Chi siamo
L’abisso fra l’essere soli e avere un alleato. La passione per la cura
Lorenzo Berra, Massachusetts General Hospital, Boston; Raffaele Donini, Coordinatore della commissione Salute della Conferenza delle Regioni; Maurizio Marzegalli, Vice Presidente Fondazione Maddalena Grassi, Milano. Introduce Marco Maltoni, Direttore Unità Cure Palliative Romagna, Forlì.
Anche nel rapporto di cura, come nel resto della vita, si può bluffare. Chi è malato può fare finta di non esserlo, chi cura può far finta che la malattia e la sofferenza dell’altro non lo riguardino. È troppo duro da sostenere lo sguardo del dolore. E poi? Fino a quando tiene questo bluff? E che convenienza ha? Chi può (il curante) scappa e chi non può (l’ammalato e la sua famiglia) resiste e si rassegna o, modernamente, può cercare nuove forme di fuga. Tutto qui. E si evita il nocciolo della questione. Nel rapporto di cura c’è spazio per una “passione per l’uomo”? Una passione che il curante desidera, oltre che per i propri assistiti, anche per se stesso? C’è spazio per un desiderio di Infinito che perfori la coltre di ipocrisia o di disperazione? C’è la possibilità di un cammino personale che conduca, dalla naturale e legittima inaccettabilità della sofferenza e della dipendenza, alla maturazione di un grido che cerchi la Risposta necessaria per vivere? I relatori raccontano la propria esperienza umana e professionale di compagnia nella ricerca comune, di chi cura e di chi viene curato, dello Sguardo necessario a stare di fronte alla vita e al dolore.
Con il sostegno di Doc Generici.
L’ABISSO FRA L’ESSERE SOLI E AVERE UN ALLEATO. LA PASSIONE PER LA CURA
Marco Maltoni: Buonasera a tutti e grazie di essere qua con noi. L’incontro di oggi è centrato sul fatto che in situazioni di grande difficoltà, di sofferenza globale, di sofferenza continua nel tempo, negli anni, di dolore fisico e psicologico, di dolore globale, diverso è trovarsi ad affrontare questa situazione da soli o con la singola famiglia, e invece diverso è trovarsi al centro di una cura affezionata e tenace. Naturalmente nessuno può sostituirsi alla persona e alla famiglia che sono direttamente dentro la prova, il cammino personale rimane personale, ma la frase di Chesterton che inizia il titolo di questo incontro suggerisce che vi è un abisso tra essere soli e avere un alleato. E Chesterton continuava dicendo: “Si può concedere ai matematici che quattro è due volte due, ma due non è due volte uno, è duemila volte uno.” L’uomo infatti trova la sua costituzionale essenza dentro delle relazioni, delle relazioni significative. Come diceva qualcuno, è necessaria la tribù allargata. E che questa sia la cifra della malattia e della cura è una consapevolezza importante nell’agire del singolo professionista, della società civile che si organizza, riconosciuta e accreditata dall’ente pubblico, e delle istituzioni pubbliche stesse. Oggi abbiamo ad aiutarci su questa riflessione con le loro esperienze e i loro racconti tre amici importanti (mi perdoneranno se sintetizzo un po’ il loro importante curriculum).
Da Boston vediamo [in video collegamento] il dottor Lorenzo Berra, grazie! [applauso] anestesista intensivista, che lavora in una delle strutture diciamo più importanti al mondo che è il Massachusetts General Hospital e sia per quanto riguarda la cura, sia per quanto riguarda la ricerca, che ho visto ricca di pubblicazioni, si dedica proprio ai malati critici e alle loro famiglie, soprattutto per quanto riguarda l’insufficienza cardiopolmonare e le infezioni gravi.
Dopo il dottor Berra ci sarà il dottor Maurizio Marzegalli [applauso] (si è sentita un pochino la claque che ha fatto partire tutto), che oltre a essere cardiologo e ad essere stato primario di cardiologia 30 anni fa è stato co-fondatore della Fondazione Maddalena Grassi di Milano per le cure domiciliari ai pazienti gravi e malati gravi e oggi dentro il cda della Fondazione ha la delega alla terapia domiciliare dei minori con gravi disabilità.
Infine alla prima poltrona l’assessore regionale Raffaele Donini [applauso] assessore alle Politiche per la salute della regione Emilia Romagna, però da circa un anno credo è anche Coordinatore della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni. Di professione è un giornalista freelance, ma ha svolto vari incarichi istituzionali: sottolineo solo il fatto che fra i suoi compiti, fra le sue funzioni, c’è quella della programmazione e qualificazione del Sistema Sanitario Regionale e programmazione e gestione delle politiche per la non autosufficienza e i servizi socio-sanitari.
Quindi molto volentieri ascoltiamo questi racconti, queste esperienze, e partirei da Boston con Lorenzo, prego.
Lorenzo Berra: Grazie. Fatemi sapere se non si sente bene.
Marco Maltoni: Sì, si sente e si vede bene.
Lorenzo Berra: Benissimo. Intanto ringrazio gli organizzatori, in modo particolare il dottor Marco Maltoni e i presentatori che mi seguiranno per il cordiale invito a partecipare a questa 43esima edizione del Meeting di Rimini, scusandomi per non essere in presenza con voi. Vi chiedo uno sforzo ulteriore per seguire la mia presentazione in connessione remota: sarò breve perché capisco quanto sia difficile seguire online. Devo dire la verità, a me non piace molto seguire le persone che parlano lontano, quindi mi spiace che non sono lì con voi. Come avete sentito, faccio l’anestesista, divido il mio tempo tra rianimazione e ricerca clinica. Quindi il mio contributo al tema di oggi si limiterà all’ambiente accademico della terapia intensiva e quindi la generalizzazione della mia presentazione ad altri ambienti sanitari potrebbe non essere valida. Il titolo del nostro incontro mi sembra provocatorio, almeno lo è stato per me, ma credo possa anche suggerire una strada: “L’abisso tra l’essere soli e avere un alleato. Passione per la cura”. È provocatorio, perché credo che nessuno al mattino si metta i pantaloni per andare in ospedale con il desiderio di lavorare da solo, di stare da solo di fronte alla lunga lista di problemi che quotidianamente dobbiamo affrontare o al dolore e alla malattia dell’altro. E così i nostri pazienti si rivolgono a noi, così anche noi ci rivolgiamo ai nostri colleghi perché abbiamo bisogno, vogliamo qualcuno vicino che ci aiuti nel momento di difficoltà, di malattia, di sofferenza e di dolore, che ci ricordi che abbiamo un valore, che vale la pena vivere, dare la propria vita, attraversare questa valle di lacrime, di dubbi, di difficoltà, di errori e di sofferenza. Perché la solitudine può pesare almeno quanto la malattia e l’assenza di senso è la morte: quel che ho appena detto è un po’ un’ovvietà, eppure credo sia un’esperienza comune che tante volte facciamo tutti, che siamo o che ci siamo sentiti soli di fronte a decisioni cliniche difficili, a situazioni umanamente drammatiche, ai nostri stessi errori, ai nostri limiti fisici e psichici, all’incapacità di rispondere a situazioni che si presentano e alla malattia dei nostri cari o alla nostra stessa malattia.
Dicevo che il titolo suggerisce una strada, che è legata a quella passione per la cura che è insieme la sorgente ma anche l’obiettivo di un lungo percorso formativo, come uomo e come professionista. Vorrei quindi arrivare subito al punto che vorrei comunicare oggi sulla passione per la cura, che è stato per me decisivo in questi anni di lavoro in un ospedale all’estero, la scelta di maestri per la mia formazione, o come li chiamano qua in America mentors, e dei colleghi con cui confrontarmi e dove ognuno di noi, dentro nei propri limiti, ci mette il proprio cuore.
Finita l’università di medicina a 24 anni avevo deciso di iscrivermi alla specialità di anestesia e rianimazione, dopo aver frequentato il reparto di terapia intensiva durante il mio ultimo anno di medicina. Dopo pochi mesi dall’ingresso in specialità il primario del Dipartimento di anestesia, vedendomi un po’ confuso e smarrito, mi prese in disparte e mi propose di andare a fare due anni di ricerca al National Institute of Health, l’istituto di ricerca del governo americano a Washington DC, a studiare dal suo maestro, il dottor Theodore Kolobow [11’ 08]. La cosa era abbastanza inusuale, ero appena entrato in specialità, ma dopo aver valutato con la mia famiglia ed amici decisi di partire senza indugio, nonostante non sapessi una parola di inglese e non avessi mai lavorato in un laboratorio di ricerca. Ted Kolobow [11’26”] era per noi specializzandi di rianimazione di Milano un personaggio leggendario, un inventore. L’ossigenazione extracorporea, la rimozione dell’anidride carbonica, il corretto utilizzo dei ventilatori meccanici nei pazienti intubati e gli altri aspetti della terapia intensiva esistono oggi grazie a Ted Kolobow. Nato in Estonia durante la seconda guerra mondiale si trasferì con la famiglia, sotto la pressione dell’esercito russo, in un campo profughi in Germania dove rimase fino alla fine della seconda guerra mondiale. Nel 1949 all’età di 19 anni si trasferì negli Stati Uniti. Di animo mite e timido di carattere, aveva costruito un gruppo di ricerca molto piccolo: si basava su due specializzandi in rianimazione, per lo più italiani, che rimanevano con lui per due o al massimo tre anni e da quel laboratorio aveva rivoluzionato la terapia intensiva nel mondo.
Mi trovai con Mauro, un altro specializzando della scuola di anestesia di Milano, e qualche tecnico di laboratorio. Era l’inizio del giugno del 2000. Kolobow è stato un maestro per me e per Mauro non per imposizione o per lo status che aveva, ma per il suo impegno con la verità del dato, come la chiamava lui. Un impegno incondizionato, anche quando impopolare. Tutto veniva esaminato attentamente dai suoi occhi scrutatori durante ogni tipo di esperimento: l’elasticità, il peso dei polmoni, le radiografie del torace, le secrezioni, ogni particolare non veniva tralasciato. E i nostri piani per gli esperimenti successivi venivano inevitabilmente travolti. Il mio primo studio era diverso dal secondo, che era diverso dal terzo, e il quarto dal primo. A turno una volta al mese ogni laboratorio di ricerca del Dipartimento di terapia intensiva doveva presentare ad altri gruppi. Kolobow raramente presentava, e quando gli chiesi perché volesse che noi presentassimo al suo posto, mi rispose semplicemente: “Io sono un inventore e il mio tempo lo impiego tra macchinari, ma tu un giorno sarai un dottore in mezzo ad altri dottori, dovrai essere capace di spiegare i motivi di quello che trovi. Non devi fare semplicemente una lezione, devi saperne i contenuti.” La sua frase lapidaria, quando noi studenti non eravamo convincenti su un’argomentazione, era: “Do you believe it or do you know it?”, “Mi stai dicendo quello che tu credi o lo sai per certo?” Non appassionato di lunghi discorsi, preferiva che noi scrivessimo e documentassimo tutto. Lo presi sulla parola e cominciai a scrivere tutto. Poco prima che andassimo al convegno annuale della Società americana di rianimazione mi chiese: “Perché vuoi presentare cinque lavori al convegno?” Ed io risposi: “Sono i nostri lavori di quest’anno”. Lui freddo e pacato rispose: “I veri scienziati e medici non hanno tempo di sentire tutto quello che hai combinato in laboratorio, ritieniti fortunato se hai una buona idea da condividere con altri in un anno. Presenta il nostro miglior lavoro di quest’anno, gli altri quattro lasciali sulla scrivania”. Non gli interessava quanto uno pubblicava, ma cosa pubblicava.
Rimasi per tre anni e mezzo con Kolobow. Ritornai in Italia per finire la specialità in anestesia e rianimazione, ma avendo saltato molte rotazioni cliniche importanti decisi di rifare la specialità di anestesia e rianimazione in America. Nel 2005 Kolobow mi mandò a Boston da uno dei suoi primi studenti, il dottor Warren Zapol, medico e scienziato, che per primo scoprì gli effetti terapeutici dell’ossido nitrico nei neonati con ipertensione polmonare, salvandone migliaia e migliaia e che allora era il capo del Dipartimento di anestesia del Massachusetts General Hospital ad Harvard. A Boston mi scontrai da subito con il mio direttore di specialità che liquidò la figura del mentor, del maestro, come un metodo obsoleto di imparare in medicina, sostituendolo con la Scuola di anestesia, dove nessuno specializzando deve avere un rapporto educativo bi-direzionale con nessun dottore dello staff. E così la passione per la cura, per il vero, per il dato venne sostituita con un concetto astratto di eccellenza, di efficienza, di sostenibilità avulsa dal rapporto con il paziente. Della mia classe di specialità gli unici quattro rimasti ad Harvard a lavorare con me sono quelli che hanno avuto un mentor. Verso la fine della mia seconda specialità vado a incontrare il dottor Zapol nel suo studio. È il 2008. Abbiamo un confronto schietto: lui mi chiede cosa voglio fare dopo la specialità, io lo inondo di idee, del mio desiderio di lavorare in rianimazione, ma anche di come cambierà il percorso di specialità per i futuri giovani dottori e infine di progetti di ricerca che mi sarebbe piaciuto iniziare. Lui ascolta e mi chiede: “Ma chi è il tuo mentor qui a Boston?”. Io sbalordito lo guardo e mi accorsi delle sciocchezze che avevo detto fino a lì. Infatti nella mia ingenuità credevo a 34 anni, dopo essere stato con Kolobow, con due specialità, 2 fellowship, una miriade di esami, di aver imparato e quindi di essere autosufficiente, e quanto mi sbagliavo! Zapol sottolineava con la sua domanda che è un’illusione pensare di stare a galla da soli nel sistema sanitario, perché è facile rimanere schiacciati dalle cose da fare o dal pensiero di essere la risposta all’infinito bisogno dell’altro invece di essere un compagno, o dal sistema disumano ospedaliero con i suoi sempre nuovi idoli da incensare o a cui inchinarsi, o da un ambiente presuntuoso e spocchioso come quello dell’accademia. Rimasi catalizzato dall’impeto ideale del dottor Zapol, che divenne da quel momento il mio secondo mentor. Il Board di anestesia è l’esame americano per tutti quelli che finiscono la specialità di anestesia. In quel periodo avevo iniziato la mia fellowship in rianimazione con una media di 80/100 ore alla settimana in terapia intensiva, e se ciò non bastasse aveva cominciato a fare altre attività di ricerca in laboratorio. Fui bocciato all’esame. Andai da Zapol e imbarazzatissimo gli dissi: “Dottor Zapol, sono stato bocciato al Board”. Lui si fermò, mi guardò e mi disse: “Non ho tempo per queste cose, studia, l’anno prossimo passalo”. E riprendendo una frase di Edison mi disse: “Il genio è un uno per cento ispirazione e il novantanove per cento sudore”. Poiché è scoraggiante, pensiamo al fallimento come tutto negativo, ma non lo è: ed io avevo bisogno di qualcuno al mio fianco che me lo ripetesse. Lì compresi che la paura dello sbaglio in medicina coincide con il concepirmi da solo, slegato da tutto; invece quando sono amato allora rischio, l’umanità rifiorisce ed è rilanciata. Come durante la prima ondata del Covid19: alla domenica Zapol, ebreo, americano, ateo, di 79 anni, mi registrava dei videoclip fatti da lui, suonava l’Ave Maria di Schubert al violino e altre suonate di Bach, perché senza dirmelo sapeva che non potevo andare a messa. Dopo circa due anni e mezzo dall’inizio del Covid stiamo vivendo una delle più grosse emergenze sanitarie nella storia degli Stati Uniti d’America: la carenza di personale sanitario, non si trovano più infermieri, fisioterapisti, ma anche molti medici vanno in pensione precocemente, lasciando reparti deserti. L’unica arma di baratto per tenere la gente a lavorare in ospedale e per arginare il continuo lamento è il dollaro. Dice molto bene un noto pneumologo irlandese che vive a Chicago, Martin Tobin, quando afferma che la riscoperta della professione sanitaria a tutti i livelli ricomincia dalla capacità con cui riprendiamo a fare mentorship, a insegnare. Tobin descrive sette ruoli del mentor: l’insegnante, lo sponsor, il consulente, l’agente, il role model, il coach e l’amico.
Finisco dicendo che anche per me la scoperta di avere dei mentors, dei maestri al lavoro mi ha permesso di non rimanere solo, di continuare a imparare, di usare tutta la mia umanità e creatività al lavoro, di cominciare un laboratorio e di continuare ad insegnare medicina per quel che posso e per come posso. La loro devozione per il dato, la capacità di lasciarsi guidare dall’evidenza e non rimanere soggiogati dalla propria convinzione, la loro infinita curiosità per tutto ciò che sta accanto è come instillata nella vita di chi ha deciso di mettersi insieme in questo percorso che è la passione per la cura. Nonostante si possano dire molte altre cose anche assai più importanti di quel che ho appena detto sulla passione per la cura, ho provato a dirvi anche in maniera un po’ disorganizzata quel che penso sia un fattore essenziale e troppo spesso trascurato nella crescita del percorso formativo come uomo e come professionista sanitario: la scelta dei vostri mentors, maestri con cui condividere la professione. Perché anche se le strutture ospedaliere in futuro cambiassero da come le vediamo oggi, la cura passa attraverso questa passione condivisa per l’altro, dove uno ci mette il suo cuore. Grazie.
Marco Maltoni: Grazie molte Lorenzo. Mi hai reso presente che non solo per chi si trova in situazione di difficoltà, di malattia, ma anche per chi cerca di affrontare queste cose la solitudine è il punto più di difficoltà. Quindi, non stare da soli. Tanti medici invece tendono a essere autoreferenziali. Il senso di quello che si fa e avere un maestro da guardare. Quindi, grazie mille. Io farei continuare Maurizio, che racconterà la sua esperienza personale e anche l’esperienza della Fondazione. Grazie.
Maurizio Marzegalli: Grazie per l’invito, grazie per avermi chiamato, Maurizio, in stima della storia, dell’amicizia che c’è, spero. Prima diapositiva, se posso, rapidamente [diapositiva]. Come ha detto Maltoni, io parlerò dell’esperienza della Fondazione Maddalena Grassi e della mia personale. In che campo soprattutto? Sulla cura dei pazienti cronici con gravissime disabilità. Abbiamo sentito un primo intervento sull’ospedale, su quanto l’ospedale è importante, ma il problema che si va evidenziando sempre di più è la cronicità e la domiciliarietà. Avanti [cambio diapositiva]. Parlerò un attimino rapidissimo – i tempi sono stretti – di cosa fa la Fondazione. Innanzitutto, chi è questa Maddalena Grassi? È una ragazza morta a 19 anni per fibrosi polmonare, curata da alcuni di noi. E noi facevamo già volontariato cercando di seguire i pazienti a casa non curati adeguatamente. Trent’anni fa la famiglia ha dato i fondi, e la zia in particolare, per l’avvio di una Fondazione strutturata. Oggi la Fondazione opera presso l’area metropolitana di Milano prevalentemente, è accreditata e a contratto, quindi è un servizio pubblico. Soprattutto parlerò dell’assistenza domiciliare. L’Assistenza Domiciliare Integrata fa parte delle cure palliative di primo e secondo grado, poi ci sono le cure palliative specialistiche. Questo è un punto a mio parere da tener presente, perché troppe volte distorto. È un punto fondamentale della cura. Come vedete (non ho il puntatore) dopo abbiamo le cure palliative; seguiamo 3 hospice nella città di Milano; abbiamo una RSD per malati gravi, con gravi patologie neurologiche; abbiamo le case di alloggio per HIV; stiamo sperimentando l’alloggio protetto, nel senso che le persone che non riescono più a reggere a casa devono avere un luogo loro, ma dove possano essere assistite e curate adeguatamente con ottimi risultati. Per darvi un’idea, in ADI seguiamo circa 2500 pazienti l’anno e abbiamo 250/300 dipendenti; poi ovviamente la formazione, non è tutto qui. Avanti [cambio diapositiva] Beh, adesso parlo un attimo di me. Io innanzitutto ho 76 anni, poi capirete perché ve lo dico. Ho lavorato 40 anni in ospedale seguendo un po’ quello che diceva Berra (di cui stimo tutto quello che ha detto), come responsabile di terapie intensive di pronto soccorso. Ma una delle cose che abbiamo visto è che i malati gravi rientravano in ospedale peggio di prima, perché a casa non c’era un’assistenza adeguata. Di trent’anni fa sto parlando. E con alcuni amici qui presenti (dottor Riboldi, dottor Pirola, con cui collaboriamo ancora: anzi, sono presenti, sono loro i veri responsabili – dottor Botturi, dottor Planca eccetera, e tanti altri), abbiamo messo in piedi questa Fondazione per poter proprio seguire i malati gravi. Io opero ancora e in particolare opero con una delega sui minori perché, nonostante (e l’ho appena detto) la politica parli sempre degli ultra sessantacinquenni (quindi a me va benissimo da questo punto di vista), però i veri i gravi problemi sono anche al di sotto, nei minori e negli adulti, nelle SLA di 30/40 anni. Poi un’altra cosa che mi rende estremamente orgoglioso, che mi ha fatto sperimentare l’altro lato del mondo, è che sono il nonno di Benedetto di 17 anni, che ho l’onore che sia qui presente in prima fila col suo papà, a cui dedico un ringraziamento particolare. Capirete anche successivamente il perché di questa segnalazione. Io dico solo una cosa: Benedetto quando è nato aveva una paralisi totale, il medico allora – ero presente – disse: “non comunicherà mai e non riderà mai.” Da questi bambini, da queste persone non ci si aspetta nulla. Bene, guardate la diapositiva di quest’estate con me sul gommone: lo vedete incavolato perché l’acqua era calma e andavamo piano. Allora sta comunicando a me “dai, spicciati” e quando acceleri è una risata continua. Bisogna scoprire quello che queste persone hanno dentro e hanno dentro tutto, come tutti noi: questo è solo da scoprire. [applausi] Grazie. Avanti [cambio diapositiva]. E non è solo Benedetto, vedo anche altre persone presenti con grave malattia, grave disabilità. In Italia si stima che siano circa 35.000: è difficile calcolare il numero, ma i bambini, i minori con gravi patologie soprattutto invalidanti (se uno ha anche il diabete grave, ma si muove, non è così grave l’assistenza). Queste patologie chiedono assistenza continuativa e supporto socio-sanitario specialistico: entrambi sono indispensabili. [parlando si rivolge all’assessore Donini] Mi rivolgo sempre a chi potrà darci una mano, scusa! Senza adeguato supporto facilmente l’arrivo di un bambino di questo tipo stravolge l’intera vita della famiglia; il trenta per cento delle famiglie in letteratura si spacca, rimane uno solo dei genitori.
La condizione della famiglia e il modo di rapportarsi con la Fondazione variano molto, nel senso che ci sono quelli che capiscono la fatica e lo sforzo che facciamo con gratitudine, e sono il novanta per cento; ovviamente c’è anche chi, travolto – lo dico – dal bisogno che ha realmente, pretende di tutto in modo irragionevole, accusandoci di tutte le infamie del mondo. Per fortuna questo succede dappertutto, che ci sia chi è scontento, però la maggior parte no. Cito la frase di una mamma detta nel 2005, che quindi ci anticipa di diciassette anni, che dice: “L’esperienza di malattia, se accompagnata, può divenire occasione di vivere con positività un’occasione che altrimenti sarebbe destinata alla disperazione.” È la frase del nostro incontro. Avanti [cambio diapositiva]. Cos’è l’ADI Minori quindi? Abbiamo dovuto mettere in piedi… ma all’inizio non immaginavamo questo mondo, all’inizio l’Azienda Ospedaliera ha cominciato a chiedere di curare i bambini diabetici, di fare la puntura, di fare il cateterismo, poi magari di fare qualcosa di più, poi magari di seguire la ventilazione e quindi abbiamo scoperto il mondo dei più gravi. Però questo ha bisogno di una specializzazione assolutamente specifica, e questo non è ancora riconosciuto. L’ho detto prima: l’ADI, l’Assistenza Domiciliare Integrata, non è ancora riconosciuta per l’aspetto dei minori. Questo non è gestibile da una normale ADI: su 40 aziende che fanno l’assistenza domiciliare su Milano, una – noi – e pochissime altre, pochi altri pazienti, lo fanno. E in questo senso abbiamo messo in piedi un’equipe adeguata con medici, infermieri, palliativisti eccetera eccetera. Tanto per darvi un’idea, seguiamo fra gli 85 – oggi – e i 143 bambini gravissimi a domicilio. Cos’è questo divario? Primo: 85 oggi, perché mancano gli infermieri, nessuno viene a fare questo lavoro, per quello che è remunerato è un lavoro gravissimo, impegnativo e a casa si è soli. Ovviamente, vedete sotto il numero di attività che si fanno. La richiesta: quel 143 non è perché è diminuita la richiesta, è diminuita la possibilità di curarli e nell’ultimo anno abbiamo detto no a 25 bambini, a 25 famiglie, perché non ho l’infermiere da mandare.
Ovviamente, nelle case occorre portare non solo professionalità, competenza e assistenza, che sono indispensabili (noi facciamo sanità, dobbiamo essere professionisti seri), ma anche umanità, ascolto, condivisione, sorrisi. Ma noi sosteniamo che in casa prima di tutto entriamo noi stessi, con la nostra identità di fede e di speranza. Su questo nelle scuole normalmente dicono: “no, se fai il professionista non devi essere tu presente come persona”. No, non è vero: devi esserci, con tutto il rispetto che questo comporta, offrendo il meglio di te, cioè la tua identità. Avanti. [cambio diapositiva] La passione per la cura…qui divento un filino polemico, ma volutamente.
Marco Maltoni: Pensavo lo fosse già stato…o lo diventa da adesso in poi?]
Maurizio Marzegalli: Scusate [ride], gli perdono tutto! Scusatemi la passione, ma insomma, è evidente, quello che dico è evidente! Non è una roba strampalata, però non diventa oggetto di attenzione! Ad esempio in ospedale, in acuto, giustamente (l’ho fatto per 40 anni, ero capo del dipartimento di emergenza, accettazione, pronto soccorso, terapie intensive, quindi concordo con tutto quello che ha detto prima Berra), che cosa si cura? E qual è la passione? È più la malattia, è il paziente stesso che te lo chiede: “Toglimi questa malattia, fammi andare a casa! Basta, punto! Non interessarti troppo di me!” Quindi l’entusiasmo che c’è è per la cura della malattia, per la tecnologia, per tutte queste cose qua, che io stesso ho fatto, quindi per carità, non è un giudizio, è un dato di fatto però. Tant’è vero che la maggior parte di chi si laurea va in ospedale, non va al domicilio. E anche perché in ospedale si sta una settimana, un mese, poco più: allora il rapporto giustamente non può andare avanti.
Nel cronico invece si cura per forza la persona, perché la seguì per mesi, per anni, mio nipote ha 17 anni, è seguito, è curato. Quindi è evidente che curi più la persona della malattia. Anche perché la malattia, e lo sappiamo tutti, difficilmente può essere curata e quindi i risultati sono ben poco esaltanti, molto meno che in ospedale, però vi dico umanamente sono enormemente grandi. Le due cose non sono in contrapposizione, devono lavorare assolutamente insieme. Noi lavoriamo benissimo con gli ospedali specialisti (la De Marchi, il Buzzi, la San Gerardo, tutte le realtà specialistiche). Perché bisogna lavorare insieme, insieme: non l’ospedale, poi va a casa, e poi torna. Avanti [cambio diapositiva]. Ecco mi fermo un attimo perché il papa Giovanni Paolo II nel 1980 disse: “Quando soffre un uomo, ci vuole un altro uomo, accanto a quello sofferente”. Ma chi è vicino? Di fatto è il caregiver, è questa la persona che va tutelata, va capita, va sostenuta, di tutto e di più! Perché il carico reale è loro da tutti i punti di vista. Per fortuna guardate: ho fatto questa dispositiva col suo permesso, è un bimbo morto poco tempo fa 30 anni. Ma quello che mi colpisce di questa diapositiva è lo sguardo della mamma e lo sguardo di questo ragazzo, 30 anni curato con un’attenzione e una delicatezza che vi darei una medaglia d’oro: come esempio di tutti i caregiver e probabilmente qui ce ne sono tanti. Per fortuna ce ne sono tanti di genitori volonterosi e che si fanno carico di questa realtà, di questa sofferenza. Gli operatori sono chiamati ad aiutare questa presenza, questa realtà, non a sostituirla, quando è possibile Avanti [cambio diapositiva]. Avete visto lo sguardo di quella persona, prima? Io dico che era uno sguardo diverso, assolutamente diverso e ricorda la frase che una mamma mi ha detto tantissimo tempo fa, a me molto cara: “Mio figlio non è epilettico, non è tetraplegico, mio figlio ha l’epilessia, ha la tetraplegia, ma mio figlio è ben altro, è un mistero, anzi è il mistero”. Questi bambini sono un segno più esplicito che richiama veramente al mistero: guardiamoli così. Una penultima [cambio diapositiva]…sto nei tempi, sto correndo un po’, scusate… Ovviamente, quando seguì una persona per decenni, deve seguirla fino alla fine; quindi compito nostro, anche come cure palliative di primo e secondo livello e di specialistica, è di accompagnare la famiglia alla morte del minore. Non è uno scherzo, soprattutto a domicilio. Un vecchietto come melo si accompagna con più facilità: un bambino… Perché si dice dolore innocente? Perché non lo si capisce: perché? I bambini però, come ognuno di noi, non ci sono affidati per sempre, ma noi siamo chiamati ad accompagnarli. Il bisogno è infinito e tutti dobbiamo convivere con l’esperienza del limite, della fragilità. Accompagnare fino al destino, senza abbandono. Attenzione, c’è una grandissima polemica sull’accanimento terapeutico, “no all’accanimento terapeutico”… io dico no all’abbandono! Perché queste persone sono realmente quello che qualcun altro più autorevole di me dice “scarto”, lo “scarto”: sono abbandonate, bisogna rendersene conto. Ho detto che dico delle banalità, sono cose ovvie, evidenti, ma bisogna metterle davanti a tutti. Dico una cosa, una, ne avrei cento: qualche anno fa senza che io sapessi nulla le mie infermiere si sono date volontariamente il cambio a casa di una bimba che stava morendo, 24 ore. Non ne sapevo nulla. Al funerale alla mamma mi abbraccia, io non capivo e le dico “Signora, abbiamo fatto quello che potevamo”, ma lei dice “No, grazie a voi ho potuto vivere con lei, godermela (me lo ricordo) ed assisterla senza badare alla terapia e ai vari strumenti. Voi siete stati i nostri angeli”. Non è poco, credo. Questo [indica la foto nella diapositiva] è uno dei bambini altrettanto cari che ho seguito io a domicilio e che è stato impegnativo, non poco: però anche qui, ad esempio, quando stava morendo tutti gli operatori si sono chiamati l’uno con l’altro, e alla fine eravamo in casa in dodici, perché tutti volevano accompagnarlo. Avanti [cambio diapositiva]. Lavoro, collaborazione, rispetto (è l’ultima, ce la faccio). Questo lavoro, quando accettato, quando seguìto, crea una positività di questo lavoro svolto insieme: perché non l’ho detto, ma va ripetuto, l’essere accanto all’uomo vuol dire accanto anche all’operatore, innanzitutto, tanto più in questo caso: alla famiglia, all’operatore eccetera. E gli operatori fioriscono in una comune esperienza di crescita, professionale e anche molto umana. Abbiamo una fortuna grande di avere un cappellano che forse molti di voi conoscono che don Vincent, che è una presenza esplicita come sacerdote, che accoglie con grandissima passione tutto l’umano che lo desideri e ha tantissimo da insegnarci per il rispetto. Noi lavoriamo con tanti operatori e pazienti, credenti o no, di varie religioni o atei, ma il punto essenziale che ci accomuna e che ci consente di lavorare insieme è la passione per l’uomo. Questa è una frase che ho rubato a te [si rivolge al moderatore Marco MALTONI], tu hai detto in un’ultima riunione che si può lavorare con tutti. Ma un’ultima cosa che dice questo: un papà musulmano, presente la sua comunità, alla cerimonia funebre del figlio che fecero nel camposanto (sapete che non potrebbero, non dovrebbero), disse davanti a tutti: “Lo avete abbracciato voi, ora lo può abbracciare anche la vostra terra, ora pregate il vostro Dio” [applausi]. Grazie! La prossima [cambio diapositiva]. Facciamo 30 anni: quindi chiedo a chi volesse da operatore sanitario partecipare a questa drammatica, faticosa, coinvolgente, bellissima esperienza, è il benvenuto. Io devo passare le consegne, non ce la faccio più, chi vuole poi ne parliamo, grazie.
Marco Maltoni: Mi tocca dire qualcosa anche se non ci sarebbe nulla da aggiungere. Però questa esperienza personale, con questa passione a 75 anni (è più appassionato di tanti giovani), nata da un bisogno (è questa cosa della sussidiarietà: cioè in un bisogno si vede, si risponde, si tenta di rispondere e ci si organizza), e poi un terzo punto: si vede questa grande differenza, che quando non sempre si può guarire, però sempre ci si può prendere cura, e questa è proprio un’esperienza grande di questo tipo.
Adesso lasciamo la parola all’assessore Donini che ci dirà – e anche a questo ci tengo, da quel poco che ci diceva prima – come anche nell’istituzione la mossa personale è essenziale. Ci sono state due esperienze molto belle, almeno a mio parere: sentiamo anche l’esperienza dell’assessore Donini.
Raffaele Donini: Grazie intanto di questo invito! Io darei cinque anni, forse dieci, di età anagrafica miei a Marzegalli per poter restare ancora in sella, ancora tanto tempo e ovviamente so che lo farà: perché quello che sta facendo e che mi ha raccontato anche prima è davvero straordinario assieme alla Fondazione. Ma si parla di esperienze personali. Io sono nato col Covid dal punto di vista della mia esperienza istituzionale, perché la prima giunta di insediamento della regione Emilia Romagna, quando mi è stata conferita la delega alla salute, lì in quel luogo sono stato contagiato. Sono stato il primo guarito della regione Emilia Romagna. Adesso ne parlo ovviamente in modo abbastanza sereno ma all’epoca (era fine febbraio-inizio marzo del 2020) quando seppi di essere stato contagiato ovviamente andai immediatamente a farmi visitare all’ospedale più vicino rispetto alla mia residenza, al Policlinico di Modena. Per fortuna non avevo sintomi evidenti diciamo così gravi e un giovane virologo mi disse: “Guardi assessore, che il vero abisso (e usò proprio questa parola) di questa pandemia e di questa malattia è che si muore da soli. Si esce di casa magari soltanto per una febbre alta che non passa o una saturazione che si sta abbassando, si saluta la propria famiglia e poi ci si ritrova in una camera a pressione negativa, con personale sanitario che vedete nella foto [diapositiva, dal titolo: Combattere la solitudine del Covid], ovviamente opportunamente ‘scafandrato’ come si dice in gergo, e poi il rischio è quello di non risvegliarsi più e non essere nemmeno vegliati dalla propria famiglia. Dobbiamo investire anche delle risorse immediatamente (mi disse) per collegare i pazienti Covid con le loro famiglie e con i loro affetti”. Tornato a casa diedi subito avvio a un progetto di collegamento con iPad, con smartphone, con mille apparecchiature che mandammo negli ospedali e nei reparti Covid della regione Emilia Romagna, proprio per evitare questo isolamento e questa solitudine che accompagnavano i malati anche gravi. Allora eravamo in fase pre-vaccinazione ovviamente, prima ondata. Ma ci accorgemmo subito che della parte del supporto psicologico ai malati, ma non solo ai malati Covid, ai malati anche ospedalieri nell’epoca Covid e anche agli operatori sanitari che stavano facendo turni a dir poco usuranti, davvero assolutamente impensabili fino a quel momento: un supporto psicologico, e mettemmo insieme un servizio che appunto dava ai degenti e agli operatori anche un supporto psicologico. Siamo arrivati a 10 mila prestazioni offerte! È per dire la vulnerabilità della solitudine, dove l’abbiamo incrociata, e dove anche esperienze dirette che ho potuto riscontrare poi successivamente andando a visitare i reparti mi hanno portato ad agire immediatamente in quella direzione. Oggi noi vogliamo investire sempre di più nella domiciliarità: seconda immagine [cambio diapositiva, dal titolo: Il grande lavoro delle USCA]. Ci accorgemmo per esempio che la pandemia potesse reggersi nei reparti ospedalieri, ma che si doveva vincere sul territorio e da questa regione partirono proprio le prime esperienze di quelle che poi sono diventate le USCA, cioè delle unità operative multidisciplinari di medici, di continuità assistenziale, di virologi, di infermieri, di tutte le tipologie cliniche per andare a domicilio a operare, diciamo a intervenire, nelle situazioni che ritenevamo più da attenzionare. Sono state svolte in Emilia Romagna oltre mezzo milione di prestazioni a domicilio. Forse anche per questo noi, che siamo stati colpiti in tutte le ondate in modo devastante, abbiamo in qualche modo – grazie all’impegno di questi professionisti, ospedalieri, territoriali, alle USCA – retto l’urto della pandemia e saputo anche reagire in maniera propositiva nel rafforzare le barriere del territorio: anche quelle erano barriere impreparate, come tutto il comparto sanitario, all’impatto della pandemia. Ora quello che abbiamo imparato in questo periodo con una lezione durissima lo dobbiamo mettere a valore, e lo dico anche come coordinatore della Conferenza delle regioni e della Commissione Nazionale Salute, perché tutto quello che dico è stato deciso e discusso all’unanimità, quindi in quella sede non abbiamo fatto prevalere differenziazioni di tipo politico, ci siamo messi nelle condizioni di capire cosa apprendere, di cosa poter far tesoro dell’esperienza delle USCA e anche della domiciliarità per rafforzare proprio il rapporto con il territorio e con la domiciliarità. Diceva giustamente il professore [si riferisce a Maurizio MARZIGALLI] che oggi noi calcoliamo l’assistenza domiciliare prevalentemente sulla popolazione ultra 65enne. In Emilia Romagna siamo all’ 8,5 per cento di assistenza a domicilio, dobbiamo arrivare al 10 per cento così come ci dice l’Europa nel PNRR nel 2026: ma dobbiamo costruire un sistema misto, un sistema di competenze sempre più affinato, sempre più attagliato alle singole esigenze della popolazione, proprio perché è assolutamente vero che nella domiciliarità la gran parte delle prestazioni riguarda ovviamente non l’acuto, ma il cronico e nel cronico non ci si può occupare soltanto della patologia, ci si deve prendere in carico complessivamente della persona. E questo è un impegno che noi dobbiamo promuovere in maniera omogenea: lo dico da assessore di una delle regioni che – grazie ai nostri professionisti, grazie alle grandi scelte anche del passato – viene citata molto spesso assieme ad altre regioni come una delle regioni benchmark o comunque di grande efficacia sul piano sanitario, ma lo dico convinto del fatto che la sanità o è universale oppure non ha ragione di esistere. O noi riusciamo a garantire il diritto alla salute su tutto il territorio nazionale, su tutto l’ambito in cui agiamo con le risorse del fondo sanitario nazionale, oppure non ha senso che alcune regioni, come per esempio l’Emilia Romagna, la Lombardia, il Veneto abbiano una mobilità che sia tale da poter in qualche modo anche far esplodere a volte le proprie liste d’attesa. E questo è un tema, ripeto, che non riguarda tanto le regioni che hanno la mobilità attiva, che sono orgogliose, fiere di potere offrire un servizio a tutto il Paese: dobbiamo cercare di utilizzare questa occasione, questa opportunità del PNRR affinché il diritto alla salute si estenda e si renda esigibile in tutta Italia, dal nord al sud, perché questo è ciò che ci dice la Costituzione.
Terza immagine, perché dobbiamo correre [cambio diapositiva, dal titolo: Non c’è salute senza salute mentale]. Il tema che è emerso nella recente storia della sanità italiana è un tema di salute mentale, la cui domanda oggi è senza precedenti. Noi dobbiamo sempre più sviluppare un sistema che metta in collegamento le antenne che il territorio può produrre nell’ambito appunto delle strutture territoriali – dalle case della comunità alle cure primarie, ai medici di medicina generale ai pediatri di libera scelta – quelle antenne che noi in Emilia Romagna abbiamo rafforzato per esempio con lo psicologo di comunità, che deve essere in grado non solo di individuare e intercettare il bisogno, ma anche di interagire con la rete di secondo livello che abbiamo molto forte in regione e anche in altre regioni. Ma oggi, mentre noi riusciamo per esempio a produrre diagnosi precoci e intervenire per tempo nell’ambito dell’individuazione della patologia, non sempre riusciamo per l’enormità della situazione a prenderci in carico in modo così solerte, così veloce, della persona. Ecco, questi investimenti che noi vogliamo inserire nell’ambito del cosiddetto DM 77, devono essere inseriti: perché il DM 77 è stato approvato con una – diciamo così – non dimenticanza, ma con un impegno, con un impegno a arrivare a ridosso appunto dell’applicazione dello stesso anche con una parte che riguardasse la salute mentale. Quella parte la stanno scrivendo le regioni nell’ambito delle loro competenze, in interlocuzione con il governo, e dobbiamo investire sempre di più in tal senso. Successiva [cambio diapositiva, dal titolo: Curare i profughi ucraini]. Abbiamo vissuto un’altra esperienza e qui volevo davvero rivolgere un apprezzamento a tutti i professionisti sanitari, a cui vorrei dedicare un fortissimo applauso [applauso], che dopo la enormità degli sforzi prodotti nell’ambito della pandemia si sono messi a disposizione – le nostre strutture ospedaliere per esempio – anche per l’accoglienza dei profughi ucraini. Noi siano tra le regioni che ne hanno accolto di più: abbiamo accolto 28 mila persone, ne abbiamo curate più di un centinaio, anche e soprattutto bambini che avevano bisogno di cure onco-ematologiche, attraverso la nostra rete di eccellenza di IRCCS, disseminata nel territorio della regione. Ecco, abbiamo avuto l’idea di una espressione universale della sanità e della salute del cittadino. Dinanzi alla malattia, dinanzi poi a una malattia di una persona che scappa da un ospedale bombardato, dalla guerra in corso, noi ci siamo messi a disposizione, come se guardassimo in faccia (io li ho visti questi bambini) i nostri figli, i nostri fratelli, le nostre sorelle, le nostre famiglie. Successiva [cambio diapositiva, dal titolo: Una spiaggia insieme a te]. Un’esperienza che è proprio qui vicino. Si parlava prima di cronicità, non solo di età senile, di età avanzata, ma anche di giovani, di uomini giovani. E qui vicino a Punta Marina c’è un’esperienza che io voglio sostenere. Perché sono stato invitato – come vengo invitato a tantissime belle iniziative che abbiamo in regione -, ma lì io ci ho lasciato il cuore, perché in quella spiaggia insieme a te ci sono circa 100 persone malate di SLA che ogni mese soggiorno e hanno la possibilità di stare sotto l’ombrellone, di fare il bagno, di divertirsi, di essere in qualche modo accolte nella massima disponibilità di persone che lavorano volontariamente per il loro bene, per la loro qualità della vita. Ecco, in quella spiaggia noi vogliamo investire, vogliamo accompagnare quell’associazione nella strutturazione di nuove strutture per l’abbattimento delle barriere architettoniche, investire in formazione e cercare di accompagnare le migliori energie del volontariato, proprio per far sì che ci siano esperienze del genere e che siano anche replicabili, visto che la nostra costa è così particolarmente generosa e così particolarmente attrezzata. Infine la parte delle cure palliative [cambio diapositiva, dal titolo: La persona malata non deve mai sentirsi sola] e qui, come dire, gioco in casa. Devo dire che il fatto che la persona malata non debba mai sentirsi sola vale indubbiamente di più quando i momenti della malattia sono gli ultimi momenti della vita. Tutti noi – immagino – abbiamo vissuto esperienze di familiari o comunque di persone a noi care che abbiamo accompagnato in questa fase terminale dell’esistenza. D’altra parte la morte è parte della vita e deve essere considerata come tale. Ma in Emilia Romagna noi siamo ormai al trentennale di una delle primissime leggi sulle cure palliative. Abbiamo certamente un bilancio importante, ci sono traiettorie di sviluppo delle cure palliative che hanno diminuito l’ospedalizzazione dei pazienti. Banalmente: chi non ha avuto un parente, un nonno che ha detto “Voglio morire a casa mia, portatemi a casa, lasciatemi a casa”: ecco, le cure palliative a volte possono diminuire, anzi da noi hanno diminuito, l’ospedalizzazione, hanno diminuito il ricorso ai pronti soccorsi, hanno diminuito interventi invasivi. Dobbiamo renderle più strutturali, più specializzate a trattare le diverse tipologie di traiettorie terminali della vita delle persone. Per fare questo io convengo con te [si rivolge al dott. Maurizio MARZEGALLI] (posso darti del tu Maurizio, visto che ci siamo dati del tu prima?) perché abbiamo una grande possibilità di investire nella formazione del caregiver. L’Emilia Romagna è una terra che ha dato molto in questo senso, ha offerto molto in questo senso, abbiamo anche una legge, che abbiamo finanziate e continueremo a finanziare. Nell’ambito della formazione dobbiamo investire anche qualche risorsa in più a livello nazionale, per garantire la formazione in progressione del caregiver, perché la persona progredisce ahimè nella cronicità e nella malattia e, in particolare nell’ambito palliativo, con una velocità che molto spesso non è tagliata sulla preparazione del caregiver. Il Parlamento ha approvato all’unanimità, credo senza nessun voto contrario (forse è la prima volta che succede) una risoluzione del professor Trizzino, che poi era stata in qualche modo anche sollecitata dalla Commissione Nazionale Salute di cui io sono coordinatore, di dedicare una quota percentuale – l’un per cento – del Fondo Sanitario Nazionale proprio per lo sviluppo delle cure palliative. Perché anche lì ci sono regioni che hanno progettualità importanti e ci sono regioni che sono invece molto molto indietro da questo punto di vista, che devono progredire in tal senso, che non è che non abbiano la volontà per farlo, semplicemente devono essere messe in condizioni di poterci investire delle risorse. E chiudo offrendo – come dire – anche una valutazione di tipo politico. Oggi qui ci sono stati i big in perfetta par condicio, credo che ci siano stati tutti nell’ambito dello schieramento che si sta contendendo democraticamente il governo del Paese. Ecco io rivolgo a tutti i leader nazionali, a nome di tutti i miei colleghi (di destra, di centro, di sinistra) della Commissione Nazionale Salute l’appello di non derubricare la sanità in Italia. La sanità in Italia deve essere messa come centrale della politica nazionale. Non dimentichiamo, non dimentichiamo quello che abbiamo promesso davanti alle morti di Bergamo, quando dicemmo “Mai più tagli in sanità”. Non è possibile quindi che ci sia un documento di economia e finanza che riporta nel 2024 la spesa sanitaria, rispetto al prodotto interno lordo, a meno 0,1 per cento rispetto al 2019, anno pre-Covid. Se quel giuramento, se quell’impegno lo assumiamo tutti, al di là di chi prevarrà alle elezioni politiche e avrà la responsabilità di governare, la Commissione Nazionale Salute all’unanimità chiede che si trasformi in un adeguato finanziamento del Fondo Sanitario Nazionale, perché è solo così che noi potremmo investire nella salute dei cittadini, nelle strutture che ci chiede l’Europa attraverso il PNRR e anche nella qualità e nel rendere più attrattivo e anche ben pagato – lo diceva il professore prima – il ruolo di tutti gli operatori sanitari: perché se mancano medici e infermieri è perché ne abbiamo programmati pochi e perché li paghiamo poco.
Marco Maltoni: Stavo cercando un articolo che riprende quello che diceva l’assessore… Direi che veramente abbiamo avuto la possibilità di ascoltare tre esperienze che io credo i malati abbiano il diritto di poter incontrare. Questa opzione di cura che supera l’abisso della solitudine e che è caratterizzata dal trovare il senso di quello che si fa, dall’aiutarsi a tenerlo presente: questo vale nel momento di malattia, ma vale anche in chi lavora e vale penso nella vita di tutti i giorni. E penso che è vero che nella cronicità questo è al massimo grado, ma che anche il miglior neurochirurgo diventa ancora più bravo se ha un approccio di questo tipo. Ripeto: è un modo di vivere la cura che tutti in Italia hanno il diritto di poter incontrare. E vorrei concludere citando cinque righe della fondatrice delle cure palliative Cicely Saunders che diceva: “Dobbiamo imparare che cos’è il dolore, dobbiamo imparare che cosa significa sentirsi così malati, dobbiamo imparare cosa significa sentirsi vicino ai pazienti senza sentirci come i pazienti (non possiamo metterci completamente nei loro panni, ma sentirci vicino i pazienti) se vogliamo dare loro il genere di ascolto e di sostegno stabile di cui hanno bisogno per trovare la propria strada, la propria ipotesi per vivere la malattia e la sofferenza”. Ecco io credo e spero che possiamo uscire di qua portandoci dietro queste belle esperienze. Per poter uscire di qua, cioè dal Meeting, bisogna che il
Meeting rimanga e, per rimanere, il Meeting si auto-sostiene e quindi ci sono tutte le postazioni DonaOra per poter fare andare avanti questa opera, all’interno della quale è possibile fare incontri come questo. Grazie a tutti gli ospiti.