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“L’AMORE DÀ SEMPRE VITA”: UNA SFIDA PER LA FAMIGLIA
Partecipano: S. Ecc. Mons. Paolo Martinelli, Vescovo Ausiliare di Milano; Marco Mazzi, Presidente Associazione Famiglie per l’Accoglienza; Sabrina Pietrangeli, Presidente e Amministratore Delegato Associazione La Quercia Millenaria Onlus. Introduce Lorenza Violini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Milano.
“L’AMORE DÀ SEMPRE VITA”: UNA SFIDA PER LA FAMIGLIA
LORENZA VIOLINI:
Buonasera. Iniziamo questo nostro momento di lavoro ricordando come primissimo pensiero, ma come pensiero che ci ha accompagnato e ci accompagnerà nei prossimi giorni, le notizie drammatiche del terremoto che ha colpito il nostro Paese.
“Siamo colpiti dalle drammatiche notizie del terremoto di questa notte e pertanto oggi in tutte le sale del Meeting iniziamo i lavori con un momento di silenzio e di preghiera. Unendoci ai sentimenti di Papa Francesco il nostro pensiero va alle vittime e alle loro famiglie, desideriamo essere vicini a loro, continuando a vivere questa giornata con ancora maggiore serietà. Il Meeting invita ad aderire a qualunque iniziativa che sarà indetta dalle autorità competenti in questo momento drammatico e invita tutti i partecipanti ad aderire alla proposta della presidenza delle CEI alla colletta nazionale da tenersi in tutte le chiese italiane il 17 settembre in favore delle popolazioni colpite dal sisma”.
Chiedo a sua Ecc. Mons. Martinelli di farci dire una preghiera.
S. ECC. MONS. PAOLO MARTINELLI:
Ave Maria…
LORENZA VIOLINI:
E’ bello avviarci a concludere il Meeting di quest’anno, Meeting grandioso per il bel titolo, per il titolo veramente evocativo che ci ha accompagnato non solo sul piano della cultura ma proprio sul piano personale, con una riflessione ampia sul tema della famiglia. Tante volte questo “tu”, questo bene per me, che pure è alla base della convivenza familiare, non è sempre evidente, spesso è tradito, le famiglie sono ferite, ma il “tu” resta e siamo così grati anche a Papa Francesco che ce lo ha ricordato nella recente esortazione apostolica Amoris laetitia.
Per questo il momento di questa sera vedrà un primo intervento di Sua Ecc. Paolo Martinelli, che è il Vicario episcopale di Milano per la vita consacrata ma che si è dedicato tantissimo nella sua carriera di studioso e di sacerdote ai temi della famiglia. Ci introdurrà alla comprensione, all’approfondimento di questo grande monumentale documento della chiesa. Seguiranno, poi, due testimonianze che vengono da due esperienze vive, esperienza grandi, che sono da una parte le Famiglie per l’Accoglienza nella persona di Marco Mazzi suo Presidente, e dall’altra l’esperienza della Quercia Millenaria, che è stata fondata, che nasce dall’esperienza di Sabrina Petrangeli Paluzzi, Presidente di questa Associazione.
Siccome il tempo ci è un po’ tiranno e vogliamo essere molto tempestivi nel fare questo momento di riflessione cedo al parola a Sua Ecc. P. Martinelli.
S. ECC. MONS. PAOLO MARTINELLI:
Bene, grazie per l’invito, mi introduco subito in questa mia comunicazione leggendo un passaggio dell’esortazione apostolica, Amoris laetitia dove è contenuto il titolo del nostro incontro. E’ il n. 165 dell’esortazione apostolica, dove si dice: “L’amore dà sempre vita, per questo l’amore coniugale non si esaurisce all’interno della coppia, i coniugi mentre si donano tra loro, donano al di là di se stessi la realtà del figlio, riflesso vivente del loro amore, segno permanente dell’unità coniugale e sintesi viva, e indissociabile del loro essere padre e madre”.
L’espressione che dà il titolo al nostro incontro, tratto dalla esortazione apostolica Amoris laetitia, introduce un passaggio della Familiaris Consortio di san Giovanni Paolo II che il Papa Francesco cita nel documento e che riprende in sintesi la dinamica della vita familiare: l’uomo e la donna, la loro differenza, la loro unità che non annulla ma esalta la differenza stessa, la loro generatività che si esprime nella sorpresa/dono del figlio. Qui sono già presentati gli elementi della esortazione che vorrei ora riprendere soprattutto nella prospettiva della generatività dell’amore e dell’accoglienza.
Il titolo della esortazione apostolica richiama due parole fondamentali dell’esperienza cristiana, che condividiamo con ogni persona, almeno come desiderio: l’amore e la gioia, più propriamente la letizia. C’è un chiaro nesso con la prima esortazione apostolica di Papa Francesco, Evangelii gaudium. Qui possiamo dire che il vangelo corrisponde all’amore, come la letizia al gaudio.
La parola Gaudium dice il godimento, la pienezza a cui si è chiamati nell’incontro con Cristo.
All’amore umano tra l’uomo e la donna, tra genitori e figli, è riferita la letizia.
La letizia rispetto al gaudio, è l’alba rispetto al mezzogiorno; l’amore della famiglia è giubilo per la Chiesa perché è profezia del compimento. L’amore fecondo e accogliente tra l’uomo e la donna è segno, simbolo, sacramento dell’amore di Dio che porta a compimento il desiderio di gaudio che alberga nel cuore di ogni uomo.
Tutto questo già spiega l’interesse della Chiesa per il tema del matrimonio e della famiglia; non è un tema tra gli altri; indica la questione antropologica per eccellenza; se saltasse la famiglia salterebbe l’introduzione all’umano nel suo intreccio fondamentale di affetti, lavoro, riposo, nascita, gioia e di dolore, malattia, morte.
L’impegno della Chiesa su questo tema è stato sempre molto abbondante nella storia, ma in particolare dal Concilio Vaticano II ad oggi. Soprattutto perché il Concilio rilegge le diverse forme di vita cristiana a partire dalla riscoperta della vocazione del battezzato alla santità, ossia alla pienezza dell’amore in Cristo. Mentre precedentemente la riflessione teologica baricentrava la vocazione in relazione al sacerdozio e alla vita religiosa. “Avere la vocazione” voleva dire farsi religioso o andare in seminario.
Nell’epoca moderna, sebbene la chiesa abbia sviluppato una notevole riflessione soprattutto canonistica e morale sulla famiglia, il volto vocazionale della Chiesa era caratterizzato da quello di una speciale consacrazione.
Anche nella presentazione del matrimonio nell’epoca moderna, come hanno rilevato grandi studiosi, prevaleva una visione centrata perlopiù sulla base naturale, già compiuta in se stessa, su cui si aggiungeva, non senza il rischio di un certo estrinsecismo, la realtà della grazia sacramentale. Su questa base, centrata sull’elemento naturale, era anche difficile riconoscere al matrimonio il carattere vocazionale.
Proprio questo è il primo elemento che vorrei sottolineare della esortazione apostolica. Il matrimonio e la famiglia sono presentate da Papa Francesco come una vocazione nel senso pieno del termine: “Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa”.
Con una precisazione importante. “Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale” (AL 72). La frequente frettolosità nella preparazione al matrimonio cristiano in parte si spiega col fatto che per molto tempo non è stato sentito come vocazione.
Era stato il documento Gaudium et spes a indicare questo cambiamento quando afferma che “Cristo Signore ha effuso l’abbondanza delle sue benedizioni su questo amore […] sgorgato dalla fonte della divina carità e strutturato sul modello della sua unione con la Chiesa” (GS 48).
In tal modo la dimensione soprannaturale assume pienamente la realtà umana, senza annullarla ma portandola a compimento dentro l’unico disegno di Dio. L’incontro con il divino esalta l’umano, non lo annulla, non toglie la sua “giusta autonomia”; anzi, la afferma e la esige come libertà. Così è per il matrimonio.
Nel tempo dopo il Concilio troviamo un numero crescente di documenti magisteriali dedicati al matrimonio e alla famiglia, in particolare con il pontificato di san Giovanni Paolo II, che giustamente viene chiamato da Papa Francesco il Papa della Famiglia. A cominciare dal Sinodo sulla famiglia del 1980 e il successivo documento della Familiaris consortio – molto ripresa da Papa Francesco nella Amoris laetitia.
Qui si trattava di rispondere ai nuovi problemi emergenti, al rapporto uomo-donna, genitori-figli, in una società, soprattutto quella occidentale, fortemente secolarizzata, che tendeva a rompere con la tradizione cristiana riguardo agli affetti, introducendo così una scollatura tra la fede e l’umano comune.
Non si deve dimenticare che una delle persone che, prima di molte altre, aveva intuito quello che stava accadendo fu proprio il beato Paolo VI – già nelle lettere giovanili affermava che Cristo era ormai uno sconosciuto per la cultura moderna (anni ’30) -; si pensi in particolare alla Evangelii nuntiandi, in cui si afferma il dramma del nostro tempo nella divisione tra fede e vita, tra fede e cultura. Una rottura che non era innanzitutto di coerenza, ma di pertinenza. Ossia si percepiva una assenza di nesso di senso tra la fede e la vita. Veniva meno, nel nostro caso, il nesso tra il matrimonio cristiano e il modo di intendere gli affetti.
Giovanni Paolo II sentì l’urgenza di approfondire ulteriormente il discorso attraverso le sue catechesi sull’amore umano. Infatti si accorse che il problema emergente per la famiglia in realtà era la crisi del rapporto uomo-donna, ossia una crisi di carattere antropologico.
Egli nelle sue catechesi provò a riscrivere la comprensione della persona mettendo al centro il dato del corpo vissuto come corpo sessuato, nella differenza uomo-donna.
Papa Francesco recepisce ampiamente in Amoris laetitia questo approccio fenomenologico, declinandolo ulteriormente con la sua sensibilità pastorale. Anche lui fin dall’inizio del suo pontificato mette a tema la famiglia come questione centrale. La situazione culturale, in effetti, con l’inizio del nuovo millennio, ha posto nuove sfide: la crisi delle ideologie, l’avvento del postmoderno, il passaggio dalla ragione fondativa alla ragione strumentale; la diffusione capillare e invasiva della tecnoscienza diventa ora paradigma diffuso, con un crollo sostanziale delle evidenze più elementari, lasciando intatto solo l’universalismo scientifico. L’uomo appare sempre di più, anche nelle relazioni affettive, come l’esperimento di se stesso.
Amoris laetitia riassume il lavoro di ben due sinodi, straordinario e ordinario, sulla famiglia data l’urgenza delle nuove sfide. Si tratta di un testo, per il quale dobbiamo esprimere molta gratitudine, soprattutto perché, come dice il Santo Padre, si tratta di un testo non di chiusura, ma di rilancio, per riprendere e continuare un lavoro di riflessione culturale, pastorale e teologico, che coinvolge l’esperienza concreta di tutte le comunità cristiane.
Un criterio interpretativo per affrontare il documento è a mio parere rinvenibile in una triade circolare che Papa Francesco ripropone continuamente lungo i 9 capitoli del testo: c’è una circolarità tra il considerare che cosa sia la famiglia secondo il disegno di Dio, rivelato in Cristo, la situazione attuale della famiglia, e la prassi pastorale necessaria oggi. Sono tre elementi inseparabili.
In questo modo Papa Francesco considera sempre il vissuto concreto, in modo realista, e mostra come tale vissuto sia illuminato fino al suo significato ultimo dal mistero della rivelazione di Cristo; e indica come tale rivelazione non sia un “peso” ma una luce e un conforto all’esperienza umana, indicando percorsi possibili.
Questo permette al Papa di affermare la verità dell’amore tra l’uomo e la donna, ma anche di valorizzare le situazioni ancora germinali di amore, e di accompagnare con realismo anche quelle ferite.
I capitoli maggiormente fondativi dal punto di vista della identità pastorale della famiglia e della prassi della comunità cristiana penso siano il quarto “sull’amore nel matrimonio”, a partire dalla meditazione sull’inno alla carità di san Paolo, per arrivare a descrivere con tanto dettaglio la carità coniugale, non trascurando nessuna dimensione, dalla tenerezza alle emozioni fino alla dimensione erotica della coppia e alla sua dignità. Ponendo così fine alla contrapposizione tra eros e agape che ha segnato tanta spiritualità, facendo proprio quanto affermato da Benedetto XVI a questo proposito in Deus Caritas est.
A ciò fa seguito il capitolo quinto “sull’amore che si fa fecondo”, in cui in realtà non si parla solo della fecondità della coppia ma a partire dal carattere originariamente fecondo dell’amore, Papa Francesco rilegge tutte le figure fondamentali della famiglia nelle sue diverse età, l’essere marito e moglie, padre e madre, l’essere figli, fino all’età adulta e alla vecchiaia, con l’importanza della figura dei nonni. Pagine di grande saggezza. Questo capitolo sulla fecondità trova poi il suo prolungamento logico nel settimo quando si parla della “educazione dei figli”. Ma su questo torno tra breve.
Dal punto di vista della pratica pastorale il sesto capitolo, dedicato alle “prospettive pastorali”, mi sembra il più intenso. Lo sguardo va all’accompagnamento dei fidanzati, all’importanza del loro cammino preparatorio fino alla compagnia che si deve continuamente offrire anche nel caso di crisi e di rottura del matrimonio. Non c’è situazione nella quale la Chiesa non possa offrire l’amore misericordioso e rigenerativo di Dio.
Sono pagine che vanno lette e rilette perché sono piene di sapienza, con dettagli anche molto spiccioli sulla vita familiare. Il Papa mostra un’attenzione alle pieghe più recondite dell’umano, degli affetti più quotidiani, accarezzando anche i conflitti e le angosce che preoccupano i genitori e l’intera famiglia.
In questa prospettiva amorosa vanno lette anche le pagine del capitolo VIII: accompagnare, discernere e integrare, in riferimento alle fragilità. Questo capitolo è importante nel contesto dell’anno della misericordia. La preoccupazione del Papa non è quello di trovare una stanza nella Chiesa per ogni tipologia di fedeli o di famiglie più o meno ferite, più o meno irregolari. La prospettiva è invece quella della Chiesa in uscita, quella del popolo di Dio in permanente stato di missione. Si tratta di un invito rivolto a tutti per compiere cammini di riconciliazione che sono sempre anche cammini di missione.
Vorrei ora provare, in questa seconda parte del mio intervento, a richiamare la vostra attenzione su alcuni temi chiave affrontati dal Santo Padre.
a). Uomo – donna, fecondità e mistero della Trinità
Il primo elemento è propriamente identitario della famiglia: è quello su cui si vede anche una grande convergenza con il più recente magistero della Chiesa, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
Non è per nulla un tema teorico, ma è l’aiuto a comprendere l’immagine fondamentale di noi stessi ed anche per capire alcuni elementi di crisi.
Al n.11: “La relazione feconda della coppia diventa un’immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio, fondamentale nella visione cristiana della Trinità che contempla in Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito d’amore. Il Dio Trinità è comunione d’amore, e la famiglia è il suo riflesso vivente”. … Questo aspetto trinitario della coppia ha una nuova rappresentazione nella teologia paolina quando l’Apostolo la mette in relazione con il “mistero” dell’unione tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5,21-33)”.
Qui si considerano due realtà fondamentali della fede: la Trinità di Dio ed il rapporto Cristo – Chiesa sono di fatto relazionati a matrimonio e famiglia.
Questo accostamento tra la vita trinitaria e la famiglia è qualche cosa di originale del magistero degli ultimi tempi; in teologia non è stata quasi mai presa in considerazione; la troviamo adombrata solo in qualche autore medievale e in teologi moderni come von Balthasar.
Il primo a formulare il tema è stato Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem parlando dell’uomo come imago Dei. Qui si afferma che non solo sia l’uomo che la donna sono fatti ad immagine di Dio, di uguale dignità, ma persino la loro relazione, ossia che la loro differenza e il carattere originariamente fecondo del loro amore, sia parte dell’immagine e somiglianza di Dio. Ovviamente si tratta di una analogia e non di una identità, ma molto illuminante.
Il mistero della Trinità, rivelato dalla persona di Gesù, ci narra che Dio è se stesso nell’affermazione assoluta dell’altro, una affermazione di reciprocità che a sua volta è infinitamente feconda. La reciprocità di Padre e Figlio è a sua volta spalancata infinitamente dal dono del loro comune Spirito.
In Dio la differenza tra le persone divine è assolutamente positiva; l’ideale dell’amore non è la fusione degli amanti, ma la reciprocità feconda. L’amore è affermazione del tu in quanto è tu, insuperabilmente altro. Per questo la differenza è condizione permanente dell’unità amorosa. La ricerca della “fusione” lascia gli amanti, spesso, invece solo nella con-fusione.
Il rapporto tra l’uomo e la donna si presenta come immagine della Trinità proprio perché è un rapporto in cui la persona che si dà solo nella differenza.
Questa differenza originaria e questo dono che ciascuno è chiamato ad essere per l’altro contiene in sé una nuova apertura che umanamente si attesta nella fecondità della famiglia. La fecondità tiene il posto della differenza tra i due.
L’altro non si aggiunge a me, l’altro è costitutivo di me proprio perché è irriducibile a me; per questo la vera relazione nella differenza non può che essere internamente aperta alla fecondità.
La fecondità si attesta paradigmaticamente nella generazione dei figli, ma anche nell’accoglienza e nell’ospitalità dell’altro. Nella prospettiva cristiana la fecondità più grande è il gratuito capace di ospitare l’altro perché altro.
Qui troviamo anche le parole commoventi di Papa Francesco sull’esperienza dell’affido e dell’adozione.
Si inizia con un accostamento molto suggestivo tra adozione e coloro che accolgono le persone diversamente abili: “La scelta dell’adozione e dell’affido esprime una particolare fecondità dell’esperienza coniugale. Con particolare gratitudine, la Chiesa «sostiene le famiglie che accolgono, educano e circondano del loro affetto i figli diversamente abili” (AL 82).
“L’adozione è una via per realizzare la maternità e la paternità in un modo molto generoso […] Non si pentiranno mai di essere stati generosi. Adottare è l’atto d’amore di donare una famiglia a chi non l’ha” (AL 179).
Fino arrivare alle parole culminanti: “Coloro che affrontano la sfida di adottare e accolgono una persona in modo incondizionato e gratuito, diventano mediazione dell’amore di Dio che afferma: “Anche se tua madre ti dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (cfr Is 49,15).
Ma la cosa che più sorprende sta in quello che poco dopo aggiunge: “L’adozione e l’affido rettamente intesi mostrano un aspetto importante della genitorialità e della figliolanza, in quanto aiutano a riconoscere che i figli, sia naturali sia adottivi o affidati, sono altro da sé ed occorre accoglierli, amarli, prendersene cura e non solo metterli al mondo”.
In questa prospettiva sembra che davvero Papa Francesco veda nel gesto dell’accoglienza la verità stessa dell’amore generativo che accoglie l’altro in quanto altro. L’accoglienza gratuita dell’altro custodisce la verità dell’atto generativo. Davvero l’amore dà sempre vita!
b). La visione della situazione attuale: l’individualismo narcisista
A partire da quest’ampia riflessione che abbraccia il mistero della vita Trinitaria, la differenza sessuale, la generatività fino all’adozione, si può comprendere anche il modo con cui il Papa parla della situazione culturale attuale.
Alla luce di questo mistero si comprende in che cosa consista la sfida antropologica in atto nella nostra cultura. Papa Francesco parla insistentemente del carattere individualistico, l’esasperata cultura dell’individualismo, del possesso, dello scarto, del godimento spesso compulsivo e reiterato che rende la libertà debole ed esausta, dove anche il desiderio si smarrisce.
C’è stato indubbiamente un passaggio tra il moderno e il postmoderno in questo senso anche rispetto all’individualismo; prometeico il primo, come affermazione della propria autonomia; narcisistico, invece, il secondo. Che infatti colpisce proprio l’identità dell’altro in quanto altro: il tu sembra in questa logica evaporare, diventa mezzo da piegare al proprio consumo, oppure nemico da eliminare.
Questo sembra al Papa essere anche il motivo della diminuzione dei matrimoni e di legami stabili. Che vengono intesi come obiezione alla libertà narcisisticamente intesa.
Anche il forte calo demografico, la disaffezione alla generazione della vita, è letto in questa prospettiva di chiusura all’alterità. Come in una sorta di autosufficienza e autoreferenza del singolo.
Anche l’attacco netto che Papa Francesco fa all’uso ideologico del gender in fondo ha qui la sua radice. Se da una parte è sacrosanta esigenza liberare il rapporto uomo donna da stereotipi di ruoli rigidi, dall’altra parte questo non può voler dire la indifferenza delle differenze, perché attacca propriamente l’alterità dell’altro, senza la quale non c’è più esperienza amorosa e feconda.
Sono molto belle, poi, le pagine del Papa sulla relazione tra l’uomo-donna e l’essere padre e madre, sul senso della loro differenza nell’esperienza educativa nel confronti dei figli. Molto chiare anche le parole sulla “società senza padre” che fa smettere ai bambini di sentirsi figli. Mentre l’essere figli costituisce proprio l’identità antropologica più profonda che non deve mai smarrissi nel tempo.
AL 188: “A nessuno fa bene perdere la coscienza di essere figlio. In ogni persona, «anche se uno diventa adulto, o anziano, anche se diventa genitore, se occupa un posto di responsabilità, al di sotto di tutto questo rimane l’identità di figlio. Tutti siamo figli. E questo ci riporta sempre al fatto che la vita non ce la siamo data noi ma l’abbiamo ricevuta. Il grande dono della vita è il primo regalo che abbiamo ricevuto»”.
Essere figli, sapersi voluti è infatti il sentimento supremo della vita, centro di ogni esperienza affettiva ed educativa.
Da qui deriva anche il rilievo critico nei confronti della esasperazione della società dei diritti individuali che perde i diritti dei legami, riducendo la famiglia a fatto meramente privato, mentre è cellula fondamentale della Chiesa e della società.
c). Dal moralismo all’attrattiva dell’amore: l’indissolubilità
Inoltre ritengo molto prezioso il “rimprovero” che il Papa fa a certa prassi nella Chiesa che non ha saputo intercettare i desideri più veri del cuore dell’uomo, proponendo la dottrina cristiana in una sua riduzione sostanzialmente moralistica. Spesso in passato non è stato fatto emergere con chiarezza il carattere di attrattiva del matrimonio e il potere della grazia di portare a compimento il disegno buono di Dio sull’amore tra uomo e donna anche attraverso limiti e ferite.
Da qui scaturisce il compito fondamentale di presentare il matrimonio e la famiglia come dono. Come grazia, come realtà desiderabile, anche quando chiede sacrificio per essere abbracciata. Anche su questo aspetto il Papa è molto realista.
Emblematica è la posizione sulla indissolubilità del matrimonio, la quale può essere presentata come peso insopportabile, e perciò da scansare, oppure come risposta a un desiderio originario degli amanti: AL 62: “L’indissolubilità del matrimonio (“Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”: Mt 19,6), non è innanzitutto da intendere come “giogo” imposto agli uomini, bensì come un “dono” fatto alle persone unite in matrimonio».
Più avanti mostra come questo intercetti il desiderio più umano che ci possa essere:
AL 123: “Siamo sinceri e riconosciamo i segni della realtà: chi è innamorato non progetta che tale relazione possa essere solo per un periodo di tempo, chi vive intensamente la gioia di sposarsi non pensa a qualcosa di passeggero; coloro che accompagnano la celebrazione di un’unione piena d’amore, anche se fragile, sperano che possa durare nel tempo; i figli non solo desiderano che i loro genitori si amino, ma anche che siano fedeli e rimangano sempre uniti. Questi e altri segni mostrano che nella stessa natura dell’amore coniugale vi è l’apertura al definitivo. L’unione che si cristallizza nella promessa matrimoniale per sempre, è più che una formalità sociale o una tradizione, perché si radica nelle inclinazioni spontanee della persona umana”.
d). La famiglia in quanto famiglia come soggetto di evangelizzazione
Questa prospettiva ci introduce all’ultimo punto che vorrei sottolineare che in realtà riassume a mio parere il documento ed anche i lavori sinodali: la famiglia emerge qui come realtà che deve riscoprire pienamente la sua soggettività nella Chiesa e nella società. Più volte nel documento si ricorda la necessità che la famiglia in quanto famiglia sia soggetto di pastorale e di evangelizzazione.
“Le famiglie cristiane, per la grazia del sacramento nuziale, sono i principali soggetti della pastorale familiare, soprattutto offrendo «la testimonianza gioiosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche” (AL 200).
La valorizzazione della famiglia, in quanto famiglia, è probabilmente la strada migliore anche per riscoprire la figura del laico cristiano, cioè del battezzato che vive nelle comuni condizioni del vivere.
La famiglia infatti è il crocevia dell’umano ed è proprio qui che si può riscoprire l’originaria pertinenza umana dell’annuncio cristiano: una passione per l’umano.
Per chi deve andare a lavorare ogni giorni, tirare grandi i figli, tenere in ordine la casa, assistere il parente malato, accogliere un povero che bussa alla porta; per chi decide di accogliere un figlio in adozione o in affido, il cristianesimo non può essere un aggiunta per qualche anima devota. E’ una questione di significato e di senso della vita quotidiana. La famiglia ha la capacità di mostrare la fede nel suo rapporto con la vita quotidiana, come forma autentica degli affetti e del rapporto con tutta la realtà.
Il Papa utilizza anche l’immagine della Chiesa (parrocchia, associazioni e movimenti) come famiglia di famiglie; questo mi fa pensare al modo con cui le famiglie proprio per la comune vocazione alla generazione alla vita e alla educazione si possano mettere insieme per condividere questa responsabilità.
Proprio qui il Papa riferisce anche il valore incoercibile del compito educativo della famiglia, a tutti i suoi livelli. Il Papa invita ad assumere pienamente tutto il vissuto quotidiano come luogo di condivisione dei problemi, delle speranze, delle difficoltà, del progetto, nella convivialità e nel cammino comune. E’ la famiglia in quanto famiglia che diventa proposta, testimonianza nella Chiesa e nella società. Ed è questa testimonianza che siamo chiamati a dare; una testimonianza che non è solo coerenza, ma capacità di indicare il vero visto e udito, toccato con mano.
“Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare! Quello che ci viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa”.
Ecco dunque Amoris laetitia: la letizia dell’amore è inizio del compimento della promessa, è anticipo del compimento della gioia, il Gaudium a cui ogni cuore umano aspira. La testimonianza della letizia dentro un amore umano è la nostra responsabilità nella società plurale. Grazie per l’ascolto.
LORENZA VIOLINI:
E dopo questo affresco veramente affascinante di cui ringraziamo il Papa, il nostro Santo Padre, ma soprattutto il nostro amico e relatore, Sua Eccellenza Paolo Martinelli, proviamo a movimentare questo affresco con delle esperienze di vita, dove si vede che tutto ciò, oltre che estremamente attrattivo per il nostro cuore, è anche praticabile, anche vissuto. Allora io chiedo in primo luogo a Sabrina Pietrangeli di intervenire raccontando lei stessa l’origine della sua esperienza da cui è nata poi “La quercia millenaria” e da cui è nata tutta l’opera che da questa associazione si sviluppa. Sabrina a te la parola.
SABRINA PIETRANGELI:
Grazie. Grazie a tutti e benvenuti. A parte gli spunti meravigliosi che Sua Eccellenza mi ha fornito, ultimamente mi ha colpito una frase: “Se vuoi essere di aiuto per gli altri vedi di fare bene il tuo lavoro”. Lì per lì ho pensato: “Beh, è una cosa un po’ egoistica ma a pensarci bene non così tanto e si riallaccia con quello che abbiamo appena ascoltato, questa dimensione trinitaria della genitorialità, dove un uomo e una donna si amano, danno vita ad un figlio”. La domanda è: quel figlio è soltanto loro? E ancora: le scelte che facciamo come singoli, o come famiglia o come coppia sono soltanto nostre o hanno delle ripercussioni sugli altri? E ora faccio un salto un po’ indietro, a 13 anni fa, 14 quasi. E’ l’8 maggio del 2003, incinta al quinto mese di gravidanza, felicissima del terzo figlio, vado a fare un’ecografia con mio marito sperando di sapere se maschio o femmina, sperando che si veda. In realtà mi sento fare un elenco infinito di cose che non vanno assolutamente bene, mi trovo davanti a un medico confuso, un medico spaventato, un medico forse anche poco capace di comunicare qualcosa che neanche lui riusciva a capire. E quindi la visita si risolve molto rapidamente con un numero di telefono di un altro medico. Immaginate la confusione e lo stato di totale sgomento. Mi ricordo un po’ quella notte alle 3.40, perché la sensazione è stata un po’ quella: rimani immobile, sul letto, stringi la mano a tuo marito mentre tutto si muove e tu non sai assolutamente quello che devi fare. Quella è stata la sensazione che abbiamo provato quando, nell’andare a cercare di sapere come era la vita che custodivamo dentro di noi, ci siamo sentiti dire che non era vita, era morte e quella morte ci è stata riconfermata due giorni dopo in un altro ospedale con la proposta: interrompete, è un bambino che non ha speranze, morirà prima di nascere, forse subito dopo, se arriva a nascere. E’ l’assurdo, perché eravamo due genitori con due bimbe di due anni e cinque anni che ben sapevano cos’era l’amore di un figlio, cos’è il sapore di un figlio e quindi quello che ci veniva proposto per noi non aveva nessunissimo senso. Ma era un non senso anche l’idea di andare avanti, a che pro andare avanti, soffrire la gravidanza, vedere la pancia crescere e poi la morte? E quindi lì si è veramente spaccato il mondo in due. Mi ricordo che io e mio marito siamo usciti da lì, abbiamo rifiutato l’interruzione e ci hanno detto: “Allora non possiamo fare più niente per voi”. Siamo andati nel parcheggio dell’ospedale, ci siamo abbracciati e abbiamo pianto. Da lì in poi siamo andati a cercare aiuto, prima dal nostro sacerdote, il quale fu profetico. Ci disse: “Coraggio, chissà cosa il Signore vuole fare di questo figlio”. E poi siamo andati a cercare aiuto da altri medici ancora, fino a che abbiamo anche trovato qualcuno disposto a provare di tentare di curare questo bambino già nel grembo materno. Abbiamo provato anche quello. Mi sono sottoposta a degli interventi prenatali, anche dolorosi, pieni di incertezze, pieni anche di rischio, però volevo provare di tutto per salvare questo bambino, perché la mia grande fortuna, la nostra grande fortuna come coppia è stata quella di riconoscere subito in questa creatura un figlio malato e non un mostro che ci avrebbe distrutto la vita, che ci avrebbe complicato l’esistenza Questa è stata la nostra salvezza, altrimenti saremmo corsi ad abortire immediatamente. Questo è stato un aiuto grande che ci hanno dato le due bambine precedenti, le nostre due figlie, perché appunto conoscevamo l’esperienza di essere genitori e questo ci dato un grandissimo sostegno e una grande forza. Abbiamo considerato quel figlio esattamente un figlio come le altre due. Non era una giustificazione il fatto che fosse piccolino, che non si vedesse, che tanto non era niente, un grumo di cellule, non era nessuna giustificazione: era nostro figlio. E così siamo andati avanti, finché anche la medicina di altissimo livello si è arresa e anche lì una sentenza: “Purtroppo entro sette giorni questo cuoricino si ferma”. E quindi in tutto questo percorso di dolore, di preghiera, di amore, di speranza, di attesa, di tentativi, di sofferenza abbiamo detto: “Va bene, se sette giorni sono quello che ci rimane da fare con nostro figlio, viviamoli al massimo”. E quindi giorno dopo giorno accogliere questa vita, ogni giorno riaccoglierla e costruire un rapporto bellissimo anche con questa creatura, anche nei momenti intimi in cui ero molto spesso sola, durante la giornata, le bambine erano all’asilo, mio marito era al lavoro e mi capitava di piangere, mi capitava anche di pregare, mi capitava anche di cantare per lui. Fin quando questi giorni da sette non sono diventati ventitre e una domanda te la fai: “Che è successo?”. Quindi abbiamo richiamato il medico, fatto una nuova ecografia e tutto era cambiato. Scientificamente non c’era spiegazione, sulla cartella clinica c’è scritto “risoluzione naturale” che non vuol dire niente. Tecnicamente il danno c’era e chiaramente ha avuto delle conseguenze, ma di questo eravamo consapevoli, fatto sta che circa due mesi dopo è nato un bambino, che domani compirà 13 anni. Questo bambino è nato, non mi sembra un caso essere qui oggi, è nato nostro figlio che abbiamo chiamato Giona e che ci ha regalato una vita piena, in tutti i sensi, anche una vita di lotte, perché è un bambino che ha subito effettivamente un danno, quindi il problema c’era, non è che non ci fosse e quindi abbiamo fatto anche un’esperienza di una ospedalizzazione molto lunga, sette mesi di ospedale tra terapia intensiva, pediatria e poi di nuovo chirurgia e poi di nuovo pediatria. Un’esperienza in cui ti scontri con tante situazioni anche paradossali dentro l’ospedale: medici che hanno paura di prendersi determinate responsabilità, trasferimenti da un ospedale all’altro e grazie al cielo l’ombra benefica di un pediatra meraviglioso, che ringrazierò per sempre, e che ancora oggi è il medico di nostro figlio, Mario Castorina, il pediatra che si è preso molte responsabilità, molto precise, personali. Ha creduto in questo bimbo e noi abbiamo creduto in lui, come medico e come sia venuto su, veramente molti medici, anche nefrologi, non se lo spiegano. Giona ha un solo rene funzionante con danno, quindi una insufficienza renale moderata. Non siamo ancora alle porte della dialisi, anche se chiaramente stiamo facendo tutti gli esami preparatori perché non ci vogliamo far trovare impreparati. Ma al di là di questo, cosa è successo in questi 13 anni? Usciamo dopo sette mesi di ospedale, dopo diversi interventi, blocchi renali, trasfusioni e tutto il corollario, arriviamo a casa e il bambino comincia a guadagnare una salute discreta, la famiglia si riadatta alla nuova situazione, un figlio in più, una mamma che per sette mesi a casa non c’è stata, due bambine assetate d’amore e bisognosi di ricompattare un pochino l’armonia famigliare. Passano i mesi, Giona compie un anno, un matrimonio, 60 persone ospiti per festeggiare il primo compleanno. Dopo di che in quella serenità, in quella nuova cornice di serenità, la domanda: “E adesso? Perché a noi? Perché questo? Perché siamo riusciti ad andare avanti? Perché siamo felici? Perché non siamo morti in quella situazione? Perché non abbiamo abortito?” Quindi anche cercare nelle radici del nostro rapporto di coppia, cercare nelle nostre radici anche famigliari, anche di fede. Io, figlia di divorziati, con nessuna fiducia nel matrimonio, una paura pazzesca di impegnarmi seriamente da ragazza e poi l’incontro con mio marito e l’incontro insieme con la fede e quindi il matrimonio e quindi l’accoglienza dei figli e quindi la scelta di considerarlo figlio, anche se significava la possibilità di rovinarci la vita, come molti ci hanno detto, come anche qualcuno della famiglia ci ha detto. E questo adesso è un problema solo nostro o è qualcosa per tutti? E così cercare di capire qual era il disegno. La prima cosa che ci è venuta in mente: “Raccontiamola questa storia, raccontiamola perché forse molti genitori che piangono nei parcheggi dell’ospedale non hanno un sacerdote dove andare, forse non hanno un medico di terzo livello, non glielo dice nessuno, come non è stato detto a noi che esisteva la possibilità di intervenire in utero per questo figlio. Forse non hanno abbastanza coraggio, forse hanno bisogno di testimoni”. Quindi scriviamo questa storia e la mettiamo in rete. Succede di tutto. Gente che se la stampa, ostetriche che la leggono in sala travaglio. A fine lettura una parente che assisteva la sua cugina che partoriva scoppia a piangere davanti a tutte le donne in Sicilia e si confessa: “Io domani devo andare al macello, – lo chiamano così il posto dove si va ad abortire in Sicilia -, non lo volevo questo figlio, ma adesso non ho più il coraggio di abortire e lo porto avanti”. E in quella stessa situazione invece una mamma in travaglio che era infermiera dell’ospedale: “Dammi questi scritti che mia nipote di sedici anni è incinta, è andata in consultorio ad abortire, i genitori non sanno niente”. La ragazzina legge la storia, va dal padre e sposa il suo ragazzo a sedici anni. Era una storia solo nostra? Qualche domanda abbiamo iniziato a farcela già da lì. Ma quando hanno iniziato a contattarci famiglie che avevano perso figli e famiglie che erano incinte e avevano una diagnosi senza speranza, abbiamo iniziato a pensare che forse questa nostra esperienza poteva tramutarsi in un servizio. Quindi abbiamo iniziato a coinvolgere i medici, ovviamente i primi che ci hanno aiutati, il ginecologo, il pediatra, il chirurgo. Piano, piano si aggiungevano altri medici, altri specialisti. E poi sono arrivate tante famiglie, sono arrivate le famiglie che insieme hanno fatto rete, ognuna con un’esperienza diversa, alcune avevano già vissuto tutto da sole, erano state eroicamente coraggiose da portare avanti una gravidanza, da avere un figlio al cimitero, altre erano ancora in attesa, altre sono state aiutate da noi, hanno perso il bimbo e poi si sono volute mettere a servizio. Insomma, un sacco di situazioni particolari che in undici anni vi potete immaginare. Ma il fatto è che la cosa poi si è strutturata, anche come Onlus e quindi è cresciuta, anche un po’ sfuggendoci dalle mani, devo dire. Una cosa importante è stata, nel 2008, l’interfacciarci con il sito americano dove ci siamo trovati censiti in un network di associazioni internazionali che avevano la denominazione, secondo questo sito di Perinatal Hospice. Noi non sapevamo neppure cosa fosse un Perinatal Hospice, ma eravamo gli unici in Italia, La Quercia millenaria, non c’era nessun altro. A quel punto noi ci siamo resi conto che qualcuno ci vedeva molto di più, cioè vedeva in noi qualcosa di più che noi stessi. Non riuscivamo neppure noi stessi a capire qual era la portata del messaggio che stavamo portando e abbiamo cominciato a scaricare materiale in lingua inglese, a studiarlo, a capire che cosa era un hospice, che lavoro fanno questi e abbiamo visto che si faceva più della metà di quello che già noi in maniera molto spontanea, anche poco organizzata facevamo: seguire una coppia dal momento della diagnosi per tutti i mesi seguenti, nel momento in cui sceglievano di non eliminare quel figlio potevano appoggiarsi a noi, alla nostra testimonianza, al nostro aiuto concreto. Potevamo mediare tra loro e le strutture ospedaliere, trovare un posto rapidamente per una visita di controllo, per un approccio invasivo urgente, se questo era necessario. Stare accanto a loro durante il parto, durante la morte del figlio, anche. E questo richiedeva veramente uno studio approfondito di questa materia, di questa modalità, richiedeva formazione. Non si può improvvisare quando c’è la salute di un bambino e quando c’è la vita di una famiglia. E quindi abbiamo iniziato a fare anche dei percorsi di formazione, di studio, abbiamo studiato bioetica, mio marito è diventato fotografo, anche per potersi mettere al servizio di queste famiglie che volevano dei ricordi, utili anche per superare il lutto, una fotografia di quel figlio, gli unici scatti che potevano avere di una vita che non ci sarebbe stata. E corsi di formazione a livello sanitario. Ho avuto il privilegio enorme, ho ancora il privilegio di poter stare nelle sale parto durante il parto della donna, anche durante il cesareo. Stringere la mano di una donna in quel momento che si trova lì sdraiata con un telo davanti, che non vede niente, non sente niente e vede solo un grande movimento di persone. Il marito è fuori, molto spesso soprattutto nei cesarei, i parenti sono fuori dalla zona operatoria e lì c’è la solitudine, l’ho vissuta in prima persona. E quindi questo è stato ciò che in questi anni abbiamo fatto e in tutto questo la nascita di punti ospedalieri di riferimento come il Santa Chiara a Pisa per esempio, come il Salesi ad Ancona e come altri quatto punti che stiamo aprendo. In più anche gruppi regionali dove magari non c’è ancora l’ospedale aperto ma ci sono famiglie disposte ad affiancare altre famiglie e, non avendo ancora convenzioni aperte con ogni Regione, qualche mamma purtroppo si deve spostare in altre Regioni, se vuole essere seguita in un certo modo. Quindi la speranza grande di poterci aprire in ogni Regione. In tutto questo c’è stato anche un percorso parallelo con la pastorale, diretta alle coppie, per esempio, in preparazione al matrimonio. Quindi le nostre famiglie in tutta Italia vengono chiamate dalla parrocchie e dalle diocesi per fare testimonianza ai corsi prematrimoniali, che è una cosa importantissima. Cosa si va a dire a queste famiglie, a queste coppie che saranno futuri sposi? Di certo non “attenzione eh, che potrebbe capitare anche a voi”, insomma mi sembrerebbe quantomeno sgradevole. Ma dire a queste famiglie di non avere paura, perché fondare la propria unione su Cristo significa fondare sulla roccia, significa non avere paura della morte, significa accogliere bambini che il mondo vede come dei mostri e capire che lì dietro c’è un mistero di bellezza, di amore meraviglioso. Trasformare quel “non apprezzo la tua vita” in un “la tua vita non ha prezzo” per esempio. Una volta in un convegno si alzò un signore e mi disse: “Scusi ma lei non si sente un po’ in difficoltà che suo figlio è un grave costo per la regione Lazio?” Ho risposto “guardi mio figlio è un grave costo per la regione Lazio, ma è nata un’associazione, grazie alla sua piccola vita, che ha salvato 200 bambini e probabilmente lavorerà per mantenerli. Le scelte che facciamo, come singoli, come famiglie, riguardano solo noi? Penso di no. Se oggi Giona non ci fosse, forse non ci sarebbe anche qualcun altro, ma non lo dico così, in tono pretenzioso, è proprio una dinamica associativa che è nata. Abbiamo i registri da 11 anni, sono mille famiglie, 200 bambini sono vivi, erano bambini con un foglio per l’aborto. E questo insomma è anche il senso del titolo di questo Meeting. Quando ho ricevuto l’invito sono stata contentissima: “Tu sei un bene per me”, è vero, tutti siamo un bene per qualcun altro. Ma tutti noi che siamo qui, senza avere il bisogno di avere un figlio con un handicap, anche nella propria esperienza di infertilità, per esempio, possiamo essere un bene per gli altri, anche con una propria malattia, con la vita consacrata, con la ricerca, con l’essere un medico coscienzioso, disposto a rischiare in prima persona. Sono veramente contenta. Non ho ancora molto altro da dire, perché credo di aver sintetizzato ai massimi livelli, quindi, vi ringrazio.
LORENZA VIOLINI:
Grazie Sabrina perché hai sintetizzato ai massimi livelli qualcosa che fa venire una vera commozione, nel cuore, proprio il massimo.
SABRINA PIETRANGELI:
Voglio dire solo una cosa, perché è giusto che anche voi che siete del territorio sappiate che ci sono dei referenti. Vorrei che si alzassero in piedi le due coppie romagnole. Francesco e Annamaria, Stefano e Francesca che sono i referenti dell’Emilia Romagna.
LORENZA VIOLINI:
Bene, adesso abbiamo anche un fantastico link, oltre al sito internet, oltre ai tuoi bellissimi libri, non ho citato tutto quello che è stato scritto nel curriculum ma ci sono delle cose belle che hai scritto anche dopo la nascita di Giona, che sicuramente ci daranno un grande aiuto e un grande conforto. Marco Mazzi anche tu pediatra, stai attento a come ti comporti quando sei pediatra, perché qui abbiamo Sabrina che vigila, figli adottati, una vita dedicata all’accoglienza e alle Famiglie per l’Accoglienza e anche da te vogliamo un piccolo aiuto e un piccolo conforto nella strada della vita.
MARCO MAZZI:
In questi pochi minuti desideravo raccontare un po’ dell’esperienza dell’ accoglienza accaduta nella mia famiglia e in quella di tanti amici, di come l’ amore ha generato vita intrecciandosi nei passi, nelle attese, negli imprevisti, nella quotidianità delle nostre case.
36 anni fa io e Licia ci siamo sposati. 36 anni sono ricchi di una storia e credo che la prima vita da ricordare è quella che mia moglie sintetizza quando mi dice “il nostro matrimonio è sempre più bello”. Sì, perché in questo tempo è diventata esperienza la promessa di quel giorno “io accolgo te come mia sposa…”. Grazie soprattutto alla presenza del Signore che sempre ci ha accompagnato e non abbiamo passato un solo giorno senza dire una preghiera insieme, mendicando quell’ amore che noi non sapevamo darci, quella fedeltà che franava nei nostri litigi e nelle nostre misure, quella unità che le nostre differenze continuamente incrinavano.
In questo Anno Santo in particolare tante volte, ripensando a questi anni vissuti insieme, ci siamo accorti che è stata l’esperienza continuamente rinnovata della misericordia, in cui una povera creatura con tutta la sua fragilità ha detto ad un’ altra “tu sei un bene”, non in forza di una sua capacità ma di un Altro.
E’ sempre stato chiaro: ci interessava il destino uno dell’ altro, ma noi non ce la potevamo fare. Chissà dove saremmo oggi senza questa apertura al Sacramento, la sequela al movimento di CL, la compagnia degli amici. L’ amore ha dato vita innanzitutto a noi, nel tempo, nelle circostanze, faticose o liete, impreviste e accolte e io mi trovo qui oggi pieno di gratitudine.
Tanti anni fa, proprio qui al Meeting, abbiamo incontrato un banchetto di famiglie che avevano aperto la loro casa per condividere il bisogno di chi incontravano: accoglievano chi aveva bisogno di una famiglia. Ci siamo sentiti subito noi stessi accolti e ci siamo trovati circondati da amici e testimoni di qualcosa che profondamente ci corrispondeva, qualcosa che attendavamo e che è diventata una strada più volte percorsa nella nostra vita. Sì, perché quando uno apre il cuore all’ accoglienza con gratitudine e semplicità, poi è il Signore a suggerire i tempi e i modi del Suo disegno, di cosa ne farà di quel sì.
Poco tempo dopo ci è stato chiesto di accogliere una ragazza madre per alcuni mesi per sostenerla quando fosse nato il bambino. Così è cominciata l’ accoglienza in casa, con mio figlio maggiore di 6 anni che, dovendosi spostare in mansarda per dormire e avendo paura mi ha detto “però se è per una mamma con un bambino posso provare”. Già, il “posso provare” è stata la mossa di tante esperienze di accoglienza nostre e di tantissimi nostri amici, come un suggerimento ad aprire il cuore a un imprevisto che accade nella vita, una apertura, un cammino in cui un estraneo entra nella tua casa e ti sfida dicendo anche senza parlare “ma io sono, posso essere un bene per te?”.
I pochi mesi poi sono diventati anni, anni di accoglienza di lei e del suo bambino, e oggi possiamo dire che è come la nostra figlia maggiore. Un bene entrato e che non se ne è più andato. Nelle sere e notti passate ad ascoltare la sua storia, gioie, dolori, giudizi e sentimenti, e a raccontarle di noi, della nostra vita, della nostra famiglia, dei nostri amici, io ho capito che dietro il comportamento più assurdo e sbagliato c’è un cuore che attende di incontrare il Mistero che salva. Racconto sempre un episodio: una sera siamo stati a sentire una conferenza sulla Maddalena del vangelo (come dire le partecipavamo la nostra vita, quello che noi guardavamo, anche se la prima sera, facendo il segno della croce a cena, ci ha chiesto se era morto qualcuno, perché la fede non le era particolarmente familiare) e tornando lei si è messa a piangere, le ho chiesto perché, e lei “non avevo mai sentito dire queste cose, allora c’è una speranza anche per me”. Dopo molti anni, anche di lontananza, un giorno ci ha chiesto di poter aderire al Movimento di CL, perché ha detto di desiderare di conoscere la ragione per cui noi le abbiamo voluto sempre bene.
L’ altro che accolgo, diceva una nostra amica, è in realtà uno che ricevo, mi è donato, e aspetta che in qualche modo io abbia bisogno di lui. La sua presenza è strada per il mio compimento, per l’ intensità della mia vita. Ecco, l’ amore vissuto come accoglienza, che ci fa dire “tu sei un bene per me” chiunque tu sia, al figlio naturale, a quello adottato, a chi bussa alla porta col suo bisogno, ci fa fare l’ esperienza di lui come di un dono. La ricchezza che è stata donata alla storia di Famiglie per l’Accoglienza in questi anni sono le centinaia e centinaia di volti, di sguardi profondi, spesso smarriti, sempre curiosi; i volti segnati da un ferita di abbandono e di solitudine delle persone che nell’ abbraccio di una famiglia hanno trovato una dimora e qualcuno mosso, commosso dal loro dolore. Ha detto Papa Francesco nell’ Amoris laetitia: “L’amore apre gli occhi e permette di vedere al di là di tutto quanto vale un essere umano”.
Da soli ci saremmo persi tante volte. Siamo qui solo per la compagnia di una amicizia in cui noi per primi siamo stati accolti, perché “non possiamo spalancare la nostra presenza ad accogliere la presenza di un altro, se innanzitutto noi non ci sentiamo accolti, se noi non ci sentiamo amati” (don Giussani, Il Miracolo dell’ Ospitalità).
Famiglie per l’ accoglienza è una storia di storie, è una compagnia di famiglie amiche nell’ accoglienza, consapevoli di un bene che in essa si pone per noi e per tutti, desiderosi di non ridurlo, di mantenerne vivo il valore ideale. Una storia che si è diffusa in Italia e all’estero, in questi più di trenta anni, non per un progetto ma per un fascino, per un contagio da famiglia a famiglia, coinvolgendo migliaia di famiglie, accogliendo migliaia di persone: i bambini, nell’ affido e nell’adozione, anche segnati dalla malattia, gli adulti nell’ospitalità di vario genere, gli anziani. Uno spettacolo di gratuità che ci commuove e stupisce continuamente. E stupisce chi ci incontra: l’ assistente sociale che fa la visita domiciliare e si lascia scappare “come si sta bene a casa vostra”, l’ ispettrice del Ministero che controlla i conti del progetto e dice “posso prendere le vostre dispense perché mi sembrano così utili per rapportarmi a mia figlia?”, l’ assessore che ci chiede di partecipare non per i numeri ma per quello che portiamo, il collega che fa il tifo per il figlio in affido, il commerciante che ci regala qualcosa. Una volta uno ci ha detto: “L’ esperienza che prova chi incontra una delle vostre famiglie è la nostalgia di un luogo in cui si è desiderati e voluti per quello che si è”. Ci siamo sempre chiesti di testimoniare quello che accadeva nelle nostre case, dai gesti più semplici a quelli più grandi, consapevoli che l’ accoglienza e la gratuità sono l’ unica modalità di un rapporto umanamente degno e che sono qualcosa che ogni uomo attende, che la società attende.
Di fronte alle sfide attuali, anche storiche, che a volte ci spaventano, ci sta a cuore porre nel mondo con semplicità un fatto che porta una novità, testimoniare un’esperienza concretamente possibile e realizzabile, che non si limita alla risoluzione di un problema, ma che si pone come esempio, come tentativo vissuto. Come le 50 famiglie che in questi giorni stanno accogliendo altrettanti ragazzi ucraini provenienti dalle zone di guerra o quelle che hanno dato disponibilità ad accogliere nelle loro case dei profughi
Nel tempo abbiamo riconosciuto e imparato che l’ amore da vita nell’ umiltà e nell’ obbedienza. Non è per una capacità, per una generosità, perché non sbagliamo; nelle nostre storie non c’è niente di romantico o scontato. Don Giussani, per tanti anni ci ha accompagnato e un giorno ci ha detto: “L’ accoglienza è l’ imitazione più grande che l’uomo possa vivere dell’amore che Dio porta agli uomini: una totalità di disponibilità di fronte ad una totalità di presenza; è un povertà, non ha niente da salvare prima, cioè non fa nessun calcolo”.
Quante volte guardando mio figlio in adozione, o qualcuno ospitato segnato da una storia tanto dolorosa, io e mia moglie abbiamo fatto i conti col nostro limite. Ci stanno a cuore, li amiamo, daremmo la vita per loro, ma non possiamo dare loro la vita, li possiamo sempre e solo accogliere e sfidare nella loro libertà. Mai come nell’ accoglienza ci siamo trovati fragili, pieni di limiti e tradimenti e di misure, e anche cattivi, impotenti, sanguinanti. Ma questa non è stata la strada di un fallimento e della disperazione, bensì di una rinnovata mendicanza e del nostro cambiamento. Due nostri amici hanno accolto e poi adottato un ragazzo che dopo alcuni anni si è ammalato e la mamma ci ha scritto “aveva già sofferto tanto, Signore perché anche la malattia? Non capisco ma ti offro il mio dolore e la sua rabbia. L’ offerta è diventata continua come il respiro. Poi nel tempo inaspettatamente si è avvicinato alla fede. Se penso alla nostra vita vedo quanto siamo cambiati. La mia consistenza non è nel fare, è in un amore. L’ amore è rinchiuso nell’ azione che stiamo compiendo, qualsiasi azione, e quanto più è limitata e silenziosa, tanto più è legata esclusivamente al cambiamento della mia persona”.
Accade quello che Carrón ci ha scritto in occasione del numero 100 della nostra rivista (e che potete trovare nel nostro stand qui al Meeting): “Accogliere un estraneo come figlio è il vostro modo di verificare la portata della fede nella vita; una fede che rende capaci di una paternità e maternità altrimenti impossibili”.
Per tornate al titolo, l’ amore che dà vita unisce le persone in una amicizia in cui si rinnova continuamente l’ esperienza di essere oggetto noi stessi di carità. Di questo siamo profondamente grati e desideriamo che chiunque ci incontri possa sperimentare questo. Anche chi è accolto partecipa di questa amicizia. Anni fa due amici carissimi hanno accolto nella loro casa una coppia che aspettava il primo bambino, perché la mamma era malata di un tumore e per rispetto della sua creatura non aveva voluto assumere i farmaci necessari. Un giorno la nostra amica le ha chiesto “ma tu non chiedi mai il miracolo?” e lei le ha detto “il miracolo c’è già, è questa amicizia che abbiamo sperimentato nella vostra casa”.
E, da ultimo, mi sembra importante riconoscere nella nostra storia che l’ amore genera vita nella libertà. La libertà, il dono più grande che caratterizza l’ uomo, la condizione prima, ci diceva don Giussani, di ogni gesto di accoglienza, e aggiungeva “con quella punta acuta della libertà che è il perdono a sé, la capacità di perdonarsi”. Poche settimane fa, la prima ragazza che abbiamo accolto, dopo tanti anni ci ha detto “mi sono chiesta in questi giorni perché sono così attaccata a voi dopo tanto tempo, dopo tanti conflitti e scontri e incomprensioni, dopo tante cose accadute e ho capito: voi avete sempre saputo attendere la mia libertà”. Solo nella libertà di chi accoglie e di chi è accolto l’ esperienza diventa vera, ci corrisponde e ci fa crescere.
E diventiamo protagonisti. Mi ha colpito lo scorso mese in Romania incontrare alcuni dei 600 ragazzi e accompagnatori che erano venuti nelle nostre famiglie per tre anni, in estate, 25 anni fa. Ci hanno raccontato che all’inizio non capivano quale era l’ interesse delle famiglie accoglienti, cosa ne guadagnavano, perché per loro ogni gesto doveva avere un guadagno. Poi, piano piano, hanno scoperto che era per pura gratuità e questo, insieme alla bellezza della compagnia incontrata, li ha fatti decidere per l’ adesione alla fede e alla Chiesa come una cosa nuova. Commovente anche vedere che una di loro, insieme con il marito, dopo aver fatto esperienza di accoglienza, ora va a vivere in una Casa Famiglia per rendere più grande e incontrabile il suo gesto.
L’ accoglienze genera vita come un seme che è posto dentro il cuore delle persone e che fruttificherà secondo il tempo e il disegno di Colui che ve lo ha posto e secondo la loro libertà, per il bene loro e di tutti. Nel tempo e dentro il mondo le nostre famiglie sono segno di un fatto che porta una novità. La sfida di dare la vita è la sfida di essere se stesse pienamente, luogo di un abbraccio tra persone con i loro limiti e la loro quotidianità, portatore dell’abbraccio di Colui che ci fa e ci salva.
Ha scritto Papa Francesco nell’Amoris laetitia: “La forza della famiglia risiede essenzialmente nella sua capacità di amare e di insegnare ad amare. Per quanto ferita possa essere una famiglia, essa può sempre crescere a partire dall’ amore” ( AL 53 ). Una coppia di sposi che sperimenta la forza dell’ amore, sa che tale amore è chiamato a sanare le ferite degli abbandonati, a instaurare la cultura dell’ incontro, a lottare per la giustizia. Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere “domestico” il mondo, affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come un fratello” (AL 183).
LORENZA VIOLINI:
Bene, grazie davvero a tutti, grazie davvero, l’applauso è il più bel ringraziamento che possiamo dare ai nostri ospiti. Dal tu, se tu sei un bene per me, da questo tu nasce una compagnia e un popolo, che come abbiamo visto non ha paura di nulla, neanche, come diceva Sabrina, della morte. Grazie e buon fine Meeting a tutti.