Chi siamo
LAVORO E PERSONA
Partecipano: Domenico Arcuri, Amministratore Delegato di Invitalia; Stefano Barrese, Responsabile della Divisione Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo; Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria; Annamaria Furlan, Segretaria Generale di CISL. Introduce Bernhard Scholz, Presidente di Compagnia delle Opere.
Lavoro e persona
BERNHARD SCHOLZ:
Buonasera, benvenuti a questo incontro che riguarda un tema centrale di questo Meeting che è stato tematizzato in diversi incontri e che vogliamo ulteriormente approfondire questa sera. Ringrazio di essere con noi Annamaria Furlan, Segretario Generale della CISL; Domenico Arcuri, Amministratore Delegato di Invitalia; Stefano Barrese, Responsabile della divisione Banca dei Territori di Banca Intesa Sanpaolo e Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria. Questo incontro parte da una convinzione profonda, che il lavoro è parte essenziale della dignità di una persona: viviamo in un mondo di grande trasformazione e sappiamo bene che questo riguarda anche l’occupazione. abbiamo fatto questo pomeriggio un incontro sull’industria 4.0, sulla digitalizzazione riguardo alla quale ci sono diverse interpretazioni, per quanto riguarda le conseguenze sull’occupazione. C’è chi dice che toglierà milioni di posti di lavoro, altri dicono che se non la facciamo rischiamo un default economico, altri dicono che crea nuovi posti di lavoro. Ma quello su cui tutti concordano è che questo è un momento in cui sono finiti il tempo dello studio e il tempo del lavoro concepiti separatamente: oggi è un continuo intrecciarsi fra lavoro, studio, formazione, e questo richiede a tutti, alla Pubblica Amministrazione, alla politica, alle imprese, ai sindacati un nuovo modo di approcciare questo tema. Le nuove generazioni cambieranno anche più frequentemente il posto di lavoro che non le generazioni più anziane. Quindi, ci sarà più mobilità, un mondo in trasformazione, non solo una crisi da superare ma anche una grande trasformazione da affrontare: sinceramente, non ci interessa il reddito come reddito ma che la persona possa esprimersi attraverso il lavoro, possa fare esperienza di dare un valore al bene di tutti, anche una esperienza di sé, di conoscersi di conoscere il mondo, di lavorare insieme, perché la parte relazionale del lavoro è una delle esperienze più importanti che il lavoro permette alla persona. E questo riguarda le imprese, la loro capacità di creare produttività e innovazione, riguarda i sindacati, il loro supporto alle nuove forme di lavoro, le politiche attive del lavoro, riguarda gli istituti di credito e la loro disponibilità ad investire, a condividere il rischio, riguarda la Pubblica Amministrazione, che investe o partecipa agli investimenti, riguarda le famiglie e la loro modalità di educare i figli. Anche di questo al Meeting si è parlato, se vogliamo un’educazione protettiva o una educazione che porta i giovani a conquistare il senso di libertà e di responsabilità. E questo riguarda anche la singola persona, l’autocoscienza che uno ha di fronte alle sfide della vita: se si sente in grado di affrontarle o si sente sfiduciato, sopraffatto dalle condizioni difficili. In questo Meeting, abbiamo parlato anche del supporto del sistema scolastico, abbiamo dedicato una giornata intera alla formazione scolastica, in parte anche universitaria. In questo incontro, invece, ci concentriamo su quattro temi: imprese, sindacati, investimenti privati e investimenti pubblici. Quattro elementi importanti in un mondo che cambia. Passo subito la parola ad Annamaria Furlan perché, tradizionalmente, il sindacato è quella istituzione che si è occupata del lavoro anche nella sua dignità, nella sua capacità di esprimersi in condizioni diverse, e quindi siamo curiosi di ascoltarla. Grazie.
ANNAMARIA FURLAN:
Innanzitutto, grazie a voi per l’invito e per questa bella opportunità che date alla CISL di incontrare tante persone e tanti giovani, come ormai avviene quasi ogni anno per il Meeting. Noi abbiamo concluso da poco, alla fine di giugno, un lungo percorso di congresso della CISL, che ha coinvolto decine di migliaia di quadri, dirigenti in ogni territorio, in ogni luogo di lavoro. Abbiamo intitolato il nostro congresso “Per la persona e per il lavoro”, perché oggi credo che sia davvero indispensabile, e non solo trattando i temi squisitamente del lavoro, ritrovare nel nostro Paese, come in tutto il mondo occidentale, in modo particolare, questa dimensione di indissolubilità tra la persona e il lavoro. La persona e il lavoro nascono insieme e fanno percorsi di progresso insieme, il lavoro è un elemento determinante nella formazione della persona ma anche nella possibilità di esprimere le sue esigenze relazionali. Il lavoro, senza il ruolo di protagonismo della persona, viene completamente svuotato dal senso del bene comune, della democrazia, della partecipazione, che solo la persona nel lavoro può produrre e rendere importante per la vita di tutti. Io credo che questa dimensione sia stata messa duramente alla prova negli anni davvero faticosi, molto lunghi, della crisi, che ha coinvolto il mondo occidentale e in particolare il nostro Paese, ma che ha anche significato, in molti altri Paesi, crescita e sviluppo, e in altre parti del mondo, guerra e povertà. Quindi, ritrovare la dimensione del lavoro e della persona come elemento indispensabile, fondativo per una comunità, credo che sia il modo più certo, più sicuro, più importante per definire un futuro di pace e di prosperità nel nostro mondo, di condivisione, di allargamento dei diritti della cittadinanza. Noi possiamo fare moltissimo perché questo avvenga. Il lavoro, come tanti altri temi importanti per la vita della persona, ha assunto ormai una dimensione fortemente internazionale, interagisce con i temi della politica internazionale, degli equilibri internazionali; ed è per questo che oggi affrontare il tema del lavoro, di che cosa significa il lavoro nel nostro modello sociale, nel nostro modello di comunità, nel nostro modello di democrazia, non può prescindere dall’analizzare anche l’incidenza del fattore internazionale e della dimensione internazionale del lavoro. Per questo, come CISL, almeno negli ultimi tre anni, abbiamo dedicato molte delle nostre riflessioni sul lavoro al tema dell’Europa e, finalmente, a quello che per noi è un elemento indispensabile per il futuro dei lavoratori e delle lavoratrici, ma vorrei dire per i cittadini e le cittadine del mondo, che è il tema della costituzione degli Stati Uniti d’Europa.
Oggi la dimensione internazionale del lavoro è assolutamente importante e ha bisogno degli Stati Uniti d’Europa, di un ruolo importante dell’Europa non solo rispetto al tema della competitività e dei diritti del lavoro ma anche sul tema della pace. L’Europa ritorna ad essere un elemento importante negli equilibri internazionali come costruttrice di pace nel mondo. Ma è un’Europa che ha troppi steccati, dove i nazionalismi si stanno rafforzando, non è l’Europa che sa affrontare i temi della logica del lavoro come primo diritto di cittadinanza e come elemento costitutivo di una comunità. Ragionare degli Stati Uniti d’Europa significa affrontare temi importantissimi legati al lavoro e alla competitività nella qualità, penso al diritto sul lavoro ma anche a uno stesso sistema di welfare, penso ad un sistema di sicurezza dell’Europa, penso anche ad una contrattazione che deve assumere a livello europeo alcuni elementi assolutamente importanti. Su questo, molto gli Stati e le istituzioni possono fare, molto possono fare anche le organizzazioni sindacali e datoriali nella nostra Europa. Davanti all’interlocuzione e al confronto con i processi internazionali del lavoro, penso alle multinazionali in modo particolare, almeno a quelle europee, non avere un elemento di confronto e di contrattazione anche in quella dimensione significa non riuscire a svolgere un ruolo anti dumping sociale così dilagante nella nostra Europa.
Il nazionalismo, la chiusura, le barriere non sono soltanto nemiche rispetto a processi di partecipazione, di ruolo forte del cittadino e della cittadina, ma sono anche nemici di processi di democrazia attraverso il lavoro che vede nella sua dimensione internazionale, almeno europea, un elemento forte contro la cattiva concorrenza, quel dumping contrattuale spesso parente stretto anche di dumping di tenuta fiscale nonché sociale. Quindi, la dimensione europea è la prima riflessone che gli attori e le rappresentanze sociali del lavoro, a partire dal sindacato, devono assolutamente porsi. E poi il tema dell’innovazione: io so che molti di questi aspetti sono stati oggetti di specifici approfondimenti durante tutto il percorso del Meeting. Nel nostro Paese, il tema dell’innovazione, come spesso succede, viene affrontato più in termini di tifoseria, piuttosto che in termini di ragionamento. L’innovazione è fondamentale per un Paese che sui mercati internazionali porta la sua capacità rispetto alla qualità di quello che produce, ma credo che la stessa attenzione che noi con molti anni di ritardo rispetto ad altri Paesi europei stiamo mettendo sui processi – l’industria 4.0 ormai spesso definita dallo stesso ministro Calenda impresa 4.0 -, lo dobbiamo rivolgere al tema del lavoro 4.0. L’innovazione è indispensabile per una competitività sulla qualità e non sul dumping contrattuale, ma credo che dobbiamo innanzitutto porci il tema di come la trasformazione del lavoro diventa un elemento inclusivo del lavoro e non invece un ulteriore elemento divisorio, che crea nuovi esclusi. Allora, il tema della formazione, dell’aggiornamento, delle competenze del lavoratore, della lavoratrice, diventa essenziale per includere nel lavoro e fare in modo che l’innovazione, la trasformazione, non crei nuova disoccupazione, ma sia la vera opportunità di crescere per ogni lavoratore e ogni lavoratrice. Questo significa mettere al centro della contrattazione, e in modo particolare di un nuovo modello contrattuale, l’aspetto formativo e della dotazione delle conoscenze, compreso il diritto individuale alla formazione che ogni lavoratore e ogni lavoratrice deve avere; ma allo stesso tempo creare anche elementi veritieri di un dialogo vero, di un’osmosi continua tra lavoro e formazione, ben diversa da quello che fino ad oggi ha vissuto il nostro Paese. Abbiamo una grande opportunità: altri Paesi europei, attraverso veri elementi di alternanza scuola-lavoro, hanno praticamente azzerato la disoccupazione giovanile, noi non possiamo immaginare di tradurlo all’italiana nelle imprese simulate nelle aule delle segreterie delle scuole. Anche qua, deve fare molto, il Paese, deve fare molto la comunità a partire dai livelli istituzionali, ma anche le parti sociali possono fare moltissimo. Penso a un utilizzo dei fondi professionali delle parti sociali, anche nella gestione del tema alternanza scuola-lavoro, ma penso anche, attraverso la bilateralità, a un dialogo diverso tra territorio, scuola, impresa, dove la bilateralità può svolgere davvero un ruolo importante che rilancia l’aspetto della centralità della conoscenza per chi cerca il lavoro o per chi già è lavoratore e lavoratrice, ma che rilancia anche il tema della produttività, altra questione su cui sentiamo discutere molto. Io credo che sia indispensabile che il nostro Paese e le nostre imprese recuperino punti di produttività. Bisogna però capire cosa intendiamo noi per recupero di punti di produttività: c’è un aspetto dove la contrattazione può fare molto, sia sul territorio che nell’azienda, ma c’è anche un aspetto di recupero di sistema-Paese come produttività che è assolutamente indispensabile. Allora, un Paese che da Salerno in giù ha la rete ferroviaria del sistema borbonico, è un Paese che si candida malamente a offrire elementi di competitività al supporto del proprio apparato produttivo, un Paese dove continuamente il tema giustizia viene messo in discussione dagli atteggiamenti di mafia, ‘ndrangheta e camorra, è un Paese che sistematicamente ha delle difficoltà a supportare il lavoro e la produttività. Quindi, investimenti pubblici e privati sulle grandi infrastrutture, in modo particolare penso al tema della banda larga ma anche al tema della legalità. E’ un Paese che agevola processi di produttività del lavoro, delle imprese, e in questo modo si colloca anche dentro l’Europa, con capacità diverse, aggiuntive rispetto ad oggi. E poi c’è il tema del lavoro che unisce le generazioni. Io cerco di essere più sintetica possibile ma credo che questo sia fondamentale e lo voglio proprio rimarcare: quello che ha fatto grande il nostro Paese per tanti anni è stato un patto generazionale molto forte. Non è possibile che il tema del lavoro, della trasformazione del lavoro, del diritto del lavoro venga invece assunto in termini speculativi per mettere una generazione contro l’altra. Faccio un esempio pratico: noi abbiamo fatto un accordo molto importante con il Governo sulla previdenza, abbiamo gestito la prima parte, la flessibilità in uscita, oggi siamo alla gestione della seconda parte, come rafforzare la previdenza per i giovani e creare una possibilità per tanti lavoratori e tante lavoratrici di proseguire anche in un’età avanzata la loro attività lavorativa, mettendo in discussione non il tema dell’aspettativa di vita ma chiedendo che venga rivisto quel meccanismo, oggi assolutamente impossibile da rispettare per tanti lavoratori e tante lavoratrici, partendo da un presupposto: non tutti i lavoratori sono uguali e nemmeno tutti i lavori sono uguali. E’ un elemento importante, in modo particolare per i giovani dove il combinato disposto di aspettativa di vita e tutto contributivo garantisce un futuro da pensionato povero e viene utilizzato come elemento per contrapporre le generazioni. Io credo che di questo il Paese non abbia bisogno, di questa continua voglia di conflitto, di contrapposizione tra le generazioni che spesso, nel dibattito politico e giornalistico, fa i titoloni sui 4 giornali e nelle televisioni. Non è assolutamente vero e non corrisponde alla realtà di questo Paese che ha saputo vivere anche momenti drammatici come quelli che ha vissuto in tutti questi anni di crisi, attraverso un ammortizzatore sociale e anche emozionale fantastico, come solo il nostro Paese ha, la famiglia italiana, dove il tema della solidarietà tra le generazioni è fondamentale. Il lavoro unisce, deve essere anche questo il messaggio: non abbiamo bisogno di continui rilanci di spaccature tra le generazioni. Oggi abbiamo un tema, non caldo, caldissimo, che è quello dell’occupazione giovanile: significa dare speranze al nostro Paese che ha bisogno di tante risposte ma anche di creare una simbiosi fortissima tra il mondo della formazione, i percorsi formativi e scolastici e l’impresa è altrettanto importante. E fare finalmente politiche vere a sostegno delle famiglie, credo sia altrettanto importante, come creare attraverso l’innovazione e gli investimenti infrastrutture per un Paese che sistematicamente si candida ad essere competitivo sulla qualità.
Quindi, per mettere al centro la persona e il lavoro ci vuole coerenza, ci vuole un filo logico che fa fare le scelte delle priorità che, se si mettono al centro il lavoro e la persona, creano un Paese più unito, un Paese che può avere più autorevolezza, più responsabilità nel portare avanti il sogno europeo; creano condizioni di futuro per tutte le persone, per quelle che nascono nel loro Paese e che ancora, purtroppo, non consideriamo cittadini e cittadine italiane, anche se nascono sul nostro suolo patrio. Un futuro per i nostri giovani, ma anche futuro e dignità attraverso il lavoro per chi è meno giovane, per l’anziano.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, Annamaria Furlan. lei ha parlato di sistema-Paese e questo coinvolge anche la Pubblica Amministrazione della quale Invitalia è un’espressione, essendo l’Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa proprietà del Ministero dell’Economia: gestisce tutti gli incentivi nazionali per favorire la nascita di nuove imprese. La domanda è: ma la Pubblica Amministrazione, accusata spesso di essere lenta, farraginosa, complicata, riesce a dare un contributo alla crescita di imprese creando occupazione e non solo qualche start up che poi rischia di non fare tanta strada?
DOMENICO ARCURI:
Grazie, rispondo alla domanda alla fine di un intervento, spero breve. Comincerei leggendovi una frase che mi sono appuntato dopo aver ricevuto il vostro invito: “I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità di provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria ed iniqua della ricchezza e dei redditi”. L’autore lo conoscete tutti, si chiama Keynes e questa frase è scritta nella Teoria generale che Keynes ha pubblicato nel 1936, cioè 81 anni fa. Quindi, il tema che oggi siamo chiamati a dibattere ha almeno 81 anni di onorata carriera e svariati dibattiti. In questi giorni io sento, con interesse decrescente, un dibattito che trovo assai originale intorno a due schieramenti: quelli che dicono che la crisi è alle nostre spalle e quelli che dicono che la crisi è ancora di fronte al nostro cammino. Io credo che la risposta a questo dibattito sia negli indicatori economici che ci dicono che quest’anno noi cresciamo dell’1,5%, che ci dicono che però siamo ancora lontani dal recuperare la dimensione produttiva che il nostro Paese aveva all’inizio della crisi o all’inizio di questo secolo. Ma questo dibattito non è di grande interesse: ho risolto la mia riflessione intorno a questo, leggendo una frase di Federico Caffè che diceva che la crescita, senza nuova occupazione, è un fatto privo di qualsiasi rilevanza. Pertanto, a una visione laterale alla crescita e alla ripresa, la crisi è ancora in corso. In questo scorcio di secolo, in cui oggettivamente il nostro Paese ha ricominciato a crescere, non siamo cresciuti abbastanza per creare occupazione ragionevolmente rilevante: e quindi, se dessimo retta a Caffè – io non gli do retta letteralmente – la crescita che abbiamo conseguito in questi anni non è stata un fatto economicamente rilevante perché non ha prodotto il lavoro che ci aspettavamo. Cosa bisogna fare perché la crescita che tutti auspichiamo prosegua e si incrementi e seguano passi accettabili di nuova e buona occupazione? Secondo me, per una volta dobbiamo fare uno sforzo che è quello di perdere una delle caratteristiche che io trovo avere il nostro Paese, tra le tante. Spesso è un Paese senza memoria, spesso si dimentica strumentalmente quello che è successo ieri e propone domani percorsi e approcci che non tengono conto di una delle fondamentali variabili che distinguono gli uomini: la consapevolezza, la competenza e, se volete, la memoria. Io penso che in Italia, e non solo in Italia, dall’inizio di questo secolo sono accadute delle cose che neanche comincio a elencare, perché le sanno tutti a memoria. Semplificherei così: noi abbiamo contribuito a creare un mondo diseguale, diceva uno molto più bravo più bravo di me, un mondo che andava dall’alfa del denaro all’omega della miseria. I nostri sistemi pubblici o i nostri sistemi sociali non sono riusciti in questo scorcio di secolo a correggere queste disuguaglianze. Di nuovo, non vi sto a intrattenere sul perché, se non dicendovi una cosa che ormai mi pare sia chiara a tutti e che lascio al contributo: per chi non ha voglia di perdere la memoria, diciamo che la crisi nella quale il mondo e quindi l’Italia è stato costretto a vivere, è figlia dell’incrocio perverso di due grandi variabili. Il marketing, che ha creato un’infinità di falsi bisogni e la finanza non italiana, che ha creato una gigantesca montagna di debiti che servivano spesso a soddisfare bisogni falsi. Questo ha prodotto un mondo diseguale, conoscere le caratteristiche del quale ci può servire a recuperare la memoria necessaria, intanto ad evitare che questo si ripeta, e poi a rendere la crescita, una crescita che produca occupazione buona e non soltanto indicatori economico-statistici rilevanti.
Io credo che questo sforzo vada lungo cinque traiettorie e preveda, per chi fa il mio lavoro, di avere cura di almeno quattro variabili. Le traiettorie: dovremmo cominciare a realizzare modelli plurali abbandonando modelli singolari. Il nostro Paese, nel decennio che ci siamo lasciati alle spalle, spesso si è occupato degli individui, di rado o quasi mai si è occupato delle comunità, intendendo con il termine comunità un numero di individui superiori ad uno che assumono, nel loro essere comunità per le ragioni più svariate, la dimensione della pluralità. Il nostro moderatore diceva che lo Stato non deve creare start up e basta, dando retta a degli individui che inventano o presumono di inventare, ma deve creare occupazione stabile, dando retta ad una pluralità di individui. Io sono d’accordo, penso però che creare le start up in un Paese che è assai scarso nella graduatoria dell’innovazione, serva ma non basti. Quindi, prima traiettoria: dovremmo cominciare a pensare al plurale e smetterla di pensare per forza al singolare. La seconda: penso che abbiamo il dovere di occuparci di una molteplicità di nostri concittadini che dobbiamo avere il coraggio di chiamare per quello che sono, poveri. In Italia, il paradigma della povertà è stato per troppo tempo taciuto. In Italia ci sono alcuni milioni di persone che sono prossimi, se non sotto, alla soglia della povertà. In Italia ci sono degli scarti clamorosi nelle statistiche che conosciamo, anzitutto in quelle che ci spiegano qual è il reddito pro capite dei nostri cittadini rispetto ai territori di cui il nostro Paese si compone. Terza questione: riguarda pienamente gli operatori pubblici. Per quanto posso, nel nostro rapporto con il sistema produttivo, tento di applicarla tutti i giorni: dovremmo smetterla di progettare offerte di sviluppo e occuparci di avere cura di chi domanda crescita. Le imprese italiane che sono straordinarie, il Presidente di Confindustria, assai meglio di me, dopo lo dirà, se non altro per ragioni di ufficio, domandano crescita, chiedono sostegno agli investimenti: e questa parte del mondo glielo deve dare e smetterla di progettare, come ha fatto per troppo tempo, traiettorie per lo sviluppo che, se non fossi in questa sede, definirei oniriche. Quarta traiettoria: dovremmo sforzarci tutti di semplificare e non complicare il rapporto tra i cittadini ed il potere. Uno dei lasciti più rilevanti che ci portiamo dietro dalla generazione che ci ha preceduto è una stratificazione insopportabile, labirintica delle forme che ha assunto la Pubblica Amministrazione in questo Paese, che non ha pari in nessun luogo del mondo e che non collude con il percorso investimenti-crescita-occupazione, ma sovente si contrappone, se non altro per darsi una ragione di esistere.
Quarta traiettoria: dobbiamo lavorare tutti, ognuno per quello che può, per semplificare e non complicare il rapporto tra i cittadini e il potere. Gente molto più letterata di me spiega quanti punti di PIL vale la semplificazione della Pubblica Amministrazione. Vorrei dare loro ragione, non perché non lo pensi, ma perché quei punti di PIL noi li abbiamo conseguiti. Quinta e ultima traiettoria: dovremmo provare per una volta a partire dal Sud e non dal Nord del nostro Paese. L’Italia è l’unico Paese che conosciamo in cui un terzo dei cittadini produce un quarto del PIL. Guardate che è terrificante la relazione tra questi due rapporti. 20 milioni di persone, che non sono una provincia basca, una regione dell’Irlanda o il Galles, diventa il principale attrattore di investitori esteri per varie ragioni, che dismette la leva fiscale, come altrove è difficile fare. Ma sono 20 milioni di persone, un terzo dei nostri cittadini, che producono un quarto del PIL. Penso che noi dovremmo averne cura.
Per fare che cosa? Quattro proposte e ho finito. La prima, che ho sussurrato e che adesso dico chiaramente: bisogna che ci occupiamo della domanda, della crescita. C’è bisogno che l’operatore pubblico accompagni le imprese che investono e che generano direttamente o indirettamente occupazione, reddito, crescita. Con un po’ di presunzione e con un minimo di orgoglio, dico che Invitalia quest’anno ha erogato 7 miliardi di euro, incentivi alle imprese, gli incentivi hanno una dimensione del tutto diversa da quella che avevano nel passato. Vi do due numeri; oggi l’indicatore di approvazione delle proposte di investimento che ci arrivano è il 32%, quindi viene approvata una proposta di investimento ogni tre. Chi ha voglia e tempo da perdere, si vada a studiare quello che succedeva dieci anni fa e che fine hanno fatto i denari dei cittadini che sono stati maldestramente usati. Secondo, il tempo medio di approvazione di un progetto di investimento è di novanta giorni, niente di più e niente di meno di quello che succede in tutto il mondo civile. Seconda traiettoria, l’ha già detta la dottoressa Furlan: noi dovremmo provare a recuperare il gap infrastrutturale, nelle infrastrutture immateriali e in quelle materiali, che avvinghia il nostro Paese per una desolante dimenticanza dei decenni precedenti. Faccio un solo esempio: io sono nato nella provincia più a Sud del nostro continente. Quando ero piccolo, cioè molti decenni fa, per decenza non vi dico quanti perché altrimenti dovrei dirvi quanti anni ho e ho la speranza che qualcuno lo scopra il più tardi possibili, per andare da Roma a Reggio Calabria in treno ci volevano cinque ore, che era lo stesso tempo che ci voleva per andare da Roma a Milano. Oggi, per andare da Roma a Milano per fortuna ci vogliono due ore e venti, per andare da Roma a Reggio Calabria ci vogliono cinque ore e mezzo, mezz’ora in più di alcuni decenni fa. Mi domando come faccia il Sud a creare occupazione buona. Terza e penultima proposta, noi dovremmo provare a smettere di autodefinirci il Belpaese, perché eravamo il Belpaese. Nel 1970, l’Italia era il Paese che attraeva più turisti stranieri del mondo. Oggi siamo sesti, quindi ci sono almeno cinque Paesi più belli di noi, secondo le classifiche. Tutti voi sapete che non è vero. Per converso, l’Italia è il Paese che ha la più alta concentrazione di siti Unesco al mondo. Il Paese che ha la più alta concentrazione di siti Unesco al mondo non può essere sesto nella classifica di quelli capaci di attrarre turisti stranieri. Forse, se ci occupiamo un po’ di più di integrare il turismo e la cultura, come solo negli ultimi due anni, forse tre, sta cominciando ad accadere… Guardate che il turismo e la cultura producono PIL, producono occupazione nuova, non producono solo viaggi. Quarta e ultima proposta, e mi taccio, avendo già abusato abbastanza del vostro tempo. Mio padre un lavoro se lo doveva trovare. Io un lavoro me lo dovevo cercare, che è già un po’ più complicato di trovare. Sono quasi sicuro che i miei figli un lavoro non debbano trovarlo, non debbano cercarlo ma debbano inventarselo. Se noi pubblico non aiutiamo, non accompagniamo, non comprendiamo questo paradigma e continuiamo a pensare che i lavori si trovano perché qualcuno ce li dà, oppure si cercano, cosa che pure esiste in una dimensione ragionevole, non che si inventano, penso che il professor Caffè continuerà ad avere ragione. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Passiamo dall’investimento pubblico all’investimento privato. Le banche sono disponibili a condividere il rischio di chi investe?
STEFANO BARRESE:
Questa è una risposta facile, direi di sì. Le banche lo fanno per mestiere. Devono evolvere nella comprensione del rischio. Il mondo intorno a noi sta cambiando significativamente. Devo dire che tutti gli interventi prima del mio l’hanno rappresentato molto bene. Si parla molto d’innovazione. In questi giorni riflettevo sul tema dell’innovazione e di quanto il mondo sia cambiato negli ultimi sette, otto anni. La crisi dal 2007, 2008 oggi ha portato tanti problemi, tanti danni ma ha portato un cambiamento tecnologico direi estremamente significativo. Elaborando qualche numero – e in alcuni casi bisogna guardare un po’ più al di là del nostro Paese, perché alcune traiettorie spesso non vengono determinate qui da noi ma avvengono in altri ambiti -, una delle cose che ho visto, che mi piace condividere con voi è quello che è avvenuto negli ultimi sedici anni, fra il 2000 e il 2016, sulle prime dieci aziende al mondo. Giusto per dare un’idea di quello che sta succedendo. Nel 2000, tra le prime dieci aziende al mondo, dove purtroppo non ci sono aziende italiane, sono per la maggior parte americane, non c’erano aziende del settore tecnologico e, lasciatemi dire, del mondo social. C’erano poche banche e assicurazioni, giusto due; la maggior parte erano aziende che noi chiamiamo della economia reale, aziende industriali, aziende del settore petrolifero. Avevano una capitalizzazione di circa 3 mila miliardi di euro, occupavano oltre 2 milioni di persone e facevano utili per 60 miliardi di euro. Sono passati sedici anni e la capitalizzazione delle prime dieci, di cui ne sono rimaste sostanzialmente due – le altre sono sostanzialmente aziende che fanno parte di questa rivoluzione tecnologica, aziende social, aziende digital, aziende del mondo informatico, aziende che producono questi strumenti -, capitalizzano circa il 50% i più, quasi 4500 miliardi, hanno prodotto 3 volte gli utili del 2000, ma hanno il 40% dell’occupazione che c’era nel 2000.
Partirei da questo dato che fa riflettere: l’innovazione tecnologica oggi non tiene conto della persona, l’elemento centrale diventa sempre più il profitto, la creazione di ricchezza. Delle prime otto persone più ricche del mondo, quattro sono nella lista delle prime dieci aziende che dicevamo per capitalizzazione: potete immaginare i nomi, hanno una ricchezza pari a 3,5 miliardi delle persone più povere del nostro pianeta. Ora, questo è il concetto di innovazione dal quale partiamo. Il nostro Paese per definizione è innovatore: qui a fianco ho il presidente Boccia, Vincenzo, con il quale abbiamo la fortuna, io dal lato del credito ma lui perché ne presiede gli imprenditori, un Paese che fa dell’innovazione dal punto di vista dell’industria, dal punto di vista della manifattura, che è un termine bellissimo. Oggi si sta perdendo questo aspetto, il coniugare innovazione e persona, un tema che ho sentito all’inizio e che ha ripreso anche il segretario Furlan. L’innovazione non deve essere vista come un concetto di tifoseria, si innova, punto, ma deve recuperare un concetto chiave che è la centralità della persona. Stiamo perdendo tutti il concetto della persona al centro. Si lavora perché la persona sia al centro, si innova perché la persona sia al centro. Il profitto è un mezzo ma il fine è la persona. Questo deve essere un concetto chiave che deve valere per tutti, un concetto che fa parte di qualunque intrapresa, che sia l’attività di un manager o di un imprenditore. Qualunque imprenditore fa parte della mia attività, e ho la fortuna di vederne tanti, imprenditori che io chiamo eroi, persone che nel 2008 – e non faccio nomi ma potrei farli – hanno perso il 40%, 50% del fatturato e, come il Presidente sa benissimo, insieme con le loro persone hanno deciso di ridurre lo stipendio, negli anni successivi hanno triplicato l’occupazione, erano già 4.0, se vogliamo usare un termine oggi assolutamente di moda. E questo è quello che deve muovere qualunque manager, qualunque imprenditore, altrimenti avremo un mondo sempre più concentrato su quattro o cinque persone che già oggi lo governano, non regolamentate, perché questo va detto, sempre più questo modo social, digital è non regolamentato, e questo sempre più porterà inevitabilmente, se perdiamo di vista la centralità della persona, a distruggere l’occupazione, non soltanto nel Paese che oggi muove l’innovazione globale ma anche da noi.
Poi, come banca, cosa facciamo? Qual è l’esperienza che possiamo portare come grande finanziatore privato? Valutiamo positivamente l’impegno che gli imprenditori ogni giorno mettono sul coniugare le cose che ho detto prima. Uno degli investimenti più importanti che come banca abbiamo fatto – e il presidente Boccia lo sa perché ho condiviso con lui, proprio prima dell’estate, i canoni con i quali valutiamo qualitativamente le aziende – è coniugare formazione e innovazione, due facce della stessa medaglia. E’ qualcosa che come banca facciamo, l’elemento che ci porta a erogare, come abbiamo fatto lo scorso anno, 48 miliardi per gli investimenti e le imprese, 25 miliardi nei primi sei mesi di quest’anno. Abbiamo già in pista, pronte per essere erogate, settemila richieste di investimento per il 4.0, un elemento che denota l’estrema vitalità dell’imprenditoria italiana. È tutto bello, è tutto positivo? Ma sicuramente la strada è quella corretta. Allora, l’impegno come banche è questo nei confronti dell’economia reale, ma è anche un impegno interno. Se c’è un ambito oggi estremamente impattato dalla rivoluzione digitale e tecnologica, è quello delle banche. Oggi è diventata banca Facebook, sta diventando banca Paypal, lo è già Amazon, non regolamentate. Ma come banca, che cosa abbiamo cercato di fare? Coniugare la tecnologia, il digital con l’occupazione. Negli ultimi tre anni abbiamo integrato tutti i canali della banca, non abbiamo creato una banca online senza le persone, che sicuramente era un percorso più facile e meno costoso, abbiamo investito significativamente per mettere la tecnologia a disposizione delle persone dentro la banca, i colleghi e delle persone fuori dalla banca, i clienti. E questo ci ha consentito non soltanto di mantenere l’occupazione in Intesa San Paolo, anzi, l’abbiamo incrementata perché in questi anni abbiamo assunto oltre 3000 persone ma anche di poter rispondere positivamente nel contesto dello stress avvenuto sulle banche venete. Perché il coniugare la tecnologia con l’innovazione è uno degli elementi che ci consentirà di gestire attivamente i colleghi che sono entrati a far parte del nuovo perimetro. Penso che questo possa essere un aspetto importante su come vedere innovazione e persona, perché altrimenti il trend che abbiamo davanti, inevitabilmente, se non gestito – condivido il concetto degli Stati Uniti d’Europa, ma basterebbe un’Europa più attenta a questi aspetti -, diventa ingovernabile. Quello che stiamo cercando di fare è provare a supportare naturalmente l’occupazione, l’imprenditoria, ma allo stesso tempo cercare di rimanere al passo con i tempi, con la nostra attività che è quella della banca commerciale. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
È evidente che la creazione dei posti di lavoro riguarda prima di tutto le imprese. E sono state fatte tante osservazioni anche rispetto a questa capacità delle imprese di creare lavoro. Lei ha sempre messo a tema la positività come faro delle azioni, perché è una precondizione, oltre l’innovazione, per rendere competitivo il sistema imprenditoriale italiano.
VINCENZO BOCCIA:
Intanto grazie per l’invito: devo dire che il filo rosso che collega un po’ tutti gli interventi e richiama il titolo di questi giorni a Rimini – di cui vi sono grato -, è questo collegamento a una grande coerenza d’identità culturale su cui dobbiamo sforzarci insieme, corpi intermedi, attori dell’economia, per realizzare parte di un percorso comune. Lavoro-progetto di vita: questo vedo nelle parole di Barrese, Arcuri e Furlan. La necessità di dare valore al lavoro in una società in cui tutto sembra semplice e che di colpo sembra dimenticare anche le criticità del Paese, a partire dal grande debito pubblico che abbiamo. Pare che a breve ci mandino il reddito a casa e abbiamo risolto tutto! Dare valore al lavoro comporta un’idea di società del presente e del futuro, una società post-ideologica, una società in cui scuola, università, lavoro sono parte del progetto di vita dei cittadini, e non separati, una cosa è il lavoro, cosa diversa la formazione. E’ molto bello ascoltare Annamaria Furlan che richiama la questione della formazione interna alle aziende e non teorizza la formazione esterna alle aziende, perché noi abbiamo vissuto una fase storica in cui parlare di formazione nelle aziende sembrava un elemento di negatività. E questo ci aiuta a riportare all’attenzione del Paese la questione industriale, la dignità di un Paese, il collegamento tra la famiglia, i figli, le imprese future. Con una necessità che è anche interna alle imprese italiane, che devono fare un grande salto culturale di qualità.
Nel dopoguerra, noi abbiamo vissuto imprese che possiamo definire patriarcali (Stefano Barrese potrebbe insegnarcelo, perché lo vede dal punto di vista di valutazione delle banche). Poi siamo passati, tra gli Ottanta, Novanta, fino agli anni Duemila a imprese familiari. Oggi il salto è nelle imprese istituzione, dove si distingue la proprietà dal management, più competitive in ogni funzione aziendale, in grado di rappresentare presso l’opinione pubblica, in contesti come questo, l’idea che l’impresa di per sé è una comunità. Non esiste l’impresa e il lavoratore o l’impresa e l’imprenditore. All’interno dell’impresa, esiste l’imprenditore e il lavoratore; in alcuni momenti c’è convergenza, in altri no. E allora, proprio l’anno scorso, abbiamo sottolineato da questo palco, con Confindustria, l’importanza di una politica selettiva, perché non avendo grandi risorse nel Paese, dobbiamo scegliere dove metterle. Quella politica selettiva poi è stata recepita in gran parte dal Governo del Paese. Ne è derivato il Piano Industria 4.0, che ha determinato indici positivi (maggiore export, maggiore PIL). Certo, i divari ci sono ancora, non abbiamo risolto, ma ci dice che gli effetti sull’economia reale di alcune scelte selettive hanno avuto un loro ritorno. Ma dietro quella idea di politica economica (e qui c’è il punto di caduta, che secondo me potrebbe diventare una grande svolta), c’è un’idea di società: una società aperta, che include, che ci obbliga ad essere coerenti ed esemplari, una società che potremmo definire una società per un’industria 4.0, che costruisca una società 5.0. Imprese, lavoro, famiglie: e non c’è antitesi.
Se leggiamo con attenzione il programma del Presidente Macron, a parte la questione risorse, che lui mette sul tavolo in maniera superiore rispetto all’Italia, dati i limiti del debito pubblico che abbiamo, lui fa un piano di legislatura e noi ci avviamo a una Legge di bilancio: dovremmo distinguere tra le proposte da fare al Governo per la Legge di bilancio e un piano di legislatura, perché molte volte vediamo una confusione tra piano di legislatura e Legge di bilancio. Sui 50 miliardi di euro che Macron prevede per la politica economica della Francia, 30 riguardano lavoro e imprese. E dichiara esplicitamente, nel suo programma (non ce lo manda a dire), che l’ambizione della Francia è diventare il secondo Paese industriale d’Europa, cioè prendere il posto dell’Italia. C’è una concorrenza tra Paesi europei: sicuramente armonica, positiva, ma c’è. L’Inghilterra sta riproponendo, con la questione del Nord, la questione industriale. Il presidente Trump pone la questione industriale. Non parliamo della Cina. Noi siamo il secondo Paese industriale d’Europa. Diamo per scontato di esserlo. Gli altri vorrebbero essere come noi e addirittura fanno a gara per diventarlo. E allora, forse, la questione industriale, dal punto di vista prettamente etimologico, deve essere la questione industriale del Paese e non la questione degli industriali, perché negli anni passati l’errore ideologico è stato che la questione industriale era questione degli industriali. Ma forse, puntare sull’industria competitiva, intesa in senso largo (industria manifatturiera, del turismo, del servizio e della cultura delle costruzioni), è una sfida del Paese. E allora, ritorniamo al primato della politica e anche al ruolo dei corpi intermedi. Ricordo una bellissima frase di Joaquin Navarro Valls, deceduto qualche mese fa. Quando una giornalista in una tavola rotonda a cui partecipai qualche anno fa, gli chiese: “Qual è la cosa che più l’ha colpita nel suo vissuto insieme a Papa Wojtyla?”, lui rispose: “Riusciva a distinguere le cose urgenti dalle cose importanti”. Io penso che questa sia la sintesi della politica. In una fase delicata e difficile del Paese, noi dobbiamo distinguere le cose urgenti dalle cose importanti, ritornando ai fondamentali. Cito una seconda frase, a me molto cara in Confindustria, di Jean Monnet, perché ci richiama alla questione europea: “I miei obiettivi sono politici, le mie spiegazioni sono economiche”. Noi dobbiamo ritornare alle spiegazioni economiche. Se la politica è distratta, i corpi intermedi dello Stato servono a ri-sottolineare l’importanza delle spiegazioni economiche per obiettivi politici. E quindi, noi rivendichiamo il ruolo politico di Confindustria. Chi dice che i corpi intermedi non devono fare politica non ha capito nemmeno il termine della relazione tra politica e partiti. I corpi intermedi devono fare politica, perché quando la Furlan pone una questione di politica economica, fa una scelta, così come quando lo fa il Presidente di Confindustria. E allora, possiamo noi continuare su quella idea di politica economica selettiva che richiamavo l’anno scorso proprio da questo palco, per fare un percorso inverso a quella che è la modalità di idea di politica economica che è venuta dall’Europa ed è arrivata anche in Italia. Possiamo noi definire, se condivideremo gli obiettivi, quali effetti vogliamo realizzare sull’economia reale, e quindi quali strumenti abbiamo necessità di attivare, e quindi quali risorse, e quindi quali saldi di bilancio? Cioè, non partire dai saldi di bilancio prescindendo dagli effetti dell’economia reale ma fare esattamente l’inverso: partire dagli effetti che vogliamo realizzare nell’economia reale per arrivare ai saldi di bilancio. Allora, il Piano Industria 4.0 dimostra che individuando strumenti selettivi cresce l’export. E che cosa significa che cresce l’export? Se cresce del 7% significa +28 miliardi di euro circa, che sono ricchezza che il Paese attrae al suo interno, vendendo prodotti e servizi nel mondo. Dobbiamo aggiungere l’attrattività turistica, di cui parlava Arcuri. Allora, su questo aspetto è evidente che la crescita diventa una pre-condizione per contrastare le diseguaglianze e povertà, e non più il fine. Questa è una società moderna, post-ideologica, in cui le parti corresponsabilmente costruiscono una coerenza culturale di pensiero per evitare che l’innovazione diventi una forma di capitalismo selvaggio, in cui la questione sociale della diseguaglianza aumenta i divari e non li riduce. Noi dobbiamo scambiare crescita con contrasto di diseguaglianze e povertà. E possiamo farlo come europei e come italiani.
La questione industriale diventa allora un elemento essenziale e va fatta con un metodo che è quello della corresponsabilità: collaborare insieme per la competitività di una società. Una società che molto spesso vive di conflitto, la società italiana, una società in cui la formazione continua deve essere un elemento essenziale, una società in cui costruire un incremento dei salari attraverso lo scambio salario-produttività e quindi la detassazione, per esempio, dei premi di produzione, perché la politica fiscale può agevolare scelte importanti nella logica delle relazioni industriali. E qui, entra il Piano Giovani che significa: se abbiamo poche risorse, cerchiamo di capire dove vogliamo indirizzarle, se concentrarle in maniera non esclusiva ma importante su alcuni aspetti, per esempio i giovani, costruendo un’operazione massiva. Secondo il Centro Studi di Confindustria, un azzeramento del cuneo fiscale sui giovani assunti a tempo indeterminato per i primi tre anni significa 900 mila posti di lavoro per il Paese, ma significa anche dare un messaggio che è coerente con questo titolo, dare valore al lavoro. E significa anche includere i giovani, permettendo loro di definire un progetto di vita e quindi attivando la domanda (perché se domani so di essere nel mondo del lavoro a tempo indeterminato, attivo un’idea di vita totalmente diversa). Ma significa anche rendere più competitive le imprese, che assumono in una logica premiale, e quindi attrarre nativi digitali nelle imprese per costruire quel percorso di formazione. In sintesi, significa fare comprendere all’opinione pubblica che non c’è dicotomia tra famiglia e imprese, perché quei giovani sarebbero i figli delle famiglie italiane.
Questo è un elemento essenziale, perché se Macron, che viene da un Paese industriale ma non al livello dell’Italia, comprende che il futuro della Francia passa attraverso la manifattura e l’impresa, e questo lo fanno gli altri, evidentemente ritornare ad avere attenzione alla questione industriale del Paese è un elemento sostanziale, prioritario della politica italiana, in cui i corpi intermedi assumono una grande responsabilità di proposta, di visione, di contestualizzazione su questi aspetti importanti. E allora, guardate, noi abbiamo potenzialità incredibili perché un’impresa italiana, rispetto all’impresa tedesca paga il 30% di costo di energia in più, il 20% di global taxation in più, uno spread più alto, eppure siamo secondi. Non metto i tempi della giustizia e altri deficit di competitività. Questo ci dice che come Paese abbiamo grandi criticità, ma ci dice anche che se lavorassimo su un progetto di medio termine per ridurre parte di questi deficit di competitività, noi potremmo ambire ad essere il primo Paese industriale al mondo, e non è un sogno gratuito. Se siamo secondi con questi deficit, sfiderei qualsiasi Paese, tra l’altro, a fare il secondo. Questo significa avere una consapevolezza che mi sembra chiara nelle parole di tutti noi e cioè la consapevolezza che da soli possiamo fare tanto ma da soli non ce la faremo. Chiaramente, dobbiamo essere coprotagonisti e corresponsabili e chiederci come sarà il nostro Paese tra qualche anno e costruire una stagione della consapevolezza e ragionare, come dice Arcuri, in termini plurali, con una sorta di leadership collettiva. Ecco, in questo Paese manca una presa di coscienza di leadership collettiva, dobbiamo farlo da cittadini europei e di nazionalità italiana, in un’Europa che ci ha educato alla tolleranza, alla convivenza di civiltà diverse, che ha messo insieme economia e dimensione sociale, in un’Europa in cui la crescita diventa un elemento importante, in cui dobbiamo cercare di restituire ai nostri figli una società migliore. Il che non significa non fare conquistare loro quello che hanno conquistato i loro padri, ma difendere la loro libertà, che è una questione totalmente diversa. E questa è una sfida europea, che non è tra Paesi d’Europa. Altro errore che fa la Francia, è quando difende alcune questioni a danno di Fincantieri. Qui la sfida è tra Europa e mondo esterno e non tra Paesi d’Europa. Se noi immaginiamo di vincere la sfida facendo una sorta di concorrenza inversa tra Paesi d’Europa e non comprendiamo quello che stanno facendo la Cina e gli Stati Uniti d’America e altri, e continuiamo a dibattere sulla dimensione di concorrenzialità, anziché di armonia della politica economica europea, costruendo le infrastrutture per le basi di grandi campioni europei e non italiani, evidentemente abbiamo sbagliato linee politiche.
E in questo, l’Italia può giocare una grande partita: primo perché è un grande Paese industriale; secondo, perché ha una visione dell’Europa meno miope di altri Governi; terzo, perché, dopo Brexit, insieme a francesi e tedeschi noi potremmo giocare una partita da coprotagonisti, e il ruolo dei corpi intermedi nel Paese diventa determinante.
E’ evidente che, quando poniamo la questione dei giovani, non poniamo la questione dello scontro generazionale ma della equità generazionale, che è una cosa diversa. Se scoprissimo che le risorse non sono alte, dovremmo interrogarci sulla questione delle priorità temporali (cosa fai prima: i giovani o altro?). E insieme possiamo fare un’operazione in cui, in termini di priorità temporali, possiamo pensare a un’idea diversa di Paese, che ritorna a quei fondamentali dell’economia che non sono un aspetto marginale ma sostanziale della società. Ce lo insegnano i padri fondatori dell’Europa: su questo dobbiamo costruire, sognando un’idea di società diversa. Chiudo con una bellissima frase di George Bernard Shaw, a me molto cara, che dice: “Ci sono persone che vedono le cose e si chiedono: perché? Ci sono persone che sognano le cose e si chiedono: perché no?”.
Mi auguro di incontrare nella mia vita associativa, privata e professionale sempre persone della seconda categoria, cioè quelli che sognano le cose e si chiedono: perché no?. Quelli che vedono le cose e si chiedono: perché?, mi fanno un po’ impressione, per essere generoso con i termini. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Il tempo purtroppo non ci permette di fare un secondo giro di domande di approfondimento, come era previsto. Ma penso che siano emersi aspetti importanti. Abbiamo iniziato con l’Europa, abbiamo chiuso con l’Europa, come dimensione nella quale si deve giocare una competitività condivisa. Abbiamo visto la necessità di costruire un patto generazionale, rafforzare le famiglie, evitare contrapposizioni artificiose. Abbiamo parlato di uno sviluppo inclusivo, che guarda ai territori svantaggiati e anche alle fasce di popolazione svantaggiate. Abbiamo parlato della centralità della formazione anche in forme nuove, diverse da quanto abbiamo fatto finora. Abbiamo parlato del profitto, non come scopo ma come strumento, dell’innovazione che mette al centro la persona (penso che questo sia stato tra l’altro un tema molto trasversale, non scontato). Abbiamo sentito parlare di una leadership collettiva che, paradossalmente, dice che ognuno si deve assumere le sue responsabilità. Io mi permetto solo di suggerire una impressione personale: quando siamo venuti qua, abbiamo visto i bambini nei battelli sulle piscine. Io penso che lavorare bene su questi temi, fino in fondo, avendo in mente loro, il loro futuro, il loro destino, vuole dire essere veramente responsabili, anche per i loro nonni e i loro genitori. Perché se il loro destino è buono, sarà buono anche il destino di chi li ha messi al mondo e di chi li sta educando. Oggi ci sono stati tanti spunti: insieme agli altri emersi in questo Meeting, ci accompagneranno nel nostro lavoro e nel nostro impegno. Ringrazio chi è intervenuto, ringrazio voi e vi auguro una buona serata.