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LA RICONCILIAZIONE STATI UNITI-CUBA: RIMARGINARE UNA FERITA
Partecipano: Miguel Benito “Mike” Fernandez, Founder of MBF Healthcare Partners, Cuba; Pedro Freyre, Partner and Chair of the International Practice in the law firm of Akerman LLP, USA; Rolando Guillermo Suárez Cobián, Consigliere Giuridico della Conferenza Episcopale di Cuba. Introduce Roberto Fontolan, Direttore Centro Internazionale di Comunione e Liberazione.
LA RICONCILIAZIONE STATI UNITI-CUBA: RIMARGINARE UNA FERITA
ROBERTO FONTOLAN:
Buongiorno, il nostro titolo di questa mattina è “La riconciliazione Stati Uniti-Cuba: rimarginare una ferita”. E’ una storia un po’ particolare, perché ha coinvolto persone con vari ruoli, varie figure. Ma ad un certo punto siamo tutti rimasti sorpresi del fatto che, tra il 2014 e il 2015 – quindi non tantissimo tempo fa – John Kerry, Segretario di Stato americano e Ministro degli Esteri, disse ad un certo punto: “Il Santo Padre e il Vaticano hanno avviato un nuovo capitolo delle relazioni tra i due Paesi”. Ci fu un grande moto di sorpresa nell’opinione pubblica, non solo italiana ma internazionale. Che cosa c’entra? Come può il Papa riannodare una storia che tra questi due Paesi è stata così complicata, dura, difficile? Che cosa è successo? Che cosa è entrato in questa partita? Dopo varie ricostruzioni, si è capito che c’è stato un intervento diretto del Santo Padre, vari incontri più o meno segreti durati 18 mesi, ospitati dal Canada con un ruolo attivo da parte della diplomazia vaticana, lettera del Papa ad Obama e a Castro: insomma, dietro questa frase, che poi è stata ribadita dallo stesso presidente Obama, emergeva tutto un mondo, tutta una storia naturalmente complessa, di grande delicatezza. Ed è uno dei punti, questo tema della riconciliazione Stati Uniti-Cuba, uno dei momenti, degli eventi che ha fatto parlare la misericordia come strumento della politica. Se ne parlerà anche oggi qui con il principale teorico di questa espressione che è Padre Spadaro, Direttore della rivista La Civiltà Cattolica: insomma, questa vicenda tra Stati Uniti e Cuba è una delle storie che più hanno legittimato o indotto a pensare che la misericordia non sia un fatto privato tra due persone, o meglio non solo. Ma che abbia una potenzialità, una capacità, che possa sviluppare forze e risorse che hanno a che fare anche con i temi più duri, più difficili, più spinosi della politica e addirittura delle relazioni internazionali. Ecco, quindi, l’interesse di questa occasione, di questo dialogo che avremo la prossima ora, per capire che cosa è veramente successo. Non verranno svelati qui i segreti delle diplomazie, ma forse questi nostri amici che adesso vado a presentare sveleranno su quali gambe, su quali idee, con quali volti, con quali azioni, le logiche politiche e internazionali possono cambiare, possono diventare un’altra cosa, possono rappresentare un segno nuovo.
Voglio solo citare una cosa che forse avevo già citato in un’altra occasione. Un autore israeliano che io amo molto, David Grossman, in un suo articolo scrive: “Noi israeliani e palestinesi, noto, ci confrontiamo da tantissimi anni”. L’Economist la definisce la guerra dei 60 anni, anzi, ormai 70, pensate a cosa significa tutto questo. “Però mi sono meravigliato di come in Irlanda del Nord” ricorderete la guerra tremenda e tutte le vicende complicatissime e sanguinose dell’Irlanda del Nord, le componenti cattoliche e protestanti e tutte le loro articolazioni politiche “ad un certo punto sono riusciti a guardarsi in faccia e ad avviare un cammino di riconciliazione. Come hanno fatto?”. Questa era la cosa interessante: lui organizzò un seminario in una piccola scuola in un territorio neutrale, in Svizzera, chiedendo ad una delegazione di protestanti nord-irlandesi e ad una delegazione di cattolici nord-irlandesi di spiegare, di istruire israeliani e palestinesi su come avessero fatto ad avviare questo cammino di riconciliazione. Bene, la cosa più interessante, incredibile, è che per un istante questa riconciliazione è stata una possibilità, è stata avviata. Si è detto: “Ok, se continuiamo a ragionare del passato, il passato ci condannerà perché nel passato ci sono sempre torti o ragioni mai riconciliabili. Ma se oggi ci guardiamo in faccia, in questo presente, se accade qualcosa tra di noi oggi, anche il passato potrà essere ricompreso”. Ecco, questo era un po’ l’antefatto della situazione ed il motivo per cui è stato così interessante, anche così sorprendente, poter organizzare questo incontro con queste tre persone. Tra poco tacerò perché qui la giornata avrà un mia destra, che vi prego di accogliere come piace agli americani: “Who is the Boss?”, chi è il capo?; “You are the Boss”, tu sei il capo. Lui ci aiuterà e ci condurrà in questo piccolo viaggio sulla riconciliazione: come è stato possibile? Cosa è successo? Non credo che verranno rivelati i segreti diplomatici, che forse è un bene che rimangano segreti, ma credo che avremmo un’idea chiara di qual è il segreto umano con cui queste cose possono accadere.
Allora, Pedro Freyre è nato a Cuba, vive da moltissimi anni negli Usa, dove esercita la professione di avvocato e forse soprattutto di manager di una grandissimo studio legale che ha sede a Miami, è una persona di tantissimi interessi e tantissime attività. Alla mia destra, abbiamo Rolando Guillermo Suárez Cobián, che è invece cubano, vivente a Cuba, anche lui con una storia professionale di avvocato: è stato Direttore della Caritas cubana per diversi anni ed è consulente legale della Conferenza dei Vescovi cubani. Dico ai nostri amici che le nostre presentazioni non sono le presentazioni classiche dei convegni dove spesso la lettura delle biografie prende più tempo degli interventi. Le loro biografie sono molto estese però potrete consultarle sul sito del Meeting. E infine, voglio presentare Miguel Benito “Mike” Fernandez alla mia sinistra, anch’egli è nato a Cuba e vive negli Usa, come Pedro è cittadino americano anche se questa figura, questo DNA un po’ misto, cubano-americano, rende difficili le definizioni secche. Miguel è un grande imprenditore, soprattutto nel settore della sanità e del welfare, presiede diversi Consigli di Amministrazione e anche lui ha una dimensione di attività, di professionalità e di interessi internazionali. Allora, come ho detto, ora cedo la parola al capo di questa conversazione, la nostra guida, il nostro leader che è Pedro Freyre. Parleranno in inglese e invece Rolando in spagnolo, ma come sempre i nostri meravigliosi interpreti sapranno seguire bene questa conversazione. Prego, Pedro.
PEDRO FREYRE:
Grazie, per me è un onore e un privilegio essere qui oggi. Innanzitutto vorrei iniziare con qualcosa di serio, cioè vorrei condividere il dolore e fare le mie condoglianze a tutti voi per le vittime del terremoto che è appena successo. Inizierò quindi subito a concentrarmi proprio sulla domanda: perché siamo qui oggi? Perché questa nuova conversazione che si è sviluppata tra Cuba e Usa porta testimonianza del fatto che “tu sei un bene per me”? È importante capire questa dinamica tra Cuba e Usa, sono dei vicini, si trovano solamente a 90 miglia di distanza. Eppure, se leggete la storie dei due Paesi negli ultimi 100 anni vedrete che c’è sempre stato uno scontro, un conflitto, un disaccordo. Contemporaneamente, però, condividiamo tantissimo, moltissimi valori, aspirazioni, desideri. Soprattutto siamo una famiglia: quindi, questa è la storia di due fratelli oppure di due sorelle, meglio. Una molto grande, molto ricca, molto potente; l’altra molto bella, molto più piccola, molto più dolce, credo. Le due vivono vicino l’una all’altra e come tutte le famiglie hanno avuto i loro problemi. Noi tre che siamo qui oggi siamo stati benedetti proprio per il fatto che siamo riusciti a svolgere un piccolissimo ruolo per aiutare questi fratelli, o meglio queste sorelle, a riconciliarsi per andare avanti in un lungo viaggio di pace. Perdonatemi, in realtà sono uno storico, quindi vi annoierò un po’ con la storia ma credo sia importante capire il contesto in cui ci muoviamo. E nessuno meglio del mio carissimo amico Piro, come lo chiamiamo perché è un uomo esclusivo, può raccontarci questi rapporti contesi tra i due fratelli Cuba e Stati Uniti. A Piro la parola.
ROLANDO GUILLERMO SUÁREZ COBIÁN:
È giusto dire che siamo fratelli o sorelle, in questo caso ci si parlava a distanza ma di 25 minuti tra un Paese e l’altro. Ci vuole di più a raggiungere l’altra parte dell’isola che ad arrivare negli Usa. Però la realtà è che Cuba è un’isola e non ci sono frontiere, l’unica frontiera è il mare. Il mare può unire ma può anche separare, separare anche in maniera molto dura, soprattutto le persone. Non stiamo parlando di un conflitto tra i popoli, è un conflitto degli Stati che hanno dovuto affrontare determinate circostanze ma in realtà, per quanto riguarda il popolo, c’è sempre stata comunicazione, ammirazione, rispetto reciproco. Però, questo conflitto, cosa ci ha portato? Perché ha danneggiato in maniera così pesante i Paesi? Ha danneggiato l’unità delle famiglie, ha danneggiato i rapporti famigliari, rovinati dall’immigrazione. Probabilmente, a Cuba non esiste una sola famiglia che non abbia almeno un componente che ha deciso di migrare, soprattutto negli Stati Uniti, e probabilmente non esiste una famiglia a Cuba dove non ci sia mancanza di comunicazione tra i componenti a causa della separazione che ha portato a questo conflitto. Questa nuova realtà, a cosa ci ha portato? Ci ha portato un miglioramento, una maggiore comunicazione, una migliore intesa, si è capito meglio qual è la realtà sociale di una famiglia a Cuba e quali sono le possibilità che trova quando è fuori dal Paese, ma ha significato anche che questa isola ha tante potenzialità a livello sociale, economico, culturale, perché può fornire un ottimo contributo a livello mondiale. Per tanti decenni, Cuba è stata limitata in tutte queste realtà: se il cambiamento proseguirà, a beneficiarne saranno proprio le famiglie. Bisogna ricordare che quelli che se ne andarono dal paese 50 anni fa, hanno genitori e fratelli con 50 anni in più: o sono morti oppure non riescono a comunicare. E questo cambiamento permette di riavvicinarsi ma anche di modificare la struttura delle relazioni. La soluzione è proprio nel cercare di riavvicinare le famiglie e continuare ad andare avanti per quanto riguarda l’aspetto economico: questo rafforzerà e migliorerà la realtà sociale delle famiglie.
PEDRO FREYRE:
Si tratta di capire come queste famiglie siano state divise negli anni: ma per capirlo dobbiamo vedere cos’è successo in questi 50 anni di relazioni tormentate. Cuba ha visto ondate di profughi che sono migrati verso gli Stati Uniti, soprattutto negli anni ’60, nel 1964, in particolare. Successivamente, ci fu l’operazione Peter Pan durante la quale la Chiesa cattolica ha assistito alla immigrazione di circa 14 mila bambini cubani verso gli Stati Uniti. Come diceva Pedro, questi bambini ora sono cresciuti come cittadini americani, sono parte integrante della società americana e rappresentano un elemento fondamentale per quanto riguarda la comunità cubano-statunitense.
Tra il ’65 ed il ’73, 265 mila cubani sono stati inviati negli Stati Uniti con un programma mirato a far arrivare i cubani negli Usa. Nel 1980 Hollywood ha raccontato l’esodo di Mariel: 125 mila cubani che in quel momento vivevano sotto i ponti. E poi abbiamo avuto la Crisi dei Balseros: questi barconi hanno causato veramente situazioni di grande dolore per le persone che intraprendevano questo terribile viaggio. Alla fine di tutto questo, ci troviamo di fronte ad una realtà: Cuba è un paese con una popolazione che è appena sopra gli 11 milioni di persone, con 1 milione e 785 mila tra figli e nipoti che ora vivono negli Stati Uniti. Coloro che sono nati a Cuba ma che hanno poi vissuto negli Stati Uniti hanno una relazione molto particolare, molto forte, in un certo senso hanno anche un obbligo e una responsabilità: innanzitutto, fare sì che possa esserci questa riconciliazione della famiglia cubana e che Cuba e gli Stati Uniti non siano più nemici, in modo che i cubani possano scegliere liberalmente per il loro futuro senza essere soggetti alla minaccia di questo vicino, così potente e finora minaccioso. E oggi sono qui per darvi questa buona notizia. Finalmente abbiamo messo fine a questo conflitto. La politica ufficiale del Governo degli Stati Uniti ora è questa: gli Stati Uniti non sono più nemici di Cuba. Forse il governo americano non condivide a pieno il modo di vedere del governo cubano, ma ha inviato un messaggio molto, molto chiaro: gli Stati Uniti non presentano più una minaccia per Cuba. Prima di ricomporre queste ferite, eravamo arrivati ad una posizione di isolamento del governo cubano. Gli Stati Uniti avevano imposto un embargo molto severo su Cuba, con un rapporto che prevedeva una certa vicinanza e una comunicazione, uno scambio. Una volta qualcuno mi ha detto che lo sport del cambiare la società è uno sport di contatto, cioè richiede una vicinanza, un rapporto stretto tra le due società che vogliono raggiungere un obiettivo. Questa relazione così complessa, nonostante l’embargo, ha portato a fare sì che gli Stati Uniti comunque fossero uno dei più importanti partner commerciali di Cuba. Soprattutto per quanto riguarda i farmaci e i generi alimentari: speriamo che questo possa continuare. Abbiamo visto come tre Papi abbiano cominciato a svolgere un ruolo molto importante in questo percorso di riconciliazione. E qui chiederò di nuovo a Piro di darci il suo punto di vista e raccontarci come questi pontefici abbiano aperto le porte a questa politica di vicinanza.
ROLANDO GUILLERMO SUÁREZ COBIÁN:
Sì, abbiamo avuto diversi Papi a Cuba. Per tre volte abbiamo avuto il Papa a Cuba. Non accade in altri posti del mondo. Vorrei parlarvi della missione e del messaggio che hanno portato al popolo cubano. Papa Giovanni Paolo II, dopo aver messo piede in terra cubana, la baciò e il suo primo intervento fu così: “Che Cuba si apra al mondo e che il mondo si apra a Cuba”. Una cosa del genere fa riflettere uno che vive nell’isola perché fa capire che c’è tutta un’interdipendenza con il resto del mondo e per questo bisogna aprirsi, aprire la mente ma anche aprire il cuore. Credo che questo sia il messaggio più noto. Ebbe un forte impatto anche nel popolo cubano, come altri due messaggi di Papa Giovanni Paolo II. Dopo il secondo giorno dal suo arrivo, parlò della famiglia che rappresenta il cuore del Paese e del futuro. La frase fu: “Cuba, occupati della famiglia”. Questo non riguardava però solo quelli che vivevano a Cuba ma tutti i cubani a cui questo messaggio fu inviato. Poi, la seconda omelia: vi si metteva in luce che noi vivevamo in un Paese con tantissime potenzialità che potevano essere sfruttate al massimo dai giovani, nonostante la realtà fosse quella dell’emigrazione che continua ad aumentare alla ricerca di una realizzazione personale e arreca però danno alla famiglia.
Cuba è un’unità, è un popolo, è una sola nazionalità. E il cubano ne è consapevole, ovunque viva. Benedetto XVI rimarcò questo punto e nella sua visita a Cuba ricordò la nostra patrona, la Virgen de la Caridad del Cobre. Questa immagine della Vergine veniva trasportata attraverso il Paese, dai luoghi più remoti, sui monti o nelle periferie delle città. Il Papa arriva a Cuba come uno dei pellegrini che si recavano a vedere quell’immagine, facendo appello all’unità. Le strutture governative riconoscono che il simbolo della nostra unità è proprio quello. Pure Papa Francesco è venuto a Cuba, mentre stava andando a Washington, come messaggero della misericordia. Qual è stato il risultato? Ravvivare, riallacciare i rapporti diplomatici, consapevole che questo avrebbe fatto bene al popolo, non solo quello presente a Cuba ma a tutto il popolo cubano.
Questi sono i tre messaggi che a mio avviso hanno influenzato lo sviluppo della realtà a Cuba. Si è verificato un evento molto importante nella realtà del continente americano: il messaggio è rivolto al futuro, è un punto di partenza, un appello a tutti perché si partecipi a raggiungere tale obiettivo. Non si pensa solamente agli obiettivi di tipo economico, anche se certamente prima bisogna mangiare e poi si può fare della filosofia. Bisogna lavorare in questa direzione, però senza dimenticare i rapporti che sono fondamentali per lo sviluppo. La fiducia si crea proprio dentro questo dialogo dove si riconoscono le differenze e poi si difende ciò che ci accomuna. E proprio in questo senso, vedo che il nostro popolo è coinvolto in questo processo in questo momento. E vedo anche che li popolo nordamericano è interessato a che questo possa accadere. Ci sono sempre più visite da parte di cittadini nordamericani. Non si tratta di uno sciocco ottimismo, l’ho visto nei passi concreti realizzati all’interno di certe famiglie e anche nei passaggi di comunicazione a livello ufficiale. Ci sono grandissime differenze, ci sono diversi temi, ci sono conflitti, però sono temi, non popoli.
PEDRO FREYRE:
Riprendiamo la storia dal momento in cui il Papa ha aperto questa porta, prima a Cuba poi, ed è altrettanto importante, nella relazione con gli Stati Uniti. Papa Francesco è diventato uno strumento perché ha facilitato questo riavvicinamento tra Cuba e gli Stati Uniti con una serie di incontri in cui si è fatto intermediario tra i diplomatici statunitensi e i diplomatici cubani, affinché potessero avviare un dialogo che risolvesse la situazione. Il primo passo è stato uno scambio di prigionieri che ha avuto luogo come atto – diciamo così – di apertura di questa nuova fase delle relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti. La data è stata il 17 dicembre 2014. Una delle cose più sconvolgenti che accadde quel giorno, fu che nelle strade de L’Avana, dopo 50 anni di scontro con gli Stati Uniti e dopo cinquant’anni in cui ai cubani veniva ripetuto che gli Stati Uniti erano il più grande nemico, le campane delle chiese hanno suonato a festa e le bandiere americane, che non so assolutamente dove fossero state nascoste per tutti quegli anni, forse in fondo a qualche cassetto sotto il letto dei cubani, furono esposte: la gente si abbracciava per la strada per la semplice ragione che questo grande vicino del Nord dove molti cubani vivono e hanno vissuto per molto tempo, questo fratello o questa sorella non era più un nemico. E va ricordato che, nonostante le grandi differenze che comunque rimangono tra come gli Stati Uniti si autogovernano e come invece agisce il governo di Cuba, ci sono comunque dei cambiamenti in atto. Il popolo degli Stati Uniti, il popolo di Cuba, ma soprattutto coloro tra noi che hanno il privilegio di potersi definire cubano-americani desiderano fermamente che ci sia la pace e che ci sia un futuro per il popolo cubano, un futuro che il popolo cubano potrà scegliere liberamente. Il presidente americano che ha varcato questa soglia della porta aperta da Papa Francesco è stato Barack Obama, che ora sta vedendo giungere a compimento la sua carica presidenziale. Siamo stati estremamente fortunati, Mike ed io, ad avere la possibilità di partecipare, seppure parzialmente, a questo processo e ad alcuni passi dell’amministrazione americana che hanno portato a questo momento epocale per risolvere questa prima fase di difficoltà diplomatiche e modificare poi l’atteggiamento della politica americana nei confronti di Cuba. E un’altra cosa importante, al di là dello scambio di prigionieri, è stata la facilitazione dei viaggi tra Cuba e gli Stati Uniti, che hanno consentito ai cittadini cubani di visitare le proprie famiglie a Cuba. E poi c’è stata l’apertura dell’ambasciata statunitense a L’Avana e dell’ambasciata cubana a Washington, nonché il fatto che gli Stati Uniti hanno tolto Cuba dalla lista dei Paesi che sponsorizzano il terrorismo, in modo che l’intero sistema anche economico del Paese potesse riaprirsi a Cuba. Ma forse, la pietra miliare e l’apice di questo cambiamento, che è iniziato il 17 dicembre 2014, ha avuto luogo a L’Avana il 23 marzo 2016, quando il Presidente Obama vi si è recato in visita e ha tenuto un discorso rivolto a tutti i cubani. Condividerò con voi un paio di aneddoti su come si è arrivati a questo discorso del Presidente, e vi parlerò del ruolo, anche marginale, che io e Mike, e altri come noi, abbiamo avuto. Qualche settimana prima del viaggio del Presidente, un gruppo di noi è stato invitato alla Casa Bianca dove abbiamo avuto l’onore di coadiuvare Ben Rodhes, che scrive i discorsi del Presidente Obama, per far capire quali fossero i sentimenti e le opinioni dei cubani che avrebbero dovuto emergere da quel discorso. E qui mostro un po’ i miei colori politici: sono un democratico, penso che il Presidente Obama abbia fatto una cosa enorme, non solo lo staff presidenziale ci ha ascoltato ma tutti i punti che questo piccolo gruppo di cubano-americani aveva sollevato è stato poi ripreso nel discorso del Presidente. Quel giorno, noi, io e Mike, eravamo presenti quando il Presidente Obama ha tenuto questo discorso, ci trovavamo in questo enorme auditorium a L’Avana, di fronte a noi c’era il Presidente Obama, rappresentante del potere e della forza di una delle più grandi economie del mondo che parlava direttamente al Presidente del Consiglio dei Ministri di un piccolo Paese marxista. E lo ha fatto con rispetto, in modo pacifico, dando un messaggio chiaro: innanzitutto, che gli Stati Uniti non erano più un nemico e poi che i due Paesi avevano una visione differente del mondo. E ha iniziato il proprio discorso con la citazione da una poesia di Josè Martì che dice: “Offro una rosa bianca agli amici e anche ai nemici”. Vi invito ad andare a cercare su Internet questa poesia che è davvero bellissima. E sono state queste le parole di apertura del discorso del Presidente Obama alla gente di Cuba: “Vi offro una rosa bianca”, quindi un messaggio di pace. Poi ha continuato dicendo: “Sono venuto a seppellire le ultime tracce della guerra fredda nelle Americhe” e ancora: “La cultura cubana e la cultura degli Stati Uniti negli anni, in un certo senso, si sono fuse”. Come è accaduto per esempio riguardo allo sport nazionale, che a Cuba è il baseball, non il calcio, non il nuoto, non il football americano. E’ il baseball, e il motivo è che questa storia che accomuna la gente di Cuba e che arriva negli Stati Uniti ha portato a una fusione di cultura, a un mix di culture. Poi, il Presidente ha detto – devo dire che questa è una delle citazioni che preferisco -, citando Martin Luther King: “Non possiamo dimenticare le paure e l’urgenza dell’ora, dell’adesso. Questa riconciliazione tra gli Stati Uniti e Cuba deve essere fatta ora”. E poi, c’è stato un momento in cui noi cubano-americani presenti siamo rimasti molto colpiti, quando ha detto che aveva fiducia nel popolo cubano: “Sappiamo che cosa sa fare il popolo cubano, abbiamo un monumento che ce lo ricorda, quel monumento è Miami”. Ed è in effetti lì che la maggioranza di quel milione e 700 mila cubani che hanno lasciato il Paese vivono negli Stati Uniti. Quindi, anche noi abbiamo contribuito a creare, a costruire quella meravigliosa città che è Miami. Ora leggerò un pensiero del Presidente Obama che per me è veramente incredibile. Ha detto: “E qui cominciano le nostre speranze, con la capacità delle persone di guadagnarsi da vivere e di costruire qualcosa di cui andare fieri. Ecco perché la nostra politica intende sostenere i cubani, e non ostacolarli. Così potranno avere maggiori risorse attraverso le rimesse degli Stati uniti, attraverso i viaggi che creeranno un ponte tra i nostri due popoli”. Il Presidente poi ha aggiunto, in modo molto diretto, che gli Stati Uniti non hanno né la possibilità né l’intenzione di imporre dei cambiamenti a Cuba. I cambiamenti che ci saranno dipendono solo ed esclusivamente dai cittadini cubani. Gli Stati Uniti non imporranno, ha detto il Presidente, il proprio modello politico ed economico. Noi riconosciamo che tutti i popoli hanno il diritto di definire il loro destino. Poi ha citato di nuovo Josè Martì: “Devo dire in modo molto onesto quello che penso, le cose in cui noi americani crediamo: la libertà è il diritto di ogni uomo di essere onesto, di parlare, di pensare senza ipocrisia”. E ha poi concluso con questa frase magnifica: “Non posso imporvi di essere d’accordo con me ma voglio che sappiate cosa penso. Penso che ogni persona debba essere uguale di fronte alla legge, ogni bambino merita la dignità che deriva dall’assistenza sanitaria, dall’istruzione, dal cibo e da un tetto sopra la testa. Credo che i cittadini debbano poter esprimere la propria opinione senza paura e criticare il proprio Governo, protestare in modo pacifico se lo desiderano, e lo stato di diritto non deve prevedere una detenzione arbitraria per le persone che esercitano questi diritti. Credo che ogni persona debba avere la libertà di praticare la propria fede in modo pacifico e pubblico. E, sì, credo che gli elettori debbano poter cambiare i proprio Governi con elezioni libere e democratiche”. E ha chiuso il proprio discorso con queste parole: “La storia degli Stati Uniti e di Cuba comprende tutta una serie di aspetti di rivoluzione, di lotta, di sacrificio, ed ora la riconciliazione. Il momento è ora, è ora che dobbiamo lasciarci il passato alle spalle e guardare avanti ad un futuro insieme, un futuro di speranza. Non sarà facile, ci saranno dei momenti difficili e ci vorrà tempo, ma la mia visita qui a Cuba non fa che rafforzare la mia convinzione di quello che i cubani potranno fare. Faremo questo cammino insieme come vicini, come membri di una stessa famiglia. Sì, è possibile”. Con queste parole, il Presidente degli Stati Uniti ha finalmente fatto crollare il mito della inimicizia tra Cuba e gli Stati Uniti durato più di 50 anni. Questo rappresenta un inizio perché molte sono le sfide che ancora ci attendono. Per parlare di queste sfide, direi che la persona migliore è il mio amico Mike Fernandez, che ha svolto un ruolo molto importante, molto ingrato peraltro, perché spesso le persone a Miami, negli Stati Uniti, ancora non vogliono cambiare il proprio ruolo, il proprio modo di pensare. Per Mike è stato molto difficile portare avanti il suo pensiero, ma lo ha fatto con forza, con carattere e si è esposto alle critiche dei suoi concittadini, dei suoi connazionali, perché crede nel futuro di Cuba e crede che quando si sono ricevuti molti doni si ha l’obbligo di restituirne altrettanti. E con questo passo con piacere la parola al mio amico Mike, che ci parlerà delle sfide che ci attendono per portare a termine questo cammino di pace.
MIGUEL BENITO “MIKE” FERNANDEZ:
Grazie a tutti voi. Il valore più grande è la storia della Repubblica d’Italia. Non c’è un valore più grande di questo. Le vostre bandiere parlano a tutti noi, i colori della vostra bandiera: il verde per la terra, il bianco per la neve delle Alpi, il rosso per il sangue che è stato versato per anni dagli italiani che combattevano per un futuro migliore e per fare la rivoluzione. Ci sono molti Paesi dove è stato versato sangue, e Cuba è uno di questi. Credo che la vita sia molto semplice. Sono stato benedetto non dal fatto di essere molto intelligente ma di avere molto buon senso. Sono un rifugiato cubano che all’età di 12 anni, nel 1964, alla vigilia di Natale, si è trovato preso da un furgoncino della polizia. Sono stato messo dentro e non sapevo dove saremmo andati: ero con mia sorella e i miei genitori. Alla fine ho scoperto che quando l’aereo che abbiamo preso è atterrato, eravamo a Città del Messico. Ho visto un uomo ucciso all’età di 9 anni, mia sorella ne aveva 7 anni e anche lei ha visto uccidere un uomo. Mi ricordo questa ragazzina che chiedeva: ma perché la testa non cade quando lo uccidono? La testa era ancora attaccata al corpo, quando avevano finito l’esecuzione, perché i tendini dei muscoli avevano tenuto. Ho quindi perso la mia giovinezza: quando ero ragazzino, raccoglievo i proiettili: mia sorella era vicino a me quando sparavano. Eppure, non c’è rabbia per tutto questo. Non c’è odio. Il futuro di Cuba è nelle mani dei cubani e dei cubano-americani. il futuro di Cuba non è nelle mani dei politici. Nelle mani dei politici ci saranno solamente ostacoli per il futuro che dobbiamo riuscire a raggiungere. La vostra bandiera con il rosso fa pensare al sangue. Ci sono state molte persone arrabbiate per tantissimi anni, ma è stato il sangue di Gesù Cristo che vi ha portato alla pace e che vi ha portato avanti. È stata proprio l’idea che il perdono è fondamentale per arrivare al futuro: niente di buono viene dal risentimento e dall’odio, il bene viene solamente dal perdono e dall’amore. E’ interessante come le due culture siano cambiate, sia a Cuba che negli Stati Uniti. I cubani hanno sempre amato il rapporto con gli Stati Uniti, il Governo cubano non sempre. I cubani negli Stati Uniti hanno lasciato in circostanze difficili l’sola ma oggi sono la fonte di reddito più importante per il popolo cubano: più di tre miliardi per anno di rimesse vengono inviate a Cuba da Miami e da altre città del Paese alle famiglie cubane. Sono proprio questi soldi, questi fondi che possono costruire una nuova nazione: i Governi sanno che ci sono le rimesse, perché non legalizzare questo sistema, che per il momento è illegale? Abbiamo una scelta, abbiamo un vicino e una casa che adesso è impresa: bisogna sviluppare una maniera diversa di vivere. Cuba ha ricevuto soldi dall’Unione Sovietica per tantissimi anni, ci si è abituata. Poi, quando questi soldi sono finiti, per undici anni i bambini a Cuba sono andati a scuola senza le scarpe. Soffrivano, non c’era cibo, non c’era latte, non c’era neanche il latte in polvere. Se andate in campagna a Cuba, non vedete nessun gatto ma solamente pochi cani: i gatti sono diventati il cibo che il popolo cubani ha mangiato in questi undici anni, quando non c’erano soldi. Poi si è passati ad altro, ci siamo avvicinati al Venezuela, che dava a Cuba il petrolio che Cuba poteva rivendere sul mercato internazionale, in maniera tale da sopravvivere. Però questo metodo non era sostenibile, non si poteva più dipendere da qualcun altro per risolvere i problemi. Come in una famiglia non si possono spendere i soldi che non si è guadagnati e non si può comprare del cibo che non ci si può permettere, i Paesi non possono vivere dipendendo unicamente da altri Paesi. Oggi vediamo che Cuba sta perdendo la sua dipendenza dal Venezuela. Sta entrando in un nuovo periodo molto speciale e c’è solamente una soluzione per i cubani e il popolo: rivolgersi a quel Paese a nord che, per 57 anni, in realtà ha mantenuto un embargo che era quasi impossibile. Embargo che è diventato la scusa per tutto quello che a Cuba andava male: eppure gli Stati Uniti pensavano che l’embargo fosse la strada giusta, anche se è immorale negare a una madre il cibo per i propri figli. Le forze militari, sociali e politiche, i Governi, sia negli Stati Uniti che a Cuba, hanno trovato risorse altrove. Loro riuscivano a mantenersi ma il popolo cubano no, quindi tocca a noi promuovere questa relazione e obbligare i due Governi a trovare una soluzione. Perché gli Stati Uniti d’America che credono nel mercato libero e nell’impresa libera, che credono che tutti meritino il diritto di avere una vita migliore, sostengono questa teoria in tutti Paesi del mondo tranne uno: Cuba, un’isola che semplicemente è a 90 miglia di distanza, perché a Cuba non si possono applicare le stesse regole. Mia figlia è nata negli Stati Uniti e ogni americano può volare in qualsiasi Paese del mondo: possono andare nella Corea del Nord, in Iraq, in Iran, nello Yemen, in qualsiasi Stato che sponsorizza il terrorismo. Ci possono andare senza problemi, basta acquistare un biglietto e la legge ci concede di farlo. Eppure la legge non consente a mia figlia di andare a Cuba: è lì che io sono nato, e a meno di ricevere un permesso dal Governo americano, non ci si può andare. L’America deve cambiare, Cuba deve cambiare e la soluzione, la leadership di Cuba deve venire da Cuba, non da Miami. Il governo cubano ritiene che il 90% della ricchezza nelle mani dei cubani non sia a Cuba ma negli Stati Uniti d’America. Occorre risolvere queste differenze fra i Governi, perché non sono i popoli in conflitto ma i Governi, quindi bisogna semplicemente sfruttare la conoscenza, il know how del popolo per contribuire a risolvere i problemi.
Cosa chiediamo in cambio? Semplicemente che le persone siano trattate con umanità. I diritti umani sono importanti eppure quello che unisce le persone è altro. Cosa possiamo fare oggi? Vogliamo semplicemente leggere dei giornali, andare alle elezioni, sostenere un Governo o un altro, oppure volete acqua, volete cibo, volete una vita migliore per i vostri bambini, la vostra famiglia? Il diritto di avere una vita migliore è un diritto umano di base ma questo non compromette il diritto di democrazia e di parola: bisogna cominciare da qualche parte, che cosa viene prima? Viene prima l’uovo o la gallina? E’ la democrazia che viene prima oppure sono le finanze, è più importante sostenere la propria famiglia o qualcosa d’altro? Noi abbiamo questo diritto, il popolo a Cuba non ci odia, noi non siamo la mafia di Miami, non siamo i cattivi. Avevo dodici anni quando sono andato via da Cuba e ho seguito i miei genitori. Il Governo di Cuba deve cambiare, deve maturare, deve rendersi conto che è meglio raccogliere tasse che gestire le persone. Quattro anni fa, il 100% del popolo cubano lavorava per il Governo; oggi, con l’aiuto di organizzazioni, le persone sanno come mantenersi, come trovare lavoro. Adesso il settore privato è molto più sviluppato di prima, molte persone qui non lo sanno, non lo sanno neanche a Cuba ma più del 40% della forza lavoro è impiegata nel settore privato. Questo fenomeno deve aumentare, a volte i Governi sono una sorta di collo di bottiglia per le imprese. Il governo di Cuba dà un elenco delle imprese che sono legali. Internet non è su questa lista, se fosse stato inventato a Cuba non sarebbe stato comunque sulla lista e oggi non ci sarebbe Internet. C’è una lista di cose che i cubani non possono ancora fare e una lista di cose che i cubani possono fare fino a un certo punto. Quindi, le due società devono lavorare insieme e sono pronte a farlo. Gli individui come Donald Trump, che separa le persone e crea l’odio, non trovano posto nella nostra società. Gli Stati Uniti sono una terra di migranti, migranti come me, migranti come gli italiani che sono venuti anche prima, gli irlandesi, i tedeschi, gli israeliani. Noi siamo l’America e siamo stati assimilati in America, l’abbiamo costruita. La maggior parte dei leader delle maggiori imprese americane sono immigrati: e questo potrebbe succedere anche a Cuba senza i controlli che ci sono in questo momento. Nessuno è perfetto ma le cose cambiano, noi siamo un bene per loro e loro sono un bene per noi. Chiediamo al Governo di permetterci di aiutarci a vicenda e di trovare delle soluzioni in maniera tale che non ci debbano più essere madri che non riescono a dare da mangiare ai propri figli e cubani che si consumano di odio a Miami. Questi numeri adesso si sono ridotti, non c’è più odio come prima. Normalmente venivo attaccato alla radio, alla televisione, sulla stampa, tutti i giorni, adesso nessuno mi attacca più, nessuno attacca Pedro, nessuno attacca i nostri amici che normalmente cercano di portare avanti la causa cubana. Siamo cambiati e questo lo vediamo. Non sono alla ricerca di vantaggi economici, ho più soldi di quelli che potrei usare in tre vite intere, non ho bisogno di questo. Ho bisogno semplicemente che il popolo cubano si aiuti ad aiutarsi, perché il futuro è nelle nostre mani. Ringraziamo tutti voi del Meeting di Rimini, per averci consentito di essere qui, per averci coinvolto: non avevamo nessuna idea che vi interessaste alla nostra storia, al nostro destino. E’ per questo che vi ringraziamo di cuore, per la straordinaria piattaforma. Noi non siamo il male, crediamo in Dio, nell’unità, crediamo in una soluzione attraverso il sacrificio, attraverso la condivisione dei valori: quindi, grazie di cuore.
ROBERTO FONTOLAN:
Allora, avete sentito il calore con cui il nostro amico Mike Fernandez propone, vede, lotta per questo cambiamento, per questo passaggio storico, e il cuore con cui questi nostri amici si sono impegnati. Io mi sono segnato quattro punti: è iniziato un processo – sapete che Papa Francesco molte volte ha parlato dell’importanza di aprire il processo – che necessita di realismo, un grande realismo che è anche un antidoto agli schemi ideologici. Mi ha colpito quello che diceva adesso Mike circa l’opposizione tra diritti umani formali, come noi li intendiamo, e diritti umani sostanziali. A volte, quando si sostituiscono le priorità si sbaglia, anche se lottare per la democrazia, per i partiti, per le libere espressioni è naturalmente un grande valore, ma ci vuole realismo. E il realismo è un grande vaccino contro l’ideologia, contro gli schemi ideologici, da tutte le parti. Il terzo punto che mi sono segnato è che le società, le persone, gli americani, i cubani, i cubano-americani, sono più pronti dei loro rispettivi Governi e istituzioni, hanno più desiderio, sono già maturi per questo passo. In fondo, questo processo loro lo hanno già fatto per l’importanza della famiglia: un pizzico di aiuto forse l’ha dato anche il baseball e la forza di tre Papi. Insomma, le loro società, le persone sono pronte, desiderose e sono loro a spingere per il cambiamento delle politiche. L’ultimo punto che mi sono segnato di questa bella conversazione, è che ogni cambiamento viene da persone che cambiano, ogni cambiamento politico, economico, ideologico, culturale viene da persone che cambiano, che aprono in loro un processo di cambiamento. Quando in quella slide di prima vedevamo la sfida per i cubani americani, leggevamo: io perdonerò, contribuirò, ricostruirò. Questa è la traduzione del futuro: farò tutte queste cose. Ma mi pare che la coscienza, la consapevolezza di oggi sia che queste cose sono già cominciate: già c’è il perdono, già c’è il contributo, già c’è la ricostruzione. Allora, anche se tutto questo appartiene a un mondo un po’ lontano da noi, ed è frutto di una storia che persone della mia generazione – siamo anziani – hanno vissuto, la loro presenza qui ci consente di vivere il titolo del nostro Meeting anche attraverso di loro, anche attraverso le loro storie, le loro facce. Pedro, io ho una sola domanda. Abbiamo capito che avete dato il vostro contributo al discorso di Obama, quando Obama doveva andare a L’Avana, ma mi pare di aver capito che il vostro contributo sia quello che fate, quello che avete fatto, non solo relativo al discorso di Obama. C’è qualcosa di più impegnativo, forse, c’è qualcosa di più obbligante, di più costringente. Cosa state facendo adesso? Vorrei una risposta da ciascuno, se ritieni, tu che qui sei il boss, in un minuto. Così possiamo chiudere il nostro incontro.
PEDRO FREYRE:
Darò la metà del mio tempo a Mike, perché è lui quasi tutte le iniziative. Credo sia importante capire, grazie per averlo notato, che quello che stiamo cercando di fare va bene al di là di un unico discorso, di un momento preciso o di quella che poteva essere l’opportunità della visita del Presidente degli Stati Uniti a Cuba. Noi stiamo cercando di cambiare un modo di pensare la realtà in un luogo in cui noi possiamo esercitare una certa influenza, cioè negli Stati Uniti ma anche nel Paese in cui siamo nati, cioè Cuba, una cosa che lì è molto più difficile da fare e richiede molta pazienza, molta diplomazia e soprattutto qualcosa che ai cubani risulta molto difficile: l’umiltà. Così passo la parola a Mike che vi potrà parlare di alcune delle iniziative che sta portando avanti.
MIGUEL BENITO “MIKE” FERNANDEZ:
Posso dirvi che non c’è un’unica soluzione a questo problema, sono necessarie molteplici soluzioni. Sono le 12.35 e ho già inviato una lettera a Shimon Peres che è sempre stato un amico per me. Ho anche inviato una mail a un senatore che ci sta dando una mano negli Stati Uniti. Per dire che ci vuole impegno, ci vuole una certa umiltà: in questo anno e mezzo io non sono mai stato in politica, non mi interessa la politica, è un mondo che non mi appartiene, in cui non voglio entrare. Ma quando il 17 Dicembre 2014 è stata aperta l’ambasciata, sono andato dai miei amici cubano-americani che invece sono in politica e ho detto loro: “Mi avevate detto che non sarebbe successo nulla tra Cuba e gli Stati Uniti”. Beh, sapete cosa è successo? L’ambasciata è stata aperta comunque, noi ci siamo impegnati, la nave è partita e noi abbiamo perso il treno. Ho aspettato e poi mi sono ritrovato alla Casa Bianca: è l’unico Paese, il nostro, gli Stati Uniti, in cui il figlio di un immigrato riesce ad arrivare ai livelli massimi del potere nella Casa Bianca e dove la sua voce viene ascoltata. Stiamo lavorando su decreti particolari che consentiranno la creazione di fondi che potranno essere utilizzati da Cuba per la ricostruzione. Riconosciamo che i cubano-americani vogliono aiutare: dopo cinquant’anni di odio reciproco, dopo cinquant’anni in cui queste persone ci hanno quasi costretto ad odiare Cuba come un nemico, adesso devono rivedere tutte le loro convinzioni ma lo stanno facendo. Lo stanno facendo con calma. Vi sorprenderebbe vedere e capire quante di queste persone hanno compreso questa nuova logica: non ho dubbi che tra un paio d’anni Cuba avrà un futuro molto più roseo di quello che ha avuto negli ultimi 50 anni. Grazie.
ROBERTO FONTOLAN:
Come conclusione, voglio ringraziare questi tre nuovi amici del Meeting. Posso già dire che magari tra un anno potremmo essere riaggiornati sul cambiamento in corso, perché è bello poter accompagnare, poter seguire, potersi immergere in questi processi. La storia non è fatta di date, non è fatta di opportunità fotografiche, di semplici discorsi. La storia è un processo che implica, esige delle persone cambiate e che cambiano camminando. Questa è la testimonianza che abbiamo avuto oggi, e di questo ringrazio Pedro, Guillermo, Mike: vi auguro buone ultime ore al Meeting e chissà, forse ci ritroveremo il prossimo anno. Auguri e tutto il nostro incoraggiamento e la nostra vicinanza a questo processo di cambiamento. E anche un grande abbraccio al soggetto più debole di questo processo che è Cuba, un popolo al quale ci sentiamo veramente vicino. Grazie.
MIGUEL BENITO “MIKE” FERNANDEZ:
Posso dire soltanto una cosa, una sala così grande è molto bella ma l’anno prossimo trovatene una ancora più grande, perché credo che vi parleremo di soluzioni che nessuno di voi si aspettava, quindi avremo bisogno di un Auditorium ancora più grande.
ROBERTO FONTOLAN:
Vi ricordo che ancora in queste ultime ore potete sostenere la campagna di Fundraising del Meeting. Sapete che le postazioni sono ancora posizionate in diversi luoghi della fiera, le donazioni avvengono unicamente in questi punti riconoscibili. Arrivederci e buon pomeriggio.