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L’APPIATTIMENTO DEL MONDO E LA DOMANDA DI VERITÀ
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Adrien Candiard, Membro Institut dominicain d’études orientales (Ideo), scrittore, autore di Qualche parola prima dell’apocalisse (Lev); Olivier Roy, Professore di Scienze politiche all’Istituto Universitario europeo di Fiesole, Direttore del progetto ReligioWest, autore di L’Aplatissement du monde: La crise de la culture et l’empire des normes (Seuil), in uscita nel 2024 per Feltrinelli. Modera Marco Bardazzi, Giornalista.
In questo nostro tempo ci troviamo di fronte ad una profonda crisi della cultura dalla quale sembra difficile uscire. La mancanza di una base culturale comune, all’interno di un contesto lessicale sempre più semplificato e impoverito, rende necessario esplicitare ogni cosa per cercare di convivere pacificamente tra diverse sensibilità. Per regolare la comunicazione interpersonale si ricorre a molteplici criteri (pronomi di genere, l’impiego massiccio e costante di emoticon per meglio rappresentare il significato delle parole) nel timore di offendere la sensibilità altrui. Nel mondo virtuale e autoreferenziale di Internet i rapporti tra individui, invece di essere diretti (disintermediati?) sono privi di umanità. In questo appiattimento generale, l’implicito, non può esistere e ogni cosa deve essere categorizzata, riconosciuta e dichiarata pubblicamente, senza possibilità di sottintesi. Per riaffermare la propria umanità e per ricostruire gradualmente una cultura così in crisi occorre un processo di riappropriazione di sé stessi. Da qui sorge una domanda di verità su di sé e sul mondo, sulla natura e sullo scopo delle relazioni fra le persone. Cerchiamo infatti costantemente di attribuire un significato agli eventi che ci accadono, potremmo quasi dire di scoprire la verità. Questo si riflette anche nella Storia più grande: desideriamo conoscere la direzione verso la quale stiamo andando, abbiamo bisogno di una rivelazione, perché tutto quel che accade non diventi angosciante. Un dialogo affascinante con due protagonisti straordinari del nostro tempo.
Con il sostegno di Regione Emilia-Romagna e Tracce.
L’APPIATTIMENTO DEL MONDO E LA DOMANDA DI VERITÀ
L’ APPIATTIMENTO DEL MONDO E LA DOMANDA DI VERITA’
23 agosto 2023 ore 15.00
Auditorium D3
Partecipano
Adrien Candiard, membro “Institut dominicain d’etudes orientales” (Ideo), scrittore; Olivier Roy, professore di scienze politiche all’Istituto universitario europeo di Fiesole.
Modera
Marco Bardazzi, giornalista.
Bardazzi. Buon pomeriggio, buon pomeriggio a tutti. Benvenuti a questo incontro che ha, ne converrete, uno dei titoli più belli del Meeting 2023: “L’appiattimento del mondo e la domanda di verità”. Lo dico, tanto non l’ho scritto io, quindi posso dirlo. E, ovviamente, adesso si tratta di riempirlo di contenuti altrettanto belli, ma è un compito abbastanza facile, quantomeno per me, visti i due ospiti che sono qui con noi oggi. Ve li presento subito, anche se sono già ben conosciuti qui al Meeting. Alla mia destra, accogliamo con un applauso il professor Olivier Roy, professore di scienze politiche all’Istituto universitario europeo di Fiesole, direttore del progetto ReligioWest. Qui al Meeting, molti di voi l’avranno già ascoltato in passato parlare di Medio Oriente, di mondo arabo, di Islam, di terrorismo, e altrettanti avranno letto alcuni dei suoi molti libri, ricordo solo qualche titolo “Generazione Isis”, “L’Europa ancora cristiana”, “La Santa Ignoranza”, e un libro in arrivo da cui abbiamo tratto una parte del titolo “L’appiattimento del mondo”. Alla mia sinistra c’è un altro amico del Meeting che già conoscete, padre Adrien Candiard. Padre Candiard è stato qui due anni fa, è un islamologo, uno scrittore; dopo essersi dedicato alla vita politica, nel 2006 è entrato nell’ordine dei Domenicani. Oggi risiede al Cairo, dove è membro dell’Istituto domenicano di studi orientali, è priore del convento del suo ordine, è anche uno degli autori di Cristiani di spiritualità più letti in Europa (?). Tra i suoi titoli ultimi: “Sulla soglia della coscienza”, “La speranza non è ottimismo” e anche in questo caso un libro che poi riprendiamo, perché il suo ultimo libro ci dà degli spunti “Qualche parola prima dell’Apocalisse” dell’Editrice vaticana, che è appena uscito. Allora, partiamo dalla prima parte del titolo, dall’appiattimento del mondo. Se si vanno a rivedere un po’ i dibattiti che si facevano qui al Meeting negli anni ‘90, per quelli di voi grandi abbastanza come me per ricordarseli, si scopre che tanta attesa c’era per un mondo appiattito, che in quel momento però veniva definito tale con un’accezione positiva. Era un mondo dopo la fine della guerra fredda che permetteva finalmente la libertà di movimento, permetteva a tutti uno scambio di idee e di opinioni, ma anche uno scambio di distribuzione della ricchezza e di merci attraverso la globalizzazione, che sembrava aprire spazi estremamente interessanti e innovativi. In Europa poi, in particolare, era l’epoca dell’entusiasmo per la costruzione dell’Unione Europea, la comunità dell’Euro, si cominciavano a fare i primi viaggi senza passaporto, i giovani viaggiavano in Erasmus, lo fanno ancora oggi ma all’epoca era ancora più entusiasmante. C’era il decollo di Internet, la diffusione dei computer, la telefonia mobile, tutto sembrava contribuire a tenerci più vicini. Poi è iniziato questo nuovo secolo, di cui parliamo oggi, che ha portato tante cose. Ha portato tanti avanzamenti tecnologici ma anche guerre, attacchi terroristici, crisi economiche, perfino una pandemia globale. La rivoluzione digitale ci ha fatto, sì, fare salti in avanti, tanti, ce ne sta facendo fare ancora, ma ha anche creato una conversazione mondiale piena di polarizzazioni e di tanto rancore. Diciamo che ci ha diviso, da un certo punto di vista, più di quanto non ci abbia uniti, rispetto a quelle visioni forse ingenue che avevamo negli anni ‘90. E ora ci troviamo con un mondo appiattito, assai diverso da quello che veniva immaginato nel momento alto della globalizzazione. È un appiattimento che mette a dura prova qualsiasi identità. dove si preferisce cancellare, invece di capire o sanare, ciò che nella storia o nella letteratura viene percepito come di parte, e dove il sacrosanto desiderio di includere tutti rischia di creare nuove esclusioni e nuove ideologie. È un mondo appiattito sui desideri e presunti diritti del singolo, dove si fatica a trovare una narrazione comune di cosa significhi essere una comunità, e in definitiva di cosa sia il bene comune. Allora vorrei partire da qua, col professor Roy. Di solito quando si parla di questo scenario, la sintesi che facciamo, specialmente noi giornalisti, è “guerre culturali”. Però lei, anche nel suo ultimo libro, molto spesso un po’ contesta questa tesi, cioè non è tanto guerra culturale o conflitto di valori, quanto ciò che è in crisi è la nozione stessa di cultura, ridotta a un sistema di codici espliciti e decontestualizzati che invadono le università, i salotti e i media, dove tutto, persino le nostre emozioni, deve essere elencato e catalogato. Lei usa molto l’immagine degli emoji, le faccine che usiamo tutti noi nelle nostre conversazioni. Non riesco a dire più niente di esplicito senza metterci la faccina che dica “guarda che sto scherzando!”, oppure che faccia capire qual è il mio sentimento in quel momento. Allora ci aiuta a capire cosa intende lei, anche con l’esempio delle faccine, per appiattimento del mondo e quanto in questi anni il web e i social media, per esempio, hanno contribuito a questo appiattimento.
Roy. Grazie. Non utilizzo il termine di “guerra tra le culture”, poiché ritengo che ciò che è in crisi è la cultura stessa, il concetto stesso di cultura. L’appiattimento del mondo è innanzitutto un nuovo sistema di comunicazione che fa sì che non ci si riferisca mai a una cultura data. Faccio qualche esempio concreto. Oggi la lingua internazionale si dice sia l’inglese, ma in realtà l’inglese che viene parlato internazionalmente non ha alcuna relazione né con la cultura inglese, né con quella americana. Viene chiamato globish, in realtà. Si tratta di una lingua che è sconnessa dalla cultura, perché proprio volta a essere capita da tutti. Quindi la lingua viene utilizzata come un codice, cioè a ogni parola corrisponde un unico significato, non ci sono mai sottointesi, mai impliciti e, ad esempio, non si fanno mai battute. Spesso nelle conferenze internazionali, appunto, si incoraggia a non fare mai battute poiché potrebbero generare dei malintesi, le persone potrebbero capire altro e capire quindi un significato diverso da quello espresso. Quindi tutto quello che è legato alla complessità, tutto quello che è legato a sensi duplici o molteplici, ebbene viene legato a un uso della lingua come se fosse un codice. Un altro esempio concreto che lei stesso ha fatto riguarda le emozioni. Sappiamo che le emozioni sono culturalmente strutturate. Significa che, ad esempio, un sorriso non significa la stessa cosa in tutte le culture. Ad esempio, in alcune culture si sorride quando si è arrabbiati. In altre culture, invece, un sorriso è il segno di affabilità, di apertura. Quindi questo può generare malintesi. Oggi che cosa si fa in questa comunicazione globale? Si utilizzano gli emoji, cioè si indica l’emozione che si vuole trasmettere attraverso quel messaggio. Quindi “attenzione, questa è una battuta, questo è uno scherzo”, ecco perché c’è la faccina che ride. Oppure se si è tristi, si mette invece una faccina che piange, quindi si potrebbero anche creare emoji all’infinito, ma quello che è importante è che l’altro capisca qual è la vostra intenzione comunicativa e che quindi tutto ciò che è legato all’implicito, al non detto, venga ridotto al minimo. Sappiamo che l’uomo, diciamo, non è mai nell’esplicito puro, è normale, e per ogni essere umano c’è sempre un non detto, un inconscio. Che venga chiamato peccato originale dalla religione o inconscio dalla psicanalisi, c’è sempre qualcosa appunto di più nascosto, ma tutto questo oggi deve scomparire. Ad esempio, anche nelle manifestazioni più soggettive come quelle del desiderio, oggi vengono imposti dei codici di comportamento sessuale, bisogna dire esplicitamente quello che si intende fare e questo anche per ottenere il consenso dell’altro. Sul piano morale è comprensibilissimo, io non critico il principio, quello che intendo dire è che tutti i comportamenti umani tendono quindi a essere basati su una codifica generalizzata e questo si traduce in un appiattimento, in un impoverimento. Si dice che in questo modo si contiene la violenza e quindi i rapporti diventano più pacifici, ma in realtà la violenza non scompare mai, anzi, riappare al di fuori del codice. Ad esempio, le regole di comportamento sessuale che vengono insegnate ai bambini nelle scuole non mettono fine alla violenza, agli stupri, perché la violenza riappare appunto fuori dal codice, perché la cultura cerca sempre di essere una forma di eliminazione e contenimento della violenza, ma in questo modo la violenza poi si esprime ancora in modo più brutale. Questo è un primo punto. Un secondo punto riguarda il fatto che questo obbligo a doversi spiegare costantemente fa sì che l’individuo sia collegato a dei marker semplici, cioè viene caratterizzato dal genere, dalla razza, dalla nazionalità o semplicemente anche dai suoi gusti. Quindi Internet ha creato uno spazio di comunicazione virtuale in cui vengono create delle comunità, delle comunità virtuali. In queste comunità gli individui non si conoscono personalmente. Mettono in quella comunità, condividono quello che condividono con gli altri, unicamente quello che condividono con gli altri membri della comunità. Ad esempio. non so, gli appassionati di una squadra di calcio o di un certo calciatore, creeranno una community di appassionati e il codice di comunicazione sarà specifico di quella community. Ma si parlerà solo di quello che si ha in comune, quindi l’amore per una certa squadra di calcio e per un certo calciatore. Poi possiamo avere delle community di appassionati di Harry Potter, di manga. Quindi c’è una cultura che non si riferisce a una grande cultura classica o di un certo Paese. L’esempio dei manga è molto interessante. Teoricamente, il manga è un elemento della cultura giapponese. Tutti sanno che la cultura giapponese è una delle più complesse del mondo, più introversa. Eppure, nelle community di appassionati di manga ci sono persone che non hanno alcuna relazione con la cultura giapponese e non se ne interessano affatto. Ci sono africani, parigini, californiani che si riuniscono su Internet, uniti unicamente dal loro amore per i manga. E poi ci sono delle comunità ideologiche, politiche e così via. Quindi vengono create delle sottoculture da persone che si assomigliano e che condividono dei marker comuni, che possono essere positivi o negativi, ma che li distinguono e li contraddistinguono dalle altre community. Automaticamente c’è quindi un conflitto fra queste comunità perché queste comunità spesso non si parlano; quindi, le community di amanti dei manga non comunicano ad esempio con una community di tifosi di calcio o con quella di chi ha magari un certo orientamento sessuale. Quindi non solo non si parlano; a volte, in alcuni casi, nei peggiori, si detestano, perché le altre community magari vengono viste come l’esempio perfetto dell’estraneo. E arrivo adesso ad un ultimo punto. Queste community si basano sull’identità. Ma che cos’è in questo caso l’identità? Sono persone che condividono quindi questi marcatori, questi marker, che di nuovo possono essere qualsiasi cosa, possono essere dei marcatori di opinioni politiche, di gusti, di razze, di genere e così via. Questi marcatori però per forza sono limitati, perché nessuno parlerà della propria personalità, solo sottolineerà quello che ha in comune con l’altro, con quello che è identico a lui. Quindi queste culture identitarie sono narcisistiche, sono ripiegate su sé stesse. In questo senso l’identità è il contrario dell’amicizia, è il contrario dell’apertura verso gli altri nella loro diversità. Queste subculture create nel mondo virtuale, quindi, non sopportano la diversità, perché si basano su ciò che è uguale. Un altro punto importante è il fatto che, dato che la comunicazione deve essere sempre esplicita, bisogna essere chiari, occorrono delle norme. Siamo in un mondo, più che in una società, che sempre di più è caratterizzato da norme, è normato. Per chi ha più di 30 anni, in questa sala, se si fa un confronto tra tutte le regole che ci sono oggi e quelle che c’ erano in passato, vedrà che c’è una grande differenza. Oggi ci sono norme su tutto, sul luogo di lavoro, sulle scuole, sulle associazioni a cui qualcuno può appartenere. Se ci pensate, se ci fate caso, il numero di norme e di regole negli ultimi 20 anni è aumentato di tre volte, triplicato. Quindi oggi vengono regolamentate cose che in passato non venivano regolamentate, anche comportamenti, linguaggi. E chiaramente ci sono cose che ovviamente bisogna vietare, ma la conseguenza è che la comunicazione è basata su queste norme. Bisogna parlare in un certo modo, rivolgersi agli altri in un altro modo, evitare certi gesti e così via. Ancora una volta c’è una forma di appiattimento e anche qui faccio un esempio, l’ultimo. Ogni individuo racchiude un certo mistero, siamo d’accordo, e ciascuno poi esprime questo mistero in certi luoghi: nella chiesa può essere la confessione, nella psicanalisi è la terapia; quindi, si cerca di far scaturire questo mistero dell’individuo; ma oggi c’è il trionfo del comportamentalismo, cioè si vuole correggere il comportamento di qualcuno senza occuparsi della sfera interiore. Pensiamo agli alcolisti anonimi. Cosa succede? Una decina di persone si riunisce, tutti hanno un problema di dipendenza dall’alcol e quindi ognuno poi si esprimerà unicamente su questo problema e cercherà di trovare ciò che condivide con gli altri vicini. Poi insieme si incoraggiano a rispettare delle norme, delle regole. Quindi ci sarà questa sorta di percorso fatto insieme per poi raggiungere un obiettivo che è quello di un certo comportamento corretto, l’astinenza in questo caso dal consumo di alcol. Quindi si cerca attentamente di evitare la complessità dell’individuo, ci si concentra unicamente su delle regole semplici applicabili a tutti. E questo è l’appiattimento del mondo. Oggi l’appiattimento del mondo ha trovato il suo ambito di espressione che è Internet. Non è Internet che ha inventato l’appiattimento del mondo, ma Internet offre all’appiattimento del mondo uno spazio, che non è un vero spazio tridimensionale. Non è uno spazio con una trascendenza, una natura, non è uno spazio strutturato, è uno spazio anch’esso piatto. E quindi c’è proprio l’appiattimento in tutti i sensi della parola. Questo appiattimento è anche un impoverimento e questo va a scapito della spiritualità, di qualsiasi forma possibile di spiritualità. Quindi la crisi del religioso è legata fortemente a questo appiattimento del mondo.
Bardazzi. Grazie. Credo che adesso sia più chiaro che cosa si intende per appiattimento del mondo, nell’accezione con cui abbiamo provato ad affrontarlo in questo dibattito. Il professor Roy ci ha portato direttamente al cuore della questione. E il cuore della questione, alla fine, continua a essere l’io, la persona, con Internet che magari ci ha complicato un po’ la vita. Allora vorrei venire un po’ a padre Candiard. L’ultima volta che è venuto qua, il titolo del Meeting era “Il coraggio di dire io” e qui ripartiamo più o meno da quel punto, però con un io provocato dalle cose che ci stava descrivendo il professor Roy. La cultura identitaria narcisista, diceva il professor Roy, è contraria all’amicizia. Ecco, questo è il Meeting invece dove parliamo molto di amicizia. Allora, in questo scenario di appiattimento, come si fa a dire “io” senza creare un’immediata reazione di difesa da parte dell’altro? E come proporre per esempio un’identità, un messaggio cristiano senza suscitare l’accusa di essere di parte? Lei parla spesso ai cristiani disorientati e cerca dialoghi con chi non crede o chi crede in altre religioni. Come si muove in questo mondo appiattito?
Candiard. Grazie. Vi chiedo scusa perché vi faccio perdere la bella voce della traduttrice e al suo posto avete il mio italiano arrugginito. Aspettate gli sbagli di grammatica, se il Manzoni si rimpiange diremo che metteremo tutto sul conto della mancanza di sonno della notte in aeroporto. Il professor Roy ha appena usato la parola identità, che anche tu hai usato in modo più positivo parlando di un’identità cristiana da proporre. Però se seguiamo la proposta, questa importanza data alle identità è un segno, è una conseguenza dell’appiattimento del mondo, di un mondo in cui la cultura si indebolisce e rimangono i marcatori dell’identità personale. Hai cominciato ricordando i dibattiti degli anni ‘90, confesso che non li ricordo bene, ma sicuramente si parlava poco di identità, mentre adesso il tema identitario è cresciuto attraverso dibattiti un po’ assurdi, quando ci pensiamo. Se il dibattito è tra chi è favorevole all’identità e chi gli è contrario, non ha senso, proprio perché l’identità è la cosa per eccellenza che non va messa in discussione. Non si può discutere un’identità, proprio perché l’identità è quello che è, per definizione. È la cosa che c’è e che non si può discutere. Se volete discutere il fatto che io sono miope, possiamo discutere, però non ha senso. Lo sono, punto e basta. Forse ho torto, forse avevate ragione voi, però non c’è motivo di discussione. Potete discutere il fatto che sono francese, però, scusate, lo sono punto e basta. Non possiamo cambiare la mia data di nascita e fare un dibattito su questo non ha senso. Probabilmente quando c’è un dibattito sull’identità, significa che non parliamo più di identità. Faccio un esempio. Nel paese, paesino di campagna, dove vive mia madre, quando ero piccolo, a Natale, davanti al municipio c’era il presepe ed era assolutamente normale. In una regione non particolarmente cristiana, però negli anni ‘80-‘90 c’era il presepe, pur con la laicità francese. Ci sono stati, alla fine degli anni ‘90 e all’inizio del 2000, dei dibattiti sui presepi nello spazio pubblico. Ci sono stati difensori dei presepi, dicevano “Ma no, questa è la nostra identità”, ma dal momento in cui c’è una discussione, c’è un dibattito, non è più un’identità, è un motivo di discussione, è tutt’altro, non è più il fatto che siamo noi. Ciò che siamo noi non si discute. E vorrei con voi oggi fare una distinzione molto semplice, che però, secondo me, non facciamo abbastanza spesso, tra identità e idea, identità e opinione. Mi hai chiesto, cinque minuti fa, se era possibile, in un mondo polarizzato, proporre un’identità e una fede cristiana, se non capisco male la tua formula. La fede cristiana va proposta, certo. Un’identità cristiana come si può proporre? Ovviamente la difficoltà delle religioni è che in una religione ci sono due componenti. La religione è una identità ricevuta, spesso dai genitori, dalla cultura e quindi è normale. C’è chi fa parte del bagno di una religione e questo è normale in un paese come l’Egitto dove vivo io, assolutamente normale, non esistono persone senza religione, nel senso che la religione è sulla carta di identità, fa parte della comunità di appartenenza. Questa è l’identità e questa non va discussa. Infatti, nel dibattito pubblico non serve attaccare le persone sulla loro comunità di appartenenza, ciò è assurdo, non può produrre assolutamente niente come soggetto e argomento di discussione. Però una religione è anche, deve essere, speriamo, un insieme di convinzioni, non soltanto di eredità ricevuta, ma anche di convinzioni, di credenze, una fede personale vera in alcune forse, c’è un contenuto. Non è soltanto un quadro ricevuto, ma anche un contenuto. E questo per un credente è l’importante. Per un sociologo forse sarà diverso, ma almeno per il credente l’importante è il contenuto della credenza e questo non è a livello dell’identità, questo va discusso, questo deve essere messo in discussione. Certo, facciamo bene nel dibattito pubblico in Europa a chiedere il rispetto per le persone e questo è molto necessario, ma le dottrine non vanno rispettate di per sé. Cioè, posso chiedere il rispetto per la mia persona, per il fatto di essere cristiano, ok, ma la mia fede nella Trinità non merita di per sé un assoluto rispetto che vieta la discussione. Anzi, capisco che per tanti possa sembrare stranissima questa dottrina, questa credenza, Dio è uno e tre allo stesso tempo, cioè matematicamente è un po’ strana, ma rispettarmi non significa non dire niente, dire “Ok, questa è la tua cosa”. Significa piuttosto entrare in discussione, chi non va d’accordo deve entrare in discussione, in dibattito, deve dirmi “Scusa ma come mai, uno e tre non sono uguali, scusami, spiegami” e così con la discussione si può proporre la fede come contenuto, la fede come convinzioni. Credo che una delle nostre difficoltà sia proprio quella della confusione tra l’identità religiosa, che alla fine non serve un granchè, e un contenuto. Da credenti vogliamo proporre qualcosa al mondo. Non possiamo proporre un’identità, ma possiamo proporre delle idee, delle convinzioni, una fede. E questo aggiunge, secondo me, una necessaria etica della discussione che spesso non abbiamo, nel senso che il discorso, per chi lo dice e anche per chi lo riceve, serve spessissimo a esprimere posizioni più che idee. Nell’ambito politico è ovvio. Cerco di dire qualcosa all’elettorato più di centro-sinistra, mando un segnale, mi faccio vedere, ok, ci sono posizioni, più che altro. Ma dappertutto, anche nella Chiesa, ci sono delle posizioni già note e spessissimo, anche chi ascolta cerca di dire “Lui che sta parlando, dov’è sulla scacchiera della Chiesa, lui di che corrente sarebbe?”. Quando si cerca questo, di collocare la persona, non si ascoltano le idee, non si ascolta il discorso, non si riesce a dire niente, perché diciamo soltanto delle cose e delle posizioni che già esistevano prima. Posso confessare, visto che siamo tra di noi, che da scrittore faccio apposta, alla meglio, a non entrare in caselle già predisposte, se no la maggior parte dei lettori, anche quelli che andrebbero d’accordo con me, non mi ascoltano, vedono soltanto le bandiere “Ah ma sì, lui è con noi… è contro di noi”. Invece “No, scusate, cerco di dire qualcosa, non di esprimere dove sono, ma esprimere un’idea” e secondo me abbiamo veramente bisogno, se vogliamo cercare in questo mondo appiattito un po’ di verità, abbiamo bisogno di ascoltare e di esprimere più idee e meno posizioni. Per questo, probabilmente, quello che mi è interessato nel titolo del nostro Meeting di quest’anno è che per avere una discussione vera e propria, e non un confronto di identità che di per sé è per forza sterile, l’amicizia può essere una condizione abbastanza grande. Per ascoltare veramente ciò che ha da dire qualcuno, probabilmente bisogna volergli bene e quindi prendere il tempo di far crescere l’amicizia aiuta presumibilmente la possibilità di una discussione vera e propria.
Bardazzi. Grazie. Ed è ovviamente un perfetto assist per tornare dal professor Roy e per parlare anche della seconda parte del titolo, abbiamo già detto dell’appiattimento del mondo: la domanda di verità. Se vogliamo creare in un mondo appiattito un po’ di verità, più idee e meno posizioni, diceva adesso padre Candiard. Non c’è dubbio che una delle difficoltà, che si trovano in questo momento nel mondo appiattito, nell’affrontare il tema della verità è il fatto che è molto difficile non tanto trovare una verità condivisa, che questo probabilmente non succede mai, ma anche una narrazione minimamente condivisa di quale sia il metodo per arrivare a qualche tipo di verità su cui possiamo dialogare. Penso agli esempi di ciò che abbiamo vissuto nella fase del Covid: non tanto trovare una verità condivisa perché sembrava impossibile, ma neppure un’idea di quanto e come stare di fronte al metodo scientifico piuttosto che ad altre cose, quanto ci ha diviso questo! Lo stesso si sta ripetendo a volte sulla guerra in Ucraina e su tanti altri temi. Allora, perché nel mondo appiattito è diventato così difficile fare questo cammino di ricerca di un metodo per una verità che in qualche modo ci tenga insieme?
Roy. Se prendiamo come esempio la pandemia, quindi il Covid, è molto interessante, poiché non ha nulla a che fare con la nostra società e la nostra cultura, è qualcosa che è accaduto e che forse sarebbe potuto accadere in qualsiasi altro momento della storia del mondo. Ma questo evento ha accentuato il fenomeno di appiattimento del mondo. In che modo? Innanzitutto, il lockdown ha isolato le persone, gli individui, e li ha isolati anche dal loro ambiente, dai loro vicini, dalle loro famiglie, dal loro lavoro, dalla loro terra. Le persone si sono quindi trovate isolate. Ma che cosa c’era? C’era Internet, c’era Facebook, c’erano i siti web, i gruppi di discussione, perciò il lockdown ha facilitato, indipendentemente dal luogo in cui ci si trovava, che fosse Milano o Parigi, di interloquire con una persona in California o in un’altra parte del mondo, piuttosto che con il proprio vicino. Quindi l’effetto incredibile del lockdown è stato l’isolamento, l’individualizzazione, la desocializzazione e il rafforzamento delle sottoculture virtuali. C’è stata una congiunzione incredibile di elementi che hanno unito la pandemia e l’invenzione di Internet. Questi elementi si sono incastrati perfettamente e la creazione di queste comunità virtuali, di queste subculture, ha poi generato un altro fenomeno molto conosciuto, quello del complottismo. E qui ci sono due motivazioni. La prima motivazione è la ricerca di una causa, di un senso. Perché è successo quello che è successo? E dato che non si trova una risposta, si pensa che la causa sia molto nascosta perché non si riesce a intravedere alcuna causa. Allora si pensa a un complotto, che è qualcosa molto più sottile di quanto si pensi. Quindi il complottismo non è legato affatto all’irrazionalità, i complottisti invece sono molto razionali, pensano che ogni evento abbia una causa e se non si vede questa causa significa che è nascosta, perché qualcuno ce la sta nascondendo e c’è un segreto che occorre scoprire. Il secondo punto è che i complottisti si sono ritrovati tra di loro e quindi non c’è un vero e proprio confronto per la verità. Questo è il problema di queste subculture virtuali: non si confrontano mai con l’alterità. L’altro è sempre un nemico, fa parte del complotto e perciò si parla solo, diciamo, tra i propri pari e questo individualismo narcisista porta anche a tendenze paranoiche, andando ovviamente a scapito della verità. E come si potrebbe tentare di ritrovare invece un luogo in cui parlare della verità? Un luogo che vada a ricreare il rapporto sociale, perché quello che sta scomparendo è il rapporto sociale, che può essere anche molto complesso e vario, può essere attraverso il lavoro, la famiglia, il luogo dove si vive, ma l’importante sarebbe discutere con persone che vivono nel nostro stesso ambiente Oggi c’è una distorsione, una distanza, un divario sempre più grande. Non si parla più con le persone che vivono nel nostro stesso spazio. Si parla sempre con qualcuno che vive in uno spazio virtuale. E faccio un ultimo esempio concreto: il movimento dei gilet gialli in Francia. È molto interessante, poiché si tratta essenzialmente di vittime di trasformazioni economiche e sociali dell’attualità. Ma che cosa cercavano di fare i gilet gialli? Cercavano di ricreare un legame sociale, un legame basato sulla prossimità. L’hanno fatto in un modo un po’ artificiale, ad esempio riunendosi nelle rotonde, all’incrocio delle strade, facevano delle grigliate e parlavano tra di loro, persone vere con persone vere. avevano anche cercato di trovare degli elementi politici in comune, perché non erano d’accordo su tante cose, c’era di tutto tra i gilet gialli, i populisti o altri di tutte le estrazioni politiche, ma loro hanno cercato di ritrovarsi per appunto discutere faccia a faccia. Quello che è interessante è che la risposta non solo dello Stato, ma di una gran parte della società, è stato il rifiuto perché i gilet gialli venivano visti come dei perturbatori e sono stati anche repressi violentemente dalla polizia. Loro stessi a volte sono stati violenti, ma la polizia li ha repressi in modo piuttosto violento, come se alla fin fine si chiedesse alle persone di liberare questo spazio, questo spazio comune delle strade e di rifugiarsi nello spazio virtuale. Io non dico che questa sia stata la politica del governo, dico solo che questa è stata la conseguenza del modo in cui è stata gestita la crisi dei gilet gialli, perché sembrava quasi che svuotare questi spazi comuni fosse lo scopo, affinché loro tornassero a rifugiarsi in uno spazio virtuale, che però comunque non si può controllare. Quindi c’è stata questa accentuazione di una desocializzazione, di una scomposizione, di un allontanamento dalla realtà. Dovremmo ora tornare alla base, alle basi. Quindi proprio parlo di cose molto concrete, parlo proprio dei quartieri, dei villaggi, proprio dei luoghi di lavoro, per ricreare rapporti sociali reali in cui si incontrano persone in carne ed ossa, si parla anche con persone che non sono necessariamente come noi, non si è più in grado di parlare con chi non è come noi. Oggi tutti, direi a destra come a sinistra, invece vogliono creare spazi di omogeneità in cui ci si ritrova tra sé. Tra i populisti c’è il concetto di identità nazionale, si vuole rimanere tra gli stessi, persone che amano lo stesso cibo, che sia la baguette o la pizza, quindi tra i propri simili. Ma anche a sinistra c’è la stessa volontà di creare dei gruppi, appunto decolonizzati, che condividano tra di loro dei marcatori culturali, che magari siano elementi distintivi di sofferenza o di dolore; l’idea è di creare questi safe spaces, questi spazi sicuri, quindi ci si ritrova tra propri simili per sentirsi al sicuro e non minacciati da idee che non sono le proprie o dalle parole di un professore. Questo sia a destra che a sinistra, non è una questione di destra-sinistra, perché questo attraversa tutto l’arco politico, ci si vuole ritrovare tra propri simili. Quindi, invece di posizionarsi su un arco politico, ora bisogna tornare alle basi, bisogna ritrovare il senso stesso dell’amicizia e qui mi riferisco anche al titolo del Meeting di quest’anno.
Bardazzi. Le chiedo, solo in aggiunta a questo ma brevemente: lo scenario che lei fa è abbastanza pessimista, comunque sicuramente molto realista; vede all’orizzonte un qualche tipo di miglioramento, questo recupero degli spazi e dell’amicizia, lei lo vede arrivare o teme che le cose andranno peggio?
Roy. Allora io non faccio previsioni, è troppo rischioso, ma penso che dovrebbe succedere qualcosa a partire dalla base, dalla vita concreta delle persone. Le persone dovrebbero impegnarsi, davvero impegnarsi in questa ricerca di legami sociali, in questo recupero dei legami sociali. Non si può delegare questo alla politica. C’è anche una crisi della politica oggi, oramai, perché c’è proprio una crisi anche della struttura dello Stato. Anche l’ascesa dei populisti è comunque espressione di questo tipo di crisi. Quindi prima di trovare una risposta politica, che prima o poi occorrerà trovare, bisogna prima di tutto lavorare sulla ricostruzione dei legami sociali, partendo proprio dai luoghi dove si vive, dove si è nati, dove si lavora.
Bardazzi Grazie. Allora, prendendo di nuovo questo scenario e riportandolo a te, padre Candiard, alcuni degli aspetti, mi sembra, dello scenario che descriveva adesso il professor Roy, li troviamo nell’ultimo libro che hai scritto “Qualche parola prima dell’Apocalisse. Leggere il Vangelo in tempo di crisi”. Di crisi ne abbiamo avute tante in questo periodo. Diciamo che non ci siamo fatti mancare niente, parlavamo della pandemia, abbiamo parlato delle guerre. Ma mi colpiva che tornasse anche la parola “apocalisse” perché si riparla anche di questo. C’è stato molto dibattito sulla preoccupazione per il ritorno alle armi nucleari in qualche scenario. Oggi esce in Italia il film su Robert Oppenheimer che negli Stati Uniti ha creato grande apprensione e sconvolgimento, ma soprattutto ha riaperto un dibattito sulla bomba atomica e quindi sui tempi ultimi, diciamo, indicati da Cristo nel Vangelo. La stessa intelligenza artificiale, ne parlavamo ieri qua al Meeting, ha delle prospettive enormi, ma in teoria potrebbe anche essere un qualcosa che stiamo costruendo che ci metterà seriamente nei guai. Tu inviti a una ricerca della verità che in un periodo difficile come il nostro permetta di trovare nuove motivazioni di fede e di speranza. Apocalisse è un po’ una parola che mette molto a disagio noi moderni, ma dove trovare speranza in questo scenario?
Candiard Allora, l’apocalisse. Sì, come parola può far paura anche per buoni motivi, perché può evocare, proprio in questo quadro che è stato esposto di un mondo frammentato, può essere una tentazione per i cristiani di tenere un discorso di spiegazione del mondo fondato sulla paura, sull’angoscia e su una lettura frammentaria e discutibile delle fonti bibliche, dicendo: “Ma guardate, ciò che sta succedendo è esattamente il segno della Bestia, Internet è il segno della Bestia”. Si può fare così e se facciamo così, e alcuni lo fanno, facciamo esattamente parte di questa frammentazione che è stata descritta, con ognuno che parla il proprio linguaggio, che non è intendibile da nessuno, perché abbiamo le nostre referenze che non significano niente per gli altri. Cioè, chi capisce il segno della Bestia se non uno che è familiare col libro dell’Apocalisse? Ma se facciamo così, da cristiani non serviamo a niente, se non ad accelerare questo appiattimento, questa distruzione del nostro mondo comune. Questo è importante per un cristiano, è anche soprattutto contrario all’intenzione di Gesù Cristo che ci mette in guardia dicendo: «Scusate ragazzi, ma la data, il momento, nessuno li conosce, neanch’io, io, cioè Gesù Cristo», io non so niente». Ma se Lui non lo sa, chi sono questi profeti che oggi vanno a dire “siamo negli ultimi tempi”? Ma che senso ha? Se siamo cristiani, crediamo in Gesù Cristo, che dice “Io non conosco il momento”; come mai uno su Internet andrebbe a rivelare ciò che Gesù ignora? Siamo un po’ seri. L’apocalisse può essere, se la usiamo male, un elemento problematico ma può essere anche, se la capiamo bene, uno strumento per andare avanti. Apocalisse non significa catastrofe, ma in greco “rivelazione”. Rivelazione non del futuro, ma del senso della storia. E i libri cosiddetti apocalittici, che ci sono nella Bibbia, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, servono a rivelare non il futuro, ma il senso della storia umana. E se rivelano un senso della storia umana, forse allora possiamo partecipare alla discussione comune con chi non crede, con degli elementi che possono chiarire un po’ ciò che viviamo. E, secondo me, sarebbe utile far notare che le principali minacce che abbiamo davanti a noi e che mettono a rischio l’esistenza umana, hai menzionato la distruzione nucleare, che è tornata in modo un po’ brutale recentemente, ma anche il riscaldamento globale, il cambio climatico, tutti e due non sono soltanto conseguenze dell’azione umana, ma, osiamo la parola, del peccato umano. Non capiamo niente di ciò che viviamo se perdiamo di vista che il cambio climatico viene principalmente dalla voglia umana di possedere di più, di consumare di più. Cioè, siamo su un peccato abbastanza classico e la distruzione nucleare è un rischio che è soltanto il climax della nostra volontà di dominazione e di mutua distruzione. E, secondo me, questo ce lo rivelano i libri apocalittici della Bibbia, ci fanno vedere che la nostra azione ha un effetto non soltanto sulla nostra vita. A volte vediamo la morale come una cosa un po’ infantile “Hai mangiato la marmellata durante la Quaresima, ma no, non va bene”. No, parliamo… il peccato è una cosa che fa del male, un male che ha delle conseguenze ben oltre la mia vita spirituale. Parliamo della storia umana. E il peccato, che è una categoria che non osiamo più usare, secondo me spiega un sacco di cose sulla nostra storia e la dobbiamo proporre alla discussione, alla discussione comune, perché credo che questa rivelazione non sia soltanto per noi, è da condividere. Anche perché, per tornare a questa questione della verità, mi ha colpito quando lei, professore, ha descritto questo mondo dove ognuno è isolato con la propria razionalità. La verità, se la cerchiamo, la cerchiamo perché esiste, lo credo al 100%, esiste però non è disponibile, non è così visibile da tutti, la dobbiamo cercare insieme, anche perché questo bello strumento che Dio ci ha dato, cioè la ragione, la razionalità, va costruita. La razionalità non l’abbiamo, la creiamo insieme. Se credo di avere da solo la ragione, sono pazzo. Cioè, sono i matti che pensano di avere ragione da soli. Conoscete la storia dell’uomo che guida sull’autostrada e sente alla radio “Attenti, attenti, c’è un matto che guida contromano sull’autostrada!”. Lui dice: «Non uno, tutti…». Ma quando la razionalità, quando si crea soltanto da solo, quando sono solo con la mia razionalità, creo delle cose coerenti alla meglio, però con una visione molto parziale, molto limitata del mondo. Il che consente di creare una razionalità più interessante quando si confronta con la razionalità di un altro. Insieme possiamo cercare di capire, perché ognuno ha una coerenza che però non va d’accordo con quella dell’altro e dobbiamo costruire qualcosa che va al di là, una grammatica del dialogo, una grammatica della ricerca della verità. E questa è una cosa che ho sempre notato, la razionalità la creiamo sempre essendo più di uno, lo vedo ovviamente nel mio piccolo al Cairo, dove sono impegnato nel dialogo interreligioso. Ovviamente ci troviamo con delle tradizioni, anche razionali, diverse, ci confrontiamo e cerchiamo di capire perché non diciamo la stessa cosa avendo alle spalle secoli di filosofia, di teologia, di razionalismi. Anche per questo, secondo me, il dialogo interreligioso non è, come lo credevo all’inizio, quando mi hanno mandato al Cairo. Pensavo “Ok, mi mandano come un diplomatico ai confini, per discutere coi vicini”. Ma no, ho capito che questo dialogo è al centro della fede, perché soltanto insieme possiamo ingrandire il nostro modo di vedere il mondo, di conoscere il mondo. Possiamo migliorare questo bello strumento della ragione, facendolo insieme in un dialogo che speriamo la nostra storia, anche drammatica, ci darà la possibilità di continuare a costruire.
Bardazzi. Grazie. Ti chiedo solo un ultimo passettino, così poi chiudiamo la nostra discussione. Da soli non si va da nessuna parte, come diceva il professore. Il dialogo è fondamentale. C’è un passettino ulteriore che è l’amicizia. “L’amicizia inesauribile” è il titolo di questo Meeting. Che cosa aggiunge a quello scenario che stavi descrivendo?
Candiard. Il dialogo, la discussione, la razionalità, tutto questo è bellissimo. Parliamo di termini astratti. Il dialogo esiste soltanto quando ci sono delle persone vere e proprie. Il dialogo non si fa tra la Chiesa e l’Islam. Mi chiedono spesso, lo dico spesso, mi chiedono “Ma si può dialogare con l’Islam?”. No. “Ma perché?” Si può dialogare con le persone, cioè con i musulmani, non con l’Islam. Si può dialogare soltanto con le persone, le persone che conosciamo e così impariamo a voler loro bene e quindi l’amicizia, secondo me, è proprio la chiave che consente di uscire da questa drammaticità della nostra storia per cominciare alla base, fin dalla base, a costruire qualcosa insieme.
Bardazzi. Grazie. Vi svelo un retroscena: avevamo deciso prima di non parlare di Islam, semplicemente perché qui ci sono due dei massimi esperti al mondo da questo punto di vista. Abbiamo detto: «Se affrontiamo quel tema dopo non ne usciamo più»; però sono contento che l’abbiamo comunque accennato e toccato quantomeno sul finale. Allora, la cosa che personalmente porto a casa da questa conversazione è proprio la bellezza di un dialogo in un mondo che tende a tenerci sempre più isolati e che in quell’isolamento costruisce un appiattimento che è estremamente pericoloso per tutti noi. Direi che ci avete portato come contributo una serie di spunti su cui sarebbe bello poi, e sarà bello, lavorare: le culture identitarie narcisiste, la subcultura, che è contraria all’amicizia, di cui parlava il professor Roy, e le posizioni più che le idee, che descriveva Padre Candiard, la confusione tra identità religiosa, idee, convinzione e fede, temi attualissimi sull’oggi. Direi che in generale ci avete portato degli spunti di metodo fondamentali per tutti noi, per cercare di navigare questa complessa quotidianità, ci avete portato tanti contenuti decisivi e poi ci avete portato la vostra amicizia, qui al Meeting. Quindi ringrazio e chiedo di ringraziare con un grande applauso. Mi sembra un applauso anche al tuo italiano, Adrien, il sonno non ha creato problemi. Direi che una delle cose poi che ci portiamo sempre a casa alla fine di ogni incontro è la domanda: in quale altro posto, che voi conosciate, si fanno dibattiti come quello che abbiamo cercato di fare stasera e come quelli che avvengono qui al Meeting? Quindi grazie a tutti.