Chi siamo
LA VITA: ESIGENZA DI FELICITÀ. TESTIMONIANZA
Partecipa: Izzeldin Abuelaish, Medico palestinese, Fondatore della Fondazione Daughters for Life e Professor of Global Health at the University of Toronto. Introduce Robi Ronza, Giornalista e Scrittore.
ROBI RONZA:
Buon pomeriggio. Il Meeting come sapete è in mezzo di comunicazione di massa sui generis. È come un grande annuario che non è stampato su carta, che non è trasmesso telematicamente ma è percorribile, è fatto di incontri, consente questo contatto diretto con l’esperienze, con personalità straordinarie. L’incontro di oggi è più che mai in questo spirito. Io sono lieto e onorato di presentarvi Izzeldin Abuelaish, questa straordinaria figura di testimone di pace palestinese. È anche una bella storia, quella di come noi l’abbiamo conosciuto, incontrato. Un mio amico, il professor Giorgio Cavalli, mi regala un libro: Non odierò, il libro di Izzeldin Abuelaish. Lo leggo e dico: “E’ un personaggio da Meeting, è un personaggio che dobbiamo far conoscere anche al nostro Paese”. Fra l’altro, lo propongo al presidente Formigoni come persona da premiare con il premio della pace di Regione Lombardia 2011. Riceve questo premio, viene dal Canada, dove attualmente vive, a Milano e alla fine della cerimonia del premio gli spiego cos’è il Meeting. Gli dico: “Guardi lei deve venire anche al Meeting di Rimini”. Accetta molto cordialmente e oggi è qua. Ha raccontato la sua drammatica, straordinaria, esemplare vicenda in un libro: l’edizione italiana ha titolo Non odierò. Sono state portate un certo numero di copie alla libreria del Meeting, purtroppo troppo poche, e si sono esaurite. Adesso non ne disponiamo, però ve lo consiglio vivamente, è un libro da leggere. C’è comunque della documentazione su di lui nello stand di Regione Lombardia. Vediamo perché è un personaggio da Meeting. Questo medico palestinese è profugo nella striscia di Gaza, nasce da una famiglia che abitava in un villaggio che è stato conquistato da Ariel Sharon, quando era capo della milizia sionista. Gli abitanti sono stati espulsi e Sharon ha fatto la propria azienda agricola nel territorio di questo villaggio. Il giovanissimo (intanto vedete l’immagine della copertina di questo libro, edizione PM) Izzeldin va in estate, per pagarsi gli studi, in epoche meno tese di questa, va a lavorare in un villaggio cooperativo israeliano, un territorio israeliano vicino a Gaza. Lì sviluppa dei rapporti di simpatia e di amicizia con i suoi datori di lavoro, poi torna a Gaza alla fine di questo periodo di lavoro e siccome era comandante militare di Gaza in quel momento il generale Sharon, e le strade troppo strette dei campi profughi, che sono dei villaggi di case in muratura ormai, impedivano il movimento dei carri armati, Sharon dà ordine di demolizione di 150 case con preavviso di 4 ore. E una di queste case è quella della famiglia di Abuelaish. Lui, questo ragazzo quattordicenne, da questo episodio matura una riflessione: “Io ho dei rapporti pacifici con alcuni israeliani, torno a casa e mi trovo in questa situazione, allora vuol dire che nei nostri due popoli ci sono due mondi. Chi vuole la guerra e chi vuole la pace. Io mi dedicherò a sviluppare i rapporti tra israeliani e palestinesi che vogliono la pace, che amano la pace, che sono disponibili a comprendersi”. Dedica la vita a questo. Diventa, con notevolissime difficoltà, medico e si mette a fare il medico sia in un ospedale di Gaza che in un ospedale israeliano, unico caso. Impara l’ebraico, e questa è una cosa rarissima fra i palestinesi, e comincia questo lavoro di medico di qua e di là della frontiera. E’ il solo a fare questo, dovendo subire una quantità di frustrazioni, di vessazioni che caratterizzano la vita quotidiana dei palestinesi, perché ogni passaggio di frontiera, ogni posto di blocco è un’occasione di umiliazione, di disagio, perché naturalmente le guardie di frontiera israeliane vedono in ogni palestinese un potenziale terrorista, ma la massima parte dei palestinesi non lo sono e quindi tutti quelli che non lo sono patiscono però di questo. Ed è una vita tutta di instabilità, tutta di frustrazioni: esci di casa non sei sicuro, vai in un’altra città non sei sicuro di sapere quando potrai tornare, ti ammali, hai un parente che deve essere curato in un ospedale israeliano, ma poi non ci puoi andare. Lui nell’ospedale israeliano dove lavora è uno stimato medico, quando arriva alla frontiera è un palestinese vessato alla frontiera, ma va avanti con questa, e continua con tutto questo, dedica la vita a questo. Diventa uno stimato ginecologo-ostetrico, matura amicizie importanti anche nell’ambiente medico israeliano e diventa questa figura in contrasto con la logica della contrapposizione. Non ne avete mai sentito parlare di figure così, perché la nostra comunicazione non ne parla. Questa vicenda è una vicenda piena di drammi, di difficoltà fino a una tragedia. Nel gennaio 2009, durante l’operazione “piombo fuso”, l’ultima occupazione militare di Gaza, un singolo carro armato israeliano va davanti a casa sua e tira un colpo di cannone nella sua casa, forse non a caso e questo colpo di cannone giunge nella casa e uccide tre figlie, tre sue figlie, una nipote e ferisce gravemente altri figli e suoi familiari. Lui soltanto un mese prima aveva perduto la moglie per malattia, viveva già un momento di grande dramma personale, ma nemmeno questo episodio così tragico e probabilmente criminoso lo spinge a deflettere. Tra l’altro, quando arriva il colpo di cannone, lui veniva intervistato per telefono dalla radio israeliana e quindi questa vicenda va praticamente in onda, va in diretta. Lui descrive, -essendo in una parte della casa non colpita dal colpo di cannone, i colpi di cannone dei carri non son particolarmente dirompenti sulle case – lui descrive questa vicenda alla radio e fra l’altro il giorno dopo viene sospesa l’operazione “piombo fuso”, quindi questa vicenda ovviamente ha un enorme eco in Israele. Nella condizione contemporanea, queste guerre hanno anche questo aspetto sorprendente e drammatico nello stesso tempo, i telefonini, i computer consentono a persone, che sono dalle due parti opposte di una linea di scontro militare, di parlarsi. Quindi diciamo che gente contraria alla guerra, a quella operazione (Piombo Fuso) sia in Israele che a Gaza, si telefonavano durante le operazioni, si raccontavano la situazione. L’episodio culmine di questa sorprendente forma di comunicazione è stata appunto la vicenda del colpo di cannone contro la casa di Izzeldin Abuelaish. Questo è il personaggio che abbiamo di fronte, è un personaggio che anche dopo questa vicenda dice “Io non odierò”, chiedo giustizia, ma non odio nessuno e adesso do la parola a lui.
Izzeldin Abuelaish:
Grazie. Questo è un momento importante per tutti noi, è un momento nel quale ci dobbiamo liberare e sollevare da ogni altro sentimento e dobbiamo usare un unico abito, l’abito dell’essere esseri umani e chiederci qual è il mondo che vogliamo per noi e per i nostri figli. Questo è un momento di speranza e sono molto deciso a raggiungere e a realizzare questa speranza. Come palestinese che è nato e cresciuto in un campo profughi in estrema povertà e privazione, come bambino non ho mai potuto vivere la mia infanzia e la mia sofferenza, ecco non sono nato nella sofferenza, non è una sofferenza che Dio mi ha dato, perché io credo che ogni cosa che Dio ci dona sia bene. La cosa cattiva viene dall’uomo, la sofferenza di questo mondo è causata dall’uomo e quindi anche la speranza è qualcosa di umano e quindi noi esseri umani cosa possiamo fare per opporci a questa sofferenza generata dall’uomo? Non dobbiamo accettarla e dobbiamo agire per poterci alla fine dire cosa possiamo fare insieme. Io mi sono detto non accetterò mai la miseria della vita. La vita è una vita di cui qualcuno vi può deprivare, può occupare il luogo dove vivete, può mettervi in prigione, ma nessuno sulla terra può impedirci di sognare, di sognare in grande però. La vita mi ha insegnato che in realtà i sogni sono reali.
Da bambino sognavo di fare il medico e lavorando duramente ho reso possibile questo mio sogno e da allora io credo fermamente che nella vita nulla sia impossibile, l’unica cosa impossibile nella vita credo sia far ritornare le mie figlie su questa terra. Però io sono sicuro che ogni altra cosa nella vita, se viene pianificata, può essere raggiunta. Dal campo di Jabalia, il campo profughi, sono riuscito ad andare a studiare a Al Cairo, mi sono specializzato in ostetricia e ginecologia a Londra e poi sono andato a fare dei corsi di formazione a Milano, in Belgio, all’università di Harvard. E quindi la vita è certo complessa, la vita però è piena di sorprese e la mia vita è stata una guerra. Sono nato e ho dovuto lottare per sopravvivere, ho dovuto lottare per vivere, però altri in questo mondo sono nati per lottare e quindi dobbiamo chiederci: siamo nati per lottare o per vivere e dare nuova vita? Il momento più difficile della mia vita è durato 4 mesi, il numero 16 è un numero che non cancellerò mai dalla mia mente. 16 settembre 2008, alle ore 16,45, è il giorno in cui è mancata mia moglie. Pensavo fosse la fine del mondo perché io credevo formalmente che i figli hanno diritto di essere cresciuti dalla propria madre. La madre è colei che costruisce, è la colonna portante di una famiglia e gli orfani non sono coloro che hanno perso il proprio padre, i veri orfani sono coloro che perdono la propria mamma. Sono stato fortunato perché ho avuto 6 figli meravigliosi. 6 figlie e 2 maschi. Queste ragazze, se ne avessi avuto centinaia, mi sarei comunque ritenuto benedetto dal Signore. Sono ragazze molto educate, molto amorevoli, hanno sempre difeso la pace e ho insegnato loro ad essere umane e a comportarsi come tali. Non sono mai andato benissimo a scuola e nonostante questo, ho sempre continuato il mio lavoro nell’ospedale israeliano, perché sono stato il primo medico palestinese, dal ’91, a lavorare in un ospedale israeliano, perché io credo che la medicina sia uno strumento che rende uguali tutti gli esseri umani. Quando curiamo i pazienti li trattiamo con rispetto della loro riservatezza e a loro auguriamo il meglio. Questo è un messaggio che io voglio raggiunga ogni persona in ogni luogo, i momenti più felici della mia vita sono quando consegno il neonato alla sua mamma, il pianto del bambino appena nato è un pianto di speranza e ci dà una responsabilità, dobbiamo chiederci: cosa possiamo fare per garantire un futuro giusto a questo bimbo appena nato? La mia figlia Bessan aveva 20 anni, era all’ultimo anno di università ed aveva assunto il ruolo della mamma che era morta da poco. Naturalmente aveva detto: “Conta su di me e continua a lavorare”. Così ho fatto e poi un altro 16, il 16 gennaio 2009, alle 16,45, un carro armato israeliano ha bombardato la camera delle mie figlie, uccidendo tre delle mie figlie ed una nipote. Non c’era alcun motivo di questo bombardamento e questa è una cosa importante per tutti noi, avere fede. Dal primo momento, quando ho visto le mie figlie, avrei voluto che nessuno avesse potuto vedere ciò che io ho visto. Mi sono chiesto: dov’è Bessan? Dov’è Maiar? Dov’è Aiar? Dov’è Nur? Erano morte. Erano quasi annegate nel proprio sangue e mi sono detto: questa tragedia è l’ultima e deve essere l’ultima, perché all’epoca i palestinesi ed altri popoli della terra erano solo numeri, cifre, statistiche, mentre il mio lavoro mi ha insegnato che la cosa più preziosa al mondo è la vita umana e la libertà. Salvando una vita salviamo il mondo, uccidendo una vita uccidiamo il mondo ed è ora di alzare la nostra voce e dare valore alla vita umana. E’ una vergogna vedere che gli esseri umani sono considerati dei numeri o sapere che gruppi di persone sono state uccise, sono persone che hanno un volto, persone che hanno famiglia, persone che hanno progetti per il futuro o dei genitori; è ora di difendere queste vite e far sentire la nostra voce e capire che nessuno è nato senza libertà e nessuno deve essere ucciso mentre difende la propria libertà, nessuno deve pagare un prezzo. La libertà dalla malattia, dalla povertà, dalla disoccupazione, libertà dalla paura, libertà di poter condurre una vita libera e normale e nessuno è libero finché anche gli altri non lo sono. E’ ora finalmente di alzarci in piedi, far sentire la nostra voce e richiedere la libertà per tutti.
Ho detto questa tragedia deve essere l’ultima, deve essere veramente l’ultima; la vita, come diceva sempre mia nonna, è ciò che noi la rendiamo, è sempre stato così e sempre sarà. Per cui la nostra vita sta nelle nostre mani, siamo noi che diamo forma alla nostra vita e al nostro futuro e da quando ho visto le mie figlie io sono convinto che un giorno le reincontrerò e dovrò dare loro delle risposte. Le voglio incontrare per poter loro dire: “Io non mi siederò mai, io non riposerò mai fino a che non le reincontrerò e potrò dare loro un grande dono ovvero che sia risolto ciò che ha causato il versamento del loro sangue”. Dare loro giustizia e libertà per loro e cambiare il mondo. Gli strumenti da usarsi non sono gli strumenti che sono stati utilizzati per uccidere le mie figlie, non sono i proiettili, ci sono altri mezzi molto più potenti dei proiettili: la saggezza, la gentilezza, le parole buone, gli atti buoni. Le parole sono molto più potenti dei proiettili, per cui è giunto il momento che ognuno di noi si guardi attorno e si chieda, impari, osservi ciò che sta avvenendo in questo mondo. Quando ho scritto il mio libro, Non odierò, un libro sulla mia vita per dare speranze ad altri, ho voluto indicare cosa ho fatto nella mia vita perché la gente si sarebbe attesa da me l’odio. Io avrei avuto anche il diritto di odiare, ma non è con l’odio che potrò fare giustizia alle mie figlie. L’odio è un veleno, è un’arma che distrugge la persona che odia. L’odio è una malattia cronica che distrugge le persone che ne sono portatrici. Se volete sfidare coloro che hanno causato quest’odio, allora non accettate di essere vittime più di una volta. Una volta sono stato una vittima nella mia vita, però non voglio essere una vittima di quell’odio. Io devo oppormi all’odio ed essere deciso, più forte di coloro che hanno ucciso le mie figlie e non è con l’odio, non si deve dare la colpa agli altri, non perdete tempo ad incolpare gli altri, assumetevi la responsabilità di essere decisi, arrabbiatevi, siate rabbiosi, non accettate quello che vi è successo, ma chiedetevi: cosa posso fare per cambiare le cose? La migliore arma di distruzione di massa: l’odio nelle nostre anime. Mia figlia e tutti i miei bambini, ecco da loro ho imparato molto. Mia figlia Bessan, come dicevo, aveva 20 anni, a 14 anni disse: “Lottare contro la violenza tramite la violenza non risolve problemi” e quindi non è con l’odio che si vince, l’antidoto all’odio non deve essere la vendetta e il successo, cioè riuscire a superare le ferite che pur sono profonde, però io non dimenticherò mai le mie figlie. Le vedo, le vedo che mi chiedono: cosa stai facendo per noi? Mia figlia Shadam aveva 17 anni, è stata gravemente ferita, è stata quattro mesi in ospedale ed era al liceo, studiava giorno e notte per poter essere fra le dieci migliori studentesse palestinesi, dopo quello che le è successo, nell’arco di un anno – chiaramente uno non può sopportare il peso di una montagna da solo sulle spalle -si è detta: io devo fare gli esami, devo portare a termine i progetti che avevano le mie sorelle. Ha perso un occhio, ha perso due dita della mano destra, però non ha perso l’orientamento, ha fatto l’esame e il giorno in cui mi sono trasferito da Gaza al Canada, hanno annunciato i risultati: ce l’ha fatta, come se non le fosse successo nulla, ce l’ha fatta, 96/100. Ora che sta facendo? Sta studiando informatica all’università di Toronto. Questa è la sfida, questo è il messaggio che noi vogliamo inviare a coloro che nutrono odio. La vita mi ha insegnato che ci sono dei nemici nel mondo e questi sono: l’ignoranza, l’arroganza e la nostra avidità. Pensiamo di conoscerci quando parliamo di giustizia o di democrazia, credetemi, in realtà non ci conosciamo affatto e ci odiamo perché non ci conosciamo e nella misura in cui continueremo a non conoscerci continueremo ad odiare. Quindi è ora che ognuno di noi cerchi di guardarsi attorno e impari a conoscere gli altri e comunichi con gli altri. Mia figlia Shadar, io pensavo mi conoscesse, è mia figlia, ha vissuto a lungo con me e dopo che ho scritto il mio libro Non odierò, gliel’ho consegnato, mi ha scritto una mail e mi ha detto: “Ora conosco veramente mio padre”. Io davo per scontato che mia figlia mi conoscesse e questo per dire che dobbiamo cercare di conoscerci, conoscere non significa conoscere un nome o riconoscere un volto, conoscere significa manifestare rispetto, passione, comprensione. Quando conoscete qualcuno dovete conoscerlo a fondo, dovete saper leggere nei suoi occhi; sapete come le persone pensano e questa è una delle cose di questo mondo che è intrinseca e può portare, se sbagliata, alla violenza, al conflitto, alla paura, alle malattie, all’odio. Queste malattie sono create dall’uomo, siamo noi che immettiamo odio negli altri. La violenza, certo non vogliamo colpire nessuno, ma si dice questa persona è un violento o un terrorista, invece di dare la colpa ad altri per ciò, dobbiamo sapere perché certi ragazzi o certe persone sono divenute violente o si sono ammalate e se vogliamo curare tutto questo, curare queste malattie andando alla radice dei problemi, non dobbiamo curare i sintomi, se cominciamo ad accusare gli altri dicendo sono violenti, ecco questo è il primo passo verso l’insuccesso. Noi stiamo fuggendo alle nostre responsabilità così facendo, dobbiamo avere il coraggio di assumerci le responsabilità e di lottare per scoprire cosa ha fatto sì che un bambino, una persona, siano divenuti violenti; è il contesto, è l’ambiente nel quale queste persone sono vissute e se vogliamo eliminare questa violenza è ora di cambiare il contesto e l’ambiente in cui queste persone vivono o sono vissute.
Questo mondo può resistere, ne sono convinto, quello che serve sono in realtà due cose: verità e giustizia. La giustizia è andata persa in questo mondo e la verità deve essere riaccesa e quando questa luce sarà riaccesa, vedremo la strada. La giustizia cos’è? Non vogliamo perdere del tempo a definirla, la giustizia è augurare agli altri ciò che auguriamo a noi stessi. Mettersi nei panni degli altri, se accetto qualcosa per me bisogna che anche gli altri lo accettino, per cui, ribadisco, questo è un momento di speranza, abbiamo bisogno però di agire. La speranza senza azione è una parola vuota e noi non dobbiamo perdere le nostre speranze. Da medico io non perderò mai la speranza nella misura in cui il paziente è ancora in vita. Il paziente quando va dal medico vuole che gli si prescriva qualcosa, quindi vuole che si agisca per essere curato dalla sua malattia, non hanno bisogno di semplici parole e quindi è ora di agire. Non dobbiamo sottostimare il valore delle nostre azioni, credetemi, una piccola azione può cambiare la vita degli altri, è la storia di questa ragazza. Una ragazza seduta sulla spiaggia che vide passare moltissimi pesci e la bambina con grande cuore pensò di poter salvare la vita dei pesci che erano troppo vicino alla spiaggia e cominciò a respingerli uno dopo l’altro verso l’acqua. Un uomo passò e osservò questa bambina che lanciava i pesci in acqua e le chiese: “Che stai facendo?” e lei disse: “Sto salvando delle vite”. L’uomo era sorpreso e disse: “Ce ne sono centinaia, non è che cambierà le cose quel che stai facendo”, ma lei era fiduciosa, era certa che sarebbe riuscita a fare la differenza e gli aveva insegnato una lezione, lanciando di nuovo un altro pesciolino nelle acque profonde. Ha fatto la differenza per quello, per cui è veramente il momento che ognuno di noi creda in se stesso o in se stessa, non rifiutandosi, siano piuttosto gli altri a rifiutarsi. Il primo passo verso l’insuccesso è perdere la fiducia. Nella mia vita ho avuto dei successi e questo lo debbo a mia madre, a mia moglie, alle mie figlie, senza di loro non avrei mai potuto fare quello che ho fatto; senza di loro non sarei mai stato qui, perché credo fermamente che in ogni società le figure più importanti siano le donne, perché le donne mantengono sempre accesa la speranza, mantengono aperta la fiducia in un futuro migliore e questo aiuta tutti noi a cominciare ad avviare il cambiamento ed è questo il motivo per cui sono ottimista e pieno di speranze. Non rinuncerò mai a sperare in un futuro migliore, perché sono pienamente convinto che se ci uniamo tutti, come uomini o come donne, giovani o anziani, per il bene comune di tutti, sono sicuro che ce la faremo. Le donne sono quelle che mantengono in equilibrio questo mondo, le donne sono la ragione per cui il mondo è arrivato fino ad oggi e le donne sono l’unica speranza per questo mondo che potrà farcela e diventare grande, come tutti gli esseri umani sono capaci di essere; le donne danno la vita, la nutrono, non si fermano mai e l’arma più potente, più forte per cambiare questo mondo, sono loro. Se visitate i paesi stranieri, non chiedetevi qual è lo stato delle donne, dei diritti o la situazione economica, dovete interrogarvi su quanto sono istruite le donne e qual è il ruolo delle donne in quella comunità. L’istruzione è l’arma più potente, la migliore per affrontare le ingiustizie di questo mondo. L’istruzione delle ragazze e delle donne è l’arma più efficiente, è il modo più efficace per cambiare. Le mie figlie, quelle che ho perso, sono ancora vive e le manterrò vive finché vivrò. Le mie figlie stavano raggiungendo i loro progetti e la vita mi ha insegnato una cosa diversa. La vita non è solo biologia, la vita è umanità e io voglio che i loro progetti si avverino attraverso l’opera di altre ragazze ed è questo il motivo per cui ho creato una fondazione che si chiama: “Daugthers for Life” figlie per la vita. L’ho creata a ricordo delle mie figlie, per dimostrare che questa tragedia deve essere l’ultima e questa fondazione si occupa di istruzione di donne, di ragazze in Medioriente. Istruzione significa educare alla giustizia, educare le persone ad essere umane e a comportarsi come tali. Lo scorso anno siamo riusciti a consegnare 25 premi a ragazze palestinesi che si sono laureate, ragazze israeliane, giordane. Quest’anno abbiamo consegnato 50 di questi riconoscimenti e quest’anno c’erano anche ragazze libanesi, verranno delle ragazze mediorientali a studiare in Canada: questa è la speranza. Per cui dobbiamo cominciare ad agire. Voglio concludere con una poesia che è stata scritta da una donna, una ebrea israeliana ed è rivolta a ciascuno di noi, affinché noi tutti si possa riscoprire l’amore e la felicità che abbiamo tutti perso, dove l’amore risiede nel ricordo di Bessan.
“Io penso a te, Bessan, ancora una volta per dirti quanto mi dispiace che la tua mamma sia morta, ora sei tu e il tuo volto sorridente, il tuo modo gentile, la tua gentilezza, il tuo modo di non giudicare mai, il dolore che provi per la tua gente, il modo in cui tu vivi i tuoi sogni, le tue speranze e il tuo desiderio di pace.
Alcuni giorni prima che fosse stata siglata la tregua, ho parlato con tuo padre, mi aveva dato il tuo numero di telefono, ce l’ho ancora lì, scritto su un foglietto.
Ogni giorno guardo il foglietto e vedo il tuo nome, Bessan e speravo di aver avuto la possibilità di poter parlare di più con te, però non ho avuto il fegato di farlo. Ho parlato con te tre giorni prima che tu morissi e ti avevo detto che stavo pregando per la tua sicurezza.
Ma le mie preghiere sono rimaste inascoltate, mi sento tradita da Dio, dal mio paese, dalla crudeltà dell’uomo, da coloro che pensano che la violenza sia la soluzione e nonostante tutto questo ho ricevuto un dono: aver trascorso sei settimane con Shada e i suoi fratelli.
Non ho sentito parole di vendetta da loro, non ho sentito odio, non ho sentito rabbia, ho semplicemente sentito una profonda convinzione ossia che la pace è possibile.
Anche nonostante questa gravissima perdita, io mi sento rafforzata dalla loro forza e sono più che mai decisa; grazie alla loro determinazione, mi sento più in pace, vista la natura pacifica che hanno. Bessan perdonami, perché non sono riuscita a salvarti, Bessan, dalla mia gente, perdonami per averti dato delle speranze, averti fatto sperare che la pace sia possibile e dopo averti tolto questo sogno. Sarai sempre il mio faro di speranza, pace e gentilezza. Tuo padre condivide questo sogno con me, alcuni giorni dopo la tua morte è venuto in una stanza dove c’era molta gente e tu eri lì seduta fra loro, ti ha chiesto: “Perché sei seduta qui con noi Bessan? Lo sai, nella nostra società non è possibile che tu sia qui” e tu hai risposto: “Va tutto bene adesso papà, sono felice e sto bene e non posso essere qui fra gli uomini dove veramente servirei, nessun’altra donna deve morire per poter andare a influenzare gli uomini, Bessan, come hai fatto tu. Noi donne siamo qui e faremo in modo che gli uomini di questa terra possano imparare, nel fondo dei loro cuori, che le risposte sono lì nel cuore, nei loro cuori, dove c’è l’amore, fratelli e sorelle. Sono venuta qui perché io credo in voi, io credo in voi. Sono certa che siate in grado di diffondere questo messaggio e di agire, per cui abbiate fede, abbiate speranza e soprattutto agite. Nella vita ci sono delle priorità, non sono il passato, il passato è lì affinché possiamo imparare da esso, ma le priorità nella vita sono il presente e il futuro.
E cosa sono il presente, il futuro, chi sono? Sono i nostri figli.
Dobbiamo cominciare ad agire per far sì che questo mondo sia più sicuro, tranquillo, libero e felice e in quel momento questo ci darà la felicità che abbiamo tutti perduto e vivremo finalmente in un mondo che abbiamo sempre sognato di avere. Un mondo pieno di umanità”.
Grazie e Dio vi benedica.
ROBI RONZA:
Izzeldin Abuelaish mi aveva detto di essere disponibile a rispondere ad alcune domande. Il pubblico del Meeting è così vasto che la cosa è abbastanza difficile. Gliene faccio io due, poi se eventualmente qualcuno vuole mandarmi dei biglietti con il testo di qualche domanda, io posso accoglierne altre due o tre. La prima domanda è: questa sua opera, questa sua testimonianza che echi ha avuto, che cosa ha seminato in ambiente israeliano e rispettivamente in ambiente palestinese?
IZZELDIN ABUELAISH:
Sono certo di aver cambiato molte cose perché il messaggio è umano, dato a fratelli, sorelle, aiutare gli altri mi rende felice. Sono contento che il mio libro sia già stato tradotto in 17 lingue. È un libro che riguarda la storia del mondo, è stato tradotto in arabo e in ebraico e ogni giorno ricevo delle e-mail da persone che hanno letto il mio libro o che mi hanno ascoltato, oppure che mi hanno sentito parlare. L’11 settembre, la storia di questo libro sarà tradottA in una commedia che sarà presentata al teatro nazionale israeliano da una compagnia israeliano-palestinese, in modo che si possa diffondere questo messaggio in tutto il mondo, In modo che il messaggio raggiunga tutti gli angoli del mondo. Mi sono sentito soddisfatto di quel che ho fatto, quando ho ricevuto un’ e-mail da una signora che mi ha detto: “Izzeldin, voglio lei sappia che è nato il nostro bambino e l’abbiamo chiamata Bessan, come tua figlia. In modo che i nostri figli possano imparare l’amore, la pace e sappiano rifiutare violenza e guerra”. È importante che questo messaggio non dipenda solo da me, perché nessuno può cambiare il mondo o fare qualcosa se è da solo, ma ciascuno di noi può fare qualcosa per cambiare il mondo e quindi è responsabilità nostra, di ognuno di noi, quella di fare qualcosa e mia figlia Bessan l’aveva detto: tutto comincia da una piccola dimensione e poi diventa sempre più grande. Una cosa che ha origine in un luogo, in questo salone, per quanto grande possa sembrare in Italia e nel resto del mondo. Per cui lo ribadisco: è ora di agire! E io continuerò in questa opera come ho detto e non accetterò mai quello che è successo, fino al momento in cui non vedrò il cambiamento nei rapporti fra palestinesi e israeliani. Anche se non ce l’avrò fatta, questo non mi impedirà di cercare di cambiare le cose in altre parti del mondo. Perché io nella mia vita ce l’ho fatta, ma non dimenticherò mai il luogo da cui provengo e so che ci sono milioni di persone, proprio come me, che stanno soffrendo le stesse pene. Per cui è nostra responsabilità prendere queste persone per mano e aiutarle per sostenerle e per far sì che queste persone si liberino dei dolori e delle miserie della vita.
ROBI RONZA:
Avete visto, le informazioni che noi riceviamo normalmente su questo conflitto, sui palestinesi e gli israeliani è quantomeno incompleta. Perché nell’ambiente palestinese ci sono anche figure come Izzeldin, che non è una figura isolata e l’eco che ha avuto in Israele significa che in ambiente israeliano esistono figure che non sono quelle che ci vengono presentate. Mi permetto tra l’altro di segnalare che questo Meeting meriterebbe di essere utilizzato anche nella crisi siriana, dove invece irresponsabilmente si stanno riversando armi. Non è riversando armi, né in una situazione di tensione che la si risolve. Si trasforma la tensione in guerra civile. Questa esperienza che riguarda il caso della crisi israeliano-palestinese merita di essere oggetto di ampia riflessione. Vi segnalo inoltre che per una misteriosa circostanza, la foto che è sulla copertina del libro venne scattata non molti giorni prima del tragico colpo di cannone contro la casa di Abuelaish. È una foto scattata durante una gita sulla spiaggia. Gaza è un territorio densamente popolato, chiuso. Allora una delle cose che si possono fare a Gaza, se la giornata è bella, è fare una gita sulla spiaggia, perché ci sono spiagge sabbiose. E durante la gita venne scattata questa foto che rappresenta le tre figlie di Izzeldin che sono state poi uccise, non è una foto casuale. Vorrei farle ancora una domanda. L’informazione che noi abbiamo della Palestina è di una Palestina molto arrabbiata, dove c’è anche molto odio. L’informazione che ci arriva da Gaza, in particolare, è molto diversa da quella che lei ci testimonia con la sua presenza. Allora le domando: quale eco ha a Gaza la sua opera, la sua testimonianza?
IZZELDIN ABUELAISH:
In Palestina, dove sono nato, vorrei ritornarci ogni giorno, per manifestare la mia rabbia, per manifestare la rabbia profonda di vedere le tombe delle mie figlie e non accettare ciò che è avvenuto. I palestinesi erano orgogliosi anche quando sapevano che facevo il medico in Israele. Erano orgogliosi di me e continuano ad esserlo. Io posso dirvi che il messaggio riecheggia tra i palestinesi ma quando si parla di palestinesi mi è stato chiesto: “I palestinesi odiano?”. Ma nessuno chiede a se stesso perché i palestinesi odiano. Dobbiamo chiederci più volte perché lo fanno. Cos’è stato che ha fatto sì che odino. Credetemi, i palestinesi amano, danno valore alla vita e hanno molti potenziali. E sono una delle nazioni più resistenti, però bisogna dare loro l’opportunità di condurre una vita normale, libera. E allora non saranno più imbevuti di odio. Dopo il 1994, dopo l’accordo di Oslo, quando si era aperta una nuova epoca di speranza e pace, dopo la prima Intifada, i bambini palestinesi tiravano pietre di solito. Quando è cambiato il contesto e l’esercito israeliano ha cominciato a ritirarsi da Gaza e dalla Cisgiordania, hanno cominciato a tirare caramelle e fiori o ramoscelli d’olivo ai soldati israeliani. I palestinesi vogliono un futuro più luminoso, libero e in quel futuro non ci sarà più odio.
ROBI RONZA:
Ho raccolto due domande. La prima domanda viene da un marocchino che ci sta ascoltando e domanda come ha fatto a non odiare. Perché molte persone non ci riescono.
IZZELDIN ABUELAISH:
Come ho fatto? Innanzitutto sono stato sostenuto dalla fede. Due, dalla fede, tre, dalla fede. Numero quattro, il mio lavoro di medico e la mia esperienza da palestinese. Io mi auguro che questa tragedia sia l’ultima della mia vita, ma non ne sono così sicuro. Perché la nostra vita è una guerra e quindi dobbiamo essere forti, non dobbiamo crollare e la mia esperienza di vita mi ha insegnato che l’odio che non uccide ci rafforzerà. Quindi questa tragedia mi ha vaccinato, per così dire, mi ha insegnato ad essere più forte e, come diceva Einstein: “La vita è come andare in bicicletta. Stare in equilibrio e per farlo dobbiamo continuare ad andare avanti”. E io ho cercato di andare avanti più velocemente e più forte e con maggiore determinazione.
ROBI RONZA:
La mia seconda domanda è: ci sono altre esperienze di collaborazione tra palestinesi e israeliani come la sua o se in qualche modo ne avete che si stanno formando?
IZZELDIN ABUELAISH:
Sapete, noi palestinesi, come voi avete detto, non vogliamo generalizzare nella vita. Ci sono delle storie belle che posso raccontarvi. Una volta avvenuta questa tragedia ed è questo il motivo per cui ho parlato di fede, ho detto che alle 5 meno un quarto del pomeriggio le bombe hanno colpito casa mia e ero al telefono per un’intervista per la televisione israeliana. Per cui questa tragedia è andata in onda in diretta per fare aprire gli occhi, tutto sommato, della comunità internazionale. La comunità israeliana e i palestinesi hanno voluto aprire i loro occhi sui palestinesi. Mia figlia Shada è stata curata nell’ospedale israeliano in cui lavoro. I miei amici, i miei colleghi sono venuti per dimostrarmi il loro sostegno e il loro affetto. Questa è la speranza e il secondo giorno dopo la tragedia, quando è stata mandata in diretta, il primo ministro israeliano Olmert mi ha visto e mi conosceva e ha annunciato un cessate il fuoco unilaterale. In quel modo, finalmente tutti noi, non solo i palestinesi e gli israeliani, possiamo unirci. Le informazioni che riceviamo a volte sono sbagliate oppure ci invadono come gli stereotipi, per cui ciò che serve è che ognuno di noi demolisca, distrugga queste barriere psicologiche, mentali che sono nel nostro cervello. Non è costruendo muri tra di noi che ce la faremo, dovremo costruire ponti e canali di collaborazione e cooperazione. E questo è l’unico modo per poter cambiare quello che c’è in noi, quello che c’è nei nostri cuori, nelle nostre anime. Abbiamo bisogno di incominciare a cambiare, ma dentro di noi.
ROBI RONZA:
La sua responsabilità sociale, la sua straordinaria iniziativa passa attraverso l’aver preso molto sul serio la sua professione di medico. La domanda riguarda il suo ruolo di medico: come mai lei ha studiato, ha deciso, ha scelto di studiare in particolar modo l’infertilità, la sterilità?
IZZELDIN ABUELAISH:
Sono andato a studiare all’università a Al Cairo. Al liceo, dove avevo studiato le materie proprio per andare all’università – perché l’istruzione per i palestinesi è una questione di sopravvivenza, significa trovare un lavoro migliore, non è studiare per studiare – ho lavorato duro e sono riuscito ad ottenere una borsa di studio per studiare medicina a Al Cairo. Ce l’ho fatta, sono riuscito a studiare, però quando ho dovuto scegliere quale specialità fare, mi sono reso conto di una cosa: da ginecologo, da ostetrico ginecologo non mi trovavo ad avere a che fare con i pazienti, perché le pazienti, la donna gravida non è una paziente, non è malata, c’è un cambiamento fisiologico nella gravidanza, ma essere gravide fa parte della nostra vita come mangiare, come respirare, camminare. E mi sono reso conto che l’impatto del mio lavoro è diciamo immediato, dare valore alla vita. Il bambino che nasce è come un appello rivolto a me: cosa posso fare? È una nuova vita, è arrivata una nuova vita, una nuova speranza, in un secondo, dopo il dolore, la madre sorride. Io so qual è il significato, perché sono convinto che i bambini sono il bello della vita, sono la vita, anche adesso io dedico la mia vita ai miei figli, perché anche loro mi hanno dato vita, mi hanno dato vita quelli che non ci sono più e quelli che sono ancora in vita. Per cui io so qual è il significato, quando aiuto una donna a conseguire i propri sogni, ovvero il proprio desiderio di avere un bambino, ecco, questo mi rende felice e in quel momento io sono la persona più felice. Quando una donna viene e scopre che il test di gravidanza è positivo, sono felice, questo è il motivo per cui ho scelto questo campo medico. Mi piace e continuerò a lavorare.
ROBI RONZA:
Il nostro incontro, il nostro primo incontro con Izzeldin Abuelaish si conclude qui. Buona continuazione, ma voi, come me, sarete ben convinti che abbiamo fatto un incontro che deve continuare. Buon lavoro.
*Trascrizione non rivista dai relatori