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LA STRANA DEMOGRAFIA ITALIANA: C’È FUTURO PER NOI?
Partecipano: Gian Carlo Blangiardo, Docente di Demografia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca; Alessandro Rosina, Docente di Demografia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
LA STRANA DEMOGRAFIA ITALIANA: C’È FUTURO PER NOI?
GIORGIO VITTADINI:
Buongiorno. Oggi affrontiamo uno dei temi più cruciali che caratterizzano l’Italia che è il tema demografico, che riguarda tre cose: abbiamo sempre meno giovani, siamo uno dei Paesi a più basso sviluppo demografico del mondo e qual è la sorte dei vecchi e terzo tutto il tema dell’immigrazione. Questo tema condiziona tutto, dall’’economia all’assetto urbanistico. Sono con noi Gian Carlo Blangiardo, Docente di Demografia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e Alessandro Rosina, Docente di Demografia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Comincia Blangiardo poi Rosina.
GIAN CARLO BLANGIARDO:
Buongiorno a tutti. Sono felice di partecipare a questa iniziativa. Parto con delle slide. “La strana demografia italiana: c’è futuro per noi?” Allora, iniziamo col riflettere su questo termine, “strana”, sul perché, poi vedremo sul come mai si è arrivati a ciò, che cosa ne segue e se qualcuno eventualmente può fare qualcosa per rimediare, se c’è qualcosa da rimediare. Allora intanto cosa è strano? Una cosa strana è una cosa diversa che fa stupore, che sorprende. Cominciamo con il considerare una demografia normale, cioè cosa sarebbe normale aspettarsi. La regola numero uno di una demografia normale è che ci sia equilibrio tra le componenti che entrano in quella che, pomposamente, possiamo chiamare l’equazione della popolazione. C’è una popolazione iniziale, i nati, i morti, che fanno il movimento naturale; poi gli immigrati e gli emigrati fanno il movimento migratorio; saldo naturale e saldo migratorio insieme determinano la crescita complessiva della popolazione. Esempio: in centocinquant’anni abbondanti di unità nazionale questi un po’ sono i numeri della nostra demografia: eravamo 26 milioni siamo 61 milioni circa, ci sono stati 140 milioni di nati, 100 milioni di morti. Vedete la differenza di saldo naturale è quasi di 40 milioni. Il saldo migratorio è quasi di 4 milioni, non è neanche tanto, in fondo ci hanno detto che siamo stati un popolo di emigranti, però c’è da dire che questi 4 milioni di differenza negativa derivano dalla compensazione da quando eravamo noi ad emigrare a quando oggi sono arrivati altri. Quindi compensando i due numeri in qualche modo su arriva a questa cosa. Se volete una curiosità, oggi in circolazione c’è più o meno la metà di tutti coloro che sono nati da italiani, perché siamo 61 milioni e sono nati circa 140 milioni di bambini nella storia del Paese. Ecco, questa è, come dire, un’evoluzione tutto sommato nel lungo periodo normale. Un’altra situazione di normalità è questa che ci si aspetta che in una popolazione “normale” ci sia questa cosa che si chiama piramide dell’età: tanti bambini, un po’ sempre meno giovani, via via pochi anziani. Se volete i nonni e i bisnonni sono relativamente pochi, i nipoti sono tanti e questo accade in condizioni normali. (Slide). Questa è la fotografia della popolazione italiana del 1950: ci sono due buchi, la prima e la seconda guerra mondiale avevano in qualche modo rallentato le nascite, e vedete che ci sono un po’ di rientranze, ma è un effetto occasionale, generato dalla prima e dalla seconda guerra mondiale. Però questa è la situazione di normalità. Un’altra situazione di normalità è più o meno descritta da questi numeri (slide): qui sono tutti coloro che sono nati nel primo decennio del ’900 e poi via via all’età 0-9, 10-19, 20-29, quindi a distanza di 10 anni, nel tempo vedete che i circa 12 milioni di nati nel decennio si sono via via assottigliati fino a scomparire, e anche questo è un segnale di progressiva eliminazione in una condizione di normalità. Veniamo invece all’oggetto, quando la demografia smette di essere normale e diventa, come abbiamo detto, in qualche modo strana. Questo succede, per esempio, quando le componenti della dinamica, nati, morti, movimenti migratori, incominciano a fare un po’ le bizze, cioè a deviare da quella che è l’evoluzione normale. Qualche esempio relativo al dato più recente, al dato del 2015: primo record nel 2015, in Italia abbiamo raggiunto il minimo assoluto di nascite mai registrato nella storia del Paese, neanche durante la prima guerra mondiale. (Slide). Vedete quella curva: 486.000 è il numero di nati nel 2015; nel 1917, quindi con tutti i problemi che si possono immaginare, ce n’erano stati 676.000 e questa è la prima novità, la prima stranezza se volete. Seconda stranezza: i morti. Nel 2015 abbiamo avuto il più alto numero di morti dalla fine della seconda guerra mondiale, un’impennata incredibile di mortalità. C’era stata qualcosina prima, vi ricordate, l’estate killer del 2003, ed è la punta che nel grafico credo sia segnata in giallo, però il valore del 2015 è decisamente più alto. E questo è un secondo elemento, naturalmente poi si può discutere sulle cause eccetera, io personalmente sono convinto che in un qualche modo, al di là di altre spiegazioni che naturalmente si possono dare, gioca un po’ un indebolimento del sistema sanitario, ma staremo a vedere. Il terzo record, una conseguenza dei precedenti, è che per la prima volta dal 1918, quindi stiamo parlando della fine della prima guerra mondiale e per giunta in quell’anno l’epidemia di spagnola aveva creato una quantità enorme di morti, per la prima volta nel 2015, in un anno tutto sommato tranquillo, di pace, ecc. c’è stata una popolazione che è aumentata in maniera negativa, cioè è diminuita di 130.000 unità. Questi sono i segnali di una demografia diciamo strana, che comincia a dare segni di stranezza e in qualche modo forse dovrebbe incominciare a lanciare dei segnali, perché qualcuno dica cosa sta succedendo e quale futuro c’è davanti a noi. Ecco, un’anticipazione… Purtroppo i dati statistici sono ancora limitati, però ho provato a fare quattro conti utilizzando le informazioni più recenti, quelle del primo trimestre del 2016: che succede? Diciamo che ci sono due cose: una notizia buona e una cattiva. La notizia buona è che nel 2016 probabilmente il numero dei morti sarà un po’ più basso rispetto a quello del 2015, non molto più basso, ma più basso. La notizia cattiva è che le nascite, che già avevano raggiunto il record, come si diceva prima, potrebbero ulteriormente diminuire. Questo naturalmente solo dal confronto primo trimestre 2016 primo trimestre 2015. Può darsi che poi nel corso dell’anno le cose cambino, però questi sono in qualche modo i segnali che confermano un’evoluzione in questa direzione e naturalmente poi le problematiche che in qualche modo ne derivano. Ma il cambiamento delle componenti della popolazione – nati, morti, immigrati, emigrati – lascia segni anche sulla struttura della popolazione. Qui vedete ci sono alcune linee più o meno strane, che io non vedo benissimo, è un po’ la storia dalla nascita di persone di 20, 30, 40 anni, quindi 10, 20, 30 anni dopo, relativamente a certe generazioni. I nati nel 1941, ed è la componente in nero, vedete che erano 900.000 abbondanti e via strada facendo, a 10 anni, a 20 anni, a 30 anni, ecc. quindi conteggiati, a distanza di tempo, le persone di quelle età che derivano da quelle generazioni via via diminuiscono. Lo stesso vale per i nati nel 1951, in qualche modo c’è, strada facendo, una diminuzione. E’ già un po’ diverso per i nati nel ’61, perché in qualche modo, nonostante passino gli anni, il numero non è che diminuisce così radicalmente, anzi, in qualche modo è più o meno lo stesso. I nati nel ’71, addirittura quelli di 30 anni, sono un certo numero, quelli di 40 anni sono un po’ di più. I nati nel ’81, che è il tratteggiato sotto, vedete che diminuiscono leggermente da 0 a 10 anni, e poi a 20 anni sono quelli rispetto a quanti erano da 10, e a 30 anni sono più di quelli che erano a 20. Allora, anche qui sono segnali di elementi di disturbo, chiamiamoli così, presenti nella popolazione. Cosa vuol dire? Qual è la spiegazione di questo? Non è che la gente si rigenera. E’ l’effetto migratorio. Improvvisamente abbiamo scoperto un altro elemento e cioè arrivano persone da altrove, persone che non sono nate da noi e questo naturalmente provoca in questo disegnino che è la piramide dell’età – ricordate quella di prima del 1950, come era tutta bella regolare? Pochi vecchi e via via scendere – ecco questa è la piramide dell’età di oggi. Sono dati reali, 1° gennaio 2016. Questa pancia enorme è derivata dai nati negli anni ’60 – il famoso baby boom – sono cinquantenni, pensate, un giorno saranno anche ottantenni e novantenni e sotto la base è stretta, perché le nascite, l’abbiamo visto, tutto lascia supporre che si vada avanti in quella direzione, le nascite sono via via progressivamente diminuite. Questa è la situazione strutturale di un Paese che deve costruire il proprio futuro e che si interroga sul proprio futuro. Qui, giusto per dare le idee, il confronto tra il 1950 e oggi. Provate a vedere dove sono piazzati i nonni e i bisnonni e i nipoti. Allora, pochi nonni e tanti nipoti, oggi abbiamo pochi nipoti e una quintalata di nonni. Esattamente il contrario. Incidentalmente date un’occhiata in alto a destra, sono le femmine, le femmine con più di 80 anni dominano, vincono loro, è il rettangolino più lungo, oggi. Demografia strana! Se strano vuol dire sorprendente, diverso e compagnia bella, qualche idea della stranezza da qui ci viene fuori. Allora questa è la fotografia, la diagnosi, anzi la radiografia, mettiamola così. Cerchiamo di capire le cause. Come mai tutto questo succede? Naturalmente le cause sono diverse. Io mi limito a considerarne alcune in maniera anche molto sintetica. Si allungano i tempi del vivere in coppia, quando si vive in coppia, poi Alessandro Rosina ci dirà meglio come si comportano i giovani, ma oggi ci si sposa meno, quanto meno si vive in coppia meno, si forma più tardi la coppia, e questo naturalmente rallenta i processi e altera l’elemento di stranezza che poi dà luogo a quel che poi dà luogo. Si mettono al mondo meno figli, magari se ne vorrebbero di più, però poi alla fine ci si arrangia, ci si difende. E’ vero che si realizzano grandi conquiste sul fronte della longevità, si vive più a lungo, ogni giorno che passa non è un giorno in meno, questo è un bel messaggio, però è chiaro che questo poi provoca un invecchiamento nella popolazione. E poi c’è il discorso della mobilità, cioè i flussi migratori: non solo gente che arriva, ma sempre più anche gente che parte, i giovani che se ne vanno via dall’Italia non sono più una rarità ormai. Quindi la migrazione italiana non è più quella delle valigie di cartone, però è comunque un fenomeno importante e va sempre più prendendo piede. Qualche dato a sostegno di ciò nel confronto fra la storia riproduttiva delle donne nate nel ’52 e quelle nate nel ’76, in un certo senso le figlie delle prime: per la generazione delle mamme rispetto a quelle delle figlie, il 12,1% era senza figli, il 24,1% per le donne della generazione più giovane (1 su 4, a 40 anni); quelle che hanno avuto un solo figlio erano 23,8% e sono diventate il 27,4%, insomma metà della generazione più giovane sono donne che hanno avuto al massimo un figlio (il famoso modello del “figlio unico”). Il numero medio di figli per donna erano 1,83% per le madri e diventa 1,38% (meno di un figlio e mezzo per donna in tutta la vita riproduttiva) e l’età mediana alla nascita del primogenito da 23 anni sale a 28. Quindi è chiaro che sono cambiate molto le scelte riproduttive e questi dati lo sintetizzano ancora: il famoso numero medio di figli per donna (cioè quanti figli fanno gli italiani) è sempre un “1,” dal 2008 al 2015, per altro distinto tra donne italiane e donne straniere. È bene distinguere, perché l’illusione è che tutto si risolva magicamente grazie all’immigrazione: la grande illusione – sbagliata – è che le donne straniere risolvano il problema della bassa natalità delle donne italiane, ma non è vero. Il numero medio di figli delle donne straniere nello spazio di 6 anni è passato da 2,65% a 1,93%, quindi meno di due figli per donna anche nella componente straniera. Insomma, anche le donne straniere si arrangiano, si rendono conto delle difficoltà – e peraltro spesso non hanno neanche i nonni a cui affidare i figli – quindi in qualche modo fanno anche loro quello che fanno le donne italiane. Quindi è chiaro che è un altro segnale importante di un disagio diffuso, che è condiviso sia dalla popolazione italiana che dalla popolazione straniera: non è una questione di cultura, è una questione di contesto. Cambiano naturalmente anche i modelli di comportamento: una volta i figli si facevano da sposati, le donne nate prima del ’40, quasi tutte (il 90% abbondante) faceva il figlio entro il matrimonio, c’era una quota di ragazze madri; adesso le ragazze madri non dico che siano scomparse ma si sono fortemente ridimensionate, mentre è decisamente aumentato il modello “prima il figlio e poi l’unione”, quindi non necessariamente si seguono quelli che erano i passi della tradizione di un certo percorso di vita di coppia. Con tutto ciò anche la stessa vita di coppia in qualche modo sta cambiando (senza nessuno spirito di polemica, ma prendiamo atto di come sta cambiando): secondo i dati Istat del 2011, le coppie senza figli sono 5.223.312 (6.984 dello stesso sesso), con figli sono 8.766.161 (529 dello stesso sesso), quindi il totale è 13.989.473 (7.513 dello stesso sesso). C’è stato un grande dibattito sulle coppie dello stesso genere, ma questi sono i numeri ufficiali che quantificano il fenomeno delle coppie residenti in Italia. Non perdiamo mai di vista che, piaccia o non piaccia, il modello di coppia tradizionale resta larghissimamente dominante nel nostro Paese: secondo le statistiche ufficiali, le coppie dello stesso sesso sono 7000 e se qualcuno dice che non è vero, dico che questo è il dato di censimento che definisce la popolazione legale e quello su cui noi italiani basiamo molte delle nostre scelte, delle nostre regole, quindi o ci crediamo sempre o non ci crediamo. Queste sono le dinamiche, le cause che portano alla famosa demografia “strana”; quali sono le conseguenze che derivano dai cambiamenti indotti da questa demografia “strana”? Ho identificato tre aree. La prima è l’invecchiamento: è chiaro che la popolazione, così come sta andando, invecchia e vuol dire che nell’insieme della popolazione la componente anziana è sempre più dominante; è vero che l’anziano di oggi non è l’anziano di una volta, però è chiaro che la sanità e la previdenza hanno crisi di equilibrio, c’è una maggior conservazione dei valori tradizionali e gli anziani tendono più a fare manutenzione, mentre i giovani tendono più ad investire. Se noi vogliamo un Paese che in qualche modo sia proiettato nel futuro, la manutenzione è importante ma occorre in particolare incentivare l’investimento: l’invecchiamento da questo punto di vista non è certo un elemento favorevole. Pensate alla Brexit: l’analisi dei dati inglesi mette in evidenza come sia stata in particolare la componente più anziana – in modo conservatore, un po’ contro l’immigrazione ecc. – verso l’uscita dall’Unione Europea che creava secondo loro questo tipo di problemi, quindi una città che invecchia mettiamo in conto che avrà anche, nella componente anziana, un maggiore potere di ordine politico, di scelta. Quindi non è solo una questione di sanità e di pensioni, è anche questione di società che in qualche modo deve tenere conto di questi cambiamenti. Sugli aspetti di forza lavoro è chiaro che le cose se vanno in questa direzione indubbiamente indeboliscono la componente produttiva, il che non è detto sia necessariamente un male: in un mondo, una realtà come quella in cui ci sono un sacco di disoccupati, se diminuisce l’offerta di lavoro non è la fine del mondo, però mettiamo in conto che avremo una minor offerta di lavoro e magari anche un pochino più matura e questo impone la creazione di equilibri che tengano conto di questi aspetti. Sull’area immigrazione: ovviamente cresce la componente straniera (oggi ci sono in Italia, come residenti, un po’ più di 5 milioni di persone, come presenze complessive, compresi i non residenti pur regolari – per esempio alcuni comunitari – oppure irregolari siamo sui 6 milioni, su un Paese di 61 milioni di abitanti); il futuro lascia intravedere probabilmente più Africa e meno Europa relativamente all’origine dei flussi, perché è chiaro che la pressione migratoria dall’Africa è una pressione che sarà inevitabilmente sempre crescente (per darvi un numero, i Paesi dell’Africa subsahariana dovrebbero creare ogni anno, per assorbire il surplus demografico, circa 10 milioni di nuovi posti di lavoro – cosa che non è semplicissima – e se questo continua così, finirà che in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo ci sarà sempre più gente che si rende conto che non ce la fa a campare lì e siccome è giovane ed è informata e sa che vale la pena di provarci, ci prova e scatta la pressione migratoria verso l’Europa e verso l’Italia in particolare). Queste sono tutte realtà demografiche scritte, che abbiamo sotto gli occhi tutti e con cui inevitabilmente dobbiamo confrontarci. Un altro aspetto dell’immigrazione sul quale non ci si sofferma a sufficienza, è che avremo sempre più una presenza non solo degli stranieri immigrati, ma anche di coloro che non sono immigrati, cioè le seconde generazioni nate in Italia e anche coloro che sono naturalizzati, che sono diventati italiani. Nel 2015 ci sono stati circa 180.000 acquisizioni di cittadinanza italiana e il 40% erano minorenni. Questo è avvenuto con una legge, la legge 91 del 1992, che tutti critichiamo, ma che in 3 anni ha creato 400.000 nuovi cittadini, battendo altri Paesi che invece hanno le leggi “più belle”. Quindi è un’altra realtà con la quale dovremo inevitabilmente confrontarci. Qualche numero a supporto: un primo esempio sono i bisnonni, le persone con più di 95 anni, che oggi sono 127.000; nel 2065 – che è vero che è lontano, ma prima o poi arriva – saranno 1.250.000, dieci volte tanto, in un Paese che rimarrà sempre di 60 milioni di abitanti. Provate a immaginarvi cosa succede in termini di assistenza, di sanità, di disabilità, di assegno di accompagnamento (500 euro al mese moltiplicato per 1.250.000 persone …se po’ fa?…) e tutto quello che ci si può immaginare. Questa è una realtà scritta, non è fantasia, è una realtà vera. Un secondo elemento è quello del ricambio della popolazione nel mercato del lavoro: generazioni che entrano – diciamo i ventenni -, generazioni che escono – diciamo i sessantenni – sono due curve che divergono: i giovani sono sempre quelli, gli altri, via via che raggiungono l’età per andare a chiedere una pensione, crescono. Abbiamo anche una cosa che io chiamo “invecchiamento importato”: da un certo punto in poi, dal 2030 circa, avremo una quantità considerevole di persone che raggiungeranno l’età per andare in pensione e che non sono nate in Italia (di fatto immigrati che sono arrivati qui a una certa età, che hanno iniziato a contribuire, magari a 35 o 40 anni, alla loro pensione e che quindi quando arriva il momento di incassare hanno pochissimi contributi dietro alle spalle, ma hanno giustamente il diritto ad avere una pensione e saranno circa 200.000 all’anno). Anche questa è una piccola bomba, non di oggi, ma prima o poi arriva: mettiamo in conto anche questo. Ma queste cose qui non le sapevamo già? Confesso che nel ’77 – ’78, quando ho iniziato a fare questo mestiere, già circolava una certa idea che saremmo andati più o meno in questa direzione, poi mi è capitato spesso nel tempo di andare in giro a raccontare sempre queste stesse cose che sto raccontando a voi adesso, quindi non è nulla di nuovo. E, secondariamente, se non è nuovo, qualcuno ha fatto qualcosa, sta facendo qualcosa, si è preoccupato? Ho recuperato delle previsioni che ha fatto l’Istat 20 anni fa sul numero dei nati: nel 1996, l’Istat non immaginava certo che ci sarebbero state tutte queste nascite straniere, ma scopriamo, confrontando la previsione e la realtà attuale, che quello che si immaginava 20 anni fa più o meno è successo. Non c’è nulla di nuovo, lo sapevamo (avrei potuto prendere altri esempi per capire che lo sapevamo abbondantemente anche prima. Io avevo scritto un libretto intitolato “Meno italiani…più problemi?” e aldilà dei soliti discorsi sulla sanità etc., i problemi o cambiamenti erano per esempio la successione, per cui il figlio unico cambia regole di successione (prima bisognava spartirsi il bottino, adesso coi figli unici uno incassa tutto, magari più tardi, perché coloro che dovrebbero lasciarglielo resistono); sparisce l’esercito (problema che nel ’90 ancora era in ballo), cambiano i consumi (è chiaro che gli anziani consumano in modo diverso rispetto ai giovani, dicevo che fanno più manutenzione: se si rompe il televisore lo fanno riparare, non lo cambiano, come invece farebbe un giovane); elettori ed eletti, se cambia l’elettorato in qualche modo cambia anche poi chi ci sta dietro. Queste cose io le dicevo nel 1990 e lo dicevano meglio di me altri colleghi già allora. Aggiungo che 40 anni fa era uscita una cosa che si chiamava Rapporto sulla Popolazione in Italia, la cui premessa fu fatta dall’allora dal Presidente del Consiglio Francesco Cossiga, dove si sottolineava l’importanza della conoscenza e veniva evidenziato come c’era questo tipo di problemi. Altra aggiunta: nel 2011 è uscito, ad opera del Progetto Culturale della CEI, un libretto che si chiamava Il cambiamento demografico, dove ciò che abbiamo detto adesso, motivato e anche con un elemento propositivo, veniva sottolineato. Quindi sono cose che ci siamo detti in molte occasioni e sull’elemento propositivo diciamo che, fatta la diagnosi, la terapia è quella del “tutto questo succede perché siamo di fronte a una realtà in cui c’è stato un forte indebolimento della famiglia, del suo ruolo, dal punto di vista demografico”. Esiste il “Piano Nazionale per la famiglia” – lo so per aver fatto parte della Commissione che in qualche modo ha contribuito a farlo -, con tanto di approvazione della Presidenza del Consiglio del 2012, ed è la ricetta con la quale andare in farmacia e comperare le medicine. Alcune di queste medicine costano, quoziente familiare e via dicendo. E’ chiaro che i grandi interventi per andare incontro ai bisogni delle famiglie in termini fiscali costano e si può iniziare gradualmente, non è detto che bisogna partire necessariamente con il massimo. Però ci sono anche altre cose che non costano o costano decisamente poco. In questo libro dei sogni sono indicate e peraltro condivise in modo democratico con tutte le forze sociali, sindacali e quant’altro, il vero guaio è che le cose stanno nel cassetto. Allora il finale di tutto ciò qual è? Abbiamo visto che la demografia è diventata strana, abbiamo visto che se è diventata strana ha una serie di conseguenze, e queste conseguenze impongono certamente il cambiamento degli equilibri ma indubbiamente possono creare qualche problema, non a noi ma alle generazioni che verranno quasi certamente. Allora è ora che qualcuno prenda in mano la ricetta e vada in farmacia. E ora che qualcuno prenda in mano una serie di iniziative che devono essere non il bonus baby una tantum e poi dopo tre anni ho cambiato idea, il bambino tu ce l’hai e il bonus non ce l’hai più, ma una serie di cose sotto una regia coordinata che provveda a fare. Non abbiamo più un ministero della famiglia, non abbiamo più, abbiamo sì una delega un sotto segretario se ricordo bene, però c’è qualcosa da fare ed è ora di prendere in mano la situazione e cercare di affrontare. Ecco solo così io credo che si potrà fare in qualche modo che la demografia magari rimarrà strana ma non avrà conseguenze pericolose per il resto della società. Grazie.
ALESSANDRO ROSINA:
Buongiorno, dopo il quadro problematico negativo di Blangiardo, io cercherò di fare di peggio, scherzo ovviamente, però penso che l’obiettivo di questo panel come è stato costruito sia quello di fare una riflessione su quello che nel presente, oltre che nel passato non funziona per costruire un futuro migliore e che quindi sia importante vedere oggettivamente quello che non va, riconoscerlo per poi appunto mettere in atto le misure non solo politiche ma anche di supporto culturale che favoriscono un miglior percorso di sviluppo del nostro Paese, e quindi di relazione positiva tra modello sociale economico e demografico.
È difficile pensare a un futuro migliore se si perdono i giovani. Se noi pensiamo al futuro come una casa comune da costruire, gli operai per costruire questa casa sono per forza di cose le nuove generazioni e quindi abbiamo bisogno non solo di questi operai, ma che questi operai ci siano, siano ben formati e possano costruire una casa migliore rispetto al passato e al presente. Purtroppo questi operai, cioè le nuove generazioni le abbiamo in qualche modo depotenziate, è un po’ il tema che cercherò di illustrare arrivando poi alla fine ad alcune indicazioni su quello che potremmo e dovremmo fare.
Parto dall’osservazione che una società cresce e prospera quanto più investe su un adeguato apporto sia quantitativo che qualitativo delle nuove generazioni. Il fatto di avere una società con meno giovani, i quali oltre ad essere di meno siano anche più demotivati, più scoraggiati, più messi ai margini, porta per forza di cose a minor crescita, minor sviluppo e a un aumento anche delle disuguaglianze umane e sociali.
Noi dobbiamo ribaltare questo schema, dobbiamo andare verso una società che vogliamo che cresca e che prosperi e che quindi abbia un adeguato apporto e contributo di qualità delle nuove generazioni. Il presente, per le dinamiche che in parte abbiamo visto nella presentazione di Blangiardo, in particolare in Italia, ci mette in una condizione più problematica degli altri Paesi e quindi questa sfida di un futuro migliore noi dobbiamo coglierla con più determinazione, più convinzione.
Vi farò due confronti principali, uno con la Francia e una con la Germania, semplicemente per avere due Paesi che per motivi diversi possono dirci qualcosa.
Dal punto di vista della riduzione quantitativa dei giovani, quella che io anche provocatoriamente ho chiamato “degiovanimento”, perché non possiamo solo parlare di invecchiamento, perché l’invecchiamento rimanda all’idea di cosa succede in una società in cui aumentano gli anziani e quindi come dobbiamo mettere in atto delle politiche per favorire una miglior presenza degli anziani che aumentano dal punto di vista quantitativo, ma ci perdiamo, e ci siamo persi, la riflessione, il ragionamento di cosa succede a una società in cui si riduce, sistematicamente e strutturalmente, la presenza delle nuove generazioni. Per darvi l’idea di questo impatto, di quello che è successo negli ultimi trent’anni, avete la curva della Francia in blu, della popolazione francese per ciascuna singola età, dagli zero anni fino ai cento e oltre, e tratteggiato in rosso avete l’Italia. Il confronto è molto interessante, perché come vedete, le due popolazioni sono direttamente comparabili perché hanno un livello, una quantità simile; le due curve si sovrappongono in età anziana, sono molto simili in età adulta e la differenza è quello che però è successo negli ultimi trent’anni. Come conseguenza della accentuata e cronicizzata denatalità, noi siamo andati a svuotare progressivamente la presenza di giovani, infatti vedete la curva tratteggiata in rosso come si è inabissata molto al di sotto di quella blu. Quindi in Francia l’equilibrio generazionale tendenzialmente si è mantenuto, tant’è che il numero medio di figli per donna è attorno a due, quindi vuol dire che è possibile nelle società mature, moderne e avanzate avere almeno un numero medio di figli, in cui il numero dei figli non è inferiore a quello dei genitori, mentre in Italia siamo scesi a quell’uno virgola. La conseguenza è che non solo abbiamo svuotato la presenza delle nuove generazioni rispetto alla Francia; uno potrebbe dire: ”va beh, la Francia è un Paese particolare, perché da sempre fa politiche famigliari solide, continuative, qualsiasi sia il governo (centro destra, centro sinistra o tecnico) queste politiche non vengono messe in discussione, quindi l’impatto e le condizioni favorevoli per far figli sono migliori rispetto all’Italia”. Ma se ci confrontiamo anche con tutti gli altri Paesi, e avete il grafico sotto, noi ci troviamo ad essere il fanalino di coda, cioè il Paese con più bassa quota percentuale di under trenta sul totale della popolazione. Quindi se c’è un Paese che ha disinvestito sulla presenza quantitativa dei giovani, senz’altro noi siamo tra questi, anzi siamo quelli che hanno accentuato un po’ questa situazione. Però quello che ci troviamo davanti è anche un paradosso, perché intuitivamente uno potrebbe pensare che se le nuove generazioni si riducono e quindi quando entrano nell’età adulta e si affacciano nel modo del lavoro sono di meno, questo un po’ lo dice, anche semplificandola, la crisi economica: se un bene è meno disponibile sul mercato, diventa automaticamente più prezioso e più ricercato, e quindi se i giovani che si affacciano nel modo del lavoro e in età adulta sono di meno, avrebbero dovuto trovarsi in condizioni più favorevoli, cioè ottenere più investimenti, più attenzioni, più spazio, più opportunità. Questo è quello che ci saremmo aspettati e invece la realtà osservata è l’opposto, cioè ci troviamo con il paradosso di avere meno giovani ma anche con meno investimenti, meno valorizzazione, meno opportunità e quindi in condizioni più sfavorevoli. Questo è un paradosso di un “degiovanimento” quantitativo che è diventato anche un “degiovanimento” qualitativo e che quindi va a comprimere la possibilità che questi operai, di cui parlavamo prima, della costruzione di questa casa, per il futuro siano non solo di meno, ma anche meno messi in grado di dare il meglio di sé. All’interno di queste generazioni che si sono ridotte, ci sono almeno due categorie che sono aumentate più rispetto alle generazioni precedenti e sono i neet e gli expat. Neet è un acronimo che è nato negli Regno Unito alla fine del secolo scorso, che l’Unione Europea ha adottato l’anno scorso per andare a misurare lo spreco delle nuove generazioni all’interno dei vari stati dell’Unione, è un acronimo che va a indicare i giovani che non studiano e non lavorano e che quindi sono in qualche modo messi ai margini, messi da parte. Noi siamo il Paese che ha in valore assoluto il più alto numero di neet in Europa. Quindi da un lato noi abbiamo il più basso numero di giovani in Europa, di under trenta, ma tra gli under trenta siamo quelli che abbiamo il più alto numero di giovani che non studiano e non lavorano. C’è qualcosa effettivamente che non ha funzionato nel nostro modello di sviluppo se ci troviamo in questa situazione. E poi abbiamo questo saldo negativo di expat, cioè di giovani qualificati che se ne vanno e sono molti di più quelli che se ne vanno rispetto a quelli che riusciamo ad attrarre. Quindi sostanzialmente un giovane si trova in questa situazione: o rimane in Italia e accetta di trovarsi in una condizione di difficoltà a trovare valorizzazione e quindi a fare di meno rispetto a quello che potrebbe fare e in qualche modo rischia di trovarsi più ai margini, di cogliere meno opportunità; oppure di andarsene all’estero, e entrambi questi comportamenti sono più accentuati nel nostro Paese. Qui il confronto interessante è con la Germania. Perché la Germania? Perché all’opposto della Francia, la Germania ha avuto un andamento della natalità simile al nostro, quindi ha avuto un crollo delle nascite paragonabile al nostro, quindi un “degiovanimento” quantitativo simile. Al contrario di noi, però, ha riequilibrato questa riduzione quantitativa con un potenziamento qualitativo delle nuove generazioni, quindi più investimenti di formazione, anche tecnica, più investimenti in politiche attive, più investimenti in ricerche sviluppo e innovazione, e quindi cosa succede? Che la Germania è uno dei Paesi in Europa con la più bassa percentuale di neet, e con saldo invece positivo di attrazione di giovani qualificati nel proprio Paese e quindi i giovani che hanno li valorizzano di più, ma ne attraggono anche altri per alimentare il proprio processo di crescita e di sviluppo. Qui avete la mappa dei neet tra gli under trenta italiani. Nella fascia 15-29, in Italia sono meno del 10%, già prima della crisi economica la percentuale era abbastanza elevata, attorno al 19%, la crisi ovviamente ha accentuato ulteriormente questa condizione, però andate a vedere la curva della Germania e vedete che anziché aumentare, e già partiva più bassa rispetto all’Italia, non ha sofferto l’impatto della crisi economica. Anzi, un modo per rispondere alla crisi era proprio quello di aumentare la formazione e le opportunità per le nuove generazioni e la possibilità che la loro intraprendenza diventasse un antidoto alla crisi. Lì avete il grafico di quello che invece succede da noi: nella fascia 20-24, noi siamo il Paese che meno mette i giovani che avrebbero voglia di lavorare nelle condizioni di farlo. Questa è sostanzialmente la sintesi. Questo ovviamente sta producendo una forte sfiducia nei confronti dei giovani stessi, quindi la percezione di vivere, dal punto di vista non solo oggettivo ma anche soggettivo, in un contesto che offre poche opportunità e che quindi sia fortemente penalizzato dal punto di vista generazionale. Questa percezione è abbastanza trasversale in tutte le categorie di giovani, ma ovviamente è molto più forte nei giovani più svantaggiati, cioè quelli che si trovano in condizione di neet e che sono quelli che vedono questo futuro, che magari vorrebbero positivamente poter costruire, che progressivamente rischia di sgretolarsi. Nel “Rapporto giovani”, promosso dall’istituto Toniolo, di cui adesso vi farò vedere un po’di dati, questa differenza, questa situazione penalizzante al quadrato dei neet rispetto ai giovani in generale si vede in maniera molto acuta. Alla domanda: quanta fiducia hai che l’Italia nei prossimi tre anni riesca a tornare a crescere? Quelli che hanno molta/abbastanza fiducia sono solo meno del 30% in generale dei giovani; non c’è una porta chiusa rispetto a questa possibilità, perché comunque l’età giovane è un’ età in cui si vuole comunque pensare positivamente, nonostante le difficoltà, quindi chi dice per nulla è comunque meno di chi dice molto/abbastanza, tranne per i neet. Come vedete, per i neet, la percentuale di chi dice che non ci crede per nulla alla possibilità di crescita, è quasi il doppio rispetto a chi ci crede. Questo va ad erodere anche la visione del senso di appartenenza sociale, della soddisfazione rispetto a quello che si è, che si fa, al senso che si può dare al proprio essere e fare nella società e va a incidere anche sui progetti futuri. Fa entrare i giovani in una spirale negativa in cui tutto viene progressivamente rivisto al ribasso e da cui si fa fatica poi a uscire. Rispetto alla soddisfazione per la propria vita, abbiamo chiesto di dare un punteggio da 1 a 5, quindi 3 è il punto un po’ a metà, e vedete che i neet, i giovani che non studiano e non lavorano, rispetto a quelli che hanno un lavoro a tempo indeterminato o determinato o autonomo, hanno un senso di soddisfazione della propria vita decisamente più basso. Quando gli si chiede rispetto all’affermazione “non cambierei nulla rispetto a quello che ho scelto finora”, anche qui il punteggio è molto basso, vuol dire che c’è l’impressione di aver fatto delle scelte che poi si sono rivelate non felici, non di successo e questo è anche legato alle difficoltà che hanno poi molti giovani ad essere orientati a fare scelte adeguate, di percorso solido, sia di formazione che all’interno del percorso formativo. Questo coincide anche sui progetti, non solo sulla realizzazione dei progetti, ma anche sull’intenzione di realizzarli. Alla domanda sull’intenzione di uscire dalla casa dei genitori entro un anno, come sapete noi siamo uno dei Paesi dove i giovani rimangono più a lungo a vivere con i genitori, e quindi in tutte le categorie, perfino in chi ha un buon lavoro a tempo indeterminato, questa percentuale non è elevatissima. Qui abbiamo confrontato due fasce di età, gli under 25 e gli over 25: chi ha un lavoro, soprattutto se a tempo indeterminato, progetta maggiormente la possibilità di uscire dalla famiglia di origine; più si va avanti con l’età, più questa idea di conquistare la propria autonomia cresce fortemente, ancora di più per chi ha un lavoro che considera solido, che gli getta la base per costruire qualcosa. Questo non succede per i neet. E’ un dato veramente molto preoccupante: non solo la percentuale di neet che intendono uscire dalla casa dei genitori è bassa, ma all’aumentare dell’età non si smuove, rimane fissa, il che vuol dire che si invecchia con il futuro che via via si sgretola e senza alcuna possibilità di aggiustarlo, cioè non migliora praticamente niente, aumenta solo l’età, ma tutto rimane fermo e ovviamente questo fa entrare in quella spirale di scoraggiamento e demotivazione in cui si vede tutto nero. Cosa succede ai neet? Qui il rischio è che i neet, da possibile risorsa per la crescita di un Paese, diventino un costo sociale che poi diventa fortemente pesante nelle vite individuali e nelle possibilità di crescita di un Paese. Noi siamo uno dei Paesi con all’interno dei neet la più alta di chi è neet da più lungo tempo e ovviamente più si rimane in questa condizione e più la luce oltre il tunnel diventa sempre più lontana, e questo va a deteriorare anche la fiducia nelle istituzioni, il senso di appartenenza sociale, come abbiamo detto, va ad agire anche sulle motivazioni personali, e quindi va a produrre un effetto corrosivo su tutte le dimensioni della vita. Il punto nevralgico di tutto questo è il punto di transizione dalla scuola al lavoro. Quello che produce un così alto numero di neet in Italia è che troppi giovani si perdono dalla uscita del portone della scuola all’entrata nei cancelli del mondo del lavoro. In questo percorso troppi giovani in Italia si perdono ed è come se in questo percorso entrassero in un labirinto e all’interno di questo labirinto girassero tendenzialmente a vuoto. All’inizio sono motivati, all’inizio sono ancora freschi, esuberanti, hanno tante idee, progetti, etc. ma a furia di girare a vuoto in questo labirinto in cui pochi riescono a uscire, a meno che non abbiano genitori in grado di trovare loro un lavoro, rischiano di perdersi. E attenzione: questo labirinto, questo snodo del passaggio della transizione scuola-lavoro rischia di penalizzare anche tutto il percorso di transizione alla vita adulta e rischia quindi poi di diventare un labirinto in cui si rimane imprigionati non solo nel percorso professionale, ma nel percorso di realizzazione del proprio progetto di vita adulta. I dati del rapporto giovani, che poi vanno al di là degli aspetti macro e degli indicatori principali, ma cercano di adottare il punto di vista e l’ottica dei giovani stessi, per capire come vivono la propria situazione, cosa si aspettano, cosa vorrebbero fare, che progetti hanno e come vorrebbero realizzarli, sono invece molto incoraggianti sulla loro voglia di non rassegnarsi e anzi di provare a dare comunque il meglio di sé in una condizione di difficoltà. C’è un forte rifiuto di sentirsi una generazione perduta, che è un’etichetta che in qualche modo gli viene affibbiata, dopo quella di bamboccioni, di ciusi, e così via, adesso sembra che sia un destino che si auto adempie quello di essere per forza una generazione perduta. In realtà questo non è quello che loro si sentono. Più che disillusi sono disorientati, perché hanno progetti di vita, grandi potenzialità, ma difficoltà a trovare la propria strada ed essere aiutati a trovare il modo per realizzarsi a pieno. E più che disperati sono una generazione dispersa, non solo perché se ne vanno all’estero, non accettando a volte la condizione di sotto utilizzo e di sfruttamento nel proprio contesto di origine. Sono dispersi soprattutto perché è come se fossero una energia che c’è ma che noi, anziché indirizzarla alla possibilità di produrre il meglio di sé, la disperdiamo. Che cosa ci chiedono? Sempre di più, anche come effetto della crisi stessa, c’è stata una forte elaborazione di consapevolezza. Se in passato il termine di bamboccioni e di ciusi poteva in parte esserci,anche se non per la maggioranza dei giovani, ora questo effettivamente è sempre meno vero. C’è un forte riconoscimento dell’importanza dell’adattamento e dell’intraprendenza, quindi chiedono a se stessi di dare di più, di adattarsi a quello che c’è e di cercare di migliorare quello che c’è, non pretendendolo ma cercando essi stessi di diventare soggetti attivi del contesto in cui vivono. E’ una sfida complicata, ma che è l’unico modo per migliorare la propria condizione. Alla scuola chiedono una preparazione solida, competenze avanzate e anche quelle soft skills che diventano poi fondamentali per il successo nella vita. Alle aziende chiedono valorizzazione, non sfruttamento ma possibilità di essere riconosciuti come potenziale, non essere risorse da pagare il meno possibile, ma essere risorse da valorizzare il meglio possibile per resistere al mercato del lavoro, non riducendo il costo del lavoro ma aumentando la competitività dell’azienda, facendo leva sul capitale umano delle nuove generazioni. E al Paese, quello che chiedono, è investire sulla crescita. Non chiedono un welfare passivo protettivo, ma chiedono di giocarsela al meglio con opportunità adeguate, con occasioni adeguate in un Paese che crede nella propria possibilità di un futuro migliore, e che pensa questo futuro migliore non si possa realizzare che attraverso le nuove generazioni. Tutto questo che vi ho riassunto in una slide è confermato dai dati che adesso velocemente vi illustro, ricavate dalle nostre indagini. Quando gli si chiede cosa è utile maggiormente per trovare lavoro, la capacità di adattarsi supera il 50%, le competenze avanzate sono più elevate del titolo di studio. C’è un riconoscimento che il titolo di studio è importante ma non basta più, bisogna metterci qualche cosa in più: intraprendenza, anche adattamento se vogliamo e competenza adeguata. In coerenza con questo, alla domanda a cosa serva l’istruzione scolastica e che cosa vorrebbero li aiutasse a potenziarsi nella istruzione scolastica, il tipo di risposta “a trovare più facilmente lavoro” ha percentuali elevate ma non le più elevate, ancora più importante dell’istruzione scolastica risulta saper affrontare la vita, imparare a ragionare, imparare a stare con gli altri, e aumentare le conoscenze e le abilità personali. Quindi c’è proprio un’idea che la formazione sia qualcosa di più che competenze tecniche per trovare lavoro, anche quello ovviamente, ma più che trovare un lavoro si vuole trovare un posto nella vita, e questo trovare un posto nella vita ha bisogno di avere tutti gli strumenti sociali e culturali per poterlo realizzare, tant’è che quando si chiede l’importanza di vari valori per il successo professionale, il titolo di studio ammonta abbastanza a una percentuale altissima, ma è più importante l’impegno, le competenze, le capacità relazionali, e quindi questa forte consapevolezza di andare oltre, di metterci del proprio, che non basta più il pezzo di carta dello studio, ma che bisogna metterci di più, tirare fuori qualcosa in più. Quello che invece si aspettano di trovare all’interno delle aziende, quello che si aspettano di trovare, quello che vorrebbero veramente i giovani dal lavoro è l’autorealizzazione, non tanto il successo, questo valeva per le generazioni giovani degli anni ’80, ma oggi i giovani cercano il realizzarsi nel lavoro, quindi il lavoro in cui tu vedi che fai qualcosa che ha un senso, che produce miglioramento in cui ti riconosci. E sono anche disposti a essere in parte sottopagati, a tirare un po’ la cinghia, pur di fare un lavoro che sia soddisfacente benché non completamente solido. Il problema è che poi questo rischia di diventare penalizzante, perché l’incertezza sulla stabilità del lavoro e le remunerazioni basse possono sì farti trovare un lavoro che magari ti piace, infatti sulla soddisfazione del lavoro la maggior parte dei giovani non si lamenta, ma il limite che loro riconoscono fortemente sempre di più è quello della remunerazione, perché la remunerazione è troppo bassa. Questo è effettivamente un tema importante. Anche i dati della Banca d’Italia fanno vedere come a parità di lavoro, di occupazione, la possibilità del potere di acquisto si sia ridotta fortemente per i nuovi entrati nel mercato del lavoro, ma anche in maniera comparativa rispetto ai giovani coetanei degli altri Paesi o ai giovani italiani che vanno all’estero per fare lo stesso lavoro. E questo rischia poi di essere fortemente penalizzante nel realizzare i propri progetti di vita, nel costruire un proprio percorso in cui gli obiettivi personali e gli obbiettivi di vita si possano effettivamente realizzare. Non si può continuare a vivere sempre con un lavoro che ti piace ma è instabile, è sottopagato e ti costringe a vivere continuamente coi tuoi genitori. Questo è quello che dicevamo prima: questo nodo di difficoltà che riguarda il rapporto giovani-lavoro sta penalizzando fortemente tutto il percorso di vita adulta e quindi di realizzazione dei propri progetti di vita più in generale. Sui motivi che stanno frenando l’autonomia dei giovani, i dati della nostra indagine ci dicono che, rispetto ai giovani intervistati under 30, il 40% ha avuto una esperienza di autonomia e il 60% di quelli che hanno acquistato una autonomia del vivere sono poi tornati a vivere coi genitori. Questo fa capire come i giovani cerchino di buttare anche il cuore oltre l’ostacolo, ma poi le difficoltà li costringono, a volte anche in maniera frustrante, a fare marcia indietro, a tornare indietro. Rispetto alla fecondità e ai figli, c’è una coerenza di questo modello che è ciò che emerge dai nostri dati: i giovani hanno progetti, progetti di famiglia con figli, ma poi non riescono a realizzarli in un contesto che non li favorisce, non li sostiene, non li supporta nel mettere in atto questi desideri, questi progetti. Sul numero di figli questo emerge in maniera molto netta. Qui chiudo di nuovo con il confronto con la Francia e con la Germania. Abbiamo chiesto, sia ai giovani italiani che ai giovani di altri Paesi: “Se tu potessi avere una vita ideale, senza problemi di soldi, di lavoro eccetera, quanti figli vorresti avere?”. Se voi confrontate il numero ideale di figli, quello dei giovani italiani intervistati è un po’ più alto rispetto ai giovani francesi. Idealmente non c’è differenza, se i giovani italiani potessero fare quanti figli vogliono, in media ne farebbero quanto meno come i giovani francesi. Poi gli si chiede: “Concretamente, realisticamente, avendo presente le difficoltà che incontrerai, quanti figli ti aspetti di fare?” Lì c’è un crollo, il crollo del dato indicato dai giovani italiani è molto più forte rispetto ai giovani francesi. Un divario netto tra quello che si desidera fare e quello che si pensa che si realizzerà. Ma non è questo il dato più rilevante. Il dato più rilevante è un altro confronto, non solo con il numero ideale, non solo con il numero che concretamente si pensa di realizzare, ma con quello che poi effettivamente si realizza. Se noi ci mettiamo dentro il numero di figli effettivamente realizzato, succede che il numero di figli effettivamente realizzato per i giovani italiani è ancora più basso rispetto a quello che realisticamente si aspettano di realizzare. Quindi le cose vanno ancora peggio rispetto a quello che non idealmente, ma realisticamente prevedono. Mentre succede l’opposto per la Francia: il numero di figli effettivamente realizzato è maggiore rispetto a quello che realisticamente dicevano di aspettarsi. Vuol dire che da un lato ci si trova in Italia in un contesto che ti fa ottenere meno rispetto ai tuoi obiettivi, e pone delle difficoltà aggiuntive rispetto a quello che tu prevedi, e quindi ti costringe a rivedere al ribasso progressivamente i tuoi progetti di vita, dall’altro invece un contesto francese in cui tu anziché fare un figlio in meno riesci invece a fare un figlio in più rispetto a quello che realisticamente ti aspettavi di fare. Quindi: se i giovani italiani si trovano in difficoltà non è perché sono meno bravi, meno intelligenti, meno creativi, con meno ideali, con meno voglia di spendersi e di fare rispetto ai giovani degli altri Paesi, è che si trovano in un contesto che oggettivamente li frena, e ovviamente nel confrontarsi con queste difficoltà poi nel tempo si demotivano, nel tempo accettano di trovarsi relegati ai margini, almeno che non facciano la scelta di andarsene. Quindi è vero che troviamo a un certo punto i giovani che sono remissivi e rassegnati, ma perché troppo a lungo li abbiamo lasciati in questa condizione, quando, se li avessimo incoraggiati nel momento giusto, avrebbero potuto dare molto di più. L’altro confronto è con la Germania, ed è molto più ampio, e fa capire l’aspetto più qualitativo. Nel grafico sono messi in relazione due indicatori che sembrano molto diversi: in verticale la percentuale di giovani che, anziché essere attivi e protagonisti di crescita nel Paese, sono passivamente dipendenti dai genitori; in orizzontale gli investimenti in quelle voci che fanno la differenza, cioè politiche attive per il lavoro, formazione, ricerca, sviluppo e innovazione. Vedete come la relazione è strettamente negativa: i Paesi che pensano di risparmiare con investimento pubblico sulle nuove generazioni, sono quelli che poi questi giovani li perdono, non li fanno entrare in gioco e così non diventano gli operai per la costruzione della casa comune del proprio futuro. Mentre i Paesi che non risparmiano sui giovani, ma investono, cioè considerano le nuove generazioni un bene pubblico su cui investire, si trovano con giovani che sono intraprendenti, che sono all’interno dei processi di crescita e di sviluppo di quei Paesi. Questo vuol dire che si può fare, che noi possiamo diventare un Paese in cui i giovani, anziché vivere passivamente con i genitori, possono essere attivi e intraprendenti, e il Paese, anziché in declino, può essere un Paese che grazie alle nuove generazioni torni a crescere e credere nella possibilità di generare un futuro migliore. Questa convinzione i giovani ce l’hanno, quindi non sono una generazione perdente, sono una generazione che si considera la vera ricchezza del Paese. Il 67% infatti ha la consapevolezza di dire: “Ci sono delle difficoltà, siamo un Paese con una demografia strana, una società strana, eccetera, ma bisogna smettere di lamentarsi, bisogna rimboccarsi le maniche, bisogna prendere in mano il proprio futuro e bisogna darsi da fare per migliorare la realtà all’interno della quale si vive”. Attualmente, per fortuna, i giovani non sono una risorsa spenta, vogliono essere aiutati a diventare concretamente la risorsa del Paese, vogliono andare verso il futuro ma non vogliono farlo pensando che l’Italia sia un treno e loro siano l’ultimo vagone di questo treno che va verso il futuro ma ci va lentamente e con il rischio di deragliare. Vogliono essere la locomotiva di questo treno, perché hanno in mente ben chiaro il futuro che vogliono costruire, ma hanno anche la necessità di avere il supporto giusto per diventare la risorsa principale di un Paese che torni a credere in se stesso, che riconosca le grandi potenzialità che ha e che a partire dalle nuove generazioni, riesca a vincere la sfida di costruire una casa comune che sia migliore. Grazie.
GIORGIO VITTADINI:
Di solito si discute di riforme costituzionali, ma anche se si fanno tutte le riforme costituzionali del mondo e non si affrontano questi temi, non si va da nessuna parte, perché il quadro che abbiamo visto ci dice che siamo uno dei Paesi con il più basso sviluppo demografico del mondo, in cui molti giovani sembrano non avere futuro. Noi non abbiamo come unico problema in Italia come si fanno le riforme istituzionali, abbiamo anche questo problema radicale, che sta alla radice delle difficoltà economiche, perché le difficoltà economiche si affrontano innanzitutto con la forza lavoro di qualunque tipo, con il capitale umano, con le persone. Sono le persone che creano sviluppo. Oggi il dibattito sulla famiglia si è ridotto al dibattito bene o male delle coppie omosessuali, e non riguarda più come si sostiene la nascita di figli, lo sviluppo, come abbiamo visto in altri Paesi. La Francia è statalista ma la famiglia la sostiene. Non così da noi e questo è un’omissione, e siccome noi siamo cattolici, il peccato di omissione è un peccato che vale come gli altri tipi di peccato. Allora dal punto di vista politico vorremmo che questo peccato di omissione finisse. Quindi bisogna riprendere in mano il nostro destino, poi chiedere vigorosamente che le politiche siano politiche per la famiglia, e che la famiglia non sia ridotta a problema, comunque importante, ma di minoranza; vorremmo che anche le maggioranze, cioè tutti noi, fossero rappresentate in questa possibilità di sviluppo. Grazie, buon lavoro.