LA SCUOLA SI RACCONTA. NUOVI LINGUAGGI PER UN DIALOGO CON I GIOVANI

In diretta su Avvenire

Tommaso Agasisti, Politecnico Milano; Daniela Notarbartolo, Formatrice; Roberto Ricci, Presidente INVALSI; Marcello Tempesta, Docente di pedagogia, Università del Salento. Modera Carlo Di Michele, Presidente Diesse.

L’incontro, a partire dalla presentazione di alcune esperienze didattiche di docenti che propongono un approccio innovativo all’insegnamento, sarà occasione per riflettere su cosa permette oggi di mobilitare i ragazzi, di accendere la curiosità di conoscere ed imparare, di sviluppare non solo conoscenze disciplinari, ma anche competenze personali, anche in contesti complessi e sfidanti, senza attendere riforme dall’alto o arrendersi alla cultura del lamento.

Con il sostegno di Regione Emilia-Romagna, Avvenire e Centro Sportivo Italiano.

LA SCUOLA SI RACCONTA. NUOVI LINGUAGGI PER UN DIALOGO CON I GIOVANI

LA SCUOLA SI RACCONTA. NUOVI LINGUAGGI PER UN DIALOGO CON I GIOVANI

 

Martedì, 22 agosto 2023 ore: 13.00

Sala Neri Generali-Cattolica

 

Partecipano

Tommaso Agasisti, Politecnico Milano; Daniela Notarbartolo, Formatrice; Roberto Ricci, Presidente INVALSI; Marcello Tempesta, Docente di pedagogia, Università del Salento. Introduce Carlo Di Michele, Presidente Diesse.

 

Moderatore

Carlo Di Michele, Presidente Diesse.

 

Di Michele. Buongiorno a tutti, benvenuti a questo incontro, un saluto a chi è presente in sala, a chi ci ascolta in remoto, o che ci ascolterà anche nei prossimi giorni, e un benvenuto anche ai nostri graditissimi ospiti. Il tema della scuola e dell’educazione è sempre stato al centro del Meeting, da sempre, non poteva non esserlo quest’anno, un anno in cui il tema del Meeting è quello dell’amicizia, perché l’educazione in fondo che cos’è se non una grande amicizia tra generazioni. La generazione degli adulti che trasmette, comunica, coinvolge i giovani nell’avventura del futuro, per cui è un tema centrale perfettamente dentro il filo rosso del Meeting di quest’anno. Noi abbiamo intitolato questo incontro “nuovi linguaggi” perché questo dialogo tra generazioni non è sempre semplice, abbiamo visto anche in questi giorni alcune polemiche che quasi segnalano una difficoltà, se non una impossibilità di questo dialogo. Noi invece vogliamo mostrare, attraverso le testimonianze di questa mattina e dei nostri graditissimi ospiti, che questo dialogo è possibile, che questa amicizia è possibile, è possibile dentro la scuola nelle condizioni attuali date, senza aspettare cambiamenti dal basso, e quindi fondamentalmente tutto questo nasce da persone che si mettono in gioco, perché questo dialogo è difficile, vanno cercati nuovi linguaggi e nuove forme, ma attraverso queste nuove modalità comunque si può raggiungere il cuore dei ragazzi, metterli in moto, come sentiremo oggi. L’incontro di oggi ha numerosi ospiti proprio perché la ricchezza della scuola, perché la scuola è ricca, e quindi abbiamo voluto dare uno spaccato il più ampio possibile di questa ricchezza che c’è dentro la scuola italiana. Iniziamo subito con cinque brevi testimonianze di insegnanti che nei diversi ordini di scuola si sono messi in gioco, li presenterò rapidamente. Abbiamo chiesto a tutti i nostri ospiti di condensare il proprio racconto in pochissimi minuti proprio per dare più spazio a questa ricchezza. Quindi ovviamente questo incontro non ha il carattere del seminario, del convegno, ma è proprio un dialogo. Abbiamo qui con noi, ve li presento in ordine di grado di scuola, abbiamo Antonella Crostelli che è maestra di una scuola, di un Istituto Comprensivo di Ostra, Rosaria di Gaetano che insegna italiano in un Istituto Comprensivo a Sorisole in provincia di Bergamo, Roberta Mercorio insegna matematica in una Scuola Media di Milano, Pino Suriano insegna invece lettere a Policoro in Basilicata e Gabriele Lanfranchi filosofia a Seregno. Quindi uno spaccato anche del nostro territorio. Inizierei subito con Antonella Crostelli a cui do la parola.

 

Crostelli. Benissimo, io leggerò per essere sintetica per tenermi entro i cinque minuti. Quando si parla di approccio innovativo si pensa immediatamente alle nuove strategie e tecnologie didattiche utilizzate dai docenti per facilitare l’apprendimento degli studenti in maniera efficace ed efficiente. Ma c’è un aspetto che secondo me viene prima, le precede, e che rende l’innovazione sistematica e in continuo movimento. Mi sono trovata ad insegnare matematica nella scuola primaria avendo fatto però negli studi un percorso prettamente umanistico e con brutti ricordi nei confronti di questa disciplina. La matematica mi è sempre stata proposta solo come un insieme di regole a cui io mio sentivo estranea, regole già fatte, rigide e non legate ad esperienze significative concrete e creative, insomma lontano da tutto ciò che io ero. Quindi sono stata costretta a guardare e rubare metodi e idee, a cercare una collaborazione sistematica e non occasionale con chi condivideva con me la scuola e la materia. In particolare con la compagnia delle colleghe della Bottega dell’Insegnare di Diesse, ho iniziato a crescere professionalmente e a capire la matematica man mano che la affrontavo con i miei bambini. Nella scuola italiana “quando chiudo la porta in classe faccio ciò che voglio” non è solo un modo di dire ma spesso è un modo di fare, e condividere non è per nulla scontato. Ci si scambia il materiale, si programma insieme, ma si fa fatica a mettersi in discussione, a sperimentare unitamente o a condividere sia i propri errori che le proprie scoperte, come un’opportunità di crescita per tutti, permane una sorta di gelosia del proprio mestiere, di ciò che si impara ciclo dopo ciclo, e facilmente ci si arrocca dietro al già saputo. Invece in questi anni per me la condivisione e la collaborazione sono diventate un metodo di lavoro e quindi ho cominciato a stimare me, ciò che intuivo, sperimentavo e interpretavo, superando il pregiudizio della staticità e rigidità della materia. Stimare i tentativi e le intuizioni dei miei alunni è stata una conseguenza naturale di ciò che vivevo tra insegnanti, scorgendo una originalità del tutto personale nell’affronto della realtà, che mi stupisce e mi commuove sempre, mi fa percepire l’unicità e l’irripetibilità di ogni alunno. Anche le tecniche più famose come la didattica laboratoriale, problem solving, storytelling, cooperative learning, cioè quelle che sono proposte ai bambini, sono diventati un prolungamento di quanto vivo personalmente nella compagnia di educatori, e ciò che rende quindi vivace la matematica in classe è la conseguenza di un vivace lavoro tra adulti. Ad esempio creare un problema, discutere della validità dei contenuti, capire a quali obiettivi formativi essenziali è legato, riflettere sugli aspetti linguistici, creare materiale giocoso di supporto, ti permette poi di porre un problema in classe in modo del tutto diverso, di far discutere i bambini, ascoltare la loro riflessione, spesso imprevedibile e ricca di spunti, invitarli a confrontare nel gruppo le loro idee, ad argomentare i ragionamenti che hanno seguito per arrivare alla risposta, e, appena lo si scorge, si riallacciano tutte le questioni matematiche con la realtà. Ho imparato a valorizzare gli errori degli alunni, quando uno commette uno sbaglio che lo porta ad una soluzione errata insieme cerchiamo di comprendere quale tipo di ragionamento lo ha portato a quell’errore. Così ci si sente importanti, si impara ad apprezzare il modo di vedere dell’altro, si coltiva il coraggio di fronte agli ostacoli, e si passa da un apprendimento puramente meccanico e tecnico, a quello significativo e creativo, che è capace di mobilitare interessi vitali e la partecipazione attiva di ciascuno. Per questioni di tempo racconto solo un’esperienza che ho fatto alla fine di quest’anno scolastico. Per vari motivi didattici, abbiamo proposto ai bambini la costruzione di un plastico di una grande città utilizzando scatole di ogni tipo, materiale di riciclo, e ci siamo fermati di fronte a un fantastico Centro Commerciale che aveva costruito un bambino con tanto di parcheggio sul tetto, da qui l’idea di dargli vita. Abbiamo iniziato a giocare ai commercianti realizzando negozi e ristoranti sui banchi di scuola, i miei cinque fantastici bambini indiani, che sono inseparabili, hanno allestito un ristorante etnico. Per presentare alla classe il menu hanno ricercato alcuni piatti tipici che conoscevano su Internet, mostrando a tutti le immagini e gli ingredienti. Non contenti li hanno fatti poi cucinare alle loro mamme, li hanno portati a scuola, non si può dire ma li abbiamo assaggiati, e riprodotti poi in formato cartaceo. È stato un momento inclusivo e di grande protagonismo che li ha gratificati tanto e ci ha permesso di interagire con le mamme che non vediamo quasi mai. In aula l’odore del curry è durato anche più di una settimana. E dopo aver costruito, colorato, ritagliato, riflettuto, organizzato e provato insieme, è arrivato il momento di invitare maestre e alunni delle altre classi a visitare il nostro Centro Commerciale e a fare la spesa. Affinché potessero fare acquisti abbiamo anche ideato una sorta di banca dove gli acquirenti potevano ritirare i soldi, anche se totalmente artigianali. Potevi andare dall’estetista con 1 € o comprarti un gelato alla modica cifra di 25 €, in ogni caso hanno dovuto fare i conti, sommare e dare il resto, e imitare i grandi. Qualche settimana dopo invece ci siamo recati ad un Centro Commerciale, abbiamo visto tutte le somiglianze e anche le differenze, anche sui prezzi, se quanto avevano stimato era effettivamente ciò che loro immaginavano, dopodiché gli abbiamo fatto fare anche l’esperienza del cliente, gli abbiamo dato 2 € e ognuno doveva comprare una merenda. Potete solo immaginare quando la commessa si è vista 29 bambini e ad ognuno doveva dare il resto, spicciettini, e tutti controllavano, ogni bambino ha controllato se il resto era quello giusto. E poi da qui sono iniziate tante altre iniziative, vedere quali erano la frequenza delle merende che i bambini avevano scelto, la maggiore frequenza, abbiamo fatto della statistica. Finisco dicendo che in questi anni ho potuto appurare che tutte queste attività permettono di aprirsi alla realtà e di abituare i bambini a guardare ciò che accade e il lavoro. Quindi la realtà diventa tutta positiva perché è alleata con tutto, con ciò che accade e anche con l’errore, e quindi a un certo punto ci si accorge che l’attenzione allo sviluppo dell’osservare, del definire, del ragionare e del creare, è sia per gli educatori che per gli educandi.

 

Di Michele. Grazie. Allora, il primo intervento, la ringrazio, come vedete cinque minuti sono veramente un tempo strettissimo, chiedo quindi agli altri nostri ospiti di rispettare quello che ci siamo detti, prego Rosaria di Gaetano, Sorisole.

 

Di Gaetano. Grazie. Io racconto brevissimamente la circostanza provvidenziale che mi è venuta incontro in questi ultimi anni. Società complessa, difficoltà grande dei ragazzi, vulnerabilità, smarrimento. Nel 2017 mi è accaduto di essere invitata dalla preside, Rita Fumagalli, a Barbiana per i cinquant’anni dalla morte di Don Milani. Molto lusingata dell’invito mi sono ritrovata inaspettatamente a incontrare un ex allievo dello stesso Don Milani, Edoardo Martinelli, che ha accettato di avviare i nostri laboratori di scrittura collettiva in classe. Quindi è venuto a Sorisole, provincia di Bergamo, e ha avviato questi laboratori. Quello che voglio raccontare e condividere con voi è il cambiamento totale del mio modo di entrare in classe al mattino, di vivere il protagonismo degli studenti, imparando insieme a loro. Erano anni, forse più di dieci, che mi domandavo come potevo essere rigenerata, come potevo davvero essere generata e rigenerata entrando in classe, imparare con loro, e mi sono lasciata proprio vincere, superare dal sospetto di poter essere educata insieme a loro. Don Milani parla di umile tecnica della scrittura collettiva, questo umile mi commuove, ogni volta mi fa vibrare, perché riconosco in questo aggettivo la possibilità di vivere e incontrarci in un crocevia: io nel capovolgimento totale del mio ruolo di insegnante, che scende da cavallo, ferisce e si lascia ferire, quindi la mia impotenza, la mia fragilità, e i ragazzi quella sete profonda di incontrare un motivo per venire a scuola, una motivazione per imparare, per scoprire fino agli orizzonti più lontani quello che gli viene proposto ogni mattina. E così è cominciata l’avventura, sono quasi sei anni. Nel 2022, nel giugno 2022 questa esperienza ha assunto una forma di rete nazionale, siamo dodici/ tredici scuole al momento, ci sono anche altri ingressi sulla soglia, e insieme a noi c’è anche una scuola a Santa Fè, in Argentina, che segue questo metodo. Una vera e propria comunità di apprendimento in cui si impara, in cui ci si forma, si riflette, si guarda, laboratori in classe aperti agli osservatori, e questo dà la possibilità a me insegnante di continuare ad imparare, di capire, di entrare dentro queste pieghe, a volte scomode dei ragazzi che abbiamo davanti. Perché la cosa sconvolgente sia per quanto riguarda gli alunni, che per quanto riguarda i nostri figli, penso di leggere il cuore di tutti, è che tante volte questi ragazzi noi non li conosciamo. Racconto brevissimamente l’esordio di questa avventura, quando una mattina in una prima media abbiamo trovato tantissimi banchi forati con fori grandi, nessuno era disposto ad ammettere la sua colpa e a ragionare sui motivi per cui l’avessero fatto. Mi è venuta spontanea una domanda, Edoardo Martinelli era appena partito a conclusione del suo laboratorio, ho chiesto loro ma che cosa vorreste scrivere e loro hanno risposto in una maniera veramente per me sorprendente, vogliamo scrivere una storia di classe perché le storie generano identità. E dentro questo lavoro di stretta aderenza tra parola e pensiero, in cui per Don Milani la parola balla sulla linea del tempo, inventa storie, parte dalla sua etimologia, è cominciata la loro “confessione”. Scrivendo è venuto fuori che, ragionando e poi scrivendo ovviamente, dibattendo insieme attraverso dialoghi socratici, attraverso quei fogliolini che avete visto in una slide precedente, questi ragazzi hanno ammesso di avere delle fortissime difficoltà come nativi digitali a interloquire coi loro genitori, il loro problema, il problema dei fori nei banchi, era un problema relativo alla relazione. E in questa esperienza notiamo con sempre maggiore entusiasmo, anche sempre maggiore commozione, che sono proprio quelle soft skills, quel primato delle abilità sociali che trionfano durante il lavoro, che prevede un abbandono della lezione frontale e questo capovolgimento del docente che diventa regista, portatore di strumenti, e ha il coraggio e la fiducia in quei cuori, in quelle menti, per cominciare dal basso un percorso e avviare un processo con tutte le esche che loro sono capaci di proporre a noi, quindi uno slalom tra le discipline, da un racconto a una pagina di letteratura, da un’opera d’arte a una canzone rap, eccetera. Volgo alla conclusione, a Barbiana in alto, nella chiesetta sul Monte Giovi, è presente un mosaico fatto di tantissimi tasselli colorati e sono stati gli allievi di Don Milani a Barbiana che hanno costituito questo disegno unitario, unico, pieno di colore, che è stato da Don Milani definito il “santo scolaro”. Grazie.

 

Di Michele. Grazie, grazie. A Roberta Mercorio abbiamo chiesto di raccontare questa esperienza dell’insegnamento della matematica in una scuola difficile di periferia a Milano, vediamo come se l’è cavata.

 

Mercorio. Vado diretta dato che abbiamo poco tempo. Volevo fare solo due piccole premesse prima di raccontare l’episodio. La prima premessa è che io insegno con l’ausilio del digitale, ma non insegno il digitale perché non è minimamente mia competenza, ho tutt’altro titolo di studio. Perché ho deciso di insegnare con il digitale, perché come suggerisce anche il titolo è un linguaggio che ormai è entrato prettamente nelle classi per cui dobbiamo prenderlo in considerazione e, per quanto mi riguarda, valorizzarlo il più possibile. Quindi questa è la prima premessa molto importante, insegno con il digitale. Seconda premessa, quando si insegna con il digitale quello che ho visto io in questi pochi anni di esperienza nell’insegnamento della matematica e scienze, che c’è sempre un rischio, e il rischio è quello di ridurre il tempo di attesa, cioè i ragazzi non attendono più. Faccio un esempio stupido, quando noi premiamo il pulsante della lampadina ci aspettiamo che immediatamente la corrente arrivi, se la corrente non arriva ci poniamo la domanda ma si è rotto qualcosa, fammi andare a vedere perché non si accende la lampadina. E quindi non siamo più abituati ad attendere, e i ragazzi, quello che vedo, è che hanno totalmente un po’ smarrito che nella conoscenza c’è un’attesa inevitabile, e questo è un po’ contrario, non tutela la domanda, soprattutto non la fa sorgere tante volte. Per cui quello che ho visto in questi anni è che quando si insegna con il digitale, intendo con le slide, con l’ausilio di youtube, i podcast, e quant’altro, bisogna sempre tener presente che c’è questo “limite” il tempo di attesa è ridotto. Vi racconto l’episodio e poi traggo una piccola conclusione. L’episodio, appunto come diceva Carlo, da tre anni sono una precaria, quindi ogni anno cambio scuola e in questi tre anni ho cambiato tre scuole, una più difficile dell’altra. Quest’anno mi han dato una prima, e ho fatto anche la coordinatrice della classe prima media, e in questa prima media avevo una quantità molto elevata di stranieri, di prima o seconda generazione, comunque diversi ragazzi che non capivano l’italiano, non lo scrivevano, non lo parlavano. Quindi capite bene che insegnare in una classe così non è proprio immediato, per cui lo strumento digitale è stato molto d’aiuto. Nella primissima lezione, prima lezione di Scienze e metodo scientifico, i prof di Scienze lo sapranno, di solito sono le prime lezioni il metodo scientifico, primo punto osservazione diversa da guardare un fenomeno. Proietto una slide, che ho creato a casa, e in questa slide c’erano tre immagini: la foto di un bambino, la foto di una montagna e la foto di un dipinto, l’hanno chiamato molti, in realtà era la Cappella Sistina, quando andava bene lo chiamavano dipinto. Che succede, proietto le tre immagini e chiedo ai ragazzi: mi commentate queste immagini, mi fate vedere cosa significa osservare? tutti è facile: un bambino, una montagna, un quadro. Io vabbè, non è proprio osservare, proviamo a cogliere i dettagli di quello che stiamo apparentemente guardando. E lì mi sono accorta, primissima cosa di cui mi sono accorta, è che loro volevano andare avanti, “vabbè prof, dai, prossima slide”. Io sono rimasta tutta la lezione su quella slide, tutta, e loro all’inizio non capivano perché io mi soffermarsi così tanto su questa slide. Poi hanno iniziato allora il bambino ha i capelli marroni, la montagna, c’è il laghetto, una serie di commenti, il quadro, forse non è un quadro perché è su un muro quindi è un po’ diverso. La cosa che mi ha colpito è che a un certo punto loro pian piano si sono fatti trascinare, si son fatti guidare da quello che gli chiedevo, quindi all’inizio vado avanti, poi alla fine siamo rimasti tutti contenti un’ora su quelle slide. Insomma hanno commentato sempre più dettagli e mi dicono prof però adesso abbiamo osservato, perché abbiamo colto tanti dettagli. Sì, adesso siete stati più bravi, ma ancora non abbiamo osservato. Perché, ho detto, secondo voi perché la prof stamattina vi ha proposto tre immagini, potevo sceglierne miliardi, perché proprio queste tre. E una ragazza egiziana che non parlava bene italiano, mi dice: prof sono i primi giorni di scuola, forse lei vuole farci sapere che queste cose le piacciono. Brava, e ho detto: riesci almeno a cogliere una di queste tre immagini, secondo te che cos’è. Lei si gira e fa: il bambino è suo figlio o un suo parente. lo dico brava, ci hai preso, è mio figlio, e poi gli ho svelato le altre due immagini era il Gran Sasso, perché ho studiato a L’aquila in Abruzzo, e la Cappella Sistina perché quell’estate ero stata con i miei amici a guardare la Cappella Sistina. E quindi faccio questa domanda a tutti e chiedo: cosa vuol dire osservare? vuol dire cercare il nesso tra le cose. E magicamente, per chi insegna alle medie lo sa, tutti per la prima volta hanno scritto sul quaderno quella cosa senza che gliela chiedessi. Ultima cosa che dico è che quello che sto capendo è che non è tanto cercare l’efficacia di una lezione ma cercare che la lezione sia adeguata, il metodo è imposto dall’oggetto, adeguato vuol dire che io davanti ho dei ragazzi per cui devo entrare in relazione con loro e devo cercare di parlare il loro linguaggio, per cui l’efficacia è una conseguenza del fatto che io cerco la cosa più adeguata alla classe.

 

Di Michele. Grazie, grazie moltissimo. Passiamo alla scuola superiore, insegnamento della letteratura, Pino Suriano come ha affrontato questo questa sfida, come l’ha affrontata.

Suriano. Grazie, Carlo. Io ho affrontato l’insegnamento della letteratura e il tentativo generale di innovazione scolastica partendo da un assunto che alle superiori si impone in maniera evidente ma credo che valga un po’ per tutti gli ordini. E cioè che il ragazzo che tu trovi ha una capacità di espressione di sé, cioè il punto di vista con cui io, e non solo io, provo a guardarlo è un punto di vista per cui riconosci a lui che ha qualcosa da dire già di suo e ha qualcosa da dare, quindi il punto di prospettiva è quello di un protagonismo degli studenti. Detta così sembra uno di quegli slogan di cui tante volte ci riempiamo la bocca, abbiamo provato a incarnarlo in alcune pratiche, parlo di due sinteticamente anche perché sono molto simili, la micro conferenza e il podcast. Podcast in cui i ragazzi non sono solo fruitori ma anche, come, molto utile, come raccontavi tu Roberta, ma sono anche proprio scrittori del podcast, cioè produttori. Un’iniziativa realizzata anche in collaborazione con il collega Andrea Borraccia, che peraltro è presente in sala. E poi la micro conferenza. La micro conferenza che cos’è? Quindi vi spiego i due prodotti finali che abbiamo realizzato. Il podcast e la micro conferenza. La micro conferenza è una performance oratoria, simile ai ted talks per chi li conosce su argomenti di apprendimento, per cui i ragazzi sono chiamati a fare questa conferenza breve, limitata nel tempo, su un argomento che hanno scelto, con l’ausilio delle slide e di altri supporti multimediali. Questi due prodotti però li abbiamo strutturati in alcune fasi molto precise, e a mio parere significative: 1 scelta dell’argomento, i ragazzi scelgono su cosa vogliono fare il discorso o il podcast, 2 ricerca sull’argomento, 3 scrittura di ciò che dovranno realizzare, una scrittura lenta che ha dei tempi lunghi, 4 scrittura delle slide, 5 revisione cooperativa, il metodo di Don Milani di cui parlavi, per cui i compagni tra di loro suggeriscono all’amico, che fa la prova dell’esibizione di ciò che è scritto, guarda questa cosa la puoi cambiare, questa la puoi spostare all’inizio, qui sei stato efficace, perché, essendo dei prodotti che hanno come obiettivo l’efficacia comunicativa, devono essere scritti con una tecnica, cioè con un tentativo di arrivare all’altro, anche con una passione di arrivare all’altro com’era vero per don Milani. Le competenze che si attivano sono sterminate: competenze di scrittura, competenze di public speaking, ma anche competenze di connessione artistica, pensate al podcast in cui devi unire la musica, quindi di connessione tra linguaggi diversi, ma soprattutto è interessante l’elemento della ricerca. Che non è solo ricerca sul contenuto, ma è anche ricerca formale, cioè tu non ti occupi solo di cosa devi dire ma anche di come lo devi dire, e lo fai con lentezza e con la collaborazione degli altri. Per dire il livello di innovazione metto specularmente di fronte queste pratiche ad altre pratiche più comuni. Interrogazione, lì tu rispetti l’ordine di conoscenza che il docente o il libro ti hanno dato, in questa pratica tu lo riorganizzi. Recita, teatro, stesse competenze, soft skills, di espressione di sé, ma qui tu non porti un copione scritto da un’altro ma un prodotto frutto della tua creatività e della tua ricerca. Debate, quando io e la mia preside, Giovanna Tarantino, siamo stati intervistati su questa nostra performance dagli esperti di Indire, ci dicevano ma dov’è l’elemento della competizione? veramente non c’è, c’è il contrario, cioè i ragazzi si attivano per camminare insieme verso un obiettivo, un po’ come quando si fa la tesi di laurea, tutti insieme. Alla fine la ricerca, dico solo quest’ultima cosa perché ci tengo. Questo modo di ricercare secondo me risponde a una delle grandi sfide del nostro tempo e della nostra scuola, e cioè quella di avere un mare di conoscenze a disposizione, di aver perso ormai anche un pochettino il gusto di scoprire e di attendere, come dicevi tu, la questione che però la conoscenza, anche quando è a portata di mano, diventa sensata quando si orienta a un fine, quando uno sa dove andare, quando uno sa che cosa fare con ciò che ha cercato. Parentesi polemica di dieci minuti, quanto sarebbe più sensato portare questo tipo di prospettiva di ricerca all’esame di Stato anziché quella logica che è nemica del conoscere stesso, quelle associazioni, quei colleghi delle superiori mi capiscono, quel collegamento tra le materie forzato, un’associazione di idee inutile, lo studente, come dicevo a un mio amico di religione, un collega di religione, non è un foglio bianco, lui dal suo punto di vista diceva lo studente che incontro ha già incontrato Dio attraverso la realtà, attraverso le sue esperienze. Partire da questa concessione di credito all’altro è l’origine dell’amicizia, diversa dalla compagnoneria o dalla confidenzialità, ma è anche il senso stesso del nostro lavoro. Grazie.

 

Di Michele. Grazie a Pino. Chiudiamo questo giro con Gabriele Lanfranchi, che appunto insegna filosofia, cosa ci dici.

 

Lanfranchi. Grazie, Carlo. Io inizio con una domanda, cioè se lo smartphone ci aiuta a essere meno soli. So che tra di voi c’è gente che di scuola si interessa meno forse e questa è una domanda che interessa a tutti, veniamo dagli ombrelloni il qualunquismo estivo in noi è risorto, ma in realtà questa è il topico che è stato finale di un torneo di dispute che abbiamo svolto a Mestre quest’anno, in un grosso liceo insieme a professori di tante materie. Cos’è la disputa, qual è il linguaggio di cui vorrei parlarvi, è un linguaggio molto antico ma che è molto utile perché oggi parliamo di tutto e tutti si sentono di poter parlare di tutto, e quindi bisogna insegnare una serietà, un parlare con cognizione di causa di qualcosa, avere degli argomenti, avere uno stile, come diceva anche Pino, retorico per porsi di fronte all’altro in modo accogliente e non solo offensivo. E in questo l’innovazione che noi abbiamo trovato c’è stata consegnata dalla nostra tradizione, dalla nostra storia, e infatti parliamo di disputa e non di debate, il debate per gli esperti e gli addetti ai lavori è inflazionato oggi, la disputa un po’ meno, però lo era circa nel tredicesimo, quattordicesimo secolo, quando sono sorte le Università scolastiche. La disputa vuole incontrare un tema, come per esempio l’utilizzo dello smartphone tutti i giorni e il concetto di solitudine, da un punto di vista pro o contro, e quindi come in uno sport ci sono delle regole, ci sono degli arbitri, ci sono dei giudici, come in uno sport ci si incontra. Adesso sottolineo questa parola: incontra, ci si incontra sul campo di battaglia, perché l’obiettivo della disputa non è deliberativo, quindi come il debate parlamentarista inglese anglosassone, dove l’obiettivo è deliberare su una mozione, quanto piuttosto è un lavoro di ricerca, dove chiaramente abbiamo due posizioni diverse su un problema complesso, ma la scommessa è rispetto alla verità. Perché l’altra accusa che ci è stata rivolta, quando con le romanae disputationes sul concorso di filosofia abbiamo incontrato Adelino Cattani dell’Università di Padova, coordinario di teoria dell’argomentazione, e abbiamo assunto un po’ il lavoro che lui aveva fatto, e poi l’abbiamo riadattato e implementato, l’accusa è sempre: e ma allora vale tutto. Eh no, il punto è che la verità è così complessa, che la si può guardare da tanti punti di vista, e a me del tuo sguardo, del tuo punto di vista, interessa. E infatti la proposta che facciamo sempre ai docenti, ai colleghi, quando introduciamo questa metodologia, o ai ragazzi quando si inizia il lavoro. Per esempio, adesso non ho tempo di dettagliare il tutto, ma tutto il lavoro di ricerca è strutturato in modo tale che tu all’inizio non sai che posizione devi difendere, tu analizzi il problema, il tema, e scopri che magari quando parlo dello smartphone se sconfigge la solitudine o meno, Leopardi mi serve. La cosa interessante è che poi i ragazzi e le ragazze vanno a ricercare informazioni o anche opinioni autorevoli su questo, che li aiutino, maestri, ampliano il concetto semantico, l’area semantica di certe parole, le approfondiscono. Concludo per dire che io questa metodologia la utilizzo tutti gli anni ed è sempre entusiasmante, perché i ragazzi scoprono, incontrando l’altra squadra, perché sei su un palco scoprono “ah, ma non ci avevo pensato a quello che hai detto tu”, cioè scoprono che l’altro lo aiuta ad approfondire di più, un cammino inesauribile mi viene da dire perchè adesso la verità sfido, io sono un filosofo se qualcuno c’è l’ha venga dopo a dirmelo. Per cui ecco è un’amicizia inesauribile su un cammino inesauribile, che è quello della conoscenza e della scoperta della verità. Grazie.

 

Di Michele. Grazie. Io vi ringrazio e invito ad avvicendarsi con i nostri prossimi ospiti, e devo dire che invito a salire la professoressa Daniela Notarbartolo, formatrice del Direttivo Nazionale di Diesse, Marcello Tempesta, insegnante di pedagogia all’Università di Lecce, Roberto Ricci, Presidente dell’Invalsi e Tommaso Agasisti, che insegna al Politecnico di Milano. Abbiamo ascoltato finora delle testimonianze dall’interno della scuola, di protagonisti della scuola, adesso ascoltiamo degli interventi di persone che vivono la scuola da un’altro punto di vista, ne sono protagonisti allo stesso modo, e ci aiuteranno anche a rilanciare e accogliere le prospettive di quello che abbiamo ascoltato finora. Inizierei subito, anche per continuare il dialogo che abbiamo ascoltato, con Daniela Notarbartolo. A loro abbiamo dato dieci minuti non cinque, un po’ di più, ma stiamo cercando di stare nei tempi, non abbiamo sforato tantissimo finora, quindi lo dico soprattutto per l’ultimo relatore che purtroppo ha una brutta eredità. Daniela, prego.

 

Notarbartolo. Grazie, Carlo. Naturalmente mi sento in grande imbarazzo a intervenire dopo questi interventi perché hanno dato un’apertura che è maggiore di quella che posso dare io come lettrice critica di quello che ho sentito. Quello che mi ha colpito è che tutte queste esperienze sono esperienze di positività, è come se la parola innovazione fosse stata sfondata e lasciasse vedere dietro l’amore al fatto che lo studente possa fare un’esperienza di bene, cioè non soltanto di imparare delle cose ma qualcosa che lo coinvolge da questo punto di vista. Vorrei ricordare il fatto che, nonostante anche loro lo abbiano fatto vedere, come la pratica laboratoriale possa avere una fortissima incidenza, però questo non significa l’eclisse dell’insegnante, perché la ricerca mostra quanto l’insegnante è un fattore decisivo per il successo degli studenti, e qui si vedono insegnanti che sanno inventarsi delle cose efficaci, che sanno guidare con sapienza, mettersi da parte non vuol dire non sapere guidare con sapienza, questo è importante perché non bisogna cadere nel mito dell’eclissi degli insegnanti. Un’altra cosa che ho notato è che la mobilitazione non è un semplice fatto emotivo, gli studenti sono stati contenti, si son coinvolti, come non è solamente emotivo il professore appassionato, entusiasta, c’è dietro un grande valore che invece è conoscitivo, quello che io leggo in queste esperienze che gli studenti evidentemente fanno un’esperienza di crescita, cioè sanno che stanno crescendo, che sta avvenendo qualcosa. Mi ha colpito molto il racconto sulla lentezza, scoprire qualcosa che non avresti neanche immaginato. Questo tra l’altro dà una prospettiva di futuro, sapete quanto è difficile oggi per piccoli e grandi avere la prospettiva del futuro invece l’esperienza della crescita è quell’esperienza che fa fare al bambino, apre questa prospettiva sul poi. Quindi vedo da un lato che fra studente e insegnante c’è questa dimensione di amicizia che evidentemente è anche una condivisione dell’umano, cioè del bisogno di essere, ma dall’altra parte una giusta asimmetria, per cui questi professori si inventano cose che sono efficaci, non nel senso che lamentava prima la professoressa, efficace nel senso che coglie un bisogno. Secondo me il punto della scuola oggi è proprio questo, cioè essere in grado di cogliere il bisogno degli studenti. Spostandomi con un brusco salto a tanti articoli che abbiamo letto negli ultimi periodi di studenti in difficoltà che hanno addirittura scritto ai giornali per lamentare la loro difficoltà. Purtroppo nella scuola italiana c’è o questa meraviglia che abbiamo sentito oggi o le due interrogazioni a quadrimestre, più quella di recupero, vel il registro elettronico dove pigi il bottone ti fa la media matematica, che evidentemente non sono pratiche che vengono incontro al bisogno di essere riconosciuti e valorizzati degli studenti, che non viene incontro al loro bisogno di appropriarsi di quello che stanno studiando, e questo è molto doloroso. Faccio una piccola proposta che mi segue da tutta la mia carriera di insegnante, cioè se l’anno scolastico è o no un percorso in crescendo, cioè se è un cammino di crescita, perché se non è un cammino di crescita, non si può fare l’esperienza della crescita. Gli insegnanti della scuola dell’infanzia e della primaria questo lo sanno già, non c’è neanche bisogno di spiegarglielo, e secondo me lo sanno benissimo anche i professori di matematica e di lingue, perché in matematica e lingue, beati loro, se non sai A non capisci B, se non sai B non capisci C, eccetera, cioè sono materie fatte in questo modo, tant’è che abbiamo il quadro di riferimento delle lingue che funzionano benissimo. Per tante altre materie non è così, e allora che cosa vuol dire questo cammino in crescita. Cito banalmente i profili in uscita delle scuole: aumenta la capacità di ragionare? cioè tu ti poni come punto di arrivo che questa capacità di ragionare cresca, come diceva Pino prima, capisci sempre di più il metodo della tua materia? cioè diventa un ingresso in una metodologia, un modo di porsi le domande sulla realtà, un modo di stare di fronte ai dati, stai sui dati? naturalmente impari a parlare durante l’interrogazione, impari questo, non ho bisogno di, impari però a scrivere? cioè sembra che la scuola non si ponga questi obiettivi. Quando io dicevo le due interrogazioni a quadrimestre, naturalmente dico l’aspetto più banale, però è come se ci fossero delle routine di cui nessuno parla, e che sono poi invece, tra l’altro incidono negativamente anche sulle cosiddette competenze non cognitive, tornate di attualità grazie all’approvazione del 3 agosto del Disegno di Legge in materia. Per esempio l’impegno e la persistenza dipendono proprio dal percorso, cioè se uno non sente che ci sia un percorso in quello che fa, cioè se la scuola è episodica, chiaramente l’impegno e la persistenza non hanno materia fisica per potere crescere, come pure la fiducia nelle proprie possibilità di successo, altra grande competenza non cognitiva, dipende dai passi che si propongono, se i passi sono sfidanti nel giusto limite o no, non bisogna trovarsi mai nella situazione in cui si vive tra la noia e l’ansia, che sono i due poli opposti del passo sfidante. Anche la motivazione chiaramente dipende da quel in più di umanità che uno vive. Secondo me bisogna riflettere cos’è l’anno scolastico, è capitolo, capitolo, capitolo, con verifica, verifica, verifica, o so dove ti sto portando. Secondo me su questa efficacia in questo senso positivo, efficacia del professore, bisognerebbe veramente riflettere un po’ di più. L’efficacia, descritta tra l’altro più dagli studi anglosassoni, in Italia se ne parla magari un po’ di meno, che vorrei dire non è né solo un dono di natura, non è una tecnica, è un’autocoscienza, cioè tu cosa vedi davanti a te, qual è la strada, dove miri, a cosa guardi, guardi ai bisogni, guardi dove devi andare o no. Mi colpiva quando diceva della matematica fatta in maniera meccanica, la grammatica, che è un mio argomento centrale, può essere fatto in maniera totalmente irragionevole, quindi anche solo una riflessione su quello che si insegna, se è fatto in maniera ragionevole o no, se è fatto in una maniera che sollecita il ragionamento o no, è una riflessione da fare, da non lasciare come un compito secondario. Perciò, secondo me, quando noi parliamo di immobilizzazione degli alunni c’è sicuramente un problema di approcci, di linguaggi, eccetera, c’è un problema precedente, come ho sentito, che è il problema di questa visione prospettica dello studio, dell’insegnante, e soprattutto quello che mi sembra centrale in questo momento storico, mettersi al servizio dei bisogni dello studente e non cadere vittime delle logiche ministeriali, sindacali, burocratiche, di tutto, nelle quali lo studente sembra sempre subire passivamente e non c’è approccio laboratoriale che sgomini questo malfunzionamento. Perciò bisogna investire sul protagonismo degli insegnanti, io come Diesse naturalmente sostengo che è all’interno delle associazioni che questo può essere approfondito. Grazie.

 

Di Michele. Grazie, professoressa Notarbartolo, direi che il suo intervento ha aperto delle prospettive credo molto interessanti anche dal punto di vista di un pedagogista che insegna e riflette su questi temi in Università ma con la scuola, Marcello Tempesta, prego.

 

Tempesta. Grazie, grazie, Carlo. Buongiorno e grazie al Meeting per questo invito. Meeting che ha sempre questa maniera sorprendente di porre questioni che toccano tutti, nel caso del nostro incontro di oggi la questione della scuola del nostro tempo e del dialogo tra le generazioni che al suo interno si svolge. Io vorrei proporre sostanzialmente tre considerazioni, richiamando alcuni elementi di scenario e cercando di collegarmi poi, di farli interagire con quello che abbiamo ascoltato finora. Prima questione la introduco con una domanda: la scuola può ancora realmente costituire un fattore vivo di costruzione di civiltà? può essere un luogo di reale amicizia sociale e di crescita per tutti i soggetti che la abitano? e se sì, a quali condizioni? In quanto è stato raccontato ci sono già degli elementi preziosi, soprattutto dal punto di vista metodologico, per tentare di rispondere, e cercherò di riprenderli nella parte conclusiva del mio intervento. La domanda che pongo non mi sembra retorica, perché nasce dal fatto che siamo in un tempo di vorticosi cambiamenti che coinvolgono, e per certi aspetti sconvolgono, tutti gli aspetti della nostra esistenza, e la scuola non fa eccezione. Questa condizione ci costringe a non dare per scontati assetti consolidati, routine, come si diceva prima, modalità di vita. È una condizione scomoda, sfidante, ma potenzialmente preziosa e generativa, perché ci costringe a interrogarci sul senso, sulle forme dell’esperienza scolastica, persino sul destino della scuola. E segnalo che su questo tema a livello internazionale il dibattito è molto vivo, c’è chi pensa che la scuola che si è appena affacciata sul nuovo millennio abbia bisogno semplicemente di un maquillage, c’è chi pensa che serve un aumento dell’offerta, della presenza quantitativa della scuola nella vita dei ragazzi, una sorta di potremmo chiamarla iperscolarizzazione che li attrezzi a sopravvivere nella complessità, chi al contrario pensa, anche sotto la spinta di argomentazioni di tipo economicistico, efficientistico, che si debba andare verso forme di descolarizzazione, attraverso una sostanziale sostituzione della scuola con forme radicali di learning, e infine c’è chi pensa che la scuola abbia ancora un futuro, e non soltanto un passato, magari nobile e glorioso, a patto che si dia corso ad una coraggiosa opera di neoscolarizzazione. Cioè un percorso che mobilitando in forme nuove, come abbiamo anche sentito, oggi, il tesoro del patrimonio culturale, provi a costruire una scuola che persegue il proprio scopo di sempre, ma che sia contemporanea alla propria epoca. La seconda considerazione. Ciò che mi pare irreversibilmente in crisi è un certo modello novecentesco di scuola, che, per usare un termine di Michel Foucault, potremmo definire una scuola dispositivo di riproduzione socio culturale, basata su schemi rigidi e verticistici su liturgie, su architetture, che si istituzionalizzano già nella seconda metà dell’Ottocento, per quanto riguarda l’Italia nel contesto postunitario, e giungono, pur tra molte trasformazioni, fino al ventunesimo secolo. Aule, banchi, corridoi, orari, classi per età, lezioni, interrogazioni, voti, programmi, esigenze di esaustività e disattenzione alle differenze, che poco hanno a che vedere con molti dei modi di vivere, delle esigenze educative, dei compiti di sviluppo delle nuove generazioni. Un modello scolastico che ha svolto in passato funzioni importanti, ma che oggi appare in grande difficoltà davanti alla questione educativa attuale, che è fondamentalmente, questo è paradossale come si diceva, proprio nella società della conoscenza, strappare dalla passività, mettere in azione i giovani, accendere la curiosità di conoscere e di imparare. Una crisi che si vede dalla fatica educativa che attraversa le istituzioni scolastiche negli ultimi decenni, e anche dal disagio lavorativo di molti insegnanti. Accanto al tentativo di tenere in piedi questa scuola dispositivo, emerge però a macchia di leopardo la costruzione dal basso di esperienze educative e di scuole comunità aperte all’innovazione scolastica, che non è mero cambiamento ma è un insieme di tentativi mossi dalla consapevolezza dello scopo della scuola e dal tentativo di realizzarla. Una scuola non fatta di individui isolati ma da persone che si cercano e collaborano, tesa ad una nuova capacità di comunicazione, che non si limita a nuove tecniche, ma cerca un ascolto autentico dei giovani e un dialogo reale con essi. Esperienze effettive di buona scuola, presenti al Nord e al Sud, negli Istituti di eccellenza, in quelli di frontiera, nel primo ciclo e nel secondo ciclo, nelle Statali e nelle Paritarie. Terza e ultima osservazione. Ma qual è allora il segreto di quegli insegnanti, di quelle comunità scolastiche, che riescono, per usare un termine dei ragazzi, ad agganciare gli studenti, a mobilitarli? qual è il filo d’oro che collega le storie che abbiamo ascoltato e le decine di storie simili, che potremmo ascoltare da chi è in sala, o le centinaia da chi è fuori della fiera, parlando con quelli che Pier Cesare Rivoltella chiama i geni anonimi della didattica? Non si tratta di Superman ma semplicemente di persone che, non sottraendosi al rischio che è tipico dell’esperienza educativa, permettono che essa accada, nella sua profondità, nella sua freschezza, in forme sempre nuove, non precostituite. Non sono insegnanti perfetti ma piuttosto insegnanti incompiuti, con la mente e il cuore aperta alla realtà, per usare una bella espressione di Papa Francesco in un suo discorso al mondo della scuola, cioè disponibili ancora a mettersi in gioco, ad imparare, come abbiamo sentito, che non smettono di vivere un interesse per ciò che propongono agli altri e quindi sono costantemente al lavoro sulla motivazione degli allievi, cioè sulle ragioni, sull’ attrattiva della proposta scolastica, questa è la motivazione, ma anche sulla propria motivazione professionale. Che non hanno vergogna delle fragilità dei ragazzi che vi sono affidati ma si implicano con essi, sanno scorgere i loro talenti, dar voce alle profonde domande di conoscenza, di senso, di rapporto, di protagonismo, e soprattutto di speranza di questa generazione. È così che la scuola rivive il proprio compito permanente, e qual è questo compito? è il compito di sempre della scuola, non è cambiato, pur dentro un mondo in cui tutto cambia. È quello di costruire relazioni per accogliere i bisogni di crescita di chi si affaccia all’esistenza, di comunicare in maniera viva il patrimonio culturale per favorire il processo di scoperta di sé e del mondo, è quello di sostenere la capacità di abitare la realtà e di orientarsi in essa, e di scoprire la propria vocazione. Quando a scuola accade l’educativo profondo, che è quello che ho tentato di descrivere, si riescono anche più facilmente a tenere insieme dimensioni spesso disarticolate, ma tutte preziose, compiti istituzionali e attenzione alle persone, risultati di apprendimento, che sono una cosa molto importante, abbiamo la presenza autorevole del Presidente dell’Invalsi, e senso dell’apprendimento, dimensione culturale e sviluppo di competenze. Ed è possibile, come recita il titolo del nostro incontro, che la scuola si racconti, può narrarsi, può comunicare soltanto qualcosa che c’è, che è in atto, che è evidente, che è presente. Un passato può essere al massimo rievocato, un futuro può essere al massimo immaginato. A chi ha compiti di governo della scuola conviene, se mi è permesso un rapido accenno a questa dimensione, più che calare dall’alto astratte programmazioni, costruire condizioni che facilitino l’emergere di esperienze di reale innovazione, del tipo di quelle che sono state raccontate, un habitat favorevole a forme di vita educativa. È questa vita educativa, per ricollegarmi in conclusione col titolo del Meeting, che ci restituisce il gusto dell’avventura educativa scolastica come esperienza di amicizia tra le generazioni. Cioè la scuola come luogo di incontro, dove i giovani adulti si parlano, così prezioso in questo tempo nel quale le generazioni sembrano invece divaricarsi. La vita, che nonostante tutto si agita nella scuola, ha a che fare invece con la tenace riproposizione di un’ultima positività, come è stato detto, con qualcosa di inesauribile, perché ha a che fare con il mistero della persona e con il compito infinito e affascinante della sua educazione.

 

Di Michele. Grazie al professor Tempesta. Ascoltando questi interventi verrebbe voglia di porre tante domande, di approfondire, ma il tempo è tiranno. Roberto Ricci è un piacere averlo con noi, credo che il suo osservatorio, quello degli Invalsi, è un osservatorio autorevole per aiutarci a cogliere che cosa si agita nella scuola italiana, anche rispetto alle provocazioni che ha ascoltato questa mattina, e anche alle tante questioni con cui ogni giorno fai i conti tu e fa i conti Invalsi.

 

Ricci. Grazie, grazie a tutte e a tutti per questo invito. Credo che le sollecitazioni che abbiamo sentito siano tante, io partirò da questo punto di vista. È chiaro che la scuola, la nostra scuola, questo vale per tutti i paesi avanzati ma noi parliamo del nostro, è un fenomeno che riguarda un numero elevatissimo di persone, milioni di persone, e quindi come tale abbia anche delle esigenze che sono date dalla dimensione del fenomeno che stiamo affrontando, questo però non vuol dire, anzi questo vuol dire che è necessaria questa riflessione pedagogica profonda di dove vogliamo portare la nostra scuola. L’esempio che ha fatto Daniela sul registro elettronico secondo me è del tutto sintomatica, perché non è che sia il registro elettronico buono o cattivo di per sé, funziona così perché non c’è una riflessione a monte, e un bravo informatico, permettetemi di semplificare, forse di ipersemplificare, un bravo informatico per fare un prodotto buono ha bisogno di essere aiutato con una riflessione precedente, a monte, se questa riflessione non c’è il bravo informatico farà quello che sa fare, un buon strumento informatico, ma non gli possiamo chiedere di fare questa cosa. Perché dico questo, ecco io credo che ciò che emerge molto chiaramente, o abbastanza chiaramente, dalle rilevazioni nazionali ed internazionali, il quadro poi non è molto diverso, è la necessità di una riflessione garbata e attenta su dove vogliamo portare la nostra scuola per essere veramente amici della nostra società e delle generazioni che stanno crescendo o che arriveranno. Alcune considerazioni. Tutti i paesi, parliamo nel nostro caso dell’Italia, stanno, investiranno tantissimo per cercare bene, male, poi tutto si può fare meglio ma non è questo il punto che vorrei condividere con voi in questo momento per ridurre l’impatto del contesto di riferimento sugli esiti di apprendimento dei nostri studenti, che poi è molto più ampio ma cerchiamo di dare alcune riflessioni. E non sta andando molto bene, le cose non stanno andando molto bene, cosa intendo dire, ad oggi, non solo in Italia, forse magari in Italia un pochino di più rispetto ad altri territori, ma comunque non solo in Italia, il peso del contesto sociale, economico e culturale degli studenti è enorme. Ho sentito parlare di, con le cosiddette competenze non disciplinari, soft skills, eccetera, probabilmente è questa la frontiera, probabilmente è questa la frontiera sulla quale dobbiamo lavorare, ma per far questo, e con Tommaso abbiamo avuto modo anche di parlarne nel passato, serve una riflessione sul disegno di scuola che vogliamo. Perché la scuola si è in buona parte ritratta, parlo nella generalità dei casi, da questi temi, non perché la scuola è brutta e cattiva, o non vuole affrontare temi così complessi, ma perché affrontare temi così complessi richiede avere chiaro un disegno educativo, e la nostra società ha grossa difficoltà a fare questo. E questo credo che sia il vero problema che abbiamo di fronte, poi dopo troveremo tutte le soluzioni tecniche, tecnologiche, didattiche, pedagogiche, ma serve la riflessione su questo tema, i dati c’è lo dicono in modo del tutto ineludibile. Altrimenti, per chi fa il mio mestiere, che cosa si osserva, una esasperazione delle differenze. Cioè a fronte di quello che abbiamo sentito prima, che sono delle considerazioni, degli esempi, delle modalità, che ci scaldano il cuore, che ci piacciono, che ci fanno immaginare, ci fanno sentire una scuola calda, che però non rinuncia al proprio compito, che quindi è anche un compito, se vogliamo, faticoso, che richiede fatica, che richiede sforzo, e che non cede mai alla tentazione del facilismo, se posso usare questo termine. Non voglio parlare di facilismo morale che insomma, e qui la discesa potrebbe essere molto pericolosa, però serve una riflessione su questo, e la scuola si è ritratta da questo perché non ha avuto probabilmente quel contesto che l’ha aiutata a fare questa operazione se non in modo formale. Cito un esempio: il curriculo d’Istituto, il curriculo d’Istituto è già un luogo, un documento nel quale potremmo fare queste scelte, ma sono scelte veramente complesse. A mio modo di vedere serve una discussione che non ceda mai alla tentazione del benaltrismo, perché chi fa il mio mestiere si sente sempre un elenco dettagliatissimo di ciò che non si deve fare, che è utilissimo, ma molto più raramente qualche suggerimento sul cosa si debba fare. Dicevo, e credo che sia giunto il momento di affrontare il grande tema che è un pochino non così chiaramente affrontato, di che cosa vogliamo dalla nostra scuola in termini di apprendimenti di base, chiamiamole competenze di base, discutiamo sui termini anche in modo acceso, però cerchiamo di chiarircelo una volta per tutte, perché altrimenti, se non facciamo questo, quello che i dati ci dicono, anche il concetto di povertà educativa, che è un concetto piuttosto serio, risulta molto difficile da cogliere, risulta molto difficile da circoscrivere. Una società moderna come quella che noi speriamo di essere, oggi come oggi deve a mio giudizio, o dovrebbe a mio giudizio, parlo del tema della dispersione scolastica, vedere questo problema da due punti di vista, che a mio giudizio sono tutti collegati rispetto a quello che abbiamo sentito. Gli antichi, Daniela aiutami, avrebbero detto primum vivere, deinde filosofari, cioè quindi prima di tutto i ragazzi cerchiamo di tenerli a scuola, e su questo non c’è dubbio alcuno. Ma poi si pone il tema di che cosa questi ragazzi apprendono, e quindi cogliere anche quelle dimensioni di dispersione che riguardano anche gli studenti che si sono diplomati, e questo è un tema piuttosto forte. E oggi stimiamo l’entità di questo problema, le misure che utilizziamo, le misure Invalsi, le misure dei dati internazionali, quello che volete, attorno oscillare tra l’8 e il 9% dei diplomati si trovano in queste condizioni. Io credo che serva da parte di tutti, quindi anche da chi fa il mio mestiere, l’umiltà e il garbo per vedere e affrontarli questi problemi, e guardare la luna e non il dito, quindi anche cogliere le potenzialità enormi che ci sono date dalle intelligenze artificiali, dalle tecnologie, dall’uso di strumenti, e anche nuovi modi di riflettere sulle cose, aiutandoci anche con la operatività delle soluzioni. A me sono molto piaciuti gli esempi che ho sentito perché ho anche colto l’idea di che cosa faccio, cosa potrei fare domattina in classe, io credo che sia questo. Chiudo dicendo una cosa, chi fa i nostri mestieri debba aiutare il sistema, e aiutare se stesso a capirlo, che la dimensione del tempo, se n’è parlato, l’attesa, eccetera, è anch’essa una cosa molto importante, e quindi non possiamo immaginare soluzioni nuove, che sono necessarie, senza anche dire che cosa non facciamo più. Credo che dobbiamo affrontare anche questo grande tema, ad ogni nuova cosa che aggiungiamo, dobbiamo anche, a mio giudizio, interrogarci su cos’è ora di non fare più, perché per tutti credo che dopo la ventiquattresima ora non c’è n’è una venticinquesima, c’è il giorno dopo. Grazie.

 

Di Michele. Grazie, grazie davvero, per la profondità di quello che ci hai detto, ma anche perché ci ha aiutato a… il Meeting non è una bolla, quello che ci diciamo è per una responsabilità che abbiamo nei confronti della scuola,quindi il quadro che lui ci ha descritto ci rilancia ad un lavoro, perché non ci vogliamo accontentare, quello che vogliamo è dare un contributo al paese. Chiedevi delle proposte, credo che Tommaso Agasisti, da questo punto di vista, qualcosa, anche nel poco spazio di questo incontro, può aiutarci a capire. Prego.

 

Agasisti. Ci provo, consapevole, non voglio abusare della pazienza dei più, siamo verso la fine del nostro incontro, e proverò a portare un contributo di chi come me non è uomo di scuola, non è docente, non è pedagogista a scuola, ma che si è occupato e si occupa, dal punto di vista della ricerca, dell’azione, di organizzazione, di gestione di politica in ambito educativo. Rispetto alle tante sollecitazioni che sono venute fuori oggi mi sono appuntato tre questioni che vorrei brevemente illustrare. La prima la chiamerei così: pluralismo educativo. Cosa intendo con questo? mi pare che i racconti stamane chiariscano molto bene che l’avventura educativa è l’avventura di una proposta formulata da un docente e dalla risposta, dal coinvolgimento, di chi di fronte a quel docente è. E’ stato bellissimo, gli esempi di stamattina rispetto a questo, a questa dinamica. Allora se la dinamica dell’educazione è questa, essa non si può troppo incasellare, non si può troppo industrializzare, non si può troppo schematizzare. Da questo punto di vista le scuole come organizzazioni possono e devono essere il luogo dove questa avventura, questo dinamismo, questa capacità di incontro di persone, si realizza, si sprigiona. E la preoccupazione di chi fa scuola deve essere quella di costruire questa organizzazione affinché questa dinamica sia favorita, non ostacolata. Noi veniamo da un’impostazione del nostro sistema scolastico mi sentirei di dire, che invece è sempre andato un po’ alla ricerca della uniformità, della standardizzazione, dell’omogeneizzazione, con l’idea che in qualunque luogo, in qualunque scuola io vado, i miei figli vadano, troveranno la stessa cosa. Ma questo non è possibile, e non solo non è possibile in forza di quello che abbiamo sentito raccontare questa mattina, ma non è neanche giusto, cioè la ricchezza dell’esperienza educativa, abbiamo sentito stamattina, nasce dalla diversità di esperienze e di proposte che vengono fatte, dal diverso modo con cui i docenti con le loro capacità, i ragazzi coi loro talenti, fanno sviluppare questa avventura educativa. Allora è giusto preoccuparsi, come Roberto ci ha mi pare descritto in modo chiaro dei livelli di apprendimento base, quello dove vogliamo portare il sistema, ma è giusto porsi il tema di cosa voglia dire favorire un’esperienza educativa plurale e ricca, e non uniforme e povera. Mi ha colpito il riferimento che ha fatto Roberto al curriculo d’Istituto, perché nel prepararmi a questo incontro mi sono andato a rileggere le vecchie direttive nazionali, quando si parlava del curriculo d’Istituto, si dice “il curriculo di Istituto è espressione della libertà di insegnamento, dell’autonomia scolastica, e al tempo stesso esplicita le scelte della comunità scolastica e l’identità dell’Istituto”. Io credo che ciascuna delle nostre scuole debba recuperare il coraggio e l’energia di fare una proposta educativa chiara, di chiarire bene la propria identità e di chiarire quindi cosa significhi sperimentare, innovare, proporre in modo diverso una certa esperienza educativa. Noi veniamo da anni in cui mi pare che dietro al tema dell’uniformità abbiamo avuto come sistema scolastico paura dell’innovazione della sperimentazione, non l’abbiamo favorita. In questo senso mi pare che un ambito dove questa diversificazione, dove questo coraggio si sia invece visto sia l’ambito delle scuole paritarie, che in questa direzione vanno viste come una ricchezza del nostro paese, e come una ricchezza del nostro sistema scolastico, e da questo punto di vista andrebbero aiutate e sostenute per far fiorire il più possibile questo pluralismo educativo. Il secondo tema, che volevo brevemente trattare, è quello della responsabilità di chi dirige le scuole. Io mi sono occupato un po’ col mio gruppo di ricerca proprio del tema dei dirigenti scolastici, di chi ha la responsabilità della direzione delle scuole. Perché è un tema che ritengo fondamentale? Perché uno dei problemi, credo, che ciascuno che vive la scuola ha visto concretamente, che l’esperienza di innovazione e di sperimentazione, come quelle che abbiamo sentito raccontare stamattina, rischiano di restare isolate, cioè rischiano di restare delle belle, singole esperienze, promosse da alcuni, e faticano a diventare scuola, cioè a permeare l’organizzazione della scuola. Perchè? Perché talvolta le nostre scuole sono tutte, statali e paritarie, più le statali in un certo verso, sono come un insieme di individui che fanno cose molto interessanti, ma questo non solo le scuole, le scuole come organizzazioni dovrebbero essere un luogo in cui intenzionalmente si porta una responsabilità educativa e formativa insieme, e in cui quindi è essenziale il ruolo di chi le guida, di quale direzione indica, di quale obiettivo si pone, di come fa lavorare insieme le persone che all’interno della scuola sono. Mentre ascoltavo prima gli esempi che venivano raccontati mi sono detto ma chissà se e come i dirigenti scolastici di questi docenti hanno favorito il diffondersi di queste innovazioni, di queste sperimentazioni. In questi anni abbiamo fatto molta ricerca sul tema dei dirigenti scolastici, se fossi un dirigente che vuole portare questo tipo di innovazione di cui abbiamo sentito parlare nella mia scuola, che competenze dovrei avere, che attitudini dovrei avere per farlo? Un po’, della nostra ricerca, citerei brevemente queste parole: coraggio nell’esplicitare l’obiettivo educativo verso cui portiamo i nostri ragazzi, ascolto per capire da dove vengono le innovazioni e le sperimentazioni più promettenti, compagnia per essere a fianco dei docenti nel lavoro che svolgono, e coinvolgimento per favorire il fatto che le scuole siano un luogo in cui questa responsabilità educativa è portata insieme. Talvolta mi pare che i dirigenti scolastici, ma questo è frutto un po’ di come il nostro sistema è stato un po’ impostato negli ultimi anni, finiscano invece per fare un po’ i direttori amministrativi delle scuole, dove invece questa responsabilità educativa è una responsabilità primaria. Chiudo con una terza e brevissima sollecitazione su questo tema, che è stato già anche evocato sia nei racconti, che prima da Daniela e Roberto, questo tema che va sotto il nome di competenze non disciplinari o competenze socio-emotive. Io credo che l’attenzione a questo insieme di competenze, non ci poniamo il tema qui di descrivere cosa siano, lo abbiamo tutti presente, in linea di principio le cose venivano descritte prima, motivazione, onestà, capacità di relazione positiva con gli adulti, con i pari curiosità, senso critico, impegno, fiducia. Mi pare che questa dimensione della vita degli studenti sia tornata, per fortuna, sotto l’attenzione non solo di chi vive la scuola, questo lo è sempre stato, ma sotto l’attenzione di porci questa domanda: le scuole si devono intenzionalmente occupare di questo ambito della vita dei ragazzi e delle ragazze? Oggi per fortuna mi pare stia tornando una attenzione a rispondere “sì”, cioè le scuole non sentono più solo la responsabilità di trasmettere delle competenze pur importanti, disciplinari, ma anche di favorire la crescita di questa dimensione più ampia, più vera, più profonda, della vita degli studenti. Lo si può fare in tanti modi, io direi che tutti i racconti che abbiamo sentito questa mattina dentro il tema disciplinare avevano questa tensione ideale, e credo che il fatto che le scuole si stiano ponendo in modo più esplicito e chiaro lo scopo, attraverso la propria azione, di sviluppare anche questa dimensione, sia un fatto positivo. Veniva citato prima il Disegno di Legge che voleva un po’ suscitare in tutte le scuole l’intenzione di realizzare progettualità specifiche su questo ambito, poi questo Disegno di Legge è stato un po’ abbandonato, si potrebbe forse riprendere, ma con l’idea, proprio con la consapevolezza che quell’avventura educativa, che avviene all’interno delle scuole, può essere, da un punto di vista come questo, aiutato e facilitato. Grazie.

 

Di Michele. Grazie. Grazie ai nostri ospiti, sia che ha tenuto adesso sia a chi ci ha preceduto. Chiudo in maniera sintetica perché siamo andati oltre i tempi stabiliti dal Meeting, ringraziamo per questo spazio che ci è stato questa mattina, per questa varietà di voci che dimostra la ricchezza che c’è nella nostra scuola, e che il Meeting è stato capace di segnalare ed evidenziare, di far conoscere e anche di rilanciare. Amicizia inesauribile, quello che abbiamo ascoltato oggi non è un punto di arrivo, è un punto di un percorso che stiamo facendo e che proseguirà anche alla ripresa dell’anno scolastico, per cui sono temi su cui torneremo e ne avremo anche occasione. Questo lavoro lo sosteniamo anche attraverso una vita associativa, perché il tentativo di uno può non esaurirsi quando è condiviso con degli amici, un’amicizia professionale. Ultimo avviso e ultima comunicazione, ricordo a tutti la possibilità, nei punti del Meeting col cuoricino rosso della nostra colomba, la possibilità di offrire, di donare un contributo perché che il Meeting possa esistere dipende anche da questo piccolo o grande contributo, che ciascuno di noi può dare. Quindi invito tutti a porre attenzione a questo perché il Meeting possa continuare a fare quello che sta facendo, e anche a garantire questi spazi di cui oggi abbiamo tutti potuto godere. Buona giornata a tutti, grazie di nuovo.

 

Data

22 Agosto 2023

Ora

13:00

Edizione

2023

Luogo

Sala Neri Generali-Cattolica
Categoria
Incontri