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LAVORARE NEL TEMPO DELLA CRISI. LAVORARE NEL NON PROFIT
UN CAFFÈ CON… Monica Poletto, Presidente Compagnia delle Opere – Opere Sociali. Introduce Francesco Liuzzi, Docente Scuola di Impresa della Fondazione per la Sussidiarietà.
Diamo inizio al consueto appuntamento con il “Caffè con”. l’ospite di oggi è Monica Poletto, Presidente della Compagnia delle Opere.
FRANCESCO LIUZZI:
Diamo inizio al consueto appuntamento con il “Caffè con”. l’ospite di oggi è Monica Poletto, Presidente della Compagnia delle Opere.
MONICA POLETTO:
Grazie.
FRANCESCO LIUZZI:
Ho come l’impressione che l’introduzione sia superflua. Monica Poletto, Presidente CdO, Opere sociali, nonché commercialista ha accettato di essere qui oggi. Io volevo solo introdurre velocemente l’incontro di oggi dicendo due cose. La prima è questa: c’è una frase dell’enciclica recentemente pubblicata che a me ha molto colpito. Dice: “Il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Questa è l’esigenza dell’uomo nel momento attuale, ma è anche l’esigenza della stessa ragione economica.” Una frase ai miei orecchi piuttosto sorprendente, una frase che ha trovato eco ieri su questo palco quando uno dei due imprenditori super-profit ha detto: “In fondo l’impresa non è altro che una comunità di persone impegnate a rispondere a un bisogno”. Cito queste due cose perché adesso Monica ci racconterà di sé e della sua esperienza riguardo all’impresa sociale, al non profit, però mi sembra da subito interessante affermare che il non profit con le sue dimensioni caratterizzanti è qualcosa che interessa tutti. Ieri infatti abbiamo sentito degli imprenditori profit descrivere la propria realtà parlando del tema della gratuità e della comunità. Quindi è interessante per tutti. Partirei allora chiedendo subito a Monica di spiegarci che cos’è il non profit.
MONICA POLETTO:
Prima mi presento brevemente?
FRANCESCO LIUZZI:
Anche non brevemente.
MONICA POLETTO:
Sono Monica Poletto, vengo da Torino e questo è assolutamente fondamentale, perché un po’ di amici torinesi sono presenti. Non sono di Milano. Io di mestiere faccio e ho sempre fatto la commercialista. Ho studiato Economia e Commercio e ho iniziato a fare la commercialista in modo molto classico, con una grande passione, indottami da un certo lavoro svolto dentro la CdO, per le realtà non profit. La mia passione fortunatamente ha trovato lo spazio di una professionalità: ho trovato cioè uno studio che ha voluto investire su di me e col tempo è diventata una specificità anche del mio mestiere, nel senso che io mi occupo soprattutto di diritto tributario e forme societarie legate agli enti non profit. Questo tipo di specializzazione ha voluto dire poi tante cose, ma ci tengo a dirlo perché introduce un tema che lanceremo dopo: la non genericità del lavoro del non profit, ma mi fermerei qui. Ho iniziato a lavorare tanto, con convinzione e soprattutto nel rapporto con l’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà. Abbiamo seguito molti progetti di legge, primo fra tutti l’ammiraglia “5 per mille” e dentro questo lavoro è maturata l’idea che io prendessi la presidenza della CdO per i sociali, cosa che è avvenuta a febbraio di quest’anno. Puoi rifarmi l’altra domanda?
FRANCESCO LIUZZI:
Che cos’è il non profit?
MONICA POLETTO:
Allora, possiamo andare via tutti perché in realtà il non profit non esiste. Dico questo un po’ provocatoriamente e un po’ perché il termine non profit è che abbiamo introdotto nella nostra cultura non ha un perfetto equivalente in Italia. È un punto problematico, perché non profit è veramente tutto, nel senso che ci sono svariate forme giuridiche – associazioni, fondazioni, cooperative sociali – che hanno come filo conduttore l’interesse alla persona, però nel non profit troviamo le cooperative che fanno inserimento lavorativo, i centri culturali, le fondazioni che gestiscono scuole e tanto altro. Voi capite che differenze di management, di governance, di accesso ai finanziamenti ci sono. Nel non profit ci sono svariati settori di attività, diverse forme, realtà piccolissime e grandissime, realtà locali, nazionali e internazionali. Perciò, dire non profit è una cosa un po’ complessa. Allo stesso tempo, se io devo definire un filo conduttore, la cosa che mi piace tanto è che, ne parlavamo prima, il non profit ha una caratteristica formale, cioè gli enti non profit non distribuiscono utili, e a me piace questa idea, che non è totalmente accessoria, ma è un’idea che attiene alla natura dell’ente, cioè l’ente non profit è gratuito per natura giuridica. C’è una aspetto di gratuità che non è una scelta opinabile, ma attiene alla propria natura. Questa cosa, che potrebbe sembrare un tecnicismo giuridico, in realtà, portata alle sue estreme conseguenze, detta la specificità dell’ente non profit.
FRANCESCO LIUZZI:
Nella letteratura manageriale le organizzazioni non profit sono viste come organizzazioni guidate più da una spinta ideale che da una struttura metodologica. Su questo penso che sia importante fare un appunto.
MONICA POLETTO:
Io ho detto queste cose anche riflettendo su quel che vedo e che sto vedendo. In questi mesi all’interno della CdO non profit mi sono accorta di una cosa: che c’è una cosa che mi piacerebbe. Mi succede spesso di vedere, un po’ per i master che ho dovuto fare, che sono tanti, soprattutto ragazzi, a volere lavorare nel non profit, e io su questo penso due cose che rispondono alla tua domanda. Da un punto di vista culturale, in Italia soprattutto, bisogna sfatare il mito del non profit. Bisogna sfatarlo innanzitutto perché spesso all’interno dell’idea di non profit si nasconde un certo manicheismo: c’è profit-cattivo e non profit- buono. Spesso c’è una spinta ideale, si vuole lavorare nel non profit perché si identifica un certo tipo di idealità che non diventando metodo, oltre a distruggere l’opera, distrugge la persona. Un famosissimo, glorioso imprenditore, che l’anno scorso era su questo palco, Beppe Ranalli, mi ha detto una cosa legata al mondo imprenditoriale che mi ha colpito. Discutevamo del fatto che da lui vanno tanti ragazzi a dire: “Voglio fare l’imprenditore”, e io gli ho risposto che a me invece vengono a dire: “Voglio lavorare nel non profit”. E mi ha colpito perché lui mi ha detto che cosa rispondeva a quei ragazzi: “Non è vera la tua domanda, tu non vuoi fare l’imprenditore, tu hai visto un orologio che ti piace tantissimo e vuoi imparare a farlo bene”. Questa è la stessa cosa che succede a me: non è vero che in tanti vogliono lavorare nel non profit, il lavorare nel non profit viene in seconda battuta, prima invece c’è altro. Per esempio il fatto che hai incontrato un certo tipo di bisogno che ti ha colpito, che ti ha interpellato personalmente; hai intuito una possibilità di un percorso professionale utile per te, eccetera. In questo senso dico sfatiamo il mito: il lavoro nel non profit è innanzitutto lavoro, anche se con delle peculiarità.
FRANCESCO LIUZZI:
Ecco, torno ancora alla mia domanda di prima per chiederti un altro approfondimento sul metodo ideale. Spesso si ha quasi la percezione viscerale che il metodo ideale contenga due polarità e io volevo capire se nell’esperienza che stai facendo il metodo, anche nella sua dimensione formale, quindi definire gli organi di governance, ad esempio, è un qualcosa che permette all’ideale di esprimersi o è qualcosa che inevitabilmente lo deve costringere.
MONICA POLETTO:
Parliamo al Meeting, l’ideale si è fatto carne e ha molto da dire sull’imprenditorialità. Io e gli amici con cui faccio la CdO ci stiamo interrogando molto su questo punto e stiamo accettando il fatto che non esiste una idealità e poi una tecnicità, perché se l’ideale resta ad un livello esortativo e non si incarna nelle modalità operative che dettano l’operatività dell’impresa sociale non serve. L’impresa sociale è un oggetto paradigmatico. È importante rispetto a questo punto l’osservazione che facevo prima: noi dobbiamo innanzitutto accettare la coincidenza tra forma e sostanza che inserisce l’idea di gratuità addirittura nella forma giuridica dell’ente non profit. Questo mi piace molto. Pensandoci, anche l’impresa o è gratuita o non è veramente se stessa. Ogni azione umana deve attingere a questa immediata gratuità. L’ente non profit non può fare a meno di questa idea che è il suo costitutivo. Per cui, per esempio, il prendere sul serio la propria forma societaria è eccezionale perché attiene alla propria natura. Se una idealità, da cui sempre parte un opera non profit, rimane un’esortazione si fanno dei disastri. Infatti mi hanno colpito molto quelle opere, sia di CdO che non di CdO, che ci vengono a trovare dicendo: “Ci accorgiamo che crescendo perdiamo l’impeto originale”. Che cosa vuole dire crescere senza perdere l’impeto originale? Significa ripetere continuamente la ragione originale per cui è nata l’opera. Questo lo dico perché c’è un problema enorme di governance. È evidente che in tutte le organizzazioni umane, e particolarmente nelle nostre, c’è un problema di governance serio. Sono tutti così presi dall’impeto ideale che si sentono presidenti dell’opera, perché spesso dentro una certa idealità non c’è una specificazione delle competenze, e questo penalizza gravemente il lavoro dei giovani che non sanno neanche che il progetto è il mezzo e non lo scopo. Noi siamo molto attenti a guardare veramente le operatività e le specificità che nascono da una certa idealità. Faccio un esempio, perché devo fare un po’ di pubblicità. L’anno prossimo sulla scia dei nostri maestri della Scuola d’Impresa, parte la Scuola d’Impresa Sociale che ha tutte le caratteristiche di una scuola d’impresa di CdO, e accetta la specificità degli argomenti dell’impresa sociale. Banalmente facciamo i corsi sul fund raising, perché mentre una azienda profit può farne meno, noi assolutamente no, oppure facciamo corsi sul marketing sociale, su cosa significa fare progetti, sulla gestione delle persone, tenendo conto del fatto problematico che gente pagata e volontari lavorano insieme e fanno insieme i consigli d’amministrazione, così che spessissimo non è chiaro chi detta i passi dell’attuazione delle finalità e chi gestisce l’operatività. Chi lavora nelle opere sa di cosa parlo.
FRANCESCO LIUZZI:
Hai usato questa espressione forte: “L’impresa sociale è un oggetto paradigmatico”.
MONICA POLETTO:
Si, mi dispiace perché è l’unica definizione che sono riuscita a dare per ora.
FRANCESCO LIUZZI:
Questo mi sembra interessante perché se la gratuità, o come dice l’enciclica, “la dimensione ineludibile dell’attività economica in quanto tale”, è dentro in maniera esplicita a un certo tipo d’impresa, bisogna capire in che senso l’oggetto può essere paradigmatico per tutti. Dico questo perché per molti anni la letteratura manageriale tendeva ad assimilare, in maniera anche un po’ goffa, strumenti, modelli e concetti del profit che adesso sta invece mettendo in discussione. Allora, che tu dica che l’impresa sociale è un oggetto paradigmatico mi sembra molto interessante. Vorrei che tu spiegassi meglio questo punto.
MONICA POLETTO:
Secondo me nella vita bisogna azzeccare il metodo per andare avanti. Tanto per dirla in termini noti, bisogna guardare quello che emerge dall’esperienza, perché mi ha colpito il fatto che tanti imprenditori vengano nelle nostre opere e trovino un rilancio ideale sul proprio mestiere. Questo succede di continuo. Il dato sommamente interessante è rimango colpita da qualcosa che è anche mio, cioè, non si tratta solo della specificità dell’impresa sociale ma anche di qualcosa che attiene alla mia operatività. Infatti il maestro e presidente di questa fondazioncina, Giorgio Vittadini, ha sempre detto che c’è un certo tipo di imprenditoria sociale nel DNA dell’impresa. I primi asili in Italia li hanno fatti gli imprenditori che avevano il problema che le donne potessero andare a lavorare. Per questo facevano l’asilo attaccato all’azienda. Oppure una volta Vittadini diceva: “Mi spiace un po’ per chi ce l’ha come mestiere, però a noi non interessa la responsabilità sociale dell’impresa se non come punto paradigmatico, perché è educativo anche per tutto il resto”. Mi sembra che si collochi qui la specificità dell’ente non profit che, più che definita, può essere descritta.
È il momento degli esempi. Su questo tema ce n’è uno che abbiamo già sentito fare ma che voglio spiegare perché mi colpisce tantissimo: La contrada degli artigiani che ha fatto Cometa. Penso che molti dei presenti sappiano che cos’è. Cometa è una realtà dove delle famiglie, dopo avere scoperto una gratuità sulle proprie vite, hanno cominciato a fare un certo tipo di accoglienza, che col tempo è diventata sempre più ampia, aggregando altre famiglie e diventando una vera cittadella piena di bambini. Queste famiglie, pur nella specificità del proprio nucleo familiare, si aiutano ad accogliere i bambini e quando crescono si preoccupano anche di cosa fargli fare da grandi perché non tutti possono andare alle scuole superiori, perché magari sono bambini che hanno avuto percorsi un po’ particolari, difficili. Di conseguenza sono tesi a fargli imparare un mestiere. Allo stesso tempo Erasmo, uno dei papà fondatori di questa realtà, si occupa a un livello imprenditoriale molto alto di tessuti, e si strugge all’idea che buona parte della filiera tessile e di un certo tipo di artigianato legato al tessile muoia. Dico che muore perché i suoi figli non fanno più quel mestiere lì. E lui si strugge per il tessile e per i suoi ragazzi, e da questi due struggimenti viene fuori l’incontro, nel senso che molti dei ragazzi che accolgono hanno iniziato ad andare in bottega e a perpetuare un mestiere storico e importantissimo per quella zona, per il comasco. Perciò, mettendo da parte l’enorme vantaggio che rappresenta per i ragazzi, che vanno in bottega e imparano un mestiere, paradossalmente il vantaggio più grande è degli imprenditori che in questo modo hanno anche trovato degli allievi, hanno ritrovato tutta la dignità e la bellezza del mestiere per cui hanno dato la vita, riscoprendosi maestri. Questo è un esempio emblematico, nella sua specificità, di un certo tipo di rapporto che nasce.
Poi abbiamo evidentemente gli esempi ammiraglia tipo il Banco Alimentare, che non dettaglio ora perché penso che si conosca bene. Dico queste cose per mostrare come la separazione tra profit e non profit non appartenga né storicamente né culturalmente al nostro paese: non è nel DNA italiano. È piuttosto indotta da una mentalità manichea che non è la nostra, non esiste nella nostra storia.
FRANCESCO LIUZZI:
Prima parlavi dei giovani che vogliono lavorare nel mondo del non profit. La domanda è: dal punto di vista dei mestieri esiste il non profit? Ha delle competenze specifiche, particolari?
MONICA POLETTO:
Io non penso che esistano: parlare di mestieri particolari mi sembra un po’ forte. Credo però che ci siano mestieri che hanno pesi diversi all’interno di certe organizzazioni non profit rispetto al peso che avrebbero all’interno di un’organizzazione profit, proprio per la diversa struttura dell’impresa sociale. Anche qui faccio degli esempi: l’impresa, l’imprenditoria sociale ha un problema serio di risorse, che sta diventando serissimo, perché storicamente vive tanto di contribuzione pubblica che però non le fa onore. Noi lo diciamo spesso in CdO che l’ente non profit è considerato il sub-fornitore a basso costo di servizi decisi da altri: io decido il servizio, decido come devi farlo e tu lo fai però a un po’ di meno. Si capisce che questo è avvilente e dice anche di un problema serio di programmazione.
C’è un altro tipo di problema: l’impresa sociale in moltissimi casi non può e, secondo me, non potrà mai vivere di solo mercato, perché un certo tipo di utilità sociale che viene prodotta non ha un corrispettivo economico. Faccio un esempio, magari un po’ banale. Se io alla Piazza dei mestieri di Torino, per dire di una realtà che conosco bene, ho dei ragazzi bravissimi che imparano a fare i cuochi dentro un ristorante, e poi devo vendere la pasta asciutta che fanno, io la devo vendere a un prezzo di mercato, perché non posso pensare che uno che va lì a cena paga 500 euro. Allora la paga 35. Tutto i costi sostenuti per fare sì che questo ragazzo, molto probabilmente uscito dal percorso scolastico con tantissimi problemi da tutti i punti di vista, arrivi a fare bene una pastasciutta, io non posso buttarlo sul costo della pastasciutta. È un esempio banale, ma chi mi restituisce quei soldi che ho speso? Voglio arrivare a dire che banalmente, nel mondo del non profit, chi sa fare bene il “fund raising” ha una risorsa in più eccezionale. Questo mestiere in una realtà non profit ha un peso ben diverso rispetto ad altre realtà profit. Ho detto bene? Poi dopo possiamo fare anche altri esempi.
FRANCESCO LIUZZI:
Facciamone altri.
MONICA POLETTO:
Ci sono tutti gli esempi di inserimento lavorativo di soggetti disabili. Guardando in giro, ho scoperto che bisogna uscire dalla retorica della centralità della persona generica, e guardare veramente le persone come risorse. Si fanno delle scoperte eccezionali. C’è un museo che tiene dei ragazzi down a fare le guide. È una cosa bellissima perché questi ragazzi sono bravi a fare le guide perché sono molto affettuosi e quando gli metti in testa qualcosa se la ricordano. Questa è una specificità dei ragazzi down e quelli del museo l’hanno vista come un valore e ne hanno fatto una cosa che per questi ragazzi ha grande dignità. Allo stesso tempo, non tutti i mestieri possono accogliere dei ragazzi con problemi. Ci sono tante realtà che hanno iniziato a lavorare nel verde e il lavoro nel verde aiuta tantissimo, per cui anche in questo settore certe persone sono molto produttive. Da certi punti di vista, però, è pur vero che ci sono tipi di inserimenti lavorativi, certi cablaggi che li farà sempre più veloci una macchina rispetto a una persona compromessa.
Un altro esempio e poi finisco. Oggi è fondamentale imparare a comunicare bene chi siamo: a me fa ridere ogni tanto leggere dei volantini, non solo nostri, che usano tantissime pagine di spiegazioni e poi alla fine non si capisce che cosa fanno. Comunicare chi si è, è eccezionale, però implica una coscienza enorme del tipo di utilità sociale che io produco, del numero di “stakeholder” a cui mi rivolgo, della capacità o meno di attenzione che queste persone hanno, del tipo di messaggio sintetico che voglio dare. Questo è un mestiere. La ragazzina uscita dall’università, laureata in lettere, che sa scrivere bene non basta. Sono mestieri che bisogna imparare.
FRANCESCO LIUZZI:
La serie di incontri “Un caffè con” quest’anno ha come titolo “Il lavoro al tempo della crisi”. Io volevo sapere se nel non profit si sente la crisi o se non si sente, se ha fatto nascere delle idee. Insomma, che cosa è successo nel non profit con la crisi?
MONICA POLETTO:
La crisi impatta a tal punto che uno dei due filoni della Scuola opere di carità di quest’anno avrà come titolo “Fare le opere in tempo di crisi: fare le opere senza soldi”. Abbiamo capito che su questo ci si deve impegnare un attimo. Il Paese si è accorto che c’erano le realtà non profit al tempo della crisi innanzitutto, perché senza un certo tipo di tessuto sociale non ce l’avremmo fatta. Adesso c’è il Banco Alimentare che presenterà una bella ricerca in cui dettaglierà la situazione della povertà in Italia, avendo come fonte non quello che i poveri dichiarano – perché il povero spesso si vergogna di essere povero – , ma andando ad attingere questi dati direttamente dalle persone che danno da mangiare agli altri. Se infatti uno va a mangiare alla mensa del poveri, noi diamo per scontato che sia povero. E si stanno scoprendo sacche di povertà impressionanti. Per esempio, il mio amico Marco Lucchini, che è il direttore del Banco Alimentare, mi ha colpito. Una volta è dovuto andare in una commissione del PD a parlare di povertà. Tutti parlavano di poveri, poveri, poveri e lui ha detto: “Guardate che i poveri li avrete sempre con voi. Correte il rischio di non avere più chi dà da mangiare”. Questo per dire che la crisi ha fatto emergere il non profit come risorsa, innanzitutto del Paese, perché c’è un tessuto sociale, ci sono una marea di opere che ormai pigliano i soldi dall’ente pubblico dopo 8 mesi, sono trattate male dal punto di vista economico, dove ci sono persone che accettano di lavorare in condizioni spesso avvilenti, ma ad ogni modo questo tessuto che è educato dalla tradizione cristiana, e non solo, in Italia ha tenuto. Perciò, ringraziamo che durante la crisi c’è stato il non profit. In questo senso speriamo e interloquiamo in modo deciso con il Ministro Sacconi perché il Libro bianco abbia un’attuazione nella direzione della libertà di scelta. Infatti c’è una stortura radicata profondamente dentro il nostro sistema di welfare, quella per cui spesso chi usufruisce di servizio e lo giudica, e chi lo affida e lo paga, non sono la stessa persona. Cioè, io posso fare un servizio bellissimo, ma il fatto che abbia una qualità eccezionale non c’entra niente con il fatto che io l’anno successivo possa riprendere l’appalto. Questo, al di là del fatto che è ingiusto da tutti i punti di vista, prima di tutto manageriale, porta ad un appiattimento verso il basso dei servizi. Perché, ad un certo punto, noi facciamo servizi alti esclusivamente per una forte idealità.
In questo senso la libertà di scelta non è una bandiera ideologica. Bisogna dire libertà di scelta perché crediamo nella libertà, però è innanzitutto stupefacente dal punto di vista dell’utilità per tutto il tessuto sociale. Noi vogliamo poter dire: “Io voglio essere giudicato il più possibile da chi, del mio servizio, usufruisce”. Finché non si arriva a questo punto sarà problematico pensare che il non profit esca dalla situazione di perenne emergenza. In realtà il non pofit è come la protezione civile, lavora per l’emergenza.
FRANCESCO LIUZZI:
Ringraziamo Monica per quello che ci ha detto ma, come da tradizione, chi vuole fare una domanda per capire meglio, per contestualizzare quello che è stato detto, può parlare. Nessuna esitazione mi raccomando, ci sono i microfoni a disposizione. Chi ha voglia di chiedere, alzi la mano.
DOMANDA:
Hai detto che per saper stendere un progetto non basta essere laureati in lettere, bisogna imparare un mestiere. Chi lo insegna?
MONICA POLETTO:
La Compagnia delle Opere con la Scuola di Impresa Sociale! Sto scherzando. È un problema serio questo. Lo dico anche perché noi stiamo cercando col lanternino dei maestri perché sono mestieri un po’ nuovi. C’è innanzitutto il problema di prendere consapevolezza di quanto questo sia una risorsa per l’organizzazione. Ci sono alcune realtà in Italia che approfondiscono questo tema. Noi stiamo cercando persone, consulenti che si siano fatte le ossa nelle imprese sociali, che abbiano maturato un’esperienza di un certo tipo, per fare la Scuola di Impresa Sociale. Noi abbiamo iniziato a farla perché ci siamo resi conto che serve per colmare un vuoto. È un mestiere da imparare. E poi c’è
bisogno di dirsi, di raccontarsi, perché le cose che si vedono non sono replicabili ma mettono in moto la persona. Cioè, nei miei quattro mesi da presidente ho visto tantissime cose che mi hanno fatto venire molte idee, anche banalmente imprenditoriali. Infatti l’imprenditorialità è una cosa che si impara anche guardando il modo in cui gli altri fanno le cose. Come diceva don Giussani, “non devi fare come me, devi fare con me”. Il vero problema è che l’altro deve essere un maestro, cioè deve esplicitare il metodo, spesso chiarendolo a se stesso. Noi li stiamo cercando.
Un’altra cosa ancora. Io voglio un marketing che non sia una finzione rispetto alla mia missione. Tendenzialmente, per un certo tipo di educazione che abbiamo ricevuto, non mettiamo il negretto mezzo morto con le mosche in faccia su un volantino, perché non ci piace. E non ci piace perché percepiamo la dignità di quel ragazzo lì e la dignità della nostra azione. Spesso arriviamo a dire: “Forse non si può fare marketing sociale”, perché io lo so che invece, mettere il negretto con le mosche mi fa portare a casa tanti soldi. La vera sfida è dire: “Ma come è possibile comunicare in modo dignitoso e adeguato la mia concezione di persona attirando, allo stesso tempo, delle risorse?”. Spero di tornare qui nei prossimi anni a raccontare delle scoperte.
DOMANDA:
Mi chiamo Giorgio Olgiano, vengo dalla Sardegna e gestisco una cooperativa sociale di tipo B, che si occupa di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Allora, lei ha parlato di formazione e va benissimo perché è un elemento fondamentale; ha parlato di valori e anche questo è un elemento fondamentale nelle cooperative sociali. Ma si è dimenticata di parlare del capitale, senza i soldi… Molte cooperative sociali non hanno un capitale sociale, perché nel momento in cui si fa un capitale sociale da 25 € a socio credo che sia impossibile fare impresa. Prima viene impresa e poi viene sociale, anche se poi si può aprire un dibattito. Un’altra considerazione: come titolo, al posto di “Lavorare nel non profit”, io avrei scritto "Lavorare nel terzo settore”. È d’accordo con questa provocazione?
MONICA POLETTO:
Ha ragione sul capitale, mi sono dimenticata. Io ho già detto che secondo me il non profit non esiste. Quando abbiamo dovuto decidere come si doveva chiamare la CdO Opere Sociali ci siamo picchiati e a me il titolo non piace. “Terzo settore”, però, dà l’idea di arrivare terzi. Cioè, sono d’accordo che è difficile trovare una definizione. Infatti per ora non la diamo, e stiamo a guardare quello che c’è nell’esperienza, prima o poi ci verrà un nome bellissimo. Per ora non mi è ancora venuto.
Quello del capitale è un problema serissimo. Io tra l’altro sono anche molto preoccupata dal fatto che le Fondazioni bancarie nel 2010 avranno il 50% in meno dei fondi. Chi investiva sui muri, nel senso di capitale immobilizzato, erano le fondazioni bancarie. Moltissime cooperative sociali sono state buttate fuori dalle normali linee di affidamento da un’applicazione rigida di Basilea. Tanto per dirne una! E in questo senso io credo che da una parte bisogna veramente riscoprire radicalmente il nesso tra profit e non profit, perché comunque i soci sovventori per legge esistono e il loro contributo va nel capitale e migliora i parametri di Basilea. Detto questo noi abbiamo l’idea di identificare delle forme, delle norme che agevolino in un modo dignitoso l’apporto di capitali del privato nell’impresa sociale. È un dibattito aperto e speriamo, prima o poi, che alcune idee diventino norme. Perché, secondo me, il problema cruciale è rendere attraente l’investimento che l’imprenditore privato può fare in un ente sociale. Però, è chiaro che ci vogliono le detrazioni e molte altre cose. Questi, ci tengo a dire, non sarebbero favori ma il riconoscimento di un’utilità sociale. Invece che pagare le tasse ti verso dei soldi. È la stessa cosa, è utile alla società, non è un favore. Noi difendiamo il 5 per mille perché non sono soldi che lo Stato regala al terzo settore, sono soldi investiti in un’opera lì perché funziona e piace. Lo Stato deve fare il suo mestiere, cioè riconoscere e accettare quello che è di utilità sociale. Da questo punto di vista si apre tutto un tema normativo molto importante su cui noi siamo in prima linea. Se avete idee, datecele.
DOMANDA:
Io sto leggendo, assimilando lentamente, l’ultima enciclica del Papa. È proprio leggendola che mi veniva in mente che il nome non profit è totalmente sbagliato. Perché quello che lui dice è che se vogliamo avere un progresso umano veramente globale, bisogna metterci dentro la carità, la gratuità. Quindi, secondo me, le opere di questo settore dovrebbero essere chiamate le “Human profit”, cioè il vero progresso umano. Tutte le altre imprese sono “Economic profit”, sono cioè volte al progresso economico, hanno come primo obiettivo il vantaggio economico, e poi tutto il resto viene dietro. Invece nelle opere di questo, cosiddetto, terzo settore c’è al centro il valore globale della persona vista come risorsa principale, come obiettivo principale. Quindi dovrebbero essere chiamate “Human profit”.
MONICA POLETTO:
Mettiamola ai voti, perché abbiamo un primo nome che si incentra su un punto assolutamente nodale. Una peculiarità che discende dalla forma giuridica è certamente che chi in lavora nel settore ha a che fare con persone. Molto spesso ha a che fare con persone in momenti di ferita, magari una ferita temporanea o qualcosa di più definitivo, oppure ha a che fare con persone in momenti particolarmente importanti della loro vita, pensiamo anche solo alle scuole. In questo settore a volte non si lavora per delle persone ma si fanno lavorare persone che hanno certi tipi di problematiche, per cui sicuramente ci deve essere qualcosa nel nome che richiami il capitale umano come centrale nell’impresa sociale.
DOMANDA:
Sono Vincenzo da Bergamo. Nel settore non profit i lavoratori hanno un’età bassa, cioè un tasso di mobilità molto forte. Il non profit viene sentito, soprattutto dai giovani, come un periodo in cui fare esperienza per poi andare a lavorare altrove. Un po’ perché ci sono basse retribuzioni, un po’ perché mi sembra che ci sia un ricatto: io ti permetto di lavorare per un grande ideale, quindi ti posso sfruttare. Io volevo capire come vedi la questione del lavoro all’interno del non profit anche da un punto di vista pratico, perché mi sembra che ci sia uno spreco di risorse umane fortissimo. Mi sono spiegato?
MONICA POLETTO:
Il secondo tema, parlo per spot, della Scuole Opere di Carità quest’anno sarà: “I giovani al lavoro nelle opere”, proprio perché ci siamo accorti che è un punto nevralgico. Allora ci sono dei fattori, direi, endogeni. È difficile programmare certi tipi di percorsi professionali quando ho gli appalti che durano un anno. Ci sono delle carenze strutturali. Spessissimo le retribuzioni sono basse, è vero, però è un peccato che si debba fare la gara al massimo ribasso. Ci sono delle carenze esterne. Invece ci sono degli aspetti in cui bisogna alzar la testa e iniziare a combattere. Per esempio, non sempre grandi idealità vanno insieme alla managerialità. Spesso, questo è sempre una cosa che il presidente della Compagnia delle Opere Bernhard Scholz fa sempre notare ai miei, c’è bisogno di fare chiarezza sui ruoli. L’educatore non è il manager: non è scritto da nessuna parte che un genio dell’educazione debba anche essere quello che valuta se ho i soldi per fare un certo investimento oppure no. Il “business plan” non lo deve per forza fare l’educatore. Le storture delle gambe partono spesso dalla testa. Troppo spesso c’è genericità nella governante, genericità nell’identificazione del “chi fa che cosa”. Da qui deriva una difficoltà ad insegnare il lavoro. Non so se mi sbaglio, perché è anche il tuo mestiere, però quel che vedo, e questo mi fa impazzire, è che dalla natura delle cose discende l’operatività. Bisogna riscoprire la natura innanzitutto: che cos’è un presidente, che cos’è un direttore, che cos’è un consiglio direttivo, che percorso professionale faccio fare, chi è che guida, a chi si risponde? Tutte queste domande noi dobbiamo incominciare a farcele e dare delle risposte precise. Senza aver paura di pagare uno scotto al profit, perché non è vero.
DOMANDA:
Il titolo del Meeting di quest’anno è “La conoscenza è sempre un avvenimento”. A me ha colpito che, nel raccontare, dicevi spesso “mi è capitato di incontrare”, “ho scoperto”, “ho visto”, come se stessi parlando di una conoscenza che hai acquisito a partire dal gusto di scoprire che cosa stava succedendo. Però, mi sembra di capire che l’altro pezzo di lavoro da fare è lasciare che queste scoperte diventino un richiamo a interloquire, ad esempio, con chi ha responsabilità di governo. Perciò, il fatto che la conoscenza è sempre un avvenimento, che ti accade di scoprire delle cose e che poi tutto questo deve trasformarsi in capacità di fare proposte per intervenire anche a livello di sistema: come stanno insieme queste due cose?
MONICA POLETTO:
La domanda non è correttissima, è sbagliato il “però”. Non è così vero che vieni colpito da qualcosa che, “però”, deve diventare conoscenza. Adesso, tanto per farla facile, il contraccolpo è il primo passo della conoscenza. Il problema è non fermarsi. Cioè, se io sono colpito da te voglio conoscerti, no? Perciò, voglio dire, l’importante è non fermarsi al bel colpo, all’aspetto emotivo. Se dici “però” significa che non vuoi un rapporto con loro. Se vuoi un rapporto invece vuoi conoscere, se io sono colpito da te, voglio conoscerti e voglio fare di tutto perché tu esista. L’azione politica attiene al “voglio fare di tutto perché tu esista”. Adesso insieme gli amici che lavorano nell’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà, ci siamo accorti che questo metodo non è un metodo interno, è universale. Quando abbiamo portato a visitare il carcere di Padova un ex Ministro del Partito Democratico, una persona molto brava su alcuni temi che però non esprime tanto un calore umano, cioè, è un tipo un po’ precisino, mi ha impressionato vedere come stava dentro il carcere. Noi c’eravamo tutti ma l’unico che ha avuto il guizzo di farsi chiamare fuori i cuochi che dentro il carcere hanno cucinato per noi, e andare a stringere le mani a tutti e dire “Oh! Ma in Senato non si mangia così bene!”, è stato lui. Ha fatto una festa. Poi è uscito fuori e io gli avevo portato tutta una serie di proposte sull’inserimento lavorativo dei disabili, proposte sul lavoro carcerario, e lui è diventato un treno: non siamo più riusciti a fermarlo, ci sta aiutando, sta coinvolgendo le parti sociali. Allora dico che questo metodo è universale. Qual è il mio rapporto con la politica? Io devo fare il mio mestiere, cioè devo fare vedere quello che c’è. Io devo esistere e chiedere di guardare quello che sono. La politica deve fare il suo. Il mio compito è innanzitutto quello tipico della società civile: esistere e chiedere alla politica di favorire in tutto e per tutto la mia esistenza. Questo mi piace tantissimo perché libera il rapporto con la politica. Io mi rendo conto che se chiedo una cosa che è vera per me, chiedo una cosa che è per tutti. E questa non è retorica perché le leggi che escono dall’impeto di questo ex-ministro sono descrittive di qualcosa che c’è, dunque sono buone. Sempre che riusciamo a farle.
DOMANDA:
Sono Stefania di Piacenza, gestisco un asilo nido e sono presidente di una piccola cooperativa e di una associazione di famiglie. Mi sono sentita un po’ toccata negli esempi che hai fatto: non è detto che un educatore, pur essendo un bravo educatore, debba essere per forza un bravo imprenditore, magari! Questo riassume molto la nostra storia, una storia difficilissima cominciata nel ’97. Siamo partiti con un piccolo gruppo di famiglie gestendo centri estivi e oggi abbiamo un piccolo asilo nido in un comune della provincia. Abbiamo delle difficoltà immani. Questo asilo è nato con finanziamenti di una fondazione bancaria, non abbiamo ancora finito di pagarlo, gli accordi presi con la parte politica che ci ha permesso di nascere sono sfumati quando è cambiata l’amministrazione. Quella successiva, appena siamo nati, ha fatto per 5 anni di tutto perché chiudessimo l’attività. Per tenerla aperta abbiamo messo noi del capitale a titolo di prestito, un capitale che speriamo di poter riprendere perché come dicevate voi, in questo tipo di attività non si può andare a spremere le famiglie, e dal momento che è il Comune il mediatore per far arrivare alle famiglie i contributi necessari per contribuire al costo della retta, è chiaro che ci sono dei giochi e degli equilibri difficilissimi. Intanto mi complimento per l’idea che avete avuto di questa scuola di impresa per non profit ma non credo che possa servirmi. Scusatemi la sfiducia, io ho pregato tanto e…
MONICA POLETTO:
Va bene, ma bisogna anche trovare le persone giuste!
DOMANDA:
Quello che arriva, arriva solo per miracolo. Quest’anno abbiamo avuto 20.000 euro da una fondazione a sostegno della gestione. Però non è facile. Mi chiedevo, essendo qui oggi alla CdO, dove non è fuor di luogo parlar di Dio come ho fatto, se c’è qualcosa che si può fare, se c’è qualcuno che ha già avviato dei colloqui, dei contatti con dei politici che al momento potrebbero essere favorevoli. Parlo dell’attuale governo italiano. O magari con gli imprenditori iscritti alla CdO dell’altro settore rispetto al non profit, perché credo che nel nostro tipo di impresa purtroppo questa parte di finanziamenti, di contributi a fondo perduto siano indispensabili. E se non arrivano da una parte, devono arrivare da quell’altra perché è impossibile portare avanti delle attività di questo tipo solamente, come dicevate voi, con degli ideali e tanta forza umana che poi vanno a finire nel nulla se non c’è sempre un polmone, un qualcosa da cui attingere. Mi chiedevo quindi, essendo la CdO un cappello comune a due tipi di impresa, se ci sono già e se non potrebbero nascere delle fondazioni per sostenere progetti già avviati e già gestiti da persone che garantiscono di portare avanti un’opera educativa cattolica. Perché qui stiamo parlando di opere educative cattoliche.
MONICA POLETTO:
Ci sono tanti esempi, in questo senso, di imprenditori che si coinvolgono per sostenere le associazioni e le iniziative. In questo senso dico che probabilmente può essere molto utile un nesso un po’ più organico. Io capisco che la CdO nelle sue diramazioni territoriali, che sono soprattutto le sedi locali, deve il più possibile imparare a creare questi nessi, ma anche le opere devono imparare il più possibile a rivolgersi alla CdO per chiederglieli. Per cui la prima cosa che dico è che possiamo pensare ad un incontro con il direttore della sede locale e vedere che cosa si muove.
Evidentemente questo è un tipico esempio di quello che dicevamo prima: se ci fosse libertà di scelta, non saremmo in questa situazione. Però io penso di essere realista dicendo che l’attuazione del libro bianco, la riforma del welfare in Italia, è grande se certi principi sono entrati nel libro bianco. Sarà comunque un cammino lungo. Per cui nel frattempo bisogna farsi venire tante idee, cerchiamo di parlare con il direttore e vediamo se ce ne vengono.
FRANCESCO LIUZZI:
A questo punto direi che l’applauso ci sta, ti ringraziamo e ci diamo appuntamento a domani. Solita ora solito posto. L’ospite di domani è Stefano Colli Lanzi, Presidente di G-Group. A domani grazie.
MONICA POLETTO:
Ad esempio, si potrebbero chiedere a lui i soldi.
(Trascrizione non rivista dai relatori)