe. Un eroe civile. Un Paese nel quale il funzionario pubblico che decide è un eroe civile, è un Paese nel quale si crea il modello “dell’anatra zoppa”, che racconto appunto nel commento di Avvenire. Ecco io credo, e qui termino la parte radicale, che un sistema basato sul modello “dell’anatra zoppa” non sia più sostenibile, che l’Italia dopo vent’anni di minore crescita rispetto agli altri Paesi avanzati, non si possa più assolutamente permettere il modello “dell’anatra zoppa”. Il fattore più potente, la chiave più decisiva per poter uscire dal modello “dall’anatra zoppa” è proprio quello di inoculare gradualmente, ma in maniera continua, elementi di merito e quindi valutazioni basate sul merito, retribuzioni basate sul merito, controlli basati sul merito, nelle pubbliche amministrazioni. Tutto questo non deve portare a punire nessuno. È piuttosto surreale immaginare licenziamenti di massa nelle pubbliche amministrazioni, come pure è stato teorizzato negli anni scorsi, perché rispetto alla quantità di funzioni che le pubbliche amministrazioni svolgono, questo non avrebbe alcun senso. Dobbiamo iniziare a premiare chi, nel pubblico impiego, si assume responsabilità e rischi che sono paragonabili a quelli che normalmente un operatore si assume nel lavoro privato, quindi dobbiamo risolvere alla radice il problema “dell’anatra zoppa”. Per altro, vado rapidamente a concludere, il nostro sistema delle pubbliche amministrazioni è un sistema che ha dimostrato nei decenni una grandissima flessibilità, una grandissima modularità rispetto per esempio ad una produzione legislativa, lo ricordava prima il moderatore, così abnorme da poter essere considerata in alcuni casi criminogena, perché non consente di capire qual è la norma in quel momento in vigore, come essa debba essere correttamente interpretata. Noi non riusciamo ad uscire da questo modello eroico del quale parlavo prima, per il quale se incontri un funzionario pubblico che decide di decidere, scusate il bisticcio di parole, che quindi culturalmente, naturalmente batte l’Opzione Zero, la rifiuta, si rifiuta di protocollare un atto senza entrare nel merito e si assume il rischio di decidere, ecco tu pensi, operatore privato, di essere di fronte ad una persona isolata, ad un’isola felice. Dobbiamo invece costruire gradualmente un sistema, partendo dalla riforma Madia, che ha molti elementi positivi, che aiuti gli eroi a riconoscersi tra di loro e quindi a creare una comunità, rifiutando per sempre l’idea di casta e soprattutto l’dea che le pubbliche amministrazioni siano una casta che si è auto costituita per assumere potere senza sapere il rischio che quel potere comporta. Grazie.
SALVATORE TAORMINA:
Sentendo l’accenno finale all’eroismo, mi veniva in mente una frase che è molto famigliare fra tanti qui al Meeting: “Occorreva che il quotidiano diventasse eroico e che l’eroico diventasse quotidiano”.
Presidente Pitruzzella, Lei ha un osservatorio assolutamente privilegiato, perché essendo a capo di un’autorità amministrativa indipendente, deve occuparsi di far sì che le regole delle concorrenza fra le aziende operanti nel nostro sistema economico e produttivo, siano pienamente rispettate e attuate, anche a tutela e vantaggio dei consumatori.
GIOVANNI PITRUZZELLA:
Prima di tutto voglio ringraziare in modo sentito l’amico Taormina e gli organizzatori del Meeting per la straordinaria esperienza umana che ci consentono di vivere. E questo è l’espressione di quella parte vitale del Paese su cui credo che possiamo costruire un futuro per le nuove generazioni, all’altezza del grandissimo patrimonio culturale, morale, economico e tecnologico che ha questo Paese.
E ringrazio ancora una volta gli organizzatori, non soltanto per questo profilo umano, ma per aver avuto l’intuizione di scegliere, con le parole giuste, il tema centrale che l’Italia deve affrontare oggi: “Tu sei un bene per me”, cioè la ricreazione di meccanismi che mettano in primo piano il bene comune, i fattori di solidarietà, di amicizia, ciò che ci unisce al di sopra delle divisioni. C’è una mostra spettacolare oggi qui, quella che riguarda la storia della Repubblica, una storia di conflitti, la storia di don Camillo e Peppone, una contrapposizione radicale, ma al di là di questo fa vedere che, nei momenti in cui erano in gioco le sorti del Paese, prevaleva sempre lo spirito di unità, il bene comune. Io credo che sia questa prospettiva che dobbiamo oggi recuperare, per cui in un momento in cui il Paese sembra frammentato, diviso, lacerato e direi disgregato, la grande battaglia culturale, etica è quella di ricreare le ragioni dello stare insieme. Questo è ancora più vero per la pubblica amministrazione. La vera rivoluzione, che non è soltanto e semplicemente una rivoluzione legale, una rivoluzione amministrativa, ma una rivoluzione culturale, è quella di fare sì che in Italia ci sia il passaggio da un’amministrazione che in qualche modo serve l’interesse particolare, a un’amministrazione che invece è proiettata a tutelare gli interessi generali del bene comune. E a questo punto voglio citare Fukuyama quando dice che la differenza tra i Paesi che hanno risentito della crisi finanziaria del 2008 (Portogallo, Grecia, Spagna, Italia) e quelli che non ne hanno risentito affatto (Germania, l’Olanda, la Danimarca, la Svezia) non sta nel fatto che c’è una differenza culturale tra il Mezzogiorno d’Europa, che tende a non lavorare, a dissipare, a disperdere quello che ha, e un nord virtuoso, forte della sua etica protestante. La vera differenza – dice Fukuyama – è tra Paesi che hanno un’amministrazione clientelare e Paesi che hanno un’amministrazione forte e autonoma, come la Germania. La Germania eredita una burocrazia, che è la burocrazia che nasce con lo stato prussiano, una burocrazia forte, con un forte spirito di corpo, competente, basata sul merito ed è questa la logica dell’amministrazione tedesca che dalla Prussia sopravvive nei vari passaggi di regime politico (l’impero tedesco, la repubblica di Weimar, il nazismo, la repubblica federale tedesca, l’unificazione). La storia è diversa in Italia. In Italia noi abbiamo avuto a lungo una burocrazia e un’amministrazione che sono state abbastanza succubi di interessi particolari. Poco fa si è parlato di casta, ciò significa una burocrazia che in realtà non serve il bene comune, ma al contrario serve ad autoalimentare se stessa, a costruirsi come gruppo sociale. Pensate all’uso clientelare che da parte della politica è stato fatto delle amministrazioni quando si è utilizzato lo strumento delle assunzioni, soprattutto nel Mezzogiorno, come strumento fondamentale per creare consenso politico. E pensate ancora all’amministrazione che talora è permeabile agli interessi particolari e crea quelle che sono delle rendite di posizione, per cui qualcuno, un imprenditore che ottiene una concessione senza gara, per esemplificare, ha una rendita, può vivere grazie ad un’elargizione di un beneficio da parte della pubblica amministrazione, sottraendo risorse al Paese, e chi invece compete nel mercato sulla base dei suoi meriti. Ebbene, probabilmente questa caratteristica dell’amministrazione, oggi in via di superamento, c’è stata in Grecia, anche lì ha segnato l’epicentro della crisi e del debito pubblico. Perché? Perché questo è avvenuto in Italia, in Grecia e non è avvenuto in Germania? Probabilmente perché in quei Paesi prima si è creato lo Stato con la forte burocrazia, poi è arrivata la democrazia. I Paesi che hanno avuto processi inversi, prima la democrazia, poi la creazione delle istituzioni amministrative e del corpo burocratico, hanno cercato di utilizzare in chiave clientelare la pubblica amministrazione per ottenere consenso, ma in questo modo hanno creato un grande problema. Direi che tutta la parabola della storia politica europea vede il passaggio da quello che era definito Stato patrimoniale allo Stato impersonale, da uno Stato in cui contano prima i rapporti personali a uno Stato in cui non contano i rapporti personali, l’amicizia, l’appartenenza al gruppo familiare o amicale, ma conta uno Stato che dà un servizio al pubblico. E’ un servizio orientato al bene comune, quello che è avvenuto in Germania, in Francia, in Olanda e in Svezia. Ma laddove la democrazia è arrivata prima della costruzione dello Stato, non sempre le cose sono andate così. Anche negli Stati Uniti del XIX secolo l’amministrazione era un’amministrazione clientelare basata sulla nomina politica dei funzionari. E che cosa è avvenuto lì? E’ avvenuta una crescita economica e c’è stata una coalizione sociale che ha chiesto una riforma della pubblica amministrazione, che introducesse il merito, e di quella coalizione facevano parte soprattutto le imprese che dovevano affrontare una competizione nel mercato. Ecco, è probabile che oggi ci sia la ricostituzione in questo Paese di una coalizione sociale che chiede il cambiamento della pubblica amministrazione. Lo ricordava il presidente Gay, l’amministrazione, il pubblico ha bisogno del privato, direi che tutti noi cittadini abbiamo bisogno del privato, abbiamo bisogno di un mercato che funzioni, ma il privato ha bisogno del pubblico, perché il pubblico produce dei fondamentali beni pubblici che servono per tutelare i nostri diritti e consentire la crescita economica. Senza le infrastrutture essenziali, gli aeroporti, i porti, le strade, un Paese non ha crescita economica. Senza la connessione a internet a banda ultra larga, noi siamo condannati ad un arretratezza economica da cui non possiamo scappare. La rete a banda ultra larga la fanno le imprese, la fa Telecom, la fa Vodafone, la fa Wind e così via. Però, appunto, ci vogliono delle condizioni esterne che pone il pubblico e che consente, anche laddove non è conveniente investire, di porre l’infrastruttura di rete a banda ultra larga. In quest’ordine di idee, probabilmente, si pone la riforma Madia. Io credo che la riforma Madia abbia una portata storica e quindi vada sostenuta con fermezza, perché la riforma Madia è veramente un’ondata di cambiamento della pubblica amministrazione, che riguarda il merito ma riguarda anche la semplificazione delle procedure amministrative. Bisogna però avere anche la consapevolezza dei rischi. Affinché l’amministrazione funzioni, la burocrazia deve essere un corpo professionale autorevole, con uno spirito di corpo, con una sua professionalità e non deve essere alla ricerca di un padrino politico. E allora i meccanismi di nomina conteranno moltissimo, e allora conterà moltissimo il fatto che la politica,quando valuterà il merito, lo farà sulla base di criteri oggettivi oppure sulla base di criteri che riguardano l’affiliazione, perché in quel caso ritorneremo all’amministrazione come strumento clientelare, che è quello che non serve né alla tutela dei diritti né alla crescita economica. Io credo quindi che la riforma sia una grande riforma, su cui si dovrà comunque vigilare, anche perché vedete, la riforma dell’amministrazione non è una cosa che si esaurisce con una legge, ma è un processo di cambiamento che riguarda le regole, la cultura, gli stili comportamentali e su questo credo che tutti siamo chiamati a un compito di attenzione, di vigilanza e di stimolo. E allora affinché questo processo si compia, sono fondamentali tre cose. La prima è l’educazione, ne parlava Taormina con lucidità all’inizio, bisogna investire, e lo diceva anche il presidente Gay quando parlava di capitale umano, bisogna investire sulla formazione professionale, sulla preparazione, sulla cultura di una burocrazia che ha tanti elementi validi ma che va adeguata ai tempi. Anche perché noi viviamo in un momento in cui c’è una forza di cambiamento che è straordinaria, potentissima ed è la rivoluzione digitale. Nulla sarà più come prima, non lo sarà l’economia, e chi entrerà nell’era dell’industria 4.0 riuscirà a crescere e a conquistare i quantitativi mondiali, chi invece non saprà farlo, probabilmente soffrirà. Ma questa forza è anche una forza per il cambiamento della pubblica amministrazione, la rivoluzione digitale imporrà l’adeguamento culturale di tanti e sarà quindi uno stimolo al cambiamento. E a proposito io lancio una sfida all’amico Taormina: perché la Fondazione per la Sussidiarietà non mette tra le sue priorità la realizzazione di attività formative adeguate ai tempi per quanto riguarda il personale pubblico, per creare una comunità di civil servant all’altezza della sfida dei nostri tempi? Quindi educazione al primo posto. Al secondo posto, però, c’è un’altra cosa. L’amico Delzio parlava prima del problema della responsabilità, del merito e del dirigente che deve affrontare la responsabilità. Stiamo attenti, però, perché oggi la burocrazia è soffocata da eccessi di responsabilità formale. Se il pubblico funzionario quando opera, corre costantemente il rischio di andare incontro al giudizio di qualche giudice penale o della Corte dei Conti, non farà più nulla. Quindi, lotta spietata alla corruzione, lotta spietata ai fannulloni, però, al tempo stesso, non dilatiamo troppo l’area della responsabilità dei pubblici funzionari. E infine un tema che è stato affrontato da Taormina e che mi vede assolutamente d’accordo. Oggi una delle cause di inefficienza dell’amministrazione è data dalla qualità del prodotto legislativo, troppe leggi e scritte male, un problema che ci portiamo da lungo tempo. Ma l’inflazione legislativa fa sì che oggi il diritto sia un diritto inconoscibile. Quando un presidente va a chiedere a un esperto se può fare un certo investimento in una determinata area e chiede: lo posso fare? Di quanto tempo ho bisogno? Nessun consulente, anche il più bravo di questo mondo, almeno se è un consulente onesto che dice la verità, gli darà delle certezze. E questo è tremendo specie quando noi dobbiamo andare a spiegare ad un’impresa olandese in inglese, che non ammette appunto tutti i distinguo della nostra lingua, se realizzare un certo impianto in una certa regione è possibile oppure no e quanti saranno i tempi necessari. La riforma della pubblica amministrazione, ripeto, la riforma Madia è una riforma storica, che va sostenuta con fermezza, perché veramente è un fattore che potrà rafforzare la competitività del nostro Paese, anche se nessuna riforma potrà raggiungere gli obbiettivi di creare un’amministrazione autonoma, efficiente, basata sul merito, in grado di essere lo strumento del bene comune e non degli interessi particolari se non sarà accoppiata ad un processo di cambiamento del modo di come noi facciamo le leggi. Spero proprio che Confindustria su questo possa essere d’ausilio e di supporto, perché abbiamo bisogno di poche regole, chiare, intellegibili e stabili. Facciamo le riforme, ma una volta fatte le riforme, stiamo un po’ fermi, perché cambiare le leggi ogni minuto non fa bene a nessuno. Ancora una volta grazie. “Tu sei un bene per me”.
SALVATORE TAORMINA:
Abbiamo lo spazio per un veloce secondo giro. I temi sul tappeto sono veramente tanti. Uno però mi pare si sia imposto nell’intervento di tutti e tre i nostri relatori, è il tema del merito. La cosa interessante è che questo tema del merito non si è imposto in chiave sanzionatoria, ma si è imposto in chiave propositiva e proattiva. Io, per questo secondo giro, partirei con una domanda al presidente Gay. Dalla riforma Cassese in poi, dal 1993, l’amministrazione pubblica italiana ha introdotto degli elementi di valutazione del merito, soprattutto per quanto riguarda la dirigenza, tendendo però ad una assimilazione dei processi di valutazione e di programmazione del sistema pubblico con quello proprio delle aziende private, dimenticando, forse, nell’auspicio di conseguire quella maggiore efficienza che si riconosceva al privato, che privato e pubblico sono assolutamente complementari, coessenziali, come lei ha voluto ricordare nel suo intervento, ma sostanzialmente diversi, rispetto alle operatività a cui devono tendere. Allora, rispetto a questo tema del merito, lei, da soggetto che ha una responsabilità significativa nel mondo dell’impresa italiana, vede possibile sviluppare un percorso di valutazione del merito nella pubblica amministrazione che sappia trovare strade proprie, peculiarità proprie, senza appiattirsi in una dimensione aziendale della pubblica amministrazione che spesso finisce per esistere solo sulla carta?
MARCO GAY:
Secondo me c’è assolutamente bisogno di premiare il merito sulla base di regole certe. Oggi la direzione su cui credo si debba andare è la direzione della produttività legata alla premialità salariale, della produttività legata ai risultati. Produttività non è sempre e solo aumento della redditività. La produttività è anche semplicemente fare meglio quello che si fa e farlo con tempi e modi certi. Questo è un grande passaggio: premiare il merito anche nel pubblico deve essere legato al raggiungimento degli obbiettivi, quindi al raggiungimento di come la macchina performa di più. Io devo dire che per altro non sono pienamente d’accordo su fatto che non ci debba essere responsabilità per il funzionario.
Ci deve essere sicuramente una responsabilità, e questa responsabilità deve essere commisurata all’obbiettivo che viene raggiunto. Quindi il merito va premiato, va premiato nel pubblico e anche nel privato, ma va premiato anche per un motivo educativo.
Perché noi dobbiamo anche dare degli strumenti alla nuova classe dirigente che si sta affacciando, ai tanti giovani che vogliono mettersi alla prova non solo nel settore privato ma anche nel settore pubblico, di modo che se fanno bene il loro mestiere, questo venga riconosciuto. Quindi premiare il merito è anche una parte essenziale della vita pubblica. Alla base di questo però ci dev’essere una chiarezza fondamentale nei termini dell’efficienza della burocrazia. La burocrazia – nel pubblico come nel privato – è una di quelle componenti che, se ha regole certe e tempi certi, permette semplicemente a chi vuol svolgere al meglio il proprio lavoro di svolgerlo al meglio. È in quest’ottica che allora si può cavalcare l’investimento come volàno per creare la soddisfazione, per creare quel futuro che un Paese, fatto di talenti come noi siamo, sicuramente si merita. Grazie.
SALVATORE TAORMINA:
Un punto emergeva con chiarezza da questa seconda risposta del Presidente Gay: le responsabilità chiare e la possibilità di esprimere il merito sono favorite da regole chiare, da regole che devono essere applicate. Allora chiederei a Delzio, che di queste cose si è occupato in passato: che cosa ci può favorire oggi nella possibilità di recuperare queste regole chiare?
FRANCESCO DELZIO:
Questo è evidentemente il round delle domande da un milione di dollari, quindi provo anche io a rispondere come Marco Gay, con difficoltà, ma ci provo. Il Presidente Pitruzzella prima diceva una cosa molto giusta, e a mio avviso molto importante: dobbiamo come cittadini impegnati e come organizzazioni di rappresentanza, occuparci, prenderci cura, vorrei quasi dire adottare il sistema delle regole in Italia. Abbiamo in Italia legiferato allegramente, in maniera assolutamente sovrabbondante, patologica, per decenni, e nessuno si è mai preoccupato, purtroppo neanche il legislatore, della coerenza, della chiarezza, dell’efficienza e dell’efficacia di queste regole. Allora è giunto il momento di occuparci anche delle regole e non solo dei risultati che queste regole producono nella società. Questo mi sembra un punto molto importante e quindi altrettanto importante lo stimolo che Pitruzzella dava a Confindustria, perché, per esempio, un soggetto credibile, autorevole, competente come Confindustria, che rappresenta tutto ciò che le regole dovrebbero favorire, investimenti, produttività, occupazione, un soggetto come Confindustria dovrebbe iniziare ad occuparsi proprio delle regole, cioè di costruire un cantiere delle regole che aiuti il legislatore, che ha tanti difetti, che ha tanti problemi sia di compromesso politico che di supporti scarsi da parte delle tecnostrutture. Ecco che Confindustria e altri soggetti della rappresentanza dovrebbero aiutare il legislatore a costruire un sistema di regole più chiaro, più trasparente, più sintetico, più asciutto e quindi più efficace. Un vero e proprio cantiere delle policies. Questo mi sembra un punto di importanza assoluta. Non possiamo più aspettarci, come se fossimo difronte ad un sovrano illuminato dal quale tutto dipende, che il legislatore, con la bacchetta magica, risolva i nostri problemi con un pugno di leggi. Nello Stato moderno, complesso, nella società spappolata nella quale viviamo, questo ruolo il legislatore nella nostra società non riesce più ad esercitarlo. Il ragionamento non vale solo più per l’Italia, ma vale per tutto il mondo avanzato, e questo è un punto molto importante. Il secondo punto, e chiudo, e del quale non abbiamo parlato, lo abbiamo solo accennato prima, è quello dell’età della pubblica amministrazione. Nella riforma Madia, ottima anche da questo punto di vista, c’era un annuncio iniziale molto importante, relativo alla staffetta generazionale nelle pubbliche amministrazioni. Per poter realizzare la staffetta generazionale nelle pubbliche amministrazioni, ci vogliono fondamentalmente soldi, nel senso che dobbiamo rinunciare alla politica ultradecennale del blocco del turnover, e dobbiamo iniziare ad investire in maniera selettiva, chirurgica, qualitativa, su giovani talenti che abbiano voglia, come diceva prima Marco Gay, di impegnarsi non solo nel privato ma anche nel pubblico. Questo, tra l’altro, rivalorizzerebbe il pubblico anche dal punto di vista del ruolo sociale del pubblico stesso, della reputazione del funzionario pubblico. Ecco, questo passo, quello della staffetta generazionale, dev’essere ancora realizzato. È un ottimo annuncio, aspettiamo tutti che lo sia, sia i giovani sia quelli che, come tutti noi, hanno superato i quarant’anni, perché rappresenta un segnale di cambiamento psicologico, prima ancora che operativo, nella qualità delle competenze, decisivo per rilanciare la pubblica amministrazione e fare in modo che quella famosa “anatra zoppa” di cui parlavamo prima, possa ricominciare a camminare e poi magari provare a volare.
SALVATORE TAORMINA:
Quindi qualità dell’azione legislativa, merito, sono tutte questioni che però ci riconducono alla necessità di recuperare, Presidente Pitruzzella, una spinta ideale che spesso sembra mancare.
GIOVANNI PITRUZZELLA:
Ebbene sì, perché dobbiamo pure stare in guardia dall’illusione secondo cui si fanno le riforme e poi le cose cambiano. Di riforme amministrative se ne sono fatte tante e questa è sicuramente una delle più importanti, una delle migliori. Però, su questo discorso del merito insistiamo da tanto tempo. Io ero ragazzino e parlavamo delle riforme, di amministrazione. Voi eravate proprio con i pantaloncini corti. Vi ricordate, collaborai anche io a quella fase di riforme, le riforme Bassanini. Ma là già il merito c’era. Pensiamo alla valutazione dei risultati del dirigente che ha la responsabilità dirigenziale. C’era la politica, il Ministro, l’Assessore, che davano un incarico dirigenziale per raggiungere obiettivi e programmi e poi valutavano il dirigente per quello che aveva fatto. Perché stiamo a parlare ancora di queste cose? Perché non ha funzionato quel meccanismo? Perché in realtà la politica non fissava programmi, obiettivi, non stabiliva risorse e mezzi adeguati agli obiettivi da raggiungere. In un’impresa si fissano costantemente dei target per quanto riguarda l’attività che si deve svolgere. Si fissano dei mezzi, magari limitati, ma tendenzialmente adeguati al raggiungimento dell’obiettivo. Perché altrimenti c’è un giudice supremo, il mercato, che mi fa fuori. Ebbene, la politica non ha mai fissato programmi e obiettivi e quindi quella che doveva essere una scelta di un dirigente, sulla base del merito e la valutazione successiva sulla base della sua capacità di raggiungere gli obiettivi che aveva accettato di raggiungere, non c’è stata. Tutto è servito a scegliere, secondo un meccanismo di spoil system, secondo l’esperienza Americana che vi ho citato all’inizio, quella del XIX secolo, che però nel ’900, a partire dai primi decenni del ’900 è venuta meno, ed è servita soltanto ad attribuire gli incarichi sulla base di criteri di affidamento politico. Io credo che la vera scommessa oggi sia quella di evitare che tutto ciò si riproponga. Credo che abbiamo un elemento dalla nostra, una maggiore maturità, una maggiore consapevolezza, anche da parte degli imprenditori, da parte della società civile, da parte di vari gruppi che capiscono che i loro diritti sono tutelati da un’amministrazione efficiente. Credo poi che quei maledetti vincoli finanziari fanno sì che l’amministrazione non possa essere più sfruttata in chiave clientelare e quindi la stessa politica possa avere un incentivo a fare delle cose nell’interesse generale del bene comune. Io credo che questo sia un grande cambiamento su cui si dovrà senza dubbio lavorare. Sono ottimista. Per quanto riguarda il problema della qualità della legislazione, sono assolutamente d’accordo sul cantiere delle policies. Questo è un tema da porre all’attenzione, perché noi ancora continuiamo ad essere piuttosto retrò su questi temi, e invece esistono dei meccanismi scientifici che da noi ancora non vengono attuati. Credo che però quello sia un passo decisivo per fare sì che in Italia i diritti siano tutelati in modo effettivo e le imprese possano trovare un terreno formidabile per crescere, per svilupparsi, per dare occupazione e per valorizzare questo straordinario Paese che abbiamo ricevuto in eredità e che dovremmo lasciare ai nostri figli più bello, più importante, più solido, e anche più coeso.
SALVATORE TAORMINA:
Siamo alla conclusione del nostro percorso che vuole essere, più che un punto di arrivo, un punto di partenza. Da quello che ci siamo detti, emerge una prima responsabilità da condividere in forza di quella dimensione comunitaria del lavoro pubblico che è stata evocata a più riprese. Concorrere attivamente alla valorizzazione di percorsi e strumenti, utili a mettere in rete in termini di conoscenza, valutazione e confronto, le iniziative, gli interventi, le policies riconosciute come buone prassi, impegnandosi a vagliarne il rilievo metodologico (perché hanno funzionato le cose piccole o grandi che hanno funzionato), e l’esportabilità dei relativi modelli operativi anche in settori diversi rispetto a quelli in cui hanno avuto luogo. Questa è una responsabilità, è un tentativo, a cui anche la Fondazione intende contribuire. Dico però che in questo tentativo occorre tenersi immuni dall’idea di cercare il sistema perfetto. In questo senso, proiettare sulla perfezione dell’organizzazione pubblica, sulle sue regole pur poche e semplici, ciò che ultimamente nasce dalla tensione ideale della persona servirebbe solo a smarrire il senso della concretezza di quel bene comune, che anch’esso è stato più volte richiamato, bene comune che nella sua natura più intima e profonda rimane sempre il prodotto di una libertà umana in relazione con le aspirazioni più profonde del cuore. Smarrire questa prospettiva sarebbe un clamoroso inganno, dagli esiti disastrosi, sui quali ci ammoniscono conclusivamente le parole del poeta Hölderlin, che per altro è il poeta preferito di Papa Francesco, il quale in una sua opera, Iperione, diceva: “Tutte le volte che l’uomo ha voluto fare dello Stato il suo cielo, lo ha trasformato in un inferno”.