L’ARTE METTE A FUOCO LA VITA. LETTURE, FIGURE E MUSICA. Michelangelo, la lotta e il genio.

L'arte di mettere a fuoco la vita

Con Davide Rondoni, Poeta e Scrittore, Beatrice Buscaroli, Storica dell’Arte, Giacomo Grava, Musicista e Luca Violini, Doppiatore.

 

L’incontro inizia con un brano suonato con il violoncello.

DAVIDE RONDONI:
Con la musica di Bach eseguita da Giacomo Grava, un grande violoncellista, un grande esecutore di musica, vogliamo iniziare questa specie di esperimento a metà tra una conferenza e altro. Un esperimento che facciamo insieme questa sera, il primo appuntamento di questa piccola serie che abbiamo voluto chiamare “L’arte mette a fuoco la vita”, perché l’arte non è un pezzo di paradiso, non è una specie di isoletta felice in mezzo alla vita che è invece attraversata dalle difficoltà di tutti. Non è un luogo per cuori già salvati o per cuori puri, ma l’arte ha sempre fatto questo tra gli uomini, ha sempre messo a fuoco l’esistenza e quindi ha permesso e permette ancora agli uomini di guardare se stessi, di guardare se stessi in modo più desto, più attento, in modo da non dimenticare delle parti di sé, anche quelle parti che uno vorrebbe dimenticare e soprattutto di non dimenticare il fatto che il cuore, come dice il titolo del Meeting di quest’anno, è fatto soprattutto per desiderare cose grandi. Infatti, quando incontriamo un capolavoro, e oggi parleremo di Michelangelo, si sente una specie di dismisura, si sente una specie di sproporzione, si sente una specie di disagio, potremmo anche dire, di fronte ad una cosa che è grande, che ti chiede di aprirti, che è anche un po’ dolorosa da un certo punto di vista, può addirittura fare rabbia la bellezza, perché ti chiede di aprire le misura in cui stai.
Quindi L’Arte mette a fuoco la vita sono tre appuntamenti, questo è il primo, poi ce ne sarà un altro mercoledì mattina, sempre formulato così tra musica e letture, in cui leggeremo un po’ di poeti estremi italiani, estremi nel senso di più recenti, anche del Novecento, ma anche perché hanno portato nella loro poesia elementi primari ed estremi della vita umana, e poi invece giovedì, sempre alle 11.15, in un altro luogo ancora, leggeremo insieme a musica blues alcuni grandi narratori e poeti americani. L’abbiamo fatto perché appunto il cuore di cui ci stiamo occupando in questi giorni è l’organo di questo lavoro di riconoscimento dell’arte. L’arte non si impone automaticamente. La bellezza non si impone automaticamente. La bellezza è il frutto di un riconoscimento. Non è una proprietà dell’opera che sovrastando la tua libertà ti si impone, occorre che ci sia anche tu, occorre che ci sia il tuo cuore all’altezza giusta, diceva Flannery O’Connor, un’altra scrittrice che affronteremo in questi giorni. Occorre che ci sia il tuo cuore all’altezza giusta per cominciare a riconoscere cosa c’è di grande in un’opera come quella di Michelangelo perché, lo sapete benissimo, si può anche transitare davanti alla pietà di Michelangelo a San Pietro, a Roma, in mezzo a milioni di cinesi, di turisti, di giapponesi eccetera ma fermarsi un attimo e dire beh carina. Come carina, è un capolavoro assoluto! Ma se non hai il cuore all’altezza giusta, puoi liquidarla con un sì, carina, l’ho vista, ce l’ho come con le figurine, l’ho vista. Quello che vogliamo fare in questo appuntamento e nei prossimi non è quello di esaurire il discorso su qualche arte o su qualche artista, ma proporre, attraverso voci diverse e ringrazio gli amici che mi accompagnano in questo tentativo, attraverso voci diverse e testimonianze di autori diversi, degli spunti perché il rapporto con l’opera d’arte, con l’artista sia il più personale per ciascuno di noi. Per questo ascolteremo tra poco le voci di alcuni grandi scrittori che hanno guardato Michelangelo. Michelangelo poi era un grande poeta, come sapete, anzi alla fine, come dirà dopo Beatrice, che è più brava di me su queste cose, preferiva la poesia, aveva capito che la poesia era quello che cercava. Detto questo, attraverso le voci di vari autori, di vari punti di vista, senza presumere di esaurire, proveremo a incontrare un’artista o delle opere d’arte. Un’artista o delle opere d’arte non si possono capire come si capisce un discorso o un racconto o uno spot pubblicitario, non devono produrre una specie di estasi o qualcosa del genere, sì, magari per certi momenti sì, ma non è quello lo scopo definitivo. Quello che un’opera d’arte chiede è di essere compresa, cioè presa con te in un riconoscimento che il tempo può far crescere, in un riconoscimento di quella bellezza, di quella grandezza, che il tempo può far crescere. Per molti di noi che ascolteremo Giannini giovedì sera, leggere Leopardi sarà diverso da come abbiamo sentito la prima volta Leopardi, è cresciuto il riconoscimento e la grandezza di quella voce, c’è un lavoro che fai anche tu, non solo il lavoro che ha fatto l’artista, per questo il metodo che l’arte chiede è quello di incontrarti, perché tu ci devi essere, se non ci sei tu l’arte non succede. Questo è il motivo per cui al nostro cuore è data la grande responsabilità, ne parleremo anche domani con l’onorevole Rutelli, di far vivere l’arte e la cultura, perché senza di te l’arte non vive, non basta che la salvino i ministeri o la restauri, se poi tu non ci sei, se la tradizione non si reinventa, se tu non ci sei l’arte italiana che è l’unica cosa bella che abbiamo, perché sulla politica siamo scarsini diciamo, invece l’arte e la cultura che è la vera cosa bella che abbiamo può morirci dentro, non fuori ma dentro. Detto questo l’incontro avverrà attraverso alcune letture. Io ringrazio Luca Violini di essere con noi. Luca Violini è un grande attore e doppiatore, per dare l’idea è quello che ha fatto la famosa frase “ti spiezzo in due”, che tutti conosciamo; adesso non concentratevi su questa frase mentre ascoltate la sua voce, leggerà alcuni testi e adesso inizierà leggendo due testi di Ungaretti che è un grande lettore della nascita del fenomeno Barocco. Ungaretti a un certo punto si trasferì a Roma e si trovò di fronte alla grandezza del barocco e di Michelangelo e scrisse alcuni appunti che danno uno spunto di sguardo su Michelangelo, sul Barocco secondo me interessanti, sono due brani di Ungaretti che Luca ci leggerà di seguito.

LUCA VIOLINI:
“Il guasto del bel principio d’autorità che rese ridente il Rinascimento incomincia da quel momento. Michelangelo, le proporzioni idealizzate, l’ammirabile grazia, la leggiadria, la serenità irradiante, la compostezza animosa, la freschezza, la naturalezza vivace eccetera, tutto quanto pareva l’insegnamento antico non basta più, è di quel mondo, è col Ficino, è col Petrarca, ma è anche col Savonarola, è anche con Dante, il mestiere degli antichi non ha più nulla da insegnargli, e non gli basta per quello che ha da dire, avverte già che quel sapere degli altri lo allontana da se stesso, dalla natura, eppure fu la natura, tornando ad essere scrutata, a riporre in circolazione quel sapere, non chiede dunque la natura studio per essere avvicinata ed espressa? Chiede uno scatto irragionevole dell’essere, chiede anima e non mestiere, o chiederà studio in un altro senso, nel senso puramente morale, come insegnava Dante. Sono problemi che in pieno Rinascimento non potevano portare se non ad un impazzimento del mestiere. Nelle muscolature che si tendono o si torcono, nei corpi che si divincolano ciclopici, è entrato uno spasimo dell’animo, pietà. È sempre mestiere, prodezza del mestiere e di più ora sentimento dell’inanità del mestiere, c’è sempre la voce degli altri mescolata alla sua, come farebbe a non esserci, e riprende la mazzuola e ripicchia il suo sasso, era entrato un gran dramma nella vita, il mondo si era accorto di non sapere più che cosa fosse, se cristiano, se antico, se campato nel mestiere, se abbandonato da Dio. E da qui verrà il Barocco.”
“Michelangelo, e già dai suoi tempi aveva rappresentato nel giudizio il Cristo dell’Apocalisse, il Cristo che giunge terribile sui nembi, e già dai suoi tempi Michelangelo aveva ritratto poi nelle ultime due sue pietà e specialmente nell’ultima incompiuta, nella pietà Rondanini, il Cristo che per pietà degli uomini, innalzando l’uomo sino alla sua divinità, da uomo patito con orrore di Dio, la morte, in quella pietà la madre è rappresentata mentre su un braccio sorregge il corpo esanime, abbandonato di Gesù, e mentre con l’altra mano che le diviene smisurata gli preme il petto usando per ravvivargli, ma senza speranza, il cuore terreno, una forza ineguagliabile, eppure di una delicatezza non vista mai prima. Il Michelangelo, il Gesù del giudizio e il Gesù della pietà Rondanini, sono due momenti diversi dell’ispirazione rappresentati in due distinte forme, e forse l’iconografia cristiana mai prima che il Manzoni avesse scritto il Natale del 1813 e soprattutto mai prima che avesse scritto i frammenti del Natale 1833, non aveva congiunto nella medesima immagine i due aspetti del Cristo, e mai prima di sicuro non aveva preso a modello, per rappresentarli, il volto come il Manzoni, del bambino Gesù”.

DAVIDE RONDONI:
Il mestiere non bastava più a Michelangelo, dice Ungaretti, però poi è il mestiere che gli ha fatto fare il passo ulteriore verso il Barocco, come dice alla fine. Noi siamo in un’epoca di crisi come quella che Michelangelo sentì, del mondo non sapeva più cos’era, bellissimo quel momento no? Cristiano, classico, salvato dal mestiere che potrebbe essere come salvato dagli affari, o che cosa? Ed è in quel momento che l’arte di Michelangelo fiorisce e diventa più fortemente se stessa, anche con questo passaggio dal primo Gesù al secondo Gesù. Adesso Luca ci legge una bellissima poesia di Rainer Maria Rilke, uno dei più grandi poeti del novecento, che si è occupato spesso di arte, da Cezanne a Gauguin, che dedica questa breve poesia, intensissima e quasi di una bellezza violenta, sentirete gli ultimi versi dove è la vergine, appunto la pietà di Roma, la pietà di San Pietro che parla, con un finale secondo me tra le più belle cose che abbia mai ascoltato e appunto Rilke dedica questa breve poesia alla pietà che tutti conosciamo, che sta a Roma, a destra all’entrata.

LUCA VIOLINI:
“Ora la mia miseria si fa colma e tutta mi riempie di uno strazio implacabile che non ha volto e nome. Irrigidisco come irrigidisce la pietra, in ogni vena è fatta pietra dura questo soltanto io so, tu sei cresciuto, sei cresciuto, figlio, dismisuratamente, per superare l’angoscia senza limiti, l’ambito smisurato del mio cuore. Ora sul grembo tu mi giaci tutto sghembo e riverso e non ti posso, non ti posso figlio più partorire”.

DAVIDE RONDONI:
Quando Michelangelo consegnò la pietà di cui abbiamo parlato, di cui Rilke ha parlato adesso, si narra un famoso episodio. Il cardinale francese che gliel’aveva commissionata gli rimproverò il fatto che la Madonna fosse troppo giovane per reggere un uomo così morto tra le braccia, c’era una disparità di età, non tornavano i conti, una ragazza di diciassette anni con un figlio morto di trenta. Michelangelo rispose citando la famosa preghiera alla vergine di Dante, dicendo che il poeta dice “figlia del tuo figlio”, come dire che in quell’incontro tra la madre di Cristo e Cristo, il tempo si scambia, sbanda, diventa un’altra cosa, non è più senza significato, una corsa senza significato è un’altra cosa, un altro tipo di rapporto. Adesso chiedo a Beatrice Buscaroli, che molti di voi conoscono perché non solo è una delle storiche dell’arte più note italiane, più autorevoli – l’anno scorso come molti sanno ha curato anche il padiglione italiano della Biennale d’arte a Venezia, autore di innumerevoli saggi e monografie su alcuni degli artisti più importanti del Seicento e non solo – chiedo a Beatrice, che viene al Meeting da qualche anno, di raccontarci, di farci un ritratto di Michelangelo, in un quarto d’ora venti minuti.

BEATRICE BUSCAROLI:
Grazie, voi immaginate come sia difficile per un autore come Michelangelo, che si rifugia nella poesia perché pensa di avere fallito in tutti gli altri linguaggi che sono la pittura, la scultura e l’architettura e sono il meglio della nostra vita dell’arte e dopo avere sentito quello che hanno scritto i poeti di Michelangelo, come sia arduo il ritornare da capo e fare con qualche immagine, una storia un pochino così più terra terra di Michelangelo artista. È persino imbarazzante e vorrei mettere la prima immagine solo perché noi abbiamo questa presenza di un artista il cui carattere, la cui umanità, studiandolo bene, diventano quasi pari come grandezza, come desiderio di assolutezza alla sua arte. La sua arte, la vediamo tutti, è quella che ha fatto la grandezza del Rinascimento, quella che ha preparato l’avvento del Barocco. In realtà, le tracce che lui ha lasciato, sono quasi tutte tracce non finite e il motivo per cui ancora oggi si riscopre Michelangelo come uomo, una frase che potrebbe anche essere banale, ma non lo è, proprio come personaggio diviso da un dissidio interiore tanto più accentuato quanto più moderno, è proprio anche nel fatto reale che nella consapevolezza di possedere tutti i linguaggi ma di non possederne nessuno, per dire ciò che voleva, in realtà ha lasciato le maggiori vestigia del nostro Rinascimento: san Pietro, le Pietà, la Sistina, la Paolina, la Biblioteca laurenziana e quello che è rimasto incompiuto. Jacob Burckhardt, che era uno dei grandi studiosi del nostro Rinascimento, scrisse che Michelangelo è il destino dell’arte, così come per certi aspetti fu Beethoven il destino della musica. Michelangelo usò tutti i linguaggi in un momento molto complicato, che poi coincise con il momento maggiore della storia dell’arte in Italia. Li usò tutti fino in fondo, quasi per esperire e finire, provare, le loro estreme possibilità, lasciandoli completamente svuotati, lasciandoli tali – è il cosiddetto manierismo, che viene un pochino prima del barocco. Dovette ricominciare da capo con tutto, con l’architettura dai trattati antichi, con la pittura ricominciare a guardare la natura e con tutto quello che si deve vedere dopo che finisce la scultura ma qui abbiamo ancora un pochino di tempo. Soltanto un minuto della voce di Giorgio Vasari che nel 1550 storicizzò la grandezza di Michelangelo suo contemporaneo vivente, Michelangelo morirà soltanto 14 anni dopo, però per la prima volta nella storia delle arti italiane, e non solo, Giorgio Vasari, un grande storico che poi diventa, lo sappiamo dopo, il primo storico dell’arte italiana, storicizza Michelangelo come il più grande artista contemporaneo e non ha ancora fatto tutto: “ed eccolo, la faccia ritonda, la fronte quadrata e spaziosa con sette linee dirette e le tempie sportavano in fuori più delle orecchie assai, le quali orecchie erano più presto alquanto grandi fuor de le guance, il corpo era a proporzione della faccia e piuttosto grande, il naso alquanto schiacciato, gli occhi piuttosto piccoli che no di color corneo macchiati di scintille giallette e azzurrine”. Non sappiamo se questo, che è un presunto autoritratto, sia opera di Michelangelo o meno, come tante opere incerte se ne è scritto e parlato molto, ma non è a questo a cui puntiamo, mi interessava collocare alcune idee, alcuni principi sul carattere e su questo rapporto tra vita e opera di Michelangelo, proprio anche per preparare agli altri testi che verranno in seguito. La contraddizione di Michelangelo, questa aspirazione a una perfezione a cui mai arriva e che lo porta appunto, come si diceva, a usare tutti i linguaggi, fa parte di una duplicità che è stata riconosciuta nel tempo ed è stata riconosciuta da lui stesso e proprio paradossalmente dopo essersi impadronito di tutti i linguaggi figurativi, ad un certo punto si arrende alla poesia, come se fosse la sua ultima possibilità espressiva, proprio perché non necessita più di un mezzo, di uno scalpello, di un pennello, nel rapporto che lui ha tra l’idea e la sua realizzazione. Thomas Mann, parlando delle poesie di Michelangelo, scrisse un testo bellissimo, commentando questa duplicità proprio come l’impossibilità di trovare un accordo tra una forma di amore terreno e umano, che è poi quello che lo porta alla conoscenza della scultura antica, della scultura greca, ai suoi studi che lo portano a un giusto e naturale ellenismo nell’ultimo quattrocento e questa idea invece di sconfitta nei confronti della bellezza e del possesso dell’arte, che deriva dalla accettazione di una impossibilità di realizzare questa bellezza. All’interno di questa contraddizione, che sembra un concetto mentale ma voi vedete, poi ve lo faccio vedere dopo scorrendo alcune opere, è parte profonda di tutte le opere, c’è questa duplicità dell’essere di Michelangelo, c’è quasi questa impossibilità di conciliare questi due amori, l’amore terreno e l’amore per le forme e l’amore divino che si realizza soltanto attraverso un volere, un accettare la propria impotenza. La cosa interessante è che alcuni storici, tra cui Giovanni Papini che scrisse uno dei primi testi fondamentali nel 1927 sulle Rime di Michelangelo, è l’idea che questo titano, come tutti lo chiamano, arrendendosi alle parole della poesia, riesce realmente a realizzare il suo amore anche per Dio, nel senso che in questa resa c’è la vittoria ossia la vittoria di fronte a una materia che lui ha esperito come nessuno. Le ultime grandi rime, che poi vi leggerò soltanto come documento nell’ambito del mio discorso, sono l’accettazione di una impossibilità della materia di tradursi in idea e quindi di tradursi nella volontà che lui ha di rendere omaggio alla volontà, alla bellezza, alla potenza e soprattutto alla divinità che lui sente soprattutto, come diceva Papini, come un ebreo antico e contemporaneamente col genio di un greco antico, quindi dando proprio anche un nome a questa antinomia, a questa dialettica, che secondo molti è la base della sua grandezza. Da questo punto di vista, conoscendo poi gli scritti che sono coevi suoi e sono anche suoi stessi, le sue lettere, le sue poesie, ogni opera viene proprio letta come, può essere letta come solcata da una contraddizione che davvero ci fa sentire Michelangelo come un essere umano molto più vicino a noi di quanto non ci possano far sentire le sue opere che sono là, naturalmente immobili, immortalate nella storia. Ogni opera infatti è come un tentativo che ogni volta è perfettamente riuscito, perché da lì è ripartita la storia dell’arte, ma ai suoi occhi perfettamente incompiuto è un fallimento, tutte le volte è un fallimento, una perdita di tempo, e se voi leggete quello che lui scrive mentre fa san Pietro, mentre fa le grandi pietà che sono pietà diciamo della vecchiaia, ricordiamoci che la pietà di San Pietro è lavorata da un ragazzo che ha 24 anni e lui arriva a 88, 89 che ha ancora questo senso di essere perseguitato da un tempo che non gli dà la possibilità di esercitare il suo compito. Questo senso di inadeguatezza, di fallimento, di delusione, ce lo rende realmente un compagno di strada. Poi lui ha fatto quello che è riuscito a fare, ma questo confronto con i linguaggi è realmente anche il paradosso del Rinascimento, perché con lui il Rinascimento arriva all’acme, arriva all’acme proprio nella Roma cattolica, cristiana, rinascimentale e sovrana del ’500 e con lui nel 1564 finisce. Lui muore il 18 febbraio, il 21 gennaio i censori del Concilio di Trento avevano dato ordine al suo allievo Daniele da Volterra di coprire alcune figure nude della Sistina. Nessuno sa se Michelangelo l’abbia mai saputo, e quindi quando arriva la poesia e la sentiremo dopo, ma soprattutto la sentirete ritrattata dai poeti che vengono dopo di lui, sembra proprio che sia non solo una resa, come dicevo prima, ma è proprio la resa dello stesso Cristo che si arrende alle mani di questa vergine giovanissima, che non solo suscitò questo scandalo ma suscitò un amore in tutta Europa, perché per la prima volta nacque il mito di questo artista che veniva da Firenze e aveva studiato, allievo di uno scultore che si chiama Bertoldo, in un giardino di statue antiche. È la prima volta che il neoplatonismo fiorentino e rinascimentale del ’400 si incarna nella vera passione di Cristo di Michelangelo, che è obiettivamente un capolavoro in sé, una cosa che si può soltanto leggere. Quindi la poesia, la poesia lo accompagna tutta la vita, lo accompagna tutta la vita, però soprattutto alla fine accompagna questo suo senso di fallimento, che stupisce ancora oggi noi rispetto a quello che ha fatto. E alla poesia lui fa appello proprio rivolgendosi alla stessa poesia come se fosse un’amica e rivolgendo alla poesia l’idea del fallimento che ha avuto nelle altre arti semplicemente e molto rapidamente:

“Ohimè, ohimè ! ch’ io son tradito

Da’ giorni miei fugaci, e dallo specchio
Che ‘l ver dice a ciascun che fiso ‘l guarda”
Pensate, sta lavorando dentro la Sistina,
“Cosi n’ avvien chi troppo al fin ritarda ;
Com’ ho fatt’ io, che l tempo m’ e fuggito
Si trova come me ‘n un giorno vecchio”.

Gli mancano 32 anni, e parla di sé come nemico di se stesso, quindi con questa duplicità ormai dichiarata, soltanto all’unico mezzo a cui ha il coraggio di dichiararla, che è la parola.
“Carico d’anni e di peccati pieno e col trist’uso radicato e forte vicin mi veggio a l’una e l’altra morte, a parte il cor nutrisco di veleno”; la morte terrena e il timore della morte spirituale. Di fronte a questo peccato di cui lui stesso non capisce l’origine ma sente, come dicevano i commentatori, proprio questa colpa biblica, nel 1555 ancora si arrende e per molti questo è proprio il momento in cui comincia le sculture estreme.
“né pinger né scolpir fia più che quieti l’anima volta a quell’amor divino che aperse a prender noi in croce le braccia”. È proprio una resa, non serve a niente la scultura, non serve a niente la pittura e pensate che coi secondi anni 40, infatti, cesserà completamente di dipingere, per finire con lo scolpire che era il vero mestiere che avrebbe voluto fare e per finire ancora chiudendo la vita con l’architettura, che era l’arte che sentiva meno nonostante San Pietro e nonostante le altre realizzazioni. Infine, proprio quello che secondo i critici è il momento più duro nei confronti di se stesso e di questo presunto fallimento – la poesia è del 1546 -:

“Che giova voler far tanti bambocci,
se m’han condotto al fin, come colui
che passò ‘l mar e poi affogò ne’ mocci?
L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui
di tant’opinïon, mi rec’a questo,
povero, vecchio e servo in forz’altrui,
ch’i’ son disfatto, s’i’ non muoio presto”.

Questo serve soltanto come commento per capire che in questi stessi anni Michelangelo sta facendo, sta cambiando il volto del modo che noi guardiamo adesso, ma fino dagli anni ’50 sente questo dissidio e questo dissidio realmente è qualcosa che ha il senso proprio di una aspettativa, di una attesa e questo senso di compito a cui sembra che lui non riesca mai a rispondere adeguatamente ce lo rende una presenza umanamente straordinaria che bisogna conoscere. Passiamo molto rapidamente, tenendo anche in mente queste piccole note, un po’ di opere della giovinezza. Questo è lui, avrà 50 anni, questa opera è ancora eseguita a Firenze, la Battaglia dei Centauri, fu al centro di un piccolo scandalo perché venne in un primo tempo scambiata per un’opera ellenistica. Questo è il momento fiorentino anche di questo Rinascimento, che ha questo riconoscimento nel Cattolicesimo, nel dubbio di Savonarola che sta infiammando Botticelli e Signorelli e nell’amore per questa forma greca che rinasce anche dagli scavi che stanno scoprendo anche a Firenze un sacco di statue antiche. Il David, una delle opere più celebrate al mondo, è del 1501, 26 anni, è il simbolo della repubblica fiorentina, è un’opera perfettamente greca nelle intenzioni, nel significato vuole simboleggiare la forza della repubblica di Firenze e sarà uno dei problemi politici che avrà Michelangelo quando verrà conteso tra la repubblica di Firenze e i papi, cinque papi come dice lui, di cui sarà, nonostante le sue proteste, servo fedele. Questo è del 1501, nel 1502 scrive uno dei primi versi, scritto dietro un foglio da disegno “Davide colla fromba e io coll’arco. Michelangiolo. Rott’è l’alta colonna”. Nessuno sa esattamente cosa vuol dire questo verso ma si sa che questa forza che lui vuole dare all’idea della nuova Repubblica fiorentina è supportata da questo verso; il Tondo Doni, la prima opera di pittura e voi lo vedete immediatamente, 1507, è come una palestra per arrivare alla Sistina, non è pittura perché è scultura dipinta e la torsione della vergine è esattamente la torsione che poi si vedrà nelle sue pietà e nelle sue sculture. E dietro? Dietro non c’è natura come avrebbe fatto qualunque dei suoi contemporanei mettendo un paesaggio, Michelangelo non ha mai un paesaggio, non c’è un albero, non c’è un mare, soltanto quello che serve a rappresentare la Bibbia o il Vangelo. Qui sono i tre genitori, questi atleti greci che vengono ad assistere alla nascita del figlio di Dio. Da questo quadro si partì anche per ragionare sul restauro della Sistina, su questi colori così in dissidio tra di loro, colori cangianti come già diceva Vasari, che sono la contraddizione fatta pittura. L’anno dopo, il 10 aprile 1508 e probabilmente per una serie di questioni che non centrano niente con la sua arte, comincia la Sistina, controvoglia. Pensate che uno come Michelangelo si mette a dipingere la Sistina per volere del papa, controvoglia, perché? Bramante e Raffaello hanno voluto che lui fosse messo alla prova in un’arte che non è la sua e lui prima si schermisce, non lo faccio e tre volte il papa glielo chiede e lo fa. Questa è come la preparazione, il 10 maggio del 1508 intraprende l’opera più complessa della storia dell’arte probabilmente europea, dove tutta la vicenda cristiana, proprio dal fiat lux al dies irae, viene raccontata, come dicono i commentatori antichi. Da solo, lui studia da solo, Vangelo, Bibbia, tutti pensavano che avesse qualunque consigliere, no, lui è solo, cogitativo e non parla con nessuno e lascia questa pittura che è l’inizio e la fine del Rinascimento, che poi si conclude attraverso le altre opere che sono sempre opere inconcluse. Questa è l’unica opera veramente finita, con la Cappella Paolina e con il Giudizio Universale. Questo è il Dio corrucciato, dicono gli antichi, a cui non riesce a donare l’amore che vuole, perché riuscirà soltanto nella poesia. Arriva alla fine alla Cappella Paolina ossia agli affreschi degli anni ’50, ’60. Con la tomba di Giulio II, che rimane un progetto rispetto a questo che era il primo disegno, Michelangelo firma quella che è la tragedia della sepoltura ossia il vero dolore che lo accompagnerà tutta la vita, il vero primo dolore sentito realmente per un senso di fallimento di fronte a un’opera realmente incompiuta. Soltanto dopo molti anni, quando torna a lavorare per il papa, si fa autorizzare da un nipote di Giulio II della Rovere, per sentirsi libero di continuare a lavorare ad altri progetti, perché l’idea di avere tradito il suo papa fu un accompagnamento tragico che si portò dietro per anni. E poi le sculture che hanno fatto la storia della scultura. La Pietà, come dicevamo prima, è compiuta da un ragazzo di 24 anni, 1499. L’anno prima a Firenze è morto Savonarola, lui è appena arrivato a Roma, scolpisce una pietà perfettamente compiuta. Michelangelo poi abbandonerà qualunque velleità di finire le statue, con l’idea che è inutile, con l’idea che comunque la finitezza è un concetto che va al di là della possibilità di un uomo, e pensate è l’unica opera firmata da Michelangelo, un ragazzo giovane, appena giunto da Firenze che allora è ancora più capitale di Roma al di là del potere della chiesa e lascia qui, come nella pulitezza di questa finitura, infinita un’idea esattamente opposta a quella che è il non finito della vecchiaia, come se si volesse nascondere dietro questa idea che poi è l’idea della preghiera della vergine di San Bernardo. Molti anni dopo farà l’altra Pietà, la Pietà Bandini, che è una Pietà meno conosciuta ma importantissima, è la Pietà che è a Firenze ed è la Pietà che lui stava eseguendo per la sua stessa tomba; poi non gli piacque più, perché aveva cercato di realizzare una specie di suo autoritratto nel volto di Nicodemo, ma poi non gli venne bene il braccio della Vergine e cercò di distruggerla.
“Lavorava Michelangelo, dice il Vasari, quasi ogni giorno per suo passatempo, intorno a quella Pietà che si è già ragionato con le quattro figure; la quale egli spezzò in questo tempo per queste cagioni: perché quel sasso aveva molti smerigli ed era duro e faceva spesso fuoco nello scarpello, o fusse pure che il giudizio di quello uomo fussi tanto grande che non si contentava mai di cose che e’ facessi: che e’ sia il vero, delle sue statue” dice compiangendo questo fatto Vasari “se ne vede poche finite nella sua virilità, che le finite affatto sono state condotte da lui nella sua gioventù (…) che come gli aveva scoperta una figura e conosciutovi un minimo che d’errore, la lasciava stare e correva a manimettere un altro marmo, pensando non avere a venire a quel medesimo”.
La Pietà Bandini è come una preparazione a quella che poi sarà la Pietà Rondanini, che arriva come la resa finale attraverso altre richieste, altre commesse di fronte alle quali lui si dichiara ancora controvoglia. Quando gli chiedono di occuparsi di architettura, in particolare della fabbrica di San Pietro, che era stata dicono la sine cura di Giuliano da Sangallo, che per diciassette anni l’aveva gestita, guadagnando un sacco di soldi, senza riuscire a portare a termine la grande cupola, cupola che è il simbolo della Cristianità, non dico dell’Occidente, forse dell’Universo, Michelangelo si adoperò per questo lavoro pur ritenendosi inadeguato al mestiere. Earriva a questo attraverso i Prigioni, che sono proprio il rapporto tra il suo vero neoplatonismo giovanile e l’idea comunque di una fede e di una pietà anche verso se stesso che non si riesce a realizzare se non attraverso il fallimento. Il progetto del Campidoglio, che tutti dimentichiamo essere firmato da Michelangelo quando andiamo a Roma, è ancora un progetto incompiuto, ma dietro il disegno di questa piazza apparentemente leggiadra c’è un progetto molto forte di collegare pittura, architettura, e scultura, attraverso proprio questo segno del pavimento che poi fu realizzato in un modo diverso da quanto lui aveva voluto. E poi San Pietro che fu il grande problema della sua vita fin dal 1557, quando fu chiamato a sostituire Giuliano da San Gallo, perché il papa non riusciva a finire il cantiere. Lui dice al nipote Leonardo: “le cose mie di qua vanno non troppo bene, io dico circa la fabbrica di Santo Pietro, perché non basta ordinare le cose bene che capomastri o per ignoranza o per malizia fanno sempre il contrario e a me tocca la passione dell’error mio”; e poi dà le dimissioni e non vengono accettate, e dice: “in questa vicenda di San Pietro per li comandamenti dei papi come ella sa volentieri son stato gratis da diciassette anni”; ridà le dimissioni, non vengono accettate, continua a dare le dimissioni, ha 86 anni, poi una notte si perde a disegnare nudo, a piedi scalzi e a 86 anni gli viene il raffreddore e sviene. Ha disegnato per tre ore, il giorno dopo è andato a cavalcare e continua a lavorare a San Pietro, continua a volersene andare ma non lo fanno andare, e continua a ritenere San Pietro il maggior suo difetto, il suo maggiore fallimento. San Pietro verrà, non sempre seguendo il suo insegnamento, portato a termine dai suoi allievi, ma in quella che è l’ultima sua lettera autografa, che è una lettera bellissima, tra l’altro, per chi ne avesse la possibilità, in mostra a Napoli, sempre al nipote Leonardo che scoprì lo zio da vecchio quando capì chi era lo zio – in realtà tutta la vita la famiglia di Michelangelo lo aveva tormentato chiedendogli sempre soltanto soldi – il 25 giugno 1563 dice: “Leonardo, io ho ricevuto il trebbiano con altre tue lettere e della Francesca” la moglie del nipote. “Non ho risposto prima perché la mano non mi serve a scrivere; e il simile dissi al signore ambasciatore del Duca, e fammi scuse con messer Giorgio” che è il Vasari “perché sono vechio”. Questa è l’ultima lettera scritta a Leonardo nei mesi in cui stava protestando con questo nipote che cercava di metterlo in guardia contro i suoi collaboratori che lui aveva sempre amato: Antonio Luini da giovane, poi Daniele da Volterra, poi Urbino e adesso Antonio del Francesco. Ad Antonio del Francesco in questi mesi, mentre scrive a Leonardo lasciatemi stare, ha donato la Pietà Rondanini, che è lavorata in questo periodo, in questo periodo in cui sviene da quanto lavora, ma ritorna alla scultura che è l’unica cosa che vuole fare, soffrendo soltanto con le mani e con gli strumenti fatti da lui, perché non gli bastava l’ostacolo della materia, voleva l’ostacolo del mezzo che affrontava la materia.
Ha ottantotto anni quando lavora a questa Pietà, ottantotto e contemporaneamente lavora a un piccolo Cristo in croce, di legno, perché vuole riprovare qual è la densità, lo spessore del legno rispetto al marmo. E per finire, alcuni anni prima, Francesco I che si era innamorato di Primaticcio, un artista che aveva portato la grande maniera italiana a Fountainbleu, aveva insistito, come stava insistendo Pietro Aretino, come avevano insistito l’ultimo duca Gonzaga, come aveva insistito Giorgio Vasari, per avere qualcosa di suo e Michelangelo dice sempre di no, perché è indietro con le commesse e non riesce a rispettare le scadenze e perché infondo a lui dei re non interessa nulla. Fa i corredi alle sorelle dei suoi allievi ma risponde al re di Francia, il 26 Aprile 1545, dicendo che non può soddisfare la sua richiesta di possedere qualcosa di Michelangelo. Michelangelo risponde che non può per l’età, non può perché ha troppi impegni presi con il Papa, ma forse riuscirà in futuro. “E se la morte interrompe questo mio desiderio che si possa scolpire o dipingere nell’altra vita, non mancherò di là dove più non si invecchia”.

DAVIDE RONDONI:
L’applauso è meglio farlo alla fine perché ci si scalda troppo. Prima di proseguire con le ultime due o tre letture, chiedo a Giacomo di eseguire un altro pezzo di Bach che ci permette di tenere a mente qualcosa del racconto bellissimo che ci ha fatto Beatrice, che ha appena raccontato di un bel libro: “La vita di Modigliani” e speriamo che faccia prima o poi anche quella di Michelangelo. Giacomo.

GIACOMO GRAVA:
Esecuzione musicale.

DAVIDE RONDONI:
Sovvertendo un poco l’ordine anche perché gli applausi li facciamo tutti alla fine … non c’è nessun incontro che si occupa di arte, di letteratura che deve durare più di una partita di calcio così vi rimane la voglia … Io chiederei adesso a Luca di leggerci due brani, uno – sarebbe bello se la regia potesse riproiettarci l’immagine della Cappella Sistina – di Mario Luzi, uno dei maggiori poeti italiani del ’900, che dedica alla Cappella Sistina una sua poesia molto alta, molto forte come sentirete, quasi un’invocazione circa l’arte, che riprende l’intuizione che prima Beatrice spiegava, questo dissidio dell’arte che fa vivere e che fa anche morire.

LUCA VIOLINI:
“Si ordina, si forma, tra buio e luce dal suo interno, essa. E fuoriesce un miscuglio di lava e di cristallo sotto i fulmini e le iridi della sua tempesta ed eccola, si stende, opacità prima luminescente e poi compagine sempre più luminosa, infine luce, sostanza sulla volta abbagliata del pensiero e della stanza. L’immagine del mondo ancora accesa dalla propria incandescenza, tempestata dai nembi e dal suo vento. La proietta il cuore, non sa per qual potenza, esulta, si sgomenta sorpreso di quel fiotto di forza e luce. Da dove? Non sa dirlo. Lo prende in sé, lo sbilancia, lo scaglia in forma e canto, materia quella creata che prolifera ed espande. Per opera di chi? Sua, sua, sì per mano di lui, bramo la gloria umana e celeste del racconto o caos vivente. In lui, nella sua mente, si voltola nel tempo. Essa, rotea tra creato e increato, generando. Cosa, padre, generando? Quegli abissi, di buio e di splendore che deposita grumoso o liquido l’indugio, il passaggio del pennello. Non altrove. Lì, sul muro, su quello schermo. Ma dietro l’incessante e, in esso, il gaudioso, in esso, lo spavento. Oh arte, che mi illumini il mondo e me lo rubi, abbi misericordia di me, mi raccomando”.

DAVIDE RONDONI:
Di fronte alla grandezza dell’arte, viene quasi questa preghiera che affiora alla fine della poesia di Luzi – “arte che mi dai il mondo e me lo rubi” – appunto non compie la realtà, l’arte, te la dà e al tempo stesso te la dà un po’ di meno della realtà e questa grande umiliazione, umiltà dell’artista che non crea il mondo, dà la realtà e al tempo stesso un po’ la ruba. Per questo – giustamente Mario Luzi è un grande poeta che ha sempre scritto anche sull’arte – rivolge questa sorta di preghiera all’arte e dice “abbi misericordia di me”, dice “non annullarmi” in questo gioco a volte drammatico, a volte duro, come abbiamo sentito la vita di Michelangelo. Un altro grande autore di cui leggiamo poche righe, è un nostro amico, Giovanni Testori.

LUCA VIOLINI:
“Accumulo di sublime afonia. Torsione senza rimedi sul limitare della vanità di ogni cosa e cioè del nulla o niente. Che si voglia nominare, la poesia di Michelangelo resta ancor oggi l’unica, veritiera cultrice della propria ingombrante e tragica nebbia o verità o fiato. Se c’è infatti un’opera che tutto domanda, tranne il metodo con cui la si è sempre avvicinata, cioè a dire la prudenza e la misura media, questa è sicuramente la poesia buonarrotiana. Al suo sdegno può, semmai, opporti solo una totale imprudenza. Per irriverente che possa sembrare, la poesia di Michelangelo attende non già da essere accosta, bensì d’essere violata. Andiamo pure avanti e specifichiamo dicendo che essa attende d’essere impietosamente sverginata”.

DAVIDE RONDONI:
C’è un breve anche qui non finto sonetto di Michelangelo che è giusto leggere mentre ci avviamo alla fine, dove appunto c’è l’accenno di questa possibile non pacificazione, questa possibile consegna, questo possibile arrendersi, come diceva prima la professoressa Buscaroli ed è un piccolo brano dove Michelangelo si rivolge a Gesù Cristo, dicendo che senza di lui non può fare niente.

LUCA VIOLINI:
“Gl’infiniti pensier mie d’error pieni,
negli ultim’anni della vita mia,
ristringer si dovrien ‘n un sol che sia
guida agli etterni suo giorni sereni.
Ma che poss’io, Signor, s’a me non vieni5
coll’usata ineffabil cortesia?”

DAVIDE RONDONI:
E adesso per concludere un piccolo esperimento – quindi ci perdonerete – ma siccome abbiamo parlato di un’arte che vive la propria crisi e tenta e sa anche che nel fallimento c’è anche la sua propria gloria, come se appunto, riconoscendo il proprio limite, c’è anche la propria gloria. Proviamo un piccolo esperimento che spero non vi faccia scappare tutti. Vi leggerò un piccolo poemetto, breve, che ho dedicato alla Pietà Rondanini che è custodita al Castello Sforzesco di Milano. Vi leggerò questo piccolo poemetto, dove ho immaginato che Michelangelo, arrivato alla fine della vita, circa novant’anni, parlando con questa statua, in particolare con questo aspetto strano – c’è un braccio completamente finito, tutto il resto, invece, è inconcluso – ragionando su questo braccio e parlando di questa statua, parla della sua propria esperienza di artista. La mia lettura sarà accompagnata con il maestro della Jam-Session bachiana, Giacomo Grava, che anche lui si espone gravemente.
“Il braccio, quello, perfetto, vano, mio sogno o incubo. Se ne va il tempo dalla mia mano, il braccio staccato dal corpo che se ne sta cadendo là, perfetto, lasciato da una visione precedente, una dispersa furia, l’inutile braccio. Levalo, dico a me che non ho più forza, levalo da lì, dico a quel che di me ancora in ombra non è o levati dico a lui, dai un segno che in te, arte, non c’è bisogno di pietà che valga un segno che dà un tempo senza dolore, semmai c’è stato, risalga. Levati e quasi grido se avessi ancora forza nel petto e non solo il cerchio appesantito del colpo e il giro ormai lento del martello. Levati moncone, o lo dico a me, moncone io, che così stanco nella mia notte o nella mia morte sto cadendo. Levati, avanzano cose di un vecchio sogno o visione o solo disegno nel buio crescente degli anni della mente. Rompi la scena, vieni da dove non c’è pena. Vieni dalla tua sospesa perfezione, dove c’è lui il condannato, il versato, il quale è definitivo, provvisorio, svenimento. Non restare fermo come un incubo perfetto, antico, braccio orfano della mia paterna e così vecchia ormai o materna immaginazione. I vecchi immaginano più facilmente sconcezze e io cos’è immaginare per lui il mio braccio così bello e nella notte sperduto, figlio orfano infinito o io orfano della sua vibrante perfezione. Braccio sgomento forse d’esser lì accanto a quella scena insostenibile di lei che lo sostiene, povero figlio ingrandato e passato, povero ragazzo perduto, lo tiene a fatica e forse non ce la fa più. Lo lascerebbe andare, lo consegnerebbe alla terra o al bianco ma prima di ogni tempo, lei, Madonna, Madonnina e mia sempre cercata ragazza e rilievo. No, non devo rivolgermi a lei che si sta tutta avvolgendo, un’onda ed è trasparente nel pianto ed io così divengo trasparente guardando. Non a lei devo rivolgere il mio volto o che ne resto del mio becco o scarnita tempesta. Levati, braccio, dai almeno la mano. Non vedi il suo bambino come s’è fatto grande, strano, non è facile reggere un figlio con la morte addosso. Lo vuol lasciar cadere? No, sta qui in sospensione nelle ombre della mia casa, Io non so che cos’ho visto per mettermi in testa di veder cavare un’altra pietà. Che cosa? Che cosa mancava a quell’altra, la famosa, la formosa ragazza così perfetta e adesso riposta in San Pietro e preda dei flash dai turisti. Là Dio che dorme esposto e lei che allarga le mani. Viene l’età di morire, il giorno con la morte che sia. Buio, portami via, levami da questa pietà infinita che è diventata la mia vita. No, vieni, aiuta me e non farmi morire con il moncone negli occhi. Non esiste niente di così stupido e grande, di aver lasciato un braccio così perfetto, immortale, con il mio braccio che ormai solo mi duole, come l’anima mi duole. Venite, mie ombre, avvicinatevi, venite nella mia casa dove sta solo la Pietà che non è compiuta e che si deve compiere sempre. Venite, ombre, dalle finestre, dove non vedrò l’inizio del girono, da dove non c’è ritorno. Mi chiamo Michelangelo. Venite a prendermi, reggetemi, finitemi”.
Ringrazio gli amici che hanno fatto questa piccola cosa insieme. Luca Violini, Giacomo Grava e la professoressa Beatrice Buscaroli e ci vedremo ai prossimi appuntamenti, se volete. Buon proseguimento del Meeting.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

22 Agosto 2010

Ora

19:00

Edizione

2010

Luogo

Sala Neri
Categoria
Testi & Contesti