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LA RICOSTRUZIONE ED IL RITORNO DEI CRISTIANI A QARAQOSH
Partecipano: Maria Gianniti, Giornalista; Georges Jahola, Sacerdote della Diocesi di Mosul, Kirkuk e Kurdistan per i Siri cattolici; S. Ecc. Mons. Alberto Ortega Martín, Nunzio Apostolico in Iraq e Giordania; Edoardo Tagliani, Coordinatore Attività AVSI in Iraq. Introduce Maria Laura Conte, Direttrice Comunicazione di AVSI.
La ricostruzione ed il ritorno dei cristiani a Qaraqosh
Ore: 11.30 Salone Intesa Sanpaolo A3
LA RICOSTRUZIONE ED IL RITORNO DEI CRISTIANI A QARAQOSH
Partecipano: Maria Gianniti, Giornalista; Georges Jahola, Sacerdote della Diocesi di Mosul, Kirkuk e Kurdistan per i Siri cattolici; S. Ecc. Mons. Alberto Ortega Martín, Nunzio Apostolico in Iraq e Giordania; Edoardo Tagliani, Coordinatore Attività AVSI in Iraq. Introduce Maria Laura Conte, Direttrice Comunicazione di AVSI.
MARIA LAURA CONTE:
Buongiorno, benvenuti. Ringrazio subito, in apertura, il Meeting di Rimini che ha voluto questo incontro dedicato a Qaraqosh, una città, un frammento del Medio Oriente, dalla vicenda particolare che ci aiuta a fare luce su tutta la situazione di questa area complessa, calda, difficile e affascinante. Una città che ha vissuto un destino particolare che riguarda anche noi. Oggi, a tema è la ricostruzione e il ritorno dei cristiani a Qaraqosh. Due parole, ricostruzione e ritorno, che sono ad altissima densità. Hanno dentro storia, provocazione, chiamata, responsabilità, anche tanta incertezza. E le scopriremo in tutti i risvolti sociali, culturali, religiosi e anche umanitari, insieme ai nostri ospiti che vi presento. Sono con noi Alberto Ortega Martin, Nunzio apostolico in Iraq e Giordania; padre Georges Jahola da Qaraqosh, sacerdote della diocesi di Mosul, Kirkuk; Maria Gianniti, inviata della redazione esteri del Tg1; Edoardo Tagliani, direttore dei programmi di AVSI in Medio Oriente. Infine, mi presento anch’io, sono Maria Laura Conte e dirigo la comunicazione di AVSI che è una realtà non profit che realizza progetti di sviluppo nel mondo, in trenta Paesi tra cui c’è anche anche l’Iraq. Andiamo allora al tema, ricostruzione e ritorno. Dall’inizio del millennio ad oggi, i cristiani in Iraq sono diminuiti in modo drastico, sono passati da un milione a 350mila circa nel 2014. Oggi sono sotto i 250mila. Una grave perdita, per la Chiesa e per il tessuto di questa società. È come una ferita profonda che però attraversa tutto il mondo e da lì, da questa città, da questo paese arriva fino a qui, perché quello che vorremmo capire in questo incontro è che la distanza si riduce tra Bagdad, dove vive monsignor Ortega e Qaraqosh, dove vive padre George e noi qui: la distanza è solo un dettaglio. I destini delle persone lì ci riguardano e andiamo a conoscerle: vi porto a Qaraqosh per favorire questo tentativo di immedesimazione con le persone che sono scappate da lì ed ora stanno tornando. Maria Gianniti, da inviata, da osservatrice di lungo corso della cronaca, delle tensioni, della storia degli scontri e anche della speranza, che cosa ci puoi dire per comprendere il quadro geopolitico dell’Iraq, immediatamente prima, durante e dopo l’Isis?
MARIA GIANNITI:
Buongiorno a tutti e grazie per questa possibilità di parlare di qualcosa che non si vede molto nelle cronache dei giornali. Soprattutto noi, giornalisti inviati in zone di conflitto, arriviamo in massa quando dobbiamo raccontare una guerra ma non torniamo quando invece dobbiamo raccontare il tentativo di ricreare la propria casa, di ricostruire la propria vita. Ci torniamo molto di rado. Per questo è importante tornare oggi, a distanza di quasi due anni dall’inizio dell’offensiva che ha portato alla riconquista di Mosul, della Piana di Ninive, da parte delle forze governative irachene; è importante tornare a parlare di che cosa sta accadendo oggi. Cosa è successo? Dobbiamo dire che quello che è accaduto in Iraq negli ultimi quattro, cinque anni non può essere disgiunto più di tanto da quello che è accaduto alla vicina Siria, perché questi due Paesi, sebbene abbiano vissuto conflitti diversi, sono uniti da un unico destino che è stato quello dell’espansione dell’Isis. Allora io pregherei di farvi vedere questa cartina che ho scaricato per far vedere un po’ quanto territorio poteva controllare l’Isis prima che iniziasse l’offensiva per cacciarlo dalla Piana di Ninive e da Mosul, e quanto invece ne controlla adesso. La zona è quella più chiara, quella che l’Isis controllava prima che cominciasse l’offensiva; invece la zona più scura sono i territori che l’Isis controlla ancora adesso, vedete che si concentra soprattutto in Siria. Questo ci fa pensare che l’Isis in realtà non controlli più nulla in Iraq ma a questo arriveremo dopo. Come è stata possibile l’avanzata dell’Isis prima in Siria e poi in Iraq? Lo Stato islamico ha approfittato di due caos diversi. In Iraq, lo Stato islamico ha approfittato del fatto che ci fosse confusione, ci fosse una popolazione sunnita profondamente scontenta, un Governo centrale in mano alla maggioranza sciita. Dobbiamo ricordare che Saddam Hussein era un sunnita: in realtà, l’Isis è stata l’emanazione di quella Al Qaeda in Iraq. Forse a qualcuno dirà qualcosa il nome di Al Zarkawi, il leader di Al Qaeda in Iraq, che aveva portato avanti l’offensiva non soltanto contro il Governo centrale di Bagdad ma anche per la presenza degli americani. Una volta che gli americani decidono di ritirarsi, alla fine del 2013, ovviamente l’Isis riesce facilmente ad entrare e quindi, facendo base in Siria, perché da lì partì nel 2013, arrivò nel luglio del 2014 alla dichiarazione dello Stato islamico. Da dove? Dalla moschea al Nuri di Mosul, quindi dal cuore di questa grande provincia del nord dell’Iraq. Da lì una presa di territorio, ci fu una ritirata da parte dell’esercito iracheno che lasciò tutto, mezzi, armi, a disposizione dei terroristi. Sappiamo che la campagna per la riconquista dei territori presi dall’Isis ha faticato a partire, perché non è stato facile coordinare le forze irachene con le forze curde che sono presenti nel nord dell’Iraq, non è stato facile fare gestire tutto questo dagli americani, sebbene poi i bombardamenti contro l’Isis a guida americana siano cominciati praticamente subito. Ma i bombardamenti non bastavano, anche perché l’Isis era riuscito a costruire, sotto molte cittadine – io ne ho visitate alcune, non Qaraqosh direttamente ma cittadine come Basika, come Bartella – un reticolato di tunnel dove i miliziani riuscivano a vivere e a spostarsi durante i bombardamenti. Potete immaginare quale danno per tutte queste piccole città, tra cui Qaraqosh, che prima sono state occupate dall’Isis, costringendo la popolazione a scappare e a rifugiarsi in campo profughi, e che poi sono state definitivamente annientate dai bombardamenti che puntavano a stanare tutti quanti i miliziani dell’Isis. La campagna è durata tantissimo, nel luglio del 2017 Mosul è stata dichiarata riconquistata, sono ovviamente state riconquistate quasi subito le cittadine attorno a Mosul, Mosul è stata la città più difficile da riprendere e nel luglio del 2017 c’è stata questa riconquista. A quali costi? Forse ricorderete tutti quanti l’immagine della distruzione della moschea da dove al Baghdadi aveva annunciato la nascita dello Stato islamico e si era autoproclamato califfo; di quella moschea non è rimasto assolutamente nulla, come di gran parte della città. Nell’ottobre del 2017, le forze curde appoggiate da altre forze arabe, sempre con i bombardamenti americani, sono riuscite a riconquistare Racca che era di fatto considerata, in Siria, la capitale dell’Isis, e quindi c’è stata la ritirata dell’Isis. Ci sono ancora quelle sacche. Proprio in questi giorni si parla della preparazione dell’offensiva per cercare di stanare l’Isis al confine tra Siria e Iraq. Ora la sfida vera, soprattutto in Iraq, è proprio la sfida della ricostruzione. Perché è importante sostenere ora la ricostruzione? Non soltanto perché bisogna cercare di ridare delle case a chi ha perso tutto ma anche perché, se non si dà qualcosa subito, si potrebbe creare del nuovo malcontento che potrebbe, uso sempre il condizionale, cercare di rianimare dei dissapori, quindi far sì che piccole cellule possano diventare nuovamente grandi e che si possano riorganizzare. Ovviamente bisogna dare soprattutto un messaggio di speranza. C’è questa frase molto bella, all’inizio di un video che ho visto: «Non c’è posto migliore che non casa propria, anche se distrutta, anche se danneggiata. Il desiderio di ritorno a casa è più forte della distruzione». Lo scorso ero andata a Sulaymaniyya, nel Kurdistan iracheno, per visitare l’ultimo luogo, l’ultimo monastero che aveva ospitato padre Paolo Dall’Oglio, quello da cui il sacerdote era scomparso: partito per andare a Racca, cinque anni fa, di lui si sono perse le tracce. Proprio in questo monastero c’erano ospitate duecento famiglie cristiane di Qaraqosh che erano arrivate nel 2014: già da quattro anni vivevano lì. Alcune, parlando con loro, mi manifestarono un po’ di paura, però il desiderio di tornare a Qaraqosh, nel loro villaggio, per far ricominciare la scuola ai propri figli, era più grande. Perché adesso è Importante sostenere la ricostruzione? Perché è importante che si ricreino le comunità: il rischio che si corre è che si possa nuovamente sfilacciare la società, e quindi ritornare al destrismo che è terreno fertile per la crescita, prima di Al Qaeda in Iraq e poi dell’Isis. Ovviamente questo è un momento estremamente delicato per l’Iraq, dove il governo iracheno deve cercare di operare a livello di riconciliazione. La parola riconciliazione è fondamentale anche perché, come diceva prima Maria Laura, la comunità cristiana ha sempre rappresentato il ponte tra le tante anime e le tante comunità, sia in Siria che in Iraq e in tutto il Medio Oriente. Ed è importante che questa comunità si senta protetta, si senta tutelata affinché possa tornare a svolgere proprio questo ruolo di ponte. È il motivo per cui questo momento è così delicato. Io mi fermerei qui perché credo che a questo punto sia più importante sentire invece le testimonianze dal posto. Grazie.
MARIA LUISA CONTE:
Grazie, Maria. Padre Georges Jahola arriva da Qaraqosh è sacerdote della diocesi di Mosul nel Kurdistan per i siro-cattolici. Nasce nel 1964 a Qaraqosh, si laurea in Fisica, studi che poi gli torneranno utili, entra in seminario, viene ordinato sacerdote nel 1999, viene in Italia per studiare, e infatti parla un ottimo italiano. Rientra in Iraq nel 2016 e si occupa di seguire, per la diocesi, i fedeli profughi. Un nuovo incarico arriva poi, pianificare la fase del rientro dei profughi nella città. Padre Georges organizza una campagna per schedare e documentare tutti i lavori richiesti sul campo dopo la liberazione della città, una sorta di analisi sistematica della situazione in cui si trovano i diversi edifici, dei bisogni di intervento. Da settembre è tornato a vivere stabilmente a Qaraqosh. Padre Georges, abbiamo sentito il quadro geografico, politico, militare, ora vorremmo capire com’è la vita dei cristiani direttamente dalla sua esperienza, come è stata prima, durante e dopo l’arrivo. E ora, chi sta decidendo di tornare e perché decide, e invece, cosa ancora trattiene lontano da Qaraqosh?
GEORGES JAHOLA:
Grazie, Maria Laura, buongiorno a tutti. Vedo che c’è un interesse per questo argomento, mi fa molto piacere. Però siete in svantaggio, perché quando parlo spontaneamente parlo di cose più dettagliate. Qui mi limito ai fogli e spero di poter comunicare quello che desiderate anche sentire. Parto dal 2003, con la caduta di Saddam il popolo iracheno ha attraversato momenti drammatici di violenza, la distruzione di una società. Osservate i numeri. Mentre la classe dirigente godeva della sua posizione, il popolo si trovava nel buio della disperazione. I cristiani hanno avuto la sorte peggiore, in questa situazione: chi ha subito minacce, torture, rapimento, chi è stato ucciso, chi ha visto i suoi familiari lasciare definitivamente il Paese. Da un milione nel 2003, i cristiani si sono ridotti a 350 mila, prima dell’arrivo dell’Isis. L’attacco alle sei chiese a Baghdad nel 2 agosto 2004, il massacro nella cattedrale siro-cattolica di Baghdad il 30 ottobre 2010, dove abbiamo perso due sacerdoti novelli e tanta altra gente che era in preghiera; poi l’attacco ai convogli degli studenti universitari di Qaraqosh, oltre 17 autobus nel 2 maggio 2010; e i rapimenti di vescovi, sacerdoti e laici. Non dimentichiamo, tra gli uccisi, monsignor Rahho e padre Ragheed Ganni.. E poi viene il colpo più duro di tutti, l’occupazione da parte delle milizie dell’autodefinito Stato islamico, per disperdere il resto del popolo cristiano ed arrivare, oggi, sotto i 250 mila. Una fuga di massa, prima dalle città cristiane e successivamente anche dall’Iraq. Passerò subito alla fase del rientro, sicuramente le persone hanno vissuto momenti drammatici, cacciati dalle proprie case e rimasti senza niente: dopo la sconfitta dell’Isis, le famiglie che erano rimaste nel Paese attendevano il momento della liberazione con pazienza, come ha ricordato anche Maria Gianniti. Appena liberate le città cristiane, a partire dall’ottobre 2016, le persone si sono precipitate nelle proprie case per verificare i danni. Dopo la liberazione di Qaraqosh e Bagdida, il 21 ottobre 2016, a seguito dell’incarico datomi dal vescovo, ho pianificato insieme ai giovani volontari la fase successiva: censire e documentare. Abbiamo registrato circa 7 mila case e abbiamo costruito un database per presentare questi progetti alle organizzazioni che erano disponibili alla ricostruzione.
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Vedete alcune immagini di come era prima la città, le celebrazioni nelle chiese, la Domenica delle Palme prima dell’Isis 2014. Vedete anche, in questo breve video, come abbiamo iniziato la campagna per la ricostruzione delle case il 2 maggio 2007: prima dovevamo assicurare la casa, poi il lavoro e poi il resto necessario per vivere. Con tante sfide, non era così facile fare partire questo progetto. Non tutti condividono l’idea del rientro: prima di tutto, perché la zona non è sicura. Dicevano: «L’Isis arriverà un’altra volta». Poi però ci abbiamo creduto e abbiamo portato avanti questo progetto. Da un anno sono rientrati circa 24 mila abitanti. Oggi siamo a 26 mila e anche di più: abbiamo seguito una strategia, fare iniziare la scuola ai bambini da settembre. Come collabora l’Occidente? Questi sono i comitati del volontariato, queste sono le immagini di come siamo partirti per censire le case e tutta la città: il primo obiettivo era avere una immagine chiara di come l’Isis aveva lasciato la città. Ancora non avevamo in mente come far partire la macchina della ricostruzione. Fino ad oggi, gli aiuti che abbiamo ricevuto provengono dalle organizzazioni e fondazioni cristiane: il popolo cristiano si è fatto vicino e ci ha dato la mano. Qui vedete il database che abbiamo raccolto. Non posso non citare AVSI, che è stato presente già dall’inizio nella diaspora in Kurdistan, che ha supportato l’asilo in Erbil e poi, a settembre/ottobre, anche quello delle suore domenicane a Qaraqosh/Bagdida. Fino ad oggi, nessuno Stato europeo si è fatto avanti per dare una mano nella ricostruzione. È grazie all’attenzione del popolo cristiano, in Europa e in tutto il mondo, che abbiamo potuto raccogliere soldi da diversi canali. Una cosa importante è stato il sostegno anche spirituale: quante preghiere noi, come cristiani perseguitati, percepiamo e sentiamo che sono state fatte! Cito in particolare l’Appello all’umano con il comitato Nazarath che si sta diffondendo: ci siamo anche noi dentro e preghiamo per chi prega anche per noi. Per ultimo, le responsabilità e le colpe. Non vogliamo incolpare nessuno per come siamo ridotti, perché non è con la ricostruzione che tutto è risolto. Il popolo è stato dimezzato, le famiglie sono state separate: una parte in Iraq, una in Giordania, una in Europa, il tessuto sociale è già distrutto. Come Chiesa, vogliamo lavorare sul rientro di quelli che hanno deciso di lasciare il Paese: è questo il danno maggiore che hanno subito i cristiani. L’Isis stava crescendo sotto gli occhi di tutto il mondo. Nessuno può dire: io non sapevo dell’Isis, soprattutto chi aveva in mano la decisione per gli interventi militari. Oggi forse Qaraqosh/Bagdida rimarrà l’ultimo bastione del cristianesimo nel Paese. Per evitare che arrivi il momento in cui dire: «Un tempo qui abitavano i cristiani», è essenziale un supporto anche politico, affinché il Governo ci protegga dove viviamo. Tornando al tema del Meeting, “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. È una storia di 39 anni, il Meeting ha fatto crescere e dato la felicità a tanti individui ma anche a tante comunità, per farle crescere umanamente. Ha dato la speranza, come avete fatto oggi quando l’organizzazione del Meeting ha deciso di invitare qualcuno da un Paese martoriato, da un popolo dimezzato che sta scomparendo, per far arrivare la sua voce a tutto il mondo. Dentro questa speranza c’è anche la felicità. Grazie.
MARIA LAURA CONTE:
Già un anno fa, quando con AVSI siamo stati a Qaraqosh partendo da Erbil, quindi proprio mettendoci sullo stesso percorso che i cristiani avevano fatto scappando da Qaraqosh per rifugiarsi in Kurdistan, abbiamo potuto constatare, con il nostro staff, che era più forte la voglia di ricominciare di queste persone che il terrore di ritrovare la casa incenerita o bombardata. Era più forte la voglia di ritornare, di riempire il camion con tutte le cose che si potevano portare a casa e ricominciare. E con Edoardo Tagliani vogliamo appunto approfondire questo bisogno umanitario che c’è ora, riconoscendo però e riaffermando qui la testimonianza di questa forza che avete potuto vedere già nel video iniziale. Usiamo questa espressione: desiderio di ripartire. Edoardo Tagliani è papà di due figli, giornalista, decide venti anni fa di fare una breve esperienza all’estero in ambito umanitario. Succede che questa esperienza la vive con AVSI in Congo, e l’impatto con la realtà stravolge la sua vita. Quindi abbandona il mestiere di giornalista e da vent’anni lavora nella cooperazione. È stato in Repubblica centrafricana, in Ciad, in Burundi, a Haiti, in Pakistan. Oggi dirige per noi i programmi nel Medio Oriente. Edoardo, qual è la dimensione del bisogno umanitario, cosa sta facendo AVSI? Ricordo che proprio a Qaraqosh c’è uno dei progetti della campagna “Tende” che penso anche molti dei presenti abbiano sostenuto, il progetto dell’asilo. Ci riguarda da vicino, raccontaci.
EDOARDO TAGLIANI:
Sì, buongiorno a tutti, grazie per questa occasione. I bisogni sono ancora molti, i principali li ha appena citati padre George. Si parte da bisogni estremamente materiali, perché bisogna ricostruire le case, la gente ha perso il lavoro, bisogna ricostruire un tessuto socio-economico e poi il vero e proprio tessuto sociale, per arrivare a bisogni meno materiali ma assolutamente primari. Vorrei spiegarvi questa necessità partendo dalle due parole, ricostruzione e rientro, e farvi vedere un lato della guerra, del rientro e della ricostruzione che spesso rimane dietro le quinte. Mi spiego meglio. Siamo abituati a vedere la guerra in Tv: chi la guarda da lontano pensa forse che la guerra sia solo i boom nel cielo, le bombe che cadono, i mortai che arrivano, gli AK che sparano, le case distrutte, i morti. Beh, la guerra è tutto questo, non solo quella di Qaraqosh, tutte le guerre. Però è anche una bestia molto bugiarda, infida, si nasconde. Certe volte ti prende in giro, i danni maggiori che fa non sono quelli che vedi. Tante volte, una guerra vera comincia quando si chiude il sipario dei rumori. Spesso la guerra è silenziosa. Per raccontarvi questa cosa, vi faccio un brevissimo passaggio. Come padre Georges ha detto, in quell’agosto del 2014, quando Daesh, l’Isis, prese la città di Qaraqosh, eravamo già a Erbil. Erbil è la città dove gli abitanti di Qaraqosh, per la maggior parte, non tutti, si sono rifugiati considerandola sicura, e hanno avuto ragione perché Erbil non è mai caduta sotto il tallone di Daesh, sotto il tallone dell’Isis. Noi eravamo lì, abbiamo fatto diverse cose ma oggi ci concentriamo su una. Abbiamo allestito un asilo temporaneo per i bambini di Qaraqosh in un quartiere chiamato Ozal City: l’asilo è diventato l’asilo di Ozal City. Poi, finalmente, dopo lunghi anni, la liberazione di Qaraqosh. Che cosa fa AVSI? Aveva accompagnato quelle famiglie e quei bambini durante la loro fuga e durante il tempo di permanenza nel luogo di rifugio, così decide di riaccompagnarli indietro e di ricostruire l’asilo originario di quei bambini. In realtà, prima dell’Isis in quell’asilo c’erano circa 150 bimbi, adesso, con i lavori di ristrutturazione, i bambini sono diventati 453, perché di fatto è una delle strutture che è stata resa immediatamente operativa. Abbiamo iniziato i corsi a ottobre dell’anno scorso e quest’anno si parte con il secondo anno. Per raccontarvi qualcosa di questa guerra “dietro le quinte”, partirei da due video brevissimi. Fate attenzione. Nei video vedrete una donna, una maestra di questo asilo e un bimbo che va all’asilo. Cercate di memorizzare le poche parole che dicono.
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Allora, torniamo immediatamente al concetto di prima e vediamo se con questi due brevi video riesco a spiegarvi una delle tante cose che fa la guerra quando smette di esplodere, quando il suo rumore diventa silenzio. La maestra d’asilo dice: «Sono di Qaraqosh e finalmente sono tornata, insegno all’asilo». Adrian, invece, dice: «Ho cinque anni e prima di venire a Qaraqosh abitavo a Erbil». Provate a pensare qual è la differenza. Lui è nato in fuga. Chi passeggia da quelle parti, come facciamo noi per mestiere, o padre Georges. Sto parlando di Qaraqosh ma potrei parlare dell’intera crisi siriana: quando si va nei campi profughi del Libano, della Giordania, tra gli sfollati interni della Siria, si passeggia tra intere generazioni di bambini che non conoscono niente altro che la loro condizione di sfollati. Non hanno memoria di che cosa sia casa. La maestra torna, il bambino no, il bambino va a Qaraqosh, è lui stesso che lo dice. Facciamo due conti, proprio mal tagliati. I vostri primi ricordi nitidi, a che età cominciano? Quattro, cinque anni? Facciamo una media? Diciamo quattro. I bambini di Qaraqosh sono stati in fuga tra i tre e i quattro anni. Allora, quattro più quattro fa otto. Vuole dire che tutti i bambini al di sotto degli otto anni non hanno nemmeno una immagine di che cosa era casa loro. Altri profughi siriani sono in fuga da sette, otto anni. Otto più quattro fa dodici: sono già adolescenti e non sanno dov’è casa loro. Paradossalmente, il ritorno per loro sarà quasi come essere sfollati a casa. Il tessuto sociale, come diceva anche padre Georges, è da ricostruire anche in questo senso perché la guerra sta creando generazioni di sradicati. Quel bambino, mentre era in fuga a Erbil, magari abitava in un certo posto, sotto una tenda dove si era fatto i suoi amichetti, magari è rientrato a Qaraqosh e qualcuno di quegli amichetti non è ancora rientrato oppure sono rientrati ma abitano in due quartieri differenti e non si vedono più. Per lui, è una vita nuova. La maestra ritorna e lui va per la prima volta a Qaraqosh. Questo è un lavoro: ricostruire le case e gli asili è difficile ma questo è più difficile. È uno dei tanti danni silenziosi che fa la guerra. Se ci sarà ancora occasione, ne citeremo qualche altro ma chiudo immediatamente questo intervento dicendo che giustamente, come Georges ha appena finito di dire, c’è una grossa componente sociale ed economica da ricostruire, da rimettere in piedi. Insomma, aggiusti la porta della casa, tiri su il muro ma poi non hai un lavoro. Come fai a vivere in una città come Qaraqosh? Noi continueremo il supporto all’asilo, quest’anno e probabilmente anche l’anno prossimo, ma a settembre, tra pochi giorni, comincerà un progetto la cui prima fase è biennale, per l’appoggio alla riapertura di oltre cento aziende agricole e di allevamento familiare che erano, prima dell’Isis, la maggiore fonte di sostentamento delle famiglie di Qaraqosh. Non si può vivere in una città dove non riprende completamente la vita e queste cose, il tessuto sociale e il tessuto economico, sono altrettanto difficili da ricostruire. Noi come AVSI speriamo di poter giocare un ruolo importante. Grazie.
MARIA LAURA CONTE:
Riprendendo il filo della storia di questi cristiani nel Medio Oriente, Qaraqosh è un frammento che fa luce su tutta la loro situazione che è molto delicata, molto particolare. Monsignor Ortega recentemente ha pronunciato queste parole durante un incontro di preghiera per i cristiani medio orientali: «La testimonianza di fede di questi cristiani stupendi è un tesoro per noi, un sì a Dio che a loro è costato tutto. Nel 2014, con l’arrivo dello Stato islamico, sono stati costretti a convertirsi, pagare una tassa o andarsene, per sfuggire al massacro. Hanno lasciato tutto per non rinnegare la fede. La loro testimonianza per noi in Occidente è un regalo». Come e perché?
ALBERTO ORTEGA MARTIN:
Buongiorno a tutti, sono contento di partecipare a questo incontro e di far conoscere di prima mano la situazione dei cristiani in Iraq, che io chiamo cristiani stupendi. Ho avuto la fortuna di incontrare il Papa, il mese scorso. Dicevo anche a lui: «Per me, essere Nunzio in Iraq è un privilegio». È un privilegio essere vicino a questi cristiani, poter fare qualcosa per loro, per il Paese. Sono molto contento ed è una grande speranza vedere che stanno rientrando nei loro villaggi, è cominciata già la ricostruzione. Mi venivano alla mente alcune parole del messaggio del Papa al Meeting: «La risurrezione di Gesù Cristo non è una cosa del passato, contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo, dove sembra che tutto sia morto da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione». È una forza senza eguali quando, nel mezzo dell’oscurità, comincia a sbocciare qualcosa di nuovo. Questa è la forza della risurrezione, una forza più grande di qualsiasi altra cosa, e i cristiani iracheni lo hanno testimoniato. Io dico che la loro testimonianza è un tesoro perché ci ricordano il valore della fede, ci ricordano che ciò che abbiamo di più caro che è Cristo stesso. Loro, per dire di sì a Cristo hanno perso tutto. C’era questa opzione: o convertirsi o pagare la tassa o andare via. Non dico che non ci siano ma io non so di nessuno che si sia convertito anche per finta, per mantenere il lavoro, per mantenere la casa, per salvare la vita: tutti sono andati via e dicevano, quando qualcuno andava a incontrarli nei campi rifugiati: «Ci hanno tolto tutto ma non ci hanno tolto la fede». Per me, è un tesoro, questa testimonianza. Ci ha aiutato in Italia, in Spagna, in Occidente. Conosco tanta gente per cui questa testimonianza dei cristiani iracheni è stata un appello, un richiamo a vivere con più intensità la fede. È molto bello vedere anche come queste necessità – prima erano all’aperto, poi nei campi rifugiati, poi nelle case affittate – a poco a poco, grazie a Dio, stiano rientrando ma loro hanno bisogno ancora del nostro aiuto. Questa situazione ha generato anche una grande solidarietà a livello della Chiesa, sono arrivati aiuti da tanti Paesi, aiuti concreti, prima per mantenere loro, adesso per aiutarli anche a rientrare nei villaggi. La loro testimonianza è una ricchezza per la Chiesa, alcuni hanno dato anche la vita ed è molto bello che per alcuni di questi martiri, come ci ha ricordato padre Georges, siano aperte le cause di beatificazione, di canonizzazione, sia da parte dei Caldei che anche della Chiesa siro-cattolica, per i cui fedeli sono già santi, martiri. Anche la Chiesa si appresta a riconoscerli, sarà un tesoro per tutti. Loro vogliono rientrare, anche mossi dall’attaccamento alla loro fede che li sostiene e che li ha sostenuti quando erano soli. Era commovente vedere che, nei campi dei rifugiati, il centro era la cappella, che poco a poco è diventata una Chiesa e all’inizio era solo una tenda, la tenda della speranza. Adesso che stanno rientrando, è molto bello vedere che alcune di queste chiese, ad esempio del campo di Osal, sono state riportate in un quartiere di Qaraqosh. Bello, no? E lì continuano a essere il centro della vita delle persone. È bello vedere anche il ruolo che hanno avuto i preti e le religiose, i primi che sono rientrati. Il patriarca caldeo ricordava a tutti: «Voi dovete essere i primi, perché se non rientrano i preti, se non rientrano le suore, la gente non rientra». Adesso, con l’aiuto di tutti, riaprono le scuole, gli asili, si riprende la vita normale sostenuti dalla fede. È bello vedere anche la capacità di perdono. Mi commuove sentire alcuni di questi che sono già rientrati, grazie a Dio, che perdonano quelli che li hanno cacciati via, che pregano per loro. Vi ricordate il filmato di Miriam, questa bimba di Qaraqosh, dolcissima? Io ho avuto la fortuna di conoscerla la prima volta che sono andato ad Ankawa, Erbil. Era là con i bambini del catechismo. Ho chiesto alla suora che era con me e che mi traduceva di salutarla. Le dico: «Hai tanti amici in Italia e in Spagna». Lei era molto contenta e io pensavo: qua ci sono 400 bambini che frequentano il catechismo, quanti saranno come Miriam? Non è l’unica che vive così, è un popolo cresciuto con le fede, capace di perdonare, di vivere la carità. E adesso è commovente vedere la Caritas Iraq che aiuta tutti, i cristiani ma anche gli altri e soprattutto, essendo la maggioranza della popolazione musulmana, aiuta tantissimo i musulmani. Adesso che ci sono tanti rifugiati da Mosul, la Caritas Iraq li aiuta, porta cibo: alcuni di loro sono quelli che hanno cacciato via i cristiani e che adesso hanno bisogno che i cristiani gli portino da mangiare. Una cosa dell’altro mondo, una testimonianza preziosa! Comincia qualcosa di nuovo. Adesso la missione della Chiesa – come dico sempre ai sacerdoti e alle religiose – è dare speranza, sostenere questa speranza che nasce dalla fede. La speranza non può essere basata sul cambio delle circostanze che io auspico e per cui prego. La vera speranza è la presenza del Signore, la certezza che dà il Signore, con le parole del Papa al Meeting: «La convinzione che Cristo è l’inizio del mondo nuovo». Questi cristiani ci insegnano il valore della fede. Quando ho chiesto ad alcuni di loro: «Che cosa vi aspettate dai cristiani in Occidente?», mi aspettavo che rispondessero «che ci aiutino, che mandino soldi». Invece mi dicevano: «Che vivano la fede». Il punto centrale per loro è che vivano la fede. Penso che sia il modo più grande di aiutare, la preghiera, ce lo hanno ricordato gli interventi precedenti. Possiamo aiutare concretamente con tanti aiuti, qualche Governo ha aiutato un po’, l’Ungheria, ad esempio, ma quasi tutto dipende dalla Chiesa. Questi aiuti sono importanti ma il grande contributo è sostenere il loro sì al Signore con il nostro sì al Signore. Sostenerli perché la presenza dei cristiani è fondamentale. Abbiamo sentito la diminuzione drastica, quasi tragica del numero dei cristiani, è successo in Iraq ma anche in Siria e in altri Paesi: è un peccato. Il Medio Oriente senza i cristiani non è il Medio Oriente, sarebbe una grave perdita non soltanto per la Chiesa ma per tutta la società. Loro hanno una missione fondamentale come ponte, ci ricordavano. Ecco, la missione di essere ponti, artefici di pace, di riconciliazione, di sviluppo: se c’è questo desiderio di giustizia, di rispetto è perché sono valori che noi abbiamo nella nostra tradizione. Il Papa ha molto a cuore tutto questo, ne parla in continuazione, ha fatto tante iniziative per sostenere i cristiani in Iraq e in Medio Oriente. Per esempio, ha nominato il patriarca di Babilonia dei Caldei, ha fatto cardinale il capo della Chiesa caldea. Un merito per lui, ma soprattutto in gesto di vicinanza, di amore alla Chiesa in Iraq, che è stato apprezzato da tutti, anche dai musulmani. Il 7 luglio ha convocato a Bari un incontro di riflessione e di preghiera per tutti i patriarchi, i vescovi, ha fatto un discorso stupendo e ha dato un sostegno importante. I cristiani hanno una missione, nessuno può fare al posto loro. Quando parlo con loro per incoraggiarli a restare, l’unica cosa che mi viene in mente è questa: «Avete una missione fondamentale, siete la presenza di Cristo qua. Vi invito a continuare a sostenerli con la preghiera, con l’aiuto e, soprattutto, con il vostro sì quotidiano al Signore. Grazie di cuore.
MARIA LAURA CONTE:
Ancora torniamo da te, Maria, perché, come dicevo all’inizio, queste occasioni sono strumenti per ridurre le distanze, e la conoscenza in questo è fondamentale. Tu lavori nei media, conosci tutti i meccanismi dell’informazione: dacci qualche consiglio per restare aggiornati, consapevoli di quello che accade in questi posti che spesso sono raccontati nella lotta tra propagande diverse. Come mantenerci consapevoli e conoscere quello che accade, anche quando i media più importanti gettano un cono d’ombra?
MARIA GIANNITI:
Credo con iniziative come queste, portando delle persone che arrivano direttamente dalla situazione e che quindi ci permettono di capire che cosa sta accadendo in questo momento. Siamo tutti pronti, noi giornalisti, a correre nel momento in cui c’è da raccontare una guerra, ma non siamo altrettanto pronti a correre nel momento in cui c’è da raccontare quello che ci ha raccontato padre Georges, cioè quello che si sta facendo adesso. Io credo che per il pubblico, per cercare di capire che cosa accade, sia importante rivolgersi direttamente alla fonte: loro sono la nostra fonte anche quando ci troviamo a dover raccontare un conflitto. Rivolgersi direttamente alla fonte e capire quello che si sta facendo sul posto, perché soltanto andando, per quanto riguarda noi, sul posto, si riesce veramente a raccontare. Per questo io penso che, nell’era di Internet, sia importante avere degli inviati – questo vale per i giornali, per la Tv, per la radio e per tutti i mezzi di informazione – che vadano e raccontino dal posto, perché così possono fare un racconto in prima persona. Quando non viene fatto, perché purtroppo i media lo fanno sempre di meno, allora far sì che le persone che lavorano e vivono in quei posti vengano qui e ci raccontino quello che si sta facendo, perché padre Georges ha detto una cosa importantissima: Qaraquosh è rimasto il bastione nella piana di Ninive per i cristiani. È una notizia triste e importante al tempo stesso, considerando quelli che erano i numeri prima dell’invasione dell’Iraq del 2003. È un dato importante di conoscenza che ci possono portare soltanto persone che vengono da quelle zone. Per quanto riguarda noi giornalisti, il nostro impegno è di insistere con i nostri editori affinché continuino ad inviarci. E per quanto riguarda il pubblico, cercare di acquisire informazioni non tanto dai media generalisti bensì proprio da chi vive sul terreno, per capire effettivamente qual è la situazione. Anche perché c’è un piccolo particolare: purtroppo, anche per noi giornalisti, è diventato molto difficile raccontare determinati conflitti perché è pericoloso. C’è un collega più anziano di me che mi racconta, quando si parla del Medio Oriente: «Quando ci fu il conflitto in Libano, che durò quindici anni, per noi era facile: potevamo raggiungere qualsiasi parte del Libano perché tutti ci accoglievano». Adesso, invece, dopo gli attacchi dell’11 settembre, dopo la guerra in Iraq, tutto è diventato complicato, i giornalisti non hanno accesso a tutte le zone. Ci sono zone d’ombra, in questi Paesi dove noi non possiamo arrivare per raccontare. Possiamo soltanto riportare le testimonianze di chi è lì attingere informazioni da loro che sono la fonte primaria per permettere al grande pubblico di capire veramente quello che sta accadendo.
MARIA LAURA CONTE:
Edoardo, prima ho elencato tutti i Paesi in cui sei stato. Tu sei abituato a muoverti dove c’è distruzione, dove bisogna riscostruire. Dopo vent’anni, che cosa ti impedisce di morire di scetticismo davanti alle macerie e anche davanti ai numeri? Quanti bambini salva l’asilo, quanti ne aiuta? 400, 600? Ma abbiamo sentito che 20mila non sono tornati. Allora, che cos’è che non ti fa dire: «Basta, mi arrendo»?.
EDOARDO TAGLIANI:
Mi lanci una palla alta, perché volevo chiudere il mio intervento dicendo una cosa e la domanda è perfetta. Uno dei cinque punti di metodo di Avsi è la persona al centro, cioè la centralità dell’individuo. Da come si incontrano le persone, cambia l’interpretazione del mondo e di quello che accade. Facendo questo bislacco mestiere nostro, spesso si ha l’enorme privilegio di incontrare delle persone la cui caratura morale la cui determinazione, la cui forza di volontà, il cui buon senso suggerisce di stare zitti, ascoltare, possibilmente imparare. E magari, poi, quando la sera torni a casa, ti vergogni anche un po’ delle tue più o meno pesanti inadeguatezze. Stasera non è emersa a sufficienza una cosa. Una delle persone sedute alla mia sinistra sta facendo una cosa che ha del miracoloso. Sono in tanti che lavorano alla ricostruzione di Qaraquosh, certo, ma c’è un motore dietro questa opera di ricostruzione! Come si è detto fino ad ora, non si tratta di ricostruire una città ma – cito a memoria – il bastione della cristianità nella piana di Ninive. Io sono quasi certo che le cose sarebbero andate in maniera molto diversa se non ci fosse stato un uomo come padre Georges in quel posto, in quel momento. Anche questo non mi scoraggia, perché ne incontri diversi, di questi uomini, di qualsiasi credo religioso, ma con la capacità di guidare altri uomini e fare fronte sempre alle situazioni peggiori con un messaggio di speranza. Uno è qui. Prima che riprenda la parola Maria Laura, fategli un applauso!
MARIA LAURA CONTE:
Quando si gira e si cammina per le strade di Qaraqosh, tra le macerie, tra questi paesaggi che diventano grigi perché la distruzione cancella anche i colori, la domanda è: questa distruzione esterna la vedi, la distruzione dell’anima non la vedi ma non è meno grave, la distruzione della fiducia reciproca. I racconti che arrivavano nei giorni dell’occupazione dicevano che spesso i cristiani scappati ricevevano messaggi da chi aveva occupato le loro case con la foto dell’occupante seduto sul divano. Le ferite della fiducia reciproca che c’era tra vicini di casa e che nella notte dell’occupazione è stata tradita, padre Georges, la ricostruzione di questa fiducia, come la sta mettendo in atto?
GEORGES JAHOLA:
A chi ci dà uno schiaffo non è facile dire «Grazie»! Ci vuole un po’ di tempo per assorbire questo schiaffo e rispondere in maniera più cristiana e più umana. Perché in quella terra, parlare dell’umano è un po’ esagerato. Non troviamo tanta accoglienza all’umano quando l’uomo è schiacciato dalla politica dalla violenza. Però il nostro ruolo come Chiesa è anche di riconciliare le diversi parti. Soprattutto, non si può vivere in un ghetto chiuso perché siamo accerchiati dalle altre popolazioni che magari hanno aderito all’Isis e vengono a fare commercio anche nelle nostre città. Questo ruolo serve alla Chiesa per tenere calma la situazione ma anche per rispondere in maniera cristiana. E non è indifferente. Nella prima comunità cristiana, tanti ammiravano i martiri. Dicevano: «Quale forza hanno di rispondere con bontà a chi aggredisce e fa atti di violenza!». Anche oggi c’è questa domanda: un ruolo quindi che non significa solo la capacità di essere buoni ma di dare una testimonianza nell’ambiente dove viviamo. Chi riflette, allora, può dire che il cristiano è immagine giusta del Dio che perdona. Forse, è una via per abbracciare il cristianesimo. Se riusciamo in questo, forse potremo convincere il nemico.
MARIA LAURA CONTE:
Monsignor Ortega, le chiederei semplicemente una cosa. Lei ha detto che i cristiani in mezzo ai quali vive in Medio Oriente chiedono preghiere. Esattamente, quando è nel silenzio della sua preghiera per i cristiani, che cosa chiede e che cosa ci suggerisce di chiedere? Qual è la domanda precisa che Lei fa? Di che cosa hanno bisogno, che cosa chiede per loro?
ALBERTO ORTEGA MARTIN:
A livello della preghiera, che vivano la fede, la loro vocazione. ci sono due aspetti che mi sembrano importanti. Da tempo, il Papa manifesta una grande preoccupazione per la diminuzione del numero dei cristiani, c’è stato anche un Sinodo dei vescovi del Medio Oriente. L’iniziativa era nata proprio in Iraq dove questo sinodo aveva preso forma ancora ai tempi di Benedetto. Il risultato è stata un’Esortazione apostolica, Ecclesia in Medio Oriente. Comunione e testimonianza sono le due cose fondamentali per i cristiani: che vivano la comunione non è scontato ma è il cuore della vita della Chiesa. È molto bello che l’iniziativa di questo comitato per la ricostruzione di Ninive, dove c’è padre Georges, coinvolga la Chiesa siro-cattolica, quella caldea, che è maggioritaria in Iraq e anche la Chiesa assira presente nella piana di Ninive. Si cerca di lavorare insieme; in un modo misterioso, la persecuzione ha unito i cristiani. Il Papa parla di ecumenismo del sangue del martirio perché quando perseguitano i cristiani non dicono: tu sei caldeo, tu sei siro- cattolico, tu sei cristiano. Che cosa ha chiesto Gesù alla fine, nella preghiera che noi chiamiamo sacerdotale? Che tutti siano una cosa sola perché il mondo creda. Questa comunione è fondamentale e io prego per loro, che vivano la comunione. C’è una grande diversità e una ricchezza grandissima in Medio Oriente: la Chiesa caldea, la Chiesa siro-cattolica, la Chiesa armena e latina, gli ortodossi. C’è una ricchezza ma non è scontato che si viva la comunione, allora bisogna pregare perché la presenza buona del Signore sia come una promessa per la vita di ogni uomo.
MARIA LAURA CONTE:
Grazie. Con queste parole chiudiamo questo momento di dialogo e di conoscenza. Io vi ringrazio e vi invito a passare dallo stand dell’AVSI per guardare la mappa che abbiamo voluto mettere su una parete: è il mondo capovolto. L’idea è questa, noi proponiamo una geografia alternativa in cui le distanze cambiano, in cui noi potremmo essere a Qaraqosh, immedesimarci con la comunità di padre Georges e così vedere il mondo da un altro punto di vista. Ci aspetta un lavoro doppio, credo. Uno, continuare la conoscenza, indagare e non stancarci di conoscere, vedere, ascoltare. E l’altro, che comunque io vi propongo, sostenere concretamente. I mezzi sono molti, il più personale, credo, quotidiano e coerente con questa proposta di geografia alternativa è quello del sostegno a distanza. Un piccolo sforzo quotidiano produce un cambiamento lontano da noi e favorisce un buon vicinato. Si può aiutare un bambino, una famiglia: l’impatto forse non toccherà misurarlo a noi ma ha una grande forza. Se volete saperne di più, sul sito di AVSI ci sono le informazioni, vi invito a venire e vedere i nostri progetti. Grazie.
(Trascrizione non rivista dai relatori)