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LA SFIDA DELLA CRESCITA: L’ITALIA PUÒ RIPARTIRE?
Partecipano: Federico Golla, Presidente e Amministratore Delegato di Siemens Spa; Maximo Ibarra, Amministratore Delegato di Wind; Carlo Malacarne, Amministratore Delegato di SNAM; Francesco Starace, Amministratore Delegato di Enel. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.
BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno a tutti, e benvenuti a questo incontro sulla sfida della crescita. Saluto in modo particolare Federico Golla, Presidente e Amministratore Delegato di Siemens Italia; Maximo Ibarra, Amministratore Delegato di Wind; Carlo Malacarne, Amministratore Delegato di SNAM; e Francesco Starace, Amministratore Delegato di Enel.
Il Ministro Guidi, che doveva essere presente questa mattina, si scusa, ma per un impegno imprevisto non può essere presente.
L’Italia deve crescere: c’è una grande discussione su quanto il PIL sia un indicatore così decisivo come in questo momento viene considerato per lo stato di salute di un Paese. Voi forse sapete che Robert Kennedy ha fatto una volta una grande critica al PIL come unico criterio nella valutazione della situazione di un Paese; però l’Italia deve crescere anche per chi non è fautore del PIL, perché se noi abbiamo un debito pubblico così elevato, che costa il 5% del PIL solo per pagare gli interessi, diventa inevitabile. Teniamo anche conto del fatto che l’Italia (questo lo sanno pochi, ma è importante per capire la situazione del Paese), ha un avanzo primario assolutamente fra i più virtuosi in Europa: ciò che penalizza l’Italia è veramente il debito pubblico.
Allora, come si fa a crescere? Questo è il tema del quale oggi vogliamo parlare. L’Unione Europea ha dato una volta un’indicazione sulla crescita che deve caratterizzare i Paesi europei, ha dato tre criteri: una crescita intelligente, quindi basata sulla conoscenza e sull’innovazione; una crescita sostenibile, quindi basata anche su fattori ecologici decisivi; e una crescita inclusiva, cioè una crescita che crei occupazione, perché sappiamo bene che ci sono tanti Paesi in cui c’è una crescita forte, ma molto parziale, anzi, in modo tale che si aprono anche le forbici fra i ricchi e i poveri sempre di più.
Cominciamo a parlare di questo tema con Federico Golla. La Siemens lavora su quattro settori particolari: l’industria, l’energia, la sanità e le infrastrutture. Parlando di innovazione è interessante vedere che nel settore industriale Siemens Italia è al quarto posto per la società, dopo Germania, Cina e Stati Uniti: vuol dire che il manifatturiero italiano si afferma anche qua come settore trainante. La Siemens ha lavorato insieme a COMAU e ha vinto per un impianto a Pomigliano il premio internazionale molto importante di questo settore; in partnership con Enel si sta realizzando per l’EXPO la tecnologia smart grid; e, un ultimo esempio, nella sanità hanno creato dei sistemi di dosaggio molto basso nella radiologia nell’ospedale Bambin Gesù di Roma. Perché faccio questi esempi? Per dire che l’innovazione è un fattore non marginale, non casuale ma decisivo in tutti i settori, e la domanda che pongo a Federico Golla è: come è possibile che l’innovazione diventi veramente un fattore continuativo dentro lo sviluppo di una grande azienda, di una grande impresa?
FEDERICO GOLLA:
Grazie, buongiorno a tutti. Non c’è dubbio che crescita e innovazione, crescita e ricerca e sviluppo vadano avanti di pari passo. Se la domanda è la domanda: come crescere o come ripartire? Ho provato a elencare alcune risposte, anche in termini di priorità. Può l’Italia ripartire? Sì, ma… E ci sono tanti “ma” da sciogliere, ci sono tanti nodi da verificare.
Il primo “ma” o il primo “se” è: si può ripartire se riparte l’Europa. Ormai credo che sia evidente a europeisti convinti o meno convinti che nessun Paese, neanche la Germania, neanche il Paese nel quale Siemens è una delle forze trainanti dell’economia locale, è in grado di sostenere le sfide mondiali, le sfide della crescita da solo. Quindi, il primo tema è il tema di ripartenza del sistema europeo.
Il secondo punto – mi aiuterò in questa prima introduzione di alcuni dati di uno studio molto ben fatto da Ronald Berger – è quello della de-industrializzazione. Per ripartire bisogna avere industria, è l’industria che crea sviluppo, che crea competenze, tecnologia, è ancora l’industria manifatturiera, assieme ovviamente al mondo dell’ICT; quindi bisogna ritornare competitivi, combattendo la de-industrializzazione, e rilanciare non solo i consumi, ma tutta la componente industriale. La buona notizia è che l’Europa, seppure in recessione, rappresenta l’area economica più vasta del pianeta: giustamente si diceva prima che il PIL (o GDP) è ancora un indicatore importante. Non è tutto, però sicuramente è il termometro della febbre, è il termometro che ci dice se si cresce o se si decresce. Oggi la popolazione europea è una popolazione che è solamente il 7% della popolazione mondiale, che produce il 24% del PIL mondiale. Quindi vuol dire che i geni della crescita sono ancora in Europa, nei grandi Paesi, nell’Europa allargata ai 27/28, e quindi questa è la buona notizia. Ovviamente se però poi si va a vedere la crescita media per anno su un arco temporale di 5/10 anni, vediamo che l’Europa è attorno al 2%, la Cina al 10%, gli Stati Uniti al 7%: quindi luci e ombre come si suol dire.
Il tema della de-industrializzazione è un tema serissimo, ed è un tema che oggi molti di noi fanno finta di scoprire come se si mettesse a piovere per la prima volta dopo anni, ma in realtà questa statistica mi dice che nel 1970, quindi long time ago, il 26% del PIL europeo o mondiale era prodotto da attività manifatturiere; oggi nel 2014 dal 26% siamo scesi al 17%, e il trend è in continuo declino, quindi vuol dire che negli ultimi 30 anni abbiamo de-industrializzato il continente europeo e il mondo stesso, perché poi ci sono stati degli spostamenti sui servizi. Se vado a prendere la perdita di competitività 2000-2012 (quindi indietro solo di 12/14 anni), di tutti i Paesi mondiali, solo la Germania, la Lituania (che per altro non riesco a commentare perché è un Paese che non conosco) e la Corea hanno un “+” davanti al tasso di crescita della parte industriale rispetto al PIL globale.
Quindi questo cosa vuol dire? Vuol dire che siamo indietro. Per rilanciare la crescita, per permettere ai nostri Paesi e al sistema europeo di ripartire, dobbiamo aumentare la quota manifatturiera, e per fare questo la dobbiamo sostenere con un processo di innovazione. Quindi cosa serve? Servono tante cose in Italia per attrarre i capitali, per ripartire con la crescita. Però quello che io vorrei dire è che serve arrestare la de-industrializzazione, sviluppare il tema delle start-up, chiarendo da subito che le start-up non sono lo strumento per generare posti di lavoro, le start-up sono il picco dell’iceberg per generare qualità innovativa on the top, di quello che è attività di ricerca e sviluppo delle grandi e delle piccole e medie imprese. Quindi avere una cultura di investimento industriale, e di investimento in ricerca e sviluppo. Io qui vi do un altro dato: i Paesi che in percentuale investono di più sono la Svezia, il Giappone, la Finlandia, gli Stati Uniti, la Svizzera. Man mano che ci spostiamo verso tassi di investimento in ricerca e sviluppo irrisori, sempre più troviamo i Paesi dell’EMEA, i Paesi che non credono tanto e non dimostrano di credere tanto in questo.
Due dati sulle start-up. Innanzitutto bisogna introdurre il rischio, la cultura del rischio: la start-up per definizione è destinata ad avere delle percentuali di successo molto basse, quindi bisogna che anche nella cultura di chi analizza questi fenomeni industriali ci sia questa capacità di discernere qual è la capacità di rischiare. Dopo la Grecia, l’Italia è il peggior Paese per il failure rate, quindi è il Paese dove evidentemente il terreno non è così fertile come in altri per fare in modo che una quota parte delle start-up diventino realtà nel processo industriale; parimenti chi investe non ha la cultura del rischio, quindi il venture capital: il numero uno al mondo è Israele, tre volte della media di tutti gli altri Paesi che investono in start-up, seguita dagli Stati Uniti, dal Canada e da UK.
Quindi, questi sono gli ingredienti. Un’ultima riflessione, ma sicuramente Massimo sarà molto più preciso e puntuale di me. E’ per quanto riguarda la carenza di attività ICT, di cultura ICT, infrastrutturale, nei Paesi della Comunità Europea. Anche qui ci sono dei dati che indicano chiaramente chi crede nell’ICT e nelle infrastrutture, e chi invece sconta ancora oggi pesantemente un ritardo: nelle prime dieci società nel mondo dell’ICT nove sono statunitensi e una è coreana. Dov’è l’Europa? Non c’è.
Quindi, questi sono – poi magari al secondo giro potremo riprendere alcuni temi – sono secondo me gli ingredienti complessi, difficili ma inevitabili per fare in modo che il sistema Europa, il sistema industriale ed economico, possa uscire da quello che altrimenti è un’alternativa di declino progressivo che purtroppo, come si vede da questi dati e da altri, è iniziato non con la crisi (che ha amplificato tutto), ma è iniziato con un processo di deterioramento del tessuto industriale innovativo già da molti anni prima di quando la crisi si è manifestata. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Mi permetto solo di aggiungere ai dati che Federico Gorla ha citato – il 7% della popolazione mondiale, il 24% del PIL mondiale – che intanto l’Europa spende il 50% del Welfare mondiale. Allora si capisce che la crescita è anche decisiva per mantenere il livello di Welfare al quale ci siamo abituati, includendo anche tutti i sistemi scolastici universitari, e quindi non stiamo parlando solo di industrie e di servizi di per sé, stiamo anche parlando di tutto quello che questo permette poi in termini di sviluppo complessivo.
Maximo Ibarra ha lavorato, prima di diventare Amministratore Delegato di Wind, in Telecom Italia, in DHL, in FIAT, Benetton, cito questo non per fare un elenco della sua carriera, ma per dire che c’è dietro un’esperienza abbastanza ampia del sistema della produzione, del sistema dei servizi in Italia.
Quindi la mia domanda è: in ciò che Golla ha già accennato, quanto è decisiva la parte della digitalizzazione (c’è la grande agenda digitale europea, l’agenda digitale italiana) per dare una spinta allo sviluppo? Perché c’è un dato interessante che dice che la produttività delle aziende italiane (che ha tante lacune purtroppo) dipende in parte dalla mancanza di utilizzo di tecnologia, di comunicazione, di tecnologia digitale, che potrebbe facilitare tanti processi anche organizzativi e rendere le aziende più competitive a livello mondiale – tema di cui in modo molto approfondito avevamo parlato e discusso anche l’anno scorso.
MAXIMO IBARRA:
Benissimo, grazie mille. Buongiorno a tutti. Direi che la tecnologia e il digitale sono forse le parole tra le più nominate ultimamente, quindi nessuno di noi riesce a stare neanche dieci secondi senza un collegamento digitale; però il digitale da solo ovviamente non è il motore di crescita. Diciamo che il digitale è un ingrediente che serve per far ripartire gli ecosistemi economici: è come quando si vuole costruire qualcosa, poi alla fine hai bisogno di questi ingredienti, e uno degli ingredienti è il digitale. Per cui non è, di fatto, un pilastro sul quale portare avanti la crescita di un Paese, è semplicemente un elemento fondamentale, è l’ingrediente base, perché se noi guardiamo quello che facciamo dalla mattina alla sera ci rendiamo conto che, in effetti, siamo nell’ambito di un ecosistema digitale dove, dalla socializzazione al lavoro, qualsiasi attività quotidiana alla fine passa attraverso questa economia del multischermo, o questa economia delle applicazioni, che, di fatto, è pervasiva a 360°.
Direi che, tornando un minimo all’argomento che l’Italia deve tornare a crescere, bisogna domandarsi due cose fondamentalmente. La prima è appunto di quali ingredienti abbiamo bisogno per portare avanti un argomento – questo discorso è la crescita di cui stiamo parlando da tantissimi anni, direi almeno da sei in maniera forte -; e l’altro argomento è quello che dice dove, dove dobbiamo andare, quindi qual è la missione. Perché quando si parla di Paese, si parla di crescita, bisogna capire molto bene qual è l’indirizzo che vogliamo prendere, qual è il piano strategico, cosa vogliamo che sia l’Italia tra 5/6 anni, tra dieci anni… Qual è l’impianto che vogliamo costruire in modo tale da poter tornare a essere competitivi? E questo si può fare soltanto se si fanno alcune scelte, scelte che fino ad oggi sono state chiamate scelte di politica industriale, però, di fatto, dobbiamo parlare di un piano strategico, di una missione, di una mission. Dobbiamo decidere che cosa vogliamo che sia l’Italia tra 5/10 anni, quali sono le specializzazioni, quali sono gli ecosistemi produttivi, e di conseguenza portare avanti quei temi che ci servono per avere gli ingredienti giusti al momento giusto: il digitale, la formazione, tanto per citare, come dire, quelli che forse sono tra i più importanti. Che tipo di people, che tipo di persone, che cosa vogliamo essere anche nelle relazioni che ci sono tra i vari sistemi non soltanto economici, ma anche istituzionali: cioè dobbiamo decidere fondamentalmente dove dobbiamo andare.
Siamo un Paese molto frammentato, un Paese che è anche pieno di contraddizioni, in alcune classifiche mondiali siamo nelle primissime posizioni, in altre classifiche siamo praticamente nelle ultime posizioni. Siamo un Paese ancora relativamente ricco, ricco tra virgolette e un Paese che ancora fa parte dei dieci Paesi probabilmente più industrializzati al mondo, per cui abbiamo sicuramente una base di partenza importante, però in un contesto globalizzato dove la competizione mondiale, dove la tecnologia fa dei passi da gigante, è evidente che noi non possiamo continuare a pensare quali sono i buchi che dobbiamo tappare, ma dobbiamo darci un disegno un po’ più visionario, quindi decidere esattamente che Paese vogliamo. A tale proposito, anche se non era previsto, volevo farvi vedere un video, tutto sommato abbastanza corto che abbiamo prodotto. Non è una pubblicità, però parla di quegli ingredienti che io ritengo, che noi come azienda riteniamo che siano fondamentali per la crescita futura. Lascio spazio a questo video per cui chiedo alla regia di passarlo e poi do un ultimo brevissimo commento a chiusura del mio intervento.
Video
MAXIMO IBARRA:
E’ chiaro che quando abbiamo realizzato questo video abbiamo pensato a un tema che a me è sembrato molto attinente con l’incontro di oggi, perché c’è la tecnologia ma non è tutto. Se vogliamo far ripartire le cose bisogna essere appunto meno divisi, più vicini, riscoprire alcuni valori che probabilmente ci siamo persi un po’ per strada e tutti questi aspetti, poi alla fine, quando si gira l’Italia in lungo e in largo, esistono, però bisogna indirizzarli. Bisogna cercare di capire esattamente quello che dicevo poc’anzi: dove vogliamo andare. Vi faccio e vi do anche un esempio pratico. Semmai dovessimo decidere che i nostri settori più importanti, quelli sui quali vogliamo puntare sono il turismo piuttosto che il design, un certo tipo di manifattura, bene una scelta di questo tipo, di lungo termine, comporta molteplici scelte nelle cose che dobbiamo fare anche nello sviluppo del ICT, che tipo di sviluppo digitale vogliamo avere, perché non tutti sono uguali.
Quali start-up vogliamo incentivare, legate al turismo? Tra l’altro, l’altra volta mi capitava di parlare con una persona che non è italiana, mi parlava, lui è sudamericano, mi parlava di questo sviluppo incredibile che sta vivendo il continente Sud Americano in questo istante, mi diceva che, di fatto, l’Italia oggi ha tutto quello che qualsiasi Paese al mondo vorrebbe avere, ma non riesce a sfruttarlo. Ecco perché bisogna dare un indirizzo e una linea strategica. Quindi se fosse il turismo, allora a quel punto ci sarebbero delle start-up legate al turismo, anche alla produzione eno-gastronomica. Se c’è bisogno di formazione, quindi di nuove professioni legate a questo tipo di settore, è bene che a quel punto le università, le scuole comincino a lavorare in quella direzione, in modo tale che i ragazzi quando arrivano all’età in cui debbono cominciare a lavorare trovino immediatamente uno spazio. Non è possibile che l’Italia sia dietro Paesi come la Spagna dal punto di vista del numero di turisti. E’ una contraddizione, un paradosso. Dovrebbe essere esattamente il contrario; tra l’altro il numero dei turisti in Italia dovrebbe essere dieci volte quello della Spagna visto il patrimonio di cui abbiamo disposizione.
Se fosse il design o anche un certo tipo di manifattura, potremmo di conseguenza anche dirigere tutti gli sforzi formativi e di digitalizzazione, orientati a quel tipo di sviluppo. Quindi gli ingredienti, il digitale, le persone, il fatto di avere valori forti come la famiglia, il fatto di essere un Paese consapevole anche del suo background, del suo, come dire, della sua cultura, insieme ad un concetto molto banale che è quello di decidere esattamente qual è la nostra missione, quello che dobbiamo fare nei prossimi 5/6 anni, secondo me, sarebbe una miscela molto positiva che potrebbe far finalmente ripartire il Paese. Grazie mille.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Io penso che sia emerso molto bene che la crescita non è un fattore che viaggia da solo ma che dipende da uno sviluppo complessivo. Sia l’intervento di Golla che quello di Ibarra hanno dimostrato molto bene che questo dipende da un sistema valoriale di base. Occorre un indirizzo strategico che fa sinergie sulle forze, che da indirizzi anche sulla formazione. Quindi è un insieme di fattori. Fra questi occorre anche uno sviluppo del sistema economico-finanziario.
Su questo ho trovato una citazione di Carlo Malacarne, che lavora da sempre nel settore energetico e, dal 2012, è presidente della SNAM, non solo di SNAM ma anche di SNAM rete e gas, una citazione che vorrei leggervi per chiedere a lui poi di interpretarla: “La nostra strategia europea non prende le mosse solo dall’esigenza di creare valore per gli azionisti, ma è finalizzata a sfruttare le condizioni in cui si trova il nostro Paese, dal punto di vista geografico, per trasformare un hub europeo in grado di allentare la sua dipendenza dall’import energetico. Il nostro obbiettivo è duplice, vogliamo rafforzare la sicurezza degli approvvigionamenti e allineare i prezzi Italiani a quelli Europei, perché sappiamo bene che in Italia si paga il 30% in più per l’energia rispetto agli altri Paesi europei”. Ma il fattore che m’interessa di più, è quello di comprendere bene cosa vuol dire sviluppare un’economia che non abbia in mente solo il profitto a breve degli azionisti, ma abbia in mente uno sviluppo complessivo che poi torni bene anche agli azionisti.
CARLO MALACARNE:
Bene. Un saluto a tutti.
Fatemi fare una premessa. E’ chiaro che oggi l’Italia e l’Europa in particolare stanno vivendo una situazione difficile, a tratti drammatica, fatta di recessione economica, fatta di tensioni sociali, fatta di costi per le imprese non sempre sostenibili e livelli alti di disoccupazione. Non penso esista una ricetta risolutiva per affrontare questa crisi ma è certo che è indispensabile intervenire a livello Europeo sui cosiddetti nodi di sviluppo: leva fiscale per aiutare le imprese e il costo del lavoro, tecnologia, innovazione, infrastrutture ma soprattutto costo dell’energia. È vero che il costo dell’energia è uno di quelli più alti a livello europeo per le imprese italiane, ma io cercherò di dare una lettura di come affrontare il settore energetico, rispondendo anche alla curiosità del dottor Scholz. Devo dire che dal mio punto di vista, io mi occupo di sviluppare le infrastrutture energetiche, vedo in realtà che il settore energetico, il mercato energetico è visto solo come un costo, come un onere non sostenibile per le imprese. È già da un po’ di anni che si affronta solo con questa logica, con quest’analisi. Io ho provato a cercare di capire se una criticità di questo tipo può essere letta anche come una sfida. In realtà vedere l’energia come un driver, come un elemento per far ripartire gli investimenti, come la creazione, a livello di Paese, di un’opportunità di ripartenza della crescita, è l’obbiettivo che ci siamo posti come società, essendo operatori infrastrutturali.
Devo dire che l’Italia ha un vantaggio, nonostante abbia il costo dell’energia più alto: è l’unico Paese, a livello europeo, che è connesso, sto parlando di gas ma vale anche per l’elettricità, con tutte le aree di approvvigionamento, ad esempio Russia, Nord Europa, Nord Africa: rigassificatori. Questo vuol dire, per quanto riguarda il gas, l’80% di dipendenza dall’estero, ma vuol anche dire leggere questa dipendenza come una diversificazione delle fonti. L’Europa avrà bisogno di gas nei prossimi vent’anni, gli idrocarburi non sono assolutamente finiti, gli idrocarburi rimarranno fondamentali anche dopo il 2030, anzi ci sarà una crescita per quanto riguarda il gas, sarà un combustibile di transizione verso la Green Economy. Questo vuol dire che dobbiamo affrontarlo, non possiamo solo dire: “Il costo dell’energia è più elevato, quindi non consumiamo energia”.
La diversificazione delle fonti, quest’opportunità che abbiamo in Italia, ci ha fatto pensare che, dato che tutti parlano di integrare i sistemi europei per quanto riguarda trasporti e infrastrutture, per l’energia sia indispensabile avere la possibilità di una diversificazione delle fonti così vasta, di essere, come Paese di transito, direttamente collegati dal Nord Africa all’Inghilterra. Per quanto riguarda il gas non dobbiamo dimenticare che noi abbiamo una serie di pipe-line che sono direttamente collegate in Nord Africa e in Inghilterra. Insomma, senza pensare solo al costo dell’energia, forse bisogna pensare anche a come affrontarlo, a come reagire, con un patrimonio di questo tipo. Perciò il discorso “Hub”, che è una parola grossa, è un approccio commerciale quello del hub, però la realtà è che l’interconnessione con l’Europa del sistema energetico è un elemento forte per gestire una sicurezza negli approvvigionamenti, ma è anche un elemento di competitività. Vi faccio solo un esempio: nel maggio-giugno del 2012 il gas in Italia costava il 15-20% in più rispetto all’hub europeo. Oggi siamo allineati, c’è una differenza di 1,2 centesimi. Questo perché sono successe due cose: innanzitutto c’è una quantità di prodotto superiore alle esigenze, ma non è stato sufficiente, perché veniva da contratti commerciali a lungo termine date for pay che avevano comunque un prezzo elevato, per cui non c’era una concorrenza effettiva, anche se il prodotto era superiore al fabbisogno.
È successo innanzitutto che abbiamo sfruttato il fatto di essere collegati con l’Europa, di poter fare trading con le borse elettriche europee, cioè come operatori abbiamo spinto, siamo entrati come società direttamente nella società della borsa europea e questo ha permesso agli operatori di far trading, per cui anche con margini minimi di abbassare il prezzo. Cosa è successo poi? Il regolatore ha lavorato in sintonia e in accordo con i regolatori europei per fare regole comuni, per poter prendere il gas in un altro Paese non solo è necessaria una trattativa commerciale, ma sono necessaria anche delle regole della logistica, criteri di logistica definiti per portare il gas dove serve. E qui le regole in comune erano importantissime: regole diverse nei vari Paesi vuol dire ostacolare il cosiddetto passaggio delle merci, tutto sommato. L’azione che noi abbiamo cercato di fare è di lavorare, come di solito l’Italia riesce a fare quando vuole riprendersi, di fare sistema. Abbiamo lavorato in accordo con chi doveva prendere decisioni politiche, abbiamo lavorato in accordo col regolatore, ma abbiamo fatto da funzione dell’operatore, cercando di capire come poteva ripartire il Paese a livello di investimenti, creando anche valore per gli azionisti. Il nostro obiettivo è comunque quello di creare valore per gli azionisti, altrimenti ci verrebbero a mancare anche i finanziamenti che ci danno i nostri azionisti, per cui non possiamo perderli assolutamente. Questo coordinamento vuol dire in poche parole una maggiore integrazione a livello europeo, che si è riusciti a raggiungere in due anni, perché c’era già un’infrastruttura.
Questo vuole dire leggere il costo dell’energia, il costo dell’impatto energetico delle imprese, con un’ottica un po’ diversa, chiaramente facendo le valutazioni degli investimenti. Non bisogna partire con una programmazione non valutando cosa vuol dire fare gli investimenti, non valutando cosa vuol dire l’impatto sulla bolletta dei cittadini di questi investimenti. Sono tutte valutazioni che non possono essere fatte solo da operatori indipendenti, ma devono essere fatte da funzioni che siano regolatorie, politiche a livello europeo. Questo è l’approccio che abbiamo cercato di costruire in questi due o tre anni.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Questo forse è un tema che è stato accennato da Ibarra, cioè il coordinamento tra sistema industriale e sistema politico, sistema delle authorities. Ma lo riprenderemo. Francesco Starace, dal 22 maggio Amministratore Delegato e Direttore Generale di Enel. Ha lavorato in General Electrics, ABB, ALSTOM e dal 2000 è in Enel, dedicato a Green Power. E lì parte la mia domanda: in gran parte lo sviluppo ecologico, di rispetto dell’ambiente, viene considerato un costo, un peso, una concessione della quale non possiamo fare a meno. In che modo l’ecologia, l’ambiente, possono diventare invece fattori di sviluppo, possono creare crescita?
FRANCESCO STARACE:
È vero che se uno va nella "terra dei fuochi" vede che cosa vuol dire fisicamente il concetto “l’ambiente è un costo”, perché per ridurre il costo, si è sviluppato un mostro, che è quello che abbiamo adesso nelle zone della Campania. Un atteggiamento del genere non ha senso, va combattuto, è assolutamente perdente, nel senso che comunque nella collettività si accumulano costi colossali. Adesso per mettere a posto il disastro che è stato combinato nella "terra dei fuochi", se mai sarà possibile, si pagherà molto di più di quanto si sarebbe dovuto pagare per smaltire i rifiuti come si dovevano smaltire in partenza. È una questione di civiltà, di attenzione, di cultura, ma in realtà di attenzione ai conti. Noi abbiamo visto in Italia negli ultimi dieci anni un grande cambiamento, bisogna dirlo: c’è molta più attenzione a certi fenomeni dell’ambiente di quanta ce ne fosse prima.
Si è anche andati in qualche eccesso, ma io ritengo che il Paese in cui viviamo è così bello e così densamente popolato che non c’è una via diversa, bisogna stare molto attenti. Questo è un costo? Non necessariamente, ci sono ormai, dal punto di vista delle tecnologie, grandissime combinazioni possibili per creare valore nel tema del rispetto dell’ambiente. Lo abbiamo visto tutte le volte che abbiamo cominciato a guardare con attenzione quello che significa l’impatto sull’ambiente delle infrastrutture, ridurre le emissioni delle nostre centrali, lavorare affinché le popolazioni che vivono intorno alle infrastrutture che esistono siano tranquille che il massimo della tecnologia è disponibile ed è impiegato in quella località. È questo, da solo, sufficiente per fare uscire l’Italia dalla situazione di crisi? Certamente no. Io penso che l’Italia abbia davanti due possibilità, due leve: una leva interna, cioè cosa può fare l’Italia sull’Italia per uscire dalla crisi, e una leva esterna, che grazie a Dio esiste, cioè che cosa deve fare l’Italia per approfittare di quello che il mondo richiede.
Noi abbiamo un’economia più grande del Paese che siamo. L’Italia ha un’economia straordinariamente più grande del Paese che è, e certamente non gli italiani con tutti i loro consumi tengono in piedi l’economia italiana. È forte perché serve il mondo, però ci sono delle leve che vanno utilizzate per permettere all’economia italiana di lavorare meglio. Ci sono necessità infrastrutturali colossali: l’Italia è ancora un Paese arretrato da molti punti di vista, nel campo delle infrastrutture. Quindi ben venga un programma come quello di cui si sente parlare, in cui si mettono a disposizioni fondi per un rilancio delle infrastrutture in Italia: è necessario ed è una cosa che migliora la produttività di tutti. Voi sapete cosa è il POS, quella macchinetta che prende la vostra carta di credito e vi permette di pagare. Quante volte succede che il POS non va, e quindi ci vogliono i contanti o bisogna aspettare che vada. E aspettiamo. Poi un giorno voglio chiedere che cosa vuol dire pos ma questo fatto del POS che non va, è un danno alla produttività del commerciante. Poverino, lui deve processare un POS per volta, quindi i clienti stanno aspettando che vada. Moltiplicate i commercianti italiani per le volte che il POS non va, capite che è un danno per tutti quanti. Questo è un tipo di esempio di come le infrastrutture non perfette creano un danno di mancanza di produttività.
Per me, il problema dell’infrastruttura italiana va risolto investendo, l’investimento genera valore e dà possibilità allo sviluppo. E’ anche necessaria una semplificazione amministrativa, perché nel momento in cui un elettricista in proprio a un certo punto preferisce diventare dipendente dell’Enel, guadagna il suo stipendio, però non è che diventa ricco con uno stipendio dell’Enel, e se gli chiedi “ma perché lo fai?”, dice: “Io non ne posso più, non riesco a star dietro agli adempimenti amministrativi con la mia piccola attività di elettricista per cui alla fine io faccio così". E questo è un peccato, non è che dico che sia brutto diventare dipendenti dell’Enel, è una grande società e quindi ben venga, però è un peccato che la gente si senta strangolata da questo atteggiamento complesso che abbiamo. Quindi la semplificazione amministrativa è fondamentale; come anche la leva fiscale, è stato detto prima. Chiaramente paghiamo troppe tasse in questo Paese, è necessario, però i livelli fiscali scoraggiano a stabilire attività produttive in Italia rispetto ad altri Paesi, purtroppo. Infine, e su questo credo che si sia fatto un grande passo avanti, la giustizia è un grande problema per chi vuole investire in Italia: è difficile investire in un Paese in cui non si ha certezza del diritto. Noi lo facciamo quando dobbiamo scegliere i Paesi su cui andare a investire all’estero e su certi Paesi, che avrebbero alcune caratteristiche positive, non investiamo perché non c’è sicurezza del diritto. Anche gli altri fanno lo stesso su di noi. È bene che la giustizia italiana si metta alla pari con il resto delle giustizie europee, e mi pare che si stia lavorando.
Poi c’è, per fortuna, quello che l’Italia può fare fuori dall’Italia. Dico “per fortuna”, perché siamo un po’ meno responsabili, non è che possiamo andare a dire agli altri “crescete!”, però crescono. Ci sono tante parti del mondo che stanno crescendo su cui c’è bisogno di italianità. Qua la cosa che secondo me andrebbe fatta, è questo uno dei motivi per cui mi interessa il Meeting di Rimini, è la coscienza di sé. L’Italia è incosciente di sé, in molti campi. Non sa quanto vale quello che sa fare, e non essendone cosciente, non riesce a utilizzare la sua capacità, perché non sa di averla. Quanto vale quello che sappiamo fare? Dobbiamo rendercene coscienti prima di tutto. Poi bisogna avere il coraggio e la velocità di andare dove questa cosa serve, e la capacità di fare rete, perché andare da soli, come spesso gli italiani sono capaci di fare, alla fine è un po’ limitante.
Un’ultima parola vorrei spenderla sul tema dell’innovazione. È vero che l’Italia è in ritardo, che investe poco in innovazione, che c’è una cultura avversa al rischio e di conseguenza le start-up italiane sono relativamente poche. Non credo che questa sia una cosa che si possa cambiare da un giorno all’altro. Ci sono alcuni esempi che mostrano come anche qua fare rete è utile. In Germania esiste un sistema, si chiama Open Community, in cui grandi, medi, piccoli centri di ricerca sono in rete e si coordinano sui temi di ricerca, per evitare di fare la stessa ricerca tre volte contemporaneamente in isolamento uno dall’altro. In Inghilterra il Governo ha capito questo e hanno creato un sistema che hanno chiamato Catapult. Hanno creato un coacervo di centri di ricerca coordinati tra di loro. Perché dico questo? Purtroppo a noi spesso vengono a chiedere: “Siccome dobbiamo riqualificare questa fabbrica, questo edificio, mettiamoci un centro di ricerca sull’energia”. Non è che i centri di ricerca si fanno per riqualificare gli edifici, si fanno perché serve la ricerca.
Qual è la ricerca che serve? Quella che non sta già facendo qualcun altro. Se non si ha fiducia che lui sia bravo si dice: “Smetti, ti taglio i fondi e lo fa questo signore che è più bravo di te”. Questo non si fa. Sulla ricerca e innovazione in Italia forse sarebbe utile partire copiando quello che hanno fatto gli altri, umilmente, dicendo “intanto mi metto alla pari con quello che succede altrove, e da lì in poi vedo se il mio genio mi permette chissà quali innovazioni”. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Federico Golla ha accennato all’inizio del suo intervento al fatto che l’Europa deve muoversi insieme, tra l’altro l’Europa ha deciso, rispetto al declino industriale, che nel 2020 il 20% del PIL europeo deve essere industriale. Quindi questa è una prospettiva europea. Cosa deve fare l’Europa, visto che Siemens è presente anche in mezzo a tutti i Paesi europei? Cosa deve fare l’Italia all’interno dell’Europa proprio per il rilancio industriale di cui oggettivamente abbiamo bisogno?
FEDERICO GOLLA:
Nell’ordine deve fare tre cose: prima cosa, riportare la capacità produttiva sul territorio europeo. L’America insegna, l’amministrazione attuale ha fatto dei forti investimenti per riportare il manifatturiero sul territorio nazionale. Quindi l’epoca della fuga all’estero di capacità produttive deve essere fermata. Ovviamente non si può riportare la produzione in Europa alle condizioni attuali, perché sarebbe antieconomico e forse anche antistorico. E quindi bisogna reinventarsi il sistema di fare manufatti, il sistema di fare industria. Probabilmente molti di voi avete sentito parlare dell’Industry 4.0, la quarta generazione delle fabbriche. E’ l’evoluzione dell’era dell’automazione con un distinguo che è cruciale e fondamentale che è quello del tempo. Vi do due dati per darvi l’idea di come le capacità produttive si sono evolute lentamente nel corso dei secoli e come adesso sia esattamente il contrario. Nel 1784 inizia l’era della produzione legata all’acqua e al vapore. Quindi l’industria britannica, l’industria genovese, nel 1784 comincia a produrre. 1870, quindi un secolo dopo, da Industry 1.0 a Industry 2.0: è servito un secolo. E’ iniziata l’era dell’energia elettrica, la prima fabbrica a Cincinnati, negli Stati Uniti sorge nel 1870. 1969, altri 100 anni dopo si comincia la tecnica dell’automazione, il PLC, la programmazione, quindi si passa dalle catene di montaggio a una forte componente tecnica. Il quarto step è quello dell’Industry 4.0 – sono certo che non durerà 100 anni, durerà probabilmente dieci anni – ed è l’era della cibernetica, quindi dei sistemi di azione e controllo. Dico questo perché è esattamente la ricerca tecnologica per riportare la manifattura sul territorio europeo e per continuare a competere e sviluppare.
Questo è il primo tema. Il secondo tema è quello della ricerca e sviluppo. Condivido pienamente lo statement di Starace sulla riconversione del building in centri di ricerca e sviluppo. L’Italia sulla carta è piena di parchi tecnologici, in realtà non producono quasi nulla perché nascono appunto dall’esigenza di riqualificare un’area, di recuperare un building vecchio, che tra monopoli di stato, manifatture, varie fabbriche di edilizia industriale, questa è un’opportunità, però non è quella che serve. La cultura della ricerca e sviluppo è una cultura di rete, è una cultura di fare quello che gli altri non fanno, perché non si può competere nella ricerca e sviluppo. La competizione nella ricerca e sviluppo si chiama innovazione, quindi la rete è fondamentale e fondamentale è il sistema universitario. Purtroppo in Italia – questa è un’esperienza personale, ma penso sia condivisibile – molti centri universitari non sono attrezzati, fanno didattica ma non sono attrezzati alla gestione della ricerca e sviluppo assieme all’industria. La Germania lo è, il Regno Unito lo è. Quindi abbiamo bisogno anche che il sistema universitario si adegui.
Qualche esempio positivo: cito il Politecnico di Milano, di Torino, cito la Bocconi sugli aspetti economici, per qualche esempio positivo di ricerca combinata con il mondo dell’industria. Quindi reindustrializzazione, rete di ricerca e sviluppo e per ultimo le start-up, quindi la capacità di cavalcare e sviluppare quei picchi di innovazione che inizialmente non trovano casa nella grande industria, ma che devono crescere e svilupparsi con le loro gambe. Quindi per ultimo le start-up, aiutando queste piccole aziende a crescere con capitale di rischio, con il supporto nostro, delle grandi aziende e con il supporto delle università. Tutto il resto, come si diceva un tempo, è poesia. Io credo che si possa e si debba imparare, perché gli errori che vediamo sul territorio sono errori evidenti. In Italia e in Europa il rilancio passa dal ritorno industriale e dagli investimenti in infrastrutture che non sono, come erroneamente qualcuno interpreta, dei sostegni all’industria, ma sono dei necessari sostegni alla modernizzazione. E quando parlo di infrastrutture parlo di strade, di autostrade, di aeroporti, di porti, di logistica, di acqua, di elettricità, di ICT, quindi sono investimenti di cui l’Europa ha drammaticamente bisogno per non perdere probabilmente l’ultimo treno di ritorno allo sviluppo industriale.
BERNHARD SCHOLZ:
Maximo Ibarra ha parlato di formazione. Certamente occorre – il filmato che abbiamo visto lo presenta molto bene – un’educazione della persona che sappia dare il giusto peso alle cose, che sappia riconoscere i valori nella loro portata, che eviti anche idolatrie della tecnologia dei mezzi di comunicazione. Però ci vuole anche formazione. Di quale tipo di formazione abbiamo bisogno oggi? Essendo lei il più giovane tra di noi, di che formazione abbiamo bisogno per poter affrontare le sfide di cui abbiamo sentito oggi, sia dal punto di vista delle competenze tecniche e professionali, sia dal punto di vista delle capacità manageriali?
MAXIMO IBARRA:
Forse è la domanda che preferisco. Perché poi alla fine io penso che abbiamo toccato un po’ tutti gli argomenti, credo che poi tutti alla fine convergono sull’elemento chiave che è quello di provare a fare leva sulla persona. Quindi l’italiano. Facciamo un attimo un ragionamento di questo tipo. Intanto l’Italia è un Paese baciato dalla fortuna perché produce una materia prima che sarà altamente differenziata e che darà un vantaggio competitivo enorme e che si chiama “il bello”. L’Italia produce la materia prima che si chiama “Bellezza”. E oltre ad essere stati baciati dalla fortuna, c’è anche un’altra fortuna, la seconda, che ora, non so per quale motivo, non sono né un antropologo e sicuramente non ho fatto gli studi necessari per capirlo, però c’è ed è questo elemento di creatività, di flessibilità, di capacità di sapersi adattare dell’italiano medio, che certe volte magari fa un po’ deragliare verso la non-disciplina, verso il non rispetto, verso qualcosa che sicuramente non va bene, ma quando è ben veicolato diventa sicuramente un asset, un asset strategico su cui poi fare assolutamente leva.
Se si mettono assieme questi due elementi e si parla di formazione, direi che c’è un aspetto in particolare su cui occorre interrogarsi. Noi oggi abbiamo un tasso di disoccupazione che, secondo le dichiarazioni ufficiali dell’Istat, oscilla intorno al 12-13%, molto alto, e il tasso di disoccupazione reale è ancora più alto. Poi parliamo di disoccupazione giovanile che è altissima, penso che stia toccando il 40-42%, ed è un fenomeno allarmante, molto pericoloso, perché veramente questo toglie qualsiasi speranza per chi si affaccia sul mondo del lavoro. Quindi la domanda cruciale è: al mondo del lavoro che tipo di formazione serve? Ancora una volta, prima dobbiamo decidere di nuovo il percorso che questo Paese deve compiere, perché è sicuramente qualcosa che sa e saprà condizionare molto bene il tipo di formazione che dovrà esserci, perché se dobbiamo sfruttare il bello, dobbiamo creare una formazione che sia capace di utilizzarlo, che sia capace di farla fruttare. Posso fare degli esempi estremamente pratici. Sicuramente il mondo digitale orientato ad esempio al turismo è qualcosa di cui si parla pochissimo.
Provate a immaginare un’applicazione tipo la “Airbnb”, che molti di voi conoscono, ma molti sicuramente no. Per quale motivo non può nascere in Italia, visto che comunque è il Paese che offre dal punto di vista della risorsa turistica forse più cose rispetto alle altre? Quindi anche le start-up, anche le economie digitali, anche l’app economy, potrebbe avere sicuramente un terreno fertile in Italia, perché la materia prima esiste già, quella su cui poter fare leva per poter sfruttare poi una crescita anche dello sviluppo economico. Quindi, come dicevo prima, il digitale deve essere sicuramente trasversale e cross, non si può andare avanti se nelle università non si insegnano le nuove tecnologie digitali.
Come si lavora sui social network, la comunicazione, come Internet saprà condizionare tutti i meccanismi, tutti i processi produttivi del futuro, l’hai citato anche tu. Quando si parla anche di produzione di manifattura e noi ci domandiamo cosa sarà la manifattura fra 10-20 anni, capiremo che sarà una cosa radicalmente diversa rispetto a quello che abbiamo oggi. Anche le stampanti 3D, ci sono molteplici esempi, molto frammentati, purtroppo. Poi, ovviamente formazione: l’inglese. Una cosa che dico a qualsiasi persona di qualsiasi età, prevalentemente giovane, è che siccome viviamo in un Paese che produce il bello, dove le persone vengono perché c’è il bello, non è accettabile che l’inglese non si conosca.
Lo dovremmo sapere come la tabellina del due, del tre o del quattro e questo però nelle scuole non si insegna e se si insegna, si insegna male. Nelle università addirittura dovrebbe esserci la possibilità di laurearsi soltanto se si supera uno degli esami che abilita al tema dell’inglese, a livello molto più sofisticato, tipo il proficiency o qualsiasi altro tipo di esame. L’importante è che le persone lo conoscano, perché oggi si parla l’inglese in ogni parte del mondo, è globalizzato il mondo di oggi, non è soltanto un mondo italiano. Poi esiste anche la ricerca per quanto riguarda il tema dello sviluppo sostenibile, un tema, un top come si dice in inglese, che potrebbe fruttare sviluppo praticamente illimitato.
Non è accettabile che in Italia che produce il bello e che ha il bello, ci sia ancora la necessità di installare dei depuratori. Lega ambiente fa il giro dell’Italia ogni anno e scopre che chilometri e chilometri di costa sono praticamente nel mezzo della sporcizia più gigantesca. Non è accettabile che le nostre città più importanti siano nell’ambito di un deterioramento costante dal punto di vista anche delle regole base della convivenza civile. Quindi formazione digitale, la lingua inglese e sicuramente cominciare anche a parlare di quelle che sono le scienze del futuro, quindi cominciare a toccare con mano la nuova tecnologia, le neuroscienze, le biotecnologie; bisogna cominciare a parlare ai giovani il linguaggio del mondo di oggi e non il linguaggio del mondo di dieci anni fa. Noi invece spesso parliamo ai giovani il linguaggio di venti anni fa. Anche il modo in cui facciamo gli esami, gli appelli, spesso i ragazzi devono registrare il proprio voto in modalità cartacea, che è qualcosa di assolutamente incomprensibile. Bisogna adeguare anche il modo in cui questa formazione viene erogata, perché è lì che passa anche un altro aspetto fondamentale che è l’educazione della persona. Si parla di cultura, di valori, bisogna insegnarli nelle scuole, quindi anche una regola base come non si butta la carta per terra, non si sporca, sono dei concetti basici, l’a b c che per un Paese che produce il bello dovrebbero diventare sostanzialmente l’aspetto più ricorrente, ripetuto e insegnato. Una formazione che deve adattarsi a quelle che sono le nuove materie, ce ne sono tante, cercando di parlare un linguaggio più moderno anche nel modo in cui questa formazione viene erogata. Sicuramente il digitale è come la grammatica e la matematica, per cui si deve insegnare assolutamente, la lingua inglese è lo strumento, la base che i ragazzi devono imparare immediatamente altrimenti restano fuori dal mercato del lavoro molto più di quanto non si possa credere. Grazie mille.
BERNHARD SCHOLZ:
A proposito di bellezza che lei ha citato, c’è uno studio di un libro che si chiama Competitiveness of Nations, che studia perché l’Italia ha queste caratteristiche. Evidentemente la risposta non è esauriente, ma un aspetto interessante è che l’Italia è un museo all’aria aperta, in Italia è difficile fare cinque metri senza vedere qualcosa di bello o dal punto di vista culturale o dal punto di vista naturale e questo è una educazione implicita che noi apprendiamo giorno per giorno senza esserne molto coscienti, a proposito del fatto che l’Italia non è molto cosciente di quello che vive. C’è una certa superficialità con la quale noi diamo per scontato che abbiamo romanico, gotico, che abbiamo tutto. Altri Paesi, per avere una chiesa che noi abbiamo in un paese sperdutissimo, fanno cataloghi e viaggi. Torniamo sull’Europa, è evidente che il settore dell’energia è di fortissimi interessi contrastanti, di grandissime negoziazioni molto difficili e complicate. Ma l’Europa, la famosa politica europea dell’energia, è una cosa possibile o rimane un sogno?
CARLO MALACARNE:
Non deve rimanere un sogno, ci sono tutte le premesse, per quanto riguarda il settore dell’energia. Vi do solo qualche numero per capire un attimo. In Europa servono delle reti energetiche per 200 miliardi di investimenti, con dei ritorni, con riduzioni di costo energetico intorno ai 40 miliardi. Sono numeri grandissimi, non possiamo come Italia rimanerne fuori, stare a guardare. In Italia investiamo 1 miliardo e tre, 1 miliardo e quattro solo nelle infrastrutture del gas, questo vuol dire creare posti di lavoro, creare competitività. Solo per darvi un numero per capire: facciamo 1630 contratti all’anno di costruzione, di cui il circa 70% con piccole e medie imprese, ma questi non sono investimenti fine a se stessi, sono nell’ottica di un obiettivo europeo.
Cosa occorre per realizzarli? Io penso sinceramente che non si possa più vedere energia e ambiente come termini antitetici. Finora energia e ambiente sono stati citati come termini antitetici; allora chi fa la politica energetica, chi fa la politica ambientale, chi fa la politica di sviluppo economico deve agire coordinato. Non voglio dare suggerimenti politici, non è il mio compito, non sono neanche in grado, ma le scelte del Regno Unito e della Francia di creare un unico Gabinetto di ambiente ed energia, sono un esempio di qualcosa che non può essere trattato, pianificato, senza tener conto di un aspetto coordinato di energia e ambiente. Forse dobbiamo anche in Italia partire ripensando un discorso di questo tipo, magari anche le autorizzazioni si riescono ad ottenere più facilmente, magari l’industria dell’estrazione che vede l’Italia come terzo Paese in Europa come riserve di petrolio, forse potrebbe essere anche ripresa con un approccio coordinato. Questo non vuol dire non valutare gli impatti ambientali, vuol dire valutare il come affrontare gli impatti ambientali.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Con Francesco Starace vorrei riprendere un aspetto che riguarda il mondo. Enel è presente in molti Paesi del mondo, come è possibile allora che l’Italia rimanga aperta al mondo? Anzi investa anche in altre parti del mondo senza che questo diventi un effetto boomerang di cui parlato Golla, cioè una delocalizzazione? Allora la domanda è: è possibile lavorare con il mondo in termini di partnership, di equilibrio, che porti anche all’Italia beneficio, senza che diventi un impoverimento dell’Italia stessa?
FRANCESCO STARACE:
Sì, l’Italia vive di questo, quindi chiaramente la risposta implicita è che oggi se l’Italia è ancora in piedi è perché il mondo ha richiesto all’Italia un sacco di lavoro e un sacco di prodotti. Ci sono tante parti del mondo in cui stanno succedendo le cose che sono successe da noi prima, ci sono degli sviluppi che sono avvenuti da noi dieci anni fa, venti anni fa, cento anni fa, in cui si sviluppano dinamiche che abbiamo già attraversato e sulle quali ci siamo già scontrati e ci sono problemi che in qualche parte abbiamo anche risolto. In un certo senso andare nel mondo, a patto di saperlo, esserne coscienti, è come viaggiare nel tempo. Uno sa già che in quel Paese, in virtù delle decisioni che stanno prendendo, succederà quella e quella cosa e che alla fine davanti all’economia e ai fenomeni macroeconomici, tutti i Paesi sono uguali, non c’è questa grande differenza e dato che in Italia siamo per di più in Europa, abbiamo anche imparato a vivere con la complessità che altri non hanno.
L’Europa è una gran cosa, ma anche abbastanza complicata da gestire quindi se siamo italiani e abbiamo coscienza delle nostre capacità dobbiamo andare a vedere quei posti al mondo dove quelle capacità saranno necessarie o sono necessarie e di corsa andarci. E’ importantissimo capire che questa cosa continuerà a cambiare, non c’è un posto, il Sudafrica, che per cinquanta anni avrà bisogno dell’Italia, no, ma in questo momento il Sudafrica ha bisogno di energia e quindi noi siamo andati e abbiamo portato grandi aziende italiane con noi e abbiamo dimostrato, perché siamo stati di gran lunga quelli che hanno avuto più successo, che l’Italia se vuole può essere competitiva in un posto assolutamente mai frequentato prima. Il tema è avere questa sensibilità di quello che noi sappiamo fare e dove nel mondo in questo momento o nei prossimi cinque anni, questa cosa è importante, sapendo che poi cambierà.
Questo viaggio nel tempo è importante, forse non ne siamo coscienti, lo dico perché mi occupo di energia da tanto tempo e l’Italia dal punto di vista dell’elettricità è uno dei Paesi più avanzati al mondo. Noi viviamo nel futuro dell’elettricità in Italia senza saperlo. Molti Paesi stanno cercando di diventare quello che siamo diventati noi, se guardate il programma che la Germania sta mettendo in atto e siccome loro sono bravi, lo fanno, fra dodici anni, il sistema tedesco avrà un mix di produzione energetica molto simile a quello italiano, avrà completamente digitalizzato la rete come noi abbiamo già digitalizzato, avrà una grande parte di generazione distribuita come l’Italia ha già, e quindi sarà molto simile all’Italia. A noi che ce ne frega, siamo già perfetti? Beh non è così, perché in realtà questa trasformazione la Germania la sta perseguendo perché ha capito che è stata una buona idea, il fatto che l’Italia ci sia arrivata per caso fa parte dello stellone. Ora però utilizziamolo perché altre parti del mondo faranno la stessa cosa, quindi questa capacità teniamocela stretta che dobbiamo sfruttarla al meglio.
BERNHARD SCHOLZ:
Che l’Italia ci sia arrivata è la conferma di ciò che ha detto Maximo, quella famosa creatività e flessibilità di reagire in tempi brevi a sfide anche enormi. Speriamo che questa capacità rimanga e si sviluppi. Io ringrazio voi, spero che sia stato un incontro in cui certamente non si è detto cosa dobbiamo fare, non stati incontri di istruzioni per l’uso ma ci è stato detto in quale contesto ci muoviamo, decidiamo, quali sono le possibili prospettive, le tante potenzialità che abbiamo, superiori a quello che finora pensavamo. Grazie e buona giornata.