LA RESPONSABILITÀ DEL QUOTIDIANO – PROTAGONISTI A CONFRONTO

In diretta su Askanews, Corriere della Sera, Ilgiorno.it, ilrestodelcarlino.it, lanazione.it, quotidiano.net, Repubblica

Luciano Fontana, Direttore Corriere della Sera; Maurizio Molinari, Direttore La Repubblica; Agnese Pini, Direttrice QN; Roberto Sommella, Direttore di MF-Milano Finanza. Modera Bernhard Scholz, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS.

Giorno per giorno i quotidiani ci rendendo partecipi di eventi e sviluppi vicini e lontani, attraverso le loro informazioni, i loro racconti, le loro interpretazioni e i loro commenti. Il loro impatto sulla quotidianità di ognuno e del Paese nel suo insieme è difficile da misurare ma sicuramente è forte ed incisivo. Già con l’avvento della televisione e ora con la diffusione esponenziale dei social media sono rimasti interlocutori privilegiati per la conoscenza e la comprensione della vita politica, economica e culturale. Come concepiscono il loro compito nel dibattito pubblico, la loro responsabilità per la democrazia e il pluralismo? Con quale orientamento specifico si propongono ai loro lettori? E con quali forme di autocritica si correggono?

Con il sostegno di isybank e Tracce.

LA RESPONSABILITÀ DEL QUOTIDIANO – PROTAGONISTI A CONFRONTO

LA RESPONSABILITÀ DEL QUOTIDIANO – PROTAGONISTI A CONFRONTO

 

Venerdì, 25 agosto 2023

Ore: 15.00

 

Partecipano

Luciano Fontana, Direttore Corriere della SeraMaurizio Molinari, Direttore La RepubblicaAgnese Pini, Direttrice QNRoberto Sommella, Direttore di MF-Milano Finanza. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS.

 

Moderatore

Bernhard Scholz, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS.

 

Scholz. Benvenuti a questo incontro sulla responsabilità del quotidiano, e saluto con gratitudine Agnese Pini, Direttrice QN, Luciano Fontana, Direttore del Corriere della Sera, Maurizio Molinari, Direttore della Repubblica, e Roberto Sommella, direttore di MF Milano Finanza. Grazie di essere qua con noi. Ognuno di noi ha la responsabilità di informarsi giorno per giorno sulle questioni, almeno le questioni più importanti della vita del Paese, delle grandi questioni politiche, del dibattito pubblico. E per informarsi, fra le altre cose, legge il quotidiano che è fatto perché ognuno di noi possa essere responsabile, responsabilmente partecipare alla vita democratica del Paese. E questo chiede ai giornali una grande responsabilità, perché devono fare in modo che queste informazioni siano affidabili, comprensibili, stabilite alle giuste priorità, che ci aiutano a entrare nella complessità sempre più complessa di tante questioni, pensate, solo per fare un tema, alla sanità. Sembra facile, ma non lo è per niente, evitare le terribili riduzioni, e quindi abbiamo voluto parlare di questo oggi. Ma prima di iniziare, chiederei a ognuno di loro una breve riflessione sull’intervento del Presidente Mattarella di questa mattina, che era di uno spessore culturale e politico di altissimo livello, e del quale faremo anche tesoro, noi come Meeting, nelle prossime edizioni. Comincerei con Agnese Pini.

 

Pini. Intanto grazie dell’invito e buon pomeriggio a tutti. Lo diceva lei, l’intervento di Mattarella questa mattina è riuscito davvero a entrare nel vivo, a toccare il cuore, non soltanto dei temi più caldi del dibattito politico. Ha parlato per esempio molto di immigrazione, inevitabilmente perché è una delle questioni che sta più a cuore anche dei vari partiti, tanto della maggioranza di governo quanto inevitabilmente dell’opposizione, e anche della quotidianità dei nostri amministratori locali, che sappiamo con quanta fatica stiano cercando di affrontare questa ennesima emergenza. È riuscito però, e questo mi ha colpito in modo particolare, di questo volevo brevissimamente parlarti, entrare anche in quello che è stato il dibattito cultural-ideologico delle ultime settimane, degli ultimi giorni, talvolta perfino un po’ surreale o anacronistico. Lo stesso Mattarella ha usato questa parola, anacronismo, per esempio riferendosi al fatto che possa esistere una etnia originaria italiana, che è qualcosa che non è suffragata da nessun tipo, ovviamente, di studio, di analisi scientifica, storica, antropologica. Non solo ha fatto qualcosa di più Mattarella, ha parlato diradando le nebbie che abbiamo incontrato, anche provando a commentare quanto è accaduto negli ultimi giorni, in realtà anche del caso del generale Vannacci, senza mai citarlo, ma dando degli spunti che ci hanno portato appunto esattamente nel cuore di tutto quello di cui abbiamo discusso sui giornali, sui media, sulle televisioni, e cioè la questione dell’odio. Il fatto, la domanda che ci siamo posti, che ci siamo fatti nei vari dibatti, nei vari appuntamenti di discussione su questo tema, se esista un diritto all’odio. Ovviamente Mattarella che cosa ci ricorda, con una frase che vi cito, perché è davvero appunto da trascriverci e da ricordarci quotidianamente. Che la Costituzione, quindi lui riprende in mano la nostra Costituzione, quindi il tessuto di ciò che rappresenta e fonda la nostra democrazia, la nostra Repubblica, la nostra civiltà, serve a espellere l’odio. Proprio perché quando ci chiediamo se esiste un diritto all’odio, dimentichiamo che l’odio non è un diritto, ma è un sentimento e in nessun impianto normativo è prevista la possibilità come diritto a odiare. L’odio è un sentimento che invece le istituzioni, e ciò che rappresenta la garanzia di esistenza di una democrazia, di una repubblica, di una civiltà deve darsi come obiettivo, quello di arginare i sentimenti di odio. A maggior ragione quando arrivano da chi rappresenta dei baluardi istituzionali a qualunque livello, in qualunque posizione. Per questo oggi credo che il discorso di Mattarella sia stato davvero incisivo, perché partendo da qui, e cioè dal fatto che l’odio non è un diritto ma un sentimento, qualsiasi altro discorso perde di peso e di sussistenza.

 

Scholz. Grazie. Roberto Sommella.

 

Sommella. Intanto buonasera e grazie dell’invito. A me ha colpito come al solito il fatto che il Presidente della Repubblica riesce ad incarnare in modo perfetto l’unità della Nazione e la complessità del nostro Paese, utilizzando la memoria, la cultura, la scrittura, la lettura, e mi aggancio anche ai tanti passaggi che in altri interventi lui ha dedicato al nostro mestiere, che segue con passione e con partecipazione. Indubbiamente la parola e la frase che mi ha colpito di più, delle tante che ha detto sulla necessità di integrarsi, di essere solidali, di ricordarsi cosa c’è scritto nella nostra Costituzione ai primissimi articoli, è quando ha detto che l’amicizia è un investimento. Non perché io diriga un giornale economico-finanziario e non perché lui l’ha detto in quanto avesse una valenza economica. Ma l’amicizia è l’unica cosa, a mio modo di vedere, che ha lo stesso peso, lo stesso valore dell’amore e che molto spesso purtroppo noi mettiamo in disparte. L’amicizia è quella cosa che ci fa stare bene nei momenti gioiosi ma che ci sostiene nei momenti difficili. È un collante che la nostra società purtroppo sta perdendo, l’ha persa un pochino anche per via della pandemia. Noi abbiamo alle spalle tre anni in cui è accaduto l’impensabile, abbiamo imparato a pensare l’impensabile perché a volte avviene. Avviene che ci sia una pandemia di un virus sconosciuto che uccide e che divide le persone. Avviene che poi ci sia un lockdown, un allontanamento dai luoghi di lavoro, dai luoghi di studio. Si è parlato tanto poco di quanta carenza didattica hanno avuto i nostri giovani durante la pandemia per semplici motivi di scarsa connessione a Internet, e mi aggancio al tema della tecnologia. E poi una guerra scoppiata, novecentesca, nei nostri confini, nei nostri confini europei, e lo dico da convinto europeista. Quindi, avendo vissuto questi tre anni che sembrano un secolo, rimanere agganciati all’esistenza e al fatto che all’individuo deve sempre corrispondere la persona, e che essa diventa tale all’interno della società, sono discorsi quasi filosofici, ma che ci danno la caratura di una persona che riesce a tenere tutto insieme, e vediamo dai fatti che accadono tutti i giorni, dalle divisioni politiche, a prescindere, ideologiche, insensate, anche sulle cose più banali, quanto sia importante, e lo dico senza retorica, avere Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica, è un dono che il destino ci ha fatto, teniamocelo stretto.

 

Scholz. Grazie, Roberto.

 

Fontana. Sì, intanto buonasera a tutti, grazie. Anche quest’anno per me è diventato un appuntamento di confronto ormai da tantissimo tempo e di nuovo con enorme piacere. Naturalmente alcuni spunti molto importanti sono già stati affrontati sia da Agnese che da Roberto. A me piace averne due molto rapidamente. Il primo che ha a che fare molto con il tema di questo Meeting, il tema dell’esistenza umana che si fonda su una amicizia inesauribile, e il punto in cui Mattarella ha affrontato una cosa che sembra decisamente fuori moda e fuori contesto in questa fase. Le nostre società, le nostre identità, le nostre comunità politiche non si fondano sul contrasto, sull’odio, sulla contrapposizione. Possono essere fondate sulle differenze, le differenze di vedute, di opinione, il confronto, ma mai su qualcosa che ha un potenziale distruttivo per i rapporti sociali, per i rapporti economici e per i rapporti politici. Sembra anche un po’ banale doverlo ricordare, ma in realtà non lo è per come si sta svolgendo, per come si svolge la vita pubblica, per come si svolge il dibattito politico in questo Paese. Aver ricondotto la forza, aver riportato in una maniera molto ben articolata e spiegata questo tema al centro della discussione, secondo me è qualcosa che, possiamo sperarlo, può diventare una base forse per il confronto dei prossimi mesi, che è un confronto serio rispetto a problemi enormi che dobbiamo affrontare. Anche perché, lo ricordava Sommella, c’eravamo un po’ illusi che dalla pandemia ne saremmo usciti tutti migliori, una comunità più coesa, con dei valori comuni, con un confronto più civile mirato a quella parola che adesso sembra bruttissima che è quella del compromesso, ma la politica, l’agire umano è fatto di compromessi nobili che si debbono stabilire a un certo momento. Non è stato così, non ne siamo in realtà, almeno politicamente, usciti migliori. E, secondo spunto rapidissimo, lo vediamo soprattutto sul tema dell’immigrazione. Io su questo, proprio mi fa venire un po’ l’orticaria, l’estremismo da un lato e dall’altro. Intanto dire dobbiamo affrontare un’emergenza, e Mattarella ce l’ha ricordato, mettiamoci bene in testa che l’immigrazione non è un’emergenza, l’immigrazione, le migrazioni saranno un tema con cui avremo a che fare non nei prossimi anni ma nei prossimi decenni, per tantissimi motivi che tutti voi avete sicuramente presenti, dalla crescita demografica in alcune parti del mondo, per l’aspirazione che si ha e che è connaturata ad ogni essere umano a migliorare le proprie vite. E anche un po’ per la questione della denatalità in una gran parte del nostro mondo. Se uno la mette in questa prospettiva la vicenda, allora non si gioca con le parole, non si gioca con gli slogan, si comincia a ragionare di come i flussi possono essere regolati, come si può studiare l’integrazione, come ha detto Mattarella bisogna puntare su un’immigrazione regolare molto ampia, di come si lavora a far crescere i pezzi di mondo da cui l’immigrazione deriva, di come reagiamo come comunità, non solo italiana e come europea. Cioè togliere questioni così rilevanti, così di prospettiva, così strutturali, dalle faziosità, dal dibattito ideologico, dalla voglia di avere l’ultima parola con la battuta più a effetto, io credo che sia un grandissimo insegnamento che il Presidente della Repubblica spero continui a darci ancora per tantissimo tempo. Grazie.

 

Scholz. Grazie.

 

Molinari. Grazie, grazie di questa opportunità. Il lavoro e la missione dei giornalisti è condividere le proprie esperienze e le proprie idee, non c’è un posto più importante e cruciale dove farlo che non il meeting di Rimini. Sono tre, io credo, i punti che Mattarella ci ha consegnato. Il primo è la definizione dell’identità italiana, un’identità frutto della somma di più identità e più lingue. In dieci parole ha smontato non solamente la teoria di un generale improvvido, ma di tutti coloro che immaginano una genesi lineare di un’identità mediterranea che in quanto tale è frutto invece di più culture e più storie. Punto primo. Punto secondo, il richiamo all’importanza della difesa del clima, dell’ambiente, in una terra come questa colpita dalla violenza dei cambiamenti climatici. E anche qui c’è, io credo, un richiamo non solo a un drammatico tema di attualità, ma anche agli sbandamenti che ci sono nella comunità politica e ahimè anche all’interno del Governo di destra centro, lì dove molti suoi esponenti, compresa la Presidente del Consiglio, ancora non parlano, non usano l’espressione cambiamenti climatici. La Presidente del Consiglio non usa l’espressione cambiamenti climatici. E quindi naturalmente è un richiamo al presente, drammatico quanto importante, che guarda soprattutto alle nuove generazioni. Ma forse è il terzo punto, quello più innovativo e rivoluzionario, quando richiamandosi alla Costituzione americana, al diritto, al perseguimento della felicità, Mattarella indica, io credo, una ricetta di risposta alle diseguaglianze. Le diseguaglianze che sono la ferita più profonda, non solamente del nostro Paese ma di ogni democrazia avanzata, esprimono il disagio e dal disagio nasce la protesta. Il grande dibattito è come disinnescare questo domino che genera populismo, intolleranza, odio per il prossimo, la solitudine dell’aggressività sui social. La risposta che dà Mattarella è sul filo della Costituzione, di un’identità euroatlantica che lega la Costituzione americana alla nostra Costituzione, e dice che la felicità è, o può essere, l’antitodo al disagio e alla protesta, dove, nelle sue parole, la felicità si esprime nell’inclusione, nell’amicizia, nel legame fra gli esseri umani. Io credo che questo sia un ragionamento molto presbite, che guarda molto lontano, molto attuale, valido non solamente per il nostro Paese, ma per ogni democrazia ferita dalle diseguaglianze e aggredita dal populismo. Per questi tre motivi, quello che Mattarella ci ha detto, ha confermato che lui è per tutti noi un Presidente indispensabile.

 

Scholz. Grazie. Le modalità delle vostre risposte dicono già qualcosa su come un giornalismo si può, o dovrebbe, porre. Però entriamo nel vivo, leggo un passaggio dell’Enciclica “Fratelli tutti” , abbiamo iniziato questo Meeting con il Cardinale Zuppi riflettendo su questa Enciclica. Leggo brevemente questo brano. “Venendo meno il silenzio e l’ascolto, e trasformando tutto in battute e messaggi rapidi e impazienti, si mette in pericolo la struttura basilare di una saggia comunicazione umana. Si crea un nuovo stile di vita in cui si costruisce ciò che si vuole avere davanti, escludendo tutto quello che non si può controllare o conoscere superficialmente o istantaneamente. Tale dinamica, per sua logica intrinseca, impedisce la riflessione serena che potrebbe condurci a una saggezza comune.” I giornali che voi rappresentate, i quotidiani, hanno la possibilità di aiutare, non dico di garantire, ma di aiutare, di contribuire ad una riflessione serena, come voi l’avete già auspicato in parte. Però voi come giornale, in mezzo a queste diatribe, questa enorme complessità, come vi potete immaginare di dare un contributo in questo senso. Iniziamo con Luciano Fontana.

 

Fontana. Naturalmente è molto facile in queste occasioni dire, ma no, noi facciamo il nostro ruolo, i problemi che si stanno raccontando di istantaneità, superficialità, scarsa efficace serietà della comunicazione, non ci riguardano. In realtà noi stiamo subendo come mondo dell’ informazione una delle trasformazioni più rilevanti, siamo nel pieno di una vera e propria rivoluzione. Rivoluzione del modo di reperire notizie, dell’ambiente in cui lavoriamo, in cui è molto molto difficile trovare una propria collocazione, e soprattutto trovare una propria identità e un ruolo che sia positivo per il mondo dell’informazione, ma soprattutto per la società, perché poi l’informazione è la base della crescita individuale e della crescita democratica e civile di un Paese. In che contesto noi agiamo? Agiamo in un contesto in cui le informazioni ci arrivano da migliaia e migliaia di punti. Queste informazioni qualche volta sono giuste, qualche volta sono parziali, alcune volte sono false e alcune volte deliberatamente false, cioè false per scopi economici, per scopi politici. Quindi saper stare dentro questo mondo, saperlo riconoscere, saperlo affrontare, saperlo correggere è uno dei compiti più importanti, ed è un compito che ha a che fare con il nostro ruolo, ma a che fare complessivamente con la società. Quando si fa la domanda: come si combattono le fake news? Che è una domanda classica che si fa nei nostri dibattiti, io penso che l’unico modo per combattere fake news sia formazione, cultura, crescita, spirito critico, non ne abbiamo un altro, non ci sarà mai un garante, non ci sarà una legge, non ci sarà il carcere. Ci sarà un’educazione fortissima degli operatori delle informazioni. e del pubblico e delle persone che delle informazioni usufruiscono. A questo punto come stare dentro e come contribuire a questa saggia comunicazione umana di cui parla il Pontefice? Io credo che fondamentalmente noi dobbiamo fare alcune cose importanti. La prima essere molto seri e responsabili, sembrano parole un po’ fuori moda, ma essere seri e responsabili significa saper valutare le notizie, saper verificare la fondatezza, saperle anche rispettare, non piegare le notizie ai propri pregiudizi, alle proprie ideologie, ai propri interessi di partito o economici o di qualsiasi altra natura. La serietà, il rispetto delle notizie che forniamo al pubblico, secondo me, è uno dei modi migliori con cui il giornalismo può contribuire alla crescita sociale e civile di un Paese. Sembra qualcosa un po’ desueto, un po’ fuori contesto in un mondo in cui tutto è rapidità, tutto è istantaneità, ma io credo che sia la cosa che dobbiamo fare, anche con qualche verifica in più, rinunciando all’immediatezza e alla competizione con cose che spesso sono fuori dal nostro orizzonte. I social network, ad esempio, sono per alcuni aspetti informazioni, ma sono fondamentalmente un luogo di conversazione e comunicazione che bisogna mettere bene in luce e di cui bisogna far capire le dimensioni, soprattutto ai giovani che lì hanno il loro luogo preferito di frequentazione. La seconda questione è il rispetto delle opinioni, il pluralismo delle opinioni. A me non piacciono e non auguro a nessuno di servirsi solo di un giornale in cui rispecchia se stesso, in cui è tutto scontato, se stesso con le proprie convinzioni, con i propri pregiudizi, in modo che ogni mattina l’informazione o l’opinione che uno ha non sia l’apertura di un orizzonte, ma sia la chiusura di un orizzonte, sempre in una bolla in cui tutti ci riconosciamo da autoreferenziale. Un giornale al mattino deve aprirmi la testa, deve dirmi: a questa cosa non avevo pensato, c’è un punto di vista diverso con cui mi posso confrontare e che mi può far crescere. Se facciamo seriamente informazione, se contribuiamo alla crescita del Paese, se non usiamo le opinioni come pietre da scagliare in testa a chi non la pensa come noi, forse avremo dato un contributo magari limitato, magari parziale, a quello che il Papa ci ha voluto dire.

 

Scholz. Grazie, Luciano. Maurizio Molinari.

 

Molinari. Noi viviamo nella stagione della rivoluzione digitale. L’ultima volta che l’umanità ha attraversato una trasformazione di queste dimensioni è stata la rivoluzione industriale. La rivoluzione digitale è un’accelerazione della storia che cambia profondamente i costumi di tutti noi e quindi naturalmente anche le sfide per i giornali. Come affrontarla? Innanzitutto con la consapevolezza che poiché i dati e le informazioni sono i beni più scambiati nell’universo digitale, inevitabilmente siamo noi a essere in trincea in questa trasformazione, quindi ci vuole un momento di consapevolezza. In secondo luogo, dividere i due tempi, i due tempi storici. Uno è quello di cavalcare, sposare, comprendere, quella che è l’innovazione. Come bloccare lo sviluppo delle industrie da parte dei ludisti fu una battaglia perdente, non ha alcun senso oggi, opporsi all’evoluzione digitale. Il punto vero però è che, come le fabbriche, erano collegate dall’elettricità, oggi il mondo digitale è sempre più connesso dal web e, in prospettiva, dall’intelligenza artificiale. Quindi questa è la sfida della conoscenza delle nuove tecnologie. Io credo che questo obblighi noi tutti i giornalisti a studiare di più nei nostri giornali, a creare dei gruppi di studio, dei gruppi di approfondimento, dei gruppi di ricerca, per vedere come applicare al meglio le nuove tecnologie, per continuare a fare il nostro lavoro e raggiungere tipologie di pubblico sempre più vaste, la realtà è che le nuove tecnologie offrono la possibilità di aumentare il pubblico. Passando dalla carta stampata alla radio, dalla radio alla televisione, dalla televisione al web, dal web ai social, si sono sempre sommati altri settori di pubblico che non hanno annullato quelli precedenti, ma che hanno aumentato lo spazio. Oggi il nostro spazio di penetrazione è molto maggiore di quello che era non solamente cinque anni fa ma due anni fa, forse anche un anno fa. Quindi il primo elemento è la conoscenza delle nuove tecnologie e lo studio e la ricerca su come applicarle. Il secondo invece è conservare con granitica volontà e granitica capacità la qualità del buon giornalismo. Quindi la ricerca seria delle notizie, raddoppiare sempre il confronto delle fonti, i giornalisti che devono andare fisicamente sul posto a vedere, ascoltare e tentare di comprendere con ingenuità, senza pregiudizi, ponendosi sempre come portatori di dubbi e non di verità precostituite. La somma fra queste due sfide, che appartengono a due tempi storici diversi, uno è il tempo di un presente che diventa futuro ogni giorno, cioè noi non possiamo sapere oggi quali saranno le piattaforme sulle quali metteremo i nostri contenuti fra sei mesi. Chiedete a me, su quale piattaforma dovrà mettere Repubblica i propri contenuti fra sei mesi? Non lo so, io vi posso dire che stiamo facendo dei tentativi, alcuni riusciranno, altri falliranno. Questo però è avvincente, perché c’è la dimensione del pioniere, c’è la dimensione della vedetta, può fare degli sbagli il pioniere, però poi alla fine deve sempre superare il fiume e procedere verso l’Occidente e il fiume più lontano. L’altra però è la conservazione, quindi bisogna giocare in attacco e in difesa, nella scoperta del futuro con grande passione e grande flessibilità, e invece nella difesa di quanto di meglio la nostra eredità ci dà.

 

Scholz. Grazie.

 

Pini. Io sono molto d’accordo con quello che dicevano i miei colleghi, soprattutto sulla questione legata alle enormi difficoltà che tutti noi conosciamo molto bene, ma anche alle straordinarie opportunità pionieristiche, definiva Maurizio che i momenti di trasformazione concedono a chi si trova a guidare le industrie editoriali, chiamiamole così, perché dentro alle trasformazioni appunto industriali, e quella tecnologica per i giornali è anche una rivoluzione industriale, non soltanto strettamente culturale, strettamente editoriale, strettamente contenutistica, rappresentano sicuramente delle sfide straordinarie per chi si trova ad avere l’onere e l’onore di viverle e magari anche di guidarle. Aggiungo però un tema in più che è quello legato alla questione del potere. In “Fratelli tutti” si parla di come i giornali si possono rapportare a che cosa, ai social network, che hanno di fatto, e noi non ci possiamo fare niente, anche se magari ci dispiace un po’, ereditato in massa il grosso del dibattito pubblico, che prima era ritenuto da noi sostanzialmente. Oggi, volenti o nolenti, il dibattito pubblico si è spostato, non lo hanno più soltanto i media tradizionali, quindi i giornali, la televisione, le radio, ma si è spostato sui social network, qualunque essi siano. E questo che cosa ha comportato? Che i giornali hanno perso potere. Anche questo fa parte della crisi della rivoluzione industriale vista da un altro punto di vista. Noi quattro qui oggi abbiamo tutti perso potere rispetto a quello che avremmo potuto avere vent’anni fa. E perché l’abbiamo perso? Semplicemente perché i fatti, le notizie, le verità che noi portiamo attraverso le informazioni non solo sono molto facilmente accessibili da voi, spesso in modo gratuito, a volte in modo piratesco e corsaro, ma sono anche confutabili, verificabili, a volte manipolabili, grandissimo rischio per chi fa informazione. Oggi chi fa informazione, chi produce informazione non ha più il controllo assoluto sulle notizie. Anche noi che scriviamo una notizia sul giornale, non abbiamo più il controllo su che fine farà quella notizia nel dibattito pubblico, potrà essere presa, tagliata, manipolata, rimasticata, cambiata e trasformata in qualcosa di diverso senza che noi, che facciamo i direttori, abbiamo più la possibilità di controllarla in alcun modo, e questo è un grande pericolo. È un grande pericolo contro cui abbiamo ancora pochissime armi e che riguarda appunto la perdita di un potere. Non è un male che i giornali abbiano perso potere, guardate, da un certo punto di vista è anche un bene, perché ci costringe a un bagno di umiltà. I giornali, i giornalisti hanno sempre sbagliato, ovviamente essendo il nostro un lavoro umano, per fortuna, fintanto che non ci sostituiranno le intelligenze artificiali. Quindi ha a che vedere con l’errore, è giusto e inevitabile che sia così. Il fatto che abbiamo perso questo potere oggettivo, che era molto più forte prima dell’arrivo del social network, ci pone nella condizione di dover essere più umili anche nel modo con cui noi raccontiamo i fatti e ammettiamo la possibilità dell’errore. Quindi questo da un certo punto di vista, no anzi è sicuramente un bene, c’è però Il male invece che è determinato dal fatto che c’è una manipolazione dei fatti, che questa manipolazione non è in alcun modo controllabile neppure da chi conduce quell’informazione. E anche da un altro aspetto, che riguarda davvero i social network in maniera particolare, c’è una confusione che io vedo sempre più forte nell’opinione pubblica, tra quello che è informazione e quello che è comunicazione. Le persone oggi tendono assolutamente a sovrapporre questi due temi che invece sono profondamente diversi, radicalmente diversi, la comunicazione è un’arte molto nobile, ma non ha niente a che vedere con l’informazione. E questa sovrapposizione oggi si tende a pensare che, e viene spontaneo, soprattutto ai giovani, ai ragazzi molto giovani, ma anche universitari, quindi colti, che studiano, che hanno una percezione chiara del mondo. Tendono per esempio a pensare che un politico che annuncia qualcosa da Twitter stia informando chicchessia. Non sapendo che non stia informando nessuno, sta comunicando, un’arte nobilissima, ma è comunicazione. L’informazione è un’altra cosa, è quando il giornale, il giornalista intermedia tra la comunicazione del politico e il social network, e il pubblico, e il sito, e il giornale, la radio, non importa quale sia il canale di comunicazione. Ecco, perdere questa sensibilità culturale è un grande, gravissimo rischio anche per le istituzioni democratiche che si fondano non sulla comunicazione, perché sulla comunicazione si fondono i sistemi autocratici, non democratici. Quelli democratici si fondono sull’informazione e questo rischiamo davvero di perdere.

 

Sommella. Abbiamo detto tante cose molto interessanti, la dimostrazione che poi l’informazione e il mondo del giornalismo sia comunque seguita con grande attenzione, questo pubblico numerosissimo che abbiamo di fronte, siete venuti qui per ascoltare la nostra opinione, la declinazione dei fatti, come pensiamo che si possa sviluppare il nostro futuro, ma anche il nostro quotidiano. Questo mi colpisce molto in tempi, come si dice, della crisi dell’editoria. Anche se io ho cominciato questo mestiere negli anni 80, l’Agenzia Ansa, e già c’era la crisi dell’editoria, quindi mi conforta che questa crisi dell’editoria ci accompagna nei cambiamenti tecnologici. Poi siamo abituati noi italiani a vivere durante le crisi, c’è una crisi perenne; quindi, ci rafforza anche questo spirito critico e molto coraggioso di affrontare il futuro. Io vedo due date per fare proprio un’analisi un po’ con l’accetta di questo nostro mestiere bello, affascinante e molto complesso indubbiamente, e sono quelle dell’aprile del 2020 e del giugno del 2020. Nell’aprile del 2020, uno dei tanti DPCM famosi, vi ricordate i DPCM? che cos’erano? Tutti ne parlavano, eravamo tutti diventati esperti dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, stabiliva quali erano i servizi essenziali. E tra i servizi essenziali c’era il giornalismo, gli operatori dell’informazione, e io forse, dico come autocritica, noi giornalisti non abbiamo colto questa medaglia che, per carità durante un’emergenza così drammatica, ci ha dato la società, ci avete dato tutti voi. Noi eravamo tra i pochi, insieme agli operatori sanitari, agli operatori dei servizi pubblici, dei servizi di sicurezza, della pubblica sicurezza, a poter circolare in queste città spettrali. Mi ricordo Milano, ma anche Roma, ma tutte le città, all’inizio Milano, che cos’era rispetto a Roma? Erano entrambe deserte, ma a Milano c’erano già stati dei morti, a Roma non c’era stato manco un raffreddore; quindi, c’era questa sensazione di vivere l’oscurità, che è un po’ anche quella che si deve vincere, partendo dall’Enciclica “Fratelli tutti”, vincere l’oscurità attraverso la fratellanza e l’amicizia. Ebbene, quell’aprile siamo diventati servizio essenziale. E dimostriamo di essere essenziali, perché purtroppo oggi, un po’ perché c’è anche una regola dell’economia, c’è un desiderio molto forte delle persone di comunicare, di esprimere le loro opinioni, e non c’è lo stesso desiderio di ascoltare le opinioni diverse e anche di leggere. Domande e offerte non si incrociano, ma c’è tantissimo interesse perché indubbiamente le notizie sono diventate una commodities, noi diciamo, sono diventate un bene primario né più né meno del grano o del petrolio, hanno un valore in sé, noi maneggiamo delle commodities molto delicate. E la seconda data è quella del giugno del 2020. Pensate che nel giugno del 2020 le notizie false diffuse in rete nel mondo hanno superato quelle vere. Dunque, l’essenzialità, la responsabilità del giornalista, grande, piccolo, giornale medio, piccolo, grande, globale che sia, è quella di saper discernere e di interpretare la realtà e spiegarla. Io ho avuto come primo direttore il mitico Sergio Lepri all’Agenzia Ansa, che scrisse un libretto che adesso è introvabile, ma io lo volevo regalare a tutti i giovani giornalisti che ce n’ho tanti e molto giovani a Milano Finanza, scrivere bene e farsi capire, che forse è anche proprio la prima cosa. Perché scrivere male e non farsi capire sono bravi tutti, ma non l’ho detto per avere l’applauso. Però ecco, chiunque trovi questo volume, a parte comprare i nostri giornali, lo acquisti, perché è veramente un esercizio fondamentale di democrazia, scrivere bene e farsi capire. Montanelli un giorno disse, con un grande paradosso tipico di Montanelli, il giornalista vuole spiegare agli altri cose che non capisce. Probabilmente noi fatichiamo a capire quello che ci succede, fatica addirittura il Pontefice a interpretare la realtà, fatica lo stesso Presidente Mattarella. Io sono orgoglioso di fare questo mestiere perché so dall’aprile del 2020 che è un servizio essenziale, ma so anche dal giugno 2020 che ci sono più bufale che intercedono e intermediano la vostra opinione piuttosto che notizie reali. E quindi fate un gesto rivoluzionario, andate in edicola e comprate un giornale. Quello è un grande esercizio di libertà, ma non per il mio giornale, perché lì si fonda la democrazia, la libertà di espressione, ma anche la libertà di informazione, che gli americani hanno scritto negli emendamenti alla Costituzione, e che noi dovremmo invece interpretare sempre ogni giorno.

 

Scholz. Tenga il microfono in mano perché iniziamo il secondo round con lei. Io parto da un esempio, meccanismo europeo di stabilità, contestatissimo da tantissime persone che non sapevano neanche di che cosa si tratta. Sui social c’erano parlamentari che hanno detto assolutamente no, sulla domanda di che cosa si tratta non sapevano rispondere. È solo un esempio. Faccio questo esempio perché, come ho accennato prima, uno dei temi più centrali nella comunicazione e nell’informazione è la complessità. Prendiamo un tema estremamente complesso, il MES è uno dei temi molto più complessi di quanto sembra. Mentre i social hanno questa tendenza, non dico che lo fanno tutti, ma tanti, di ridurre continuamente questa complessità, a un sì o un no, a prescindere, una ideologizzazione molto pericolosa per la democrazia stessa. Al contempo, però, questi social sono anche vostri fornitori. Allora, la domanda mia è, è possibile che un giornale riesca a informare su questa complessità in un modo adeguato senza che diventi, permettetemi questo termine che sembra fuori uso, che sembra fuori dal nostro contesto, noioso, perché tante persone non hanno neanche più la capacità di leggere più di tot, lasciamo poi quanto sia questo tot. A me sembra che a voi sia chiesto una cosa complicatissima. Introdurre le persone a complessità, perché i social creano un’illusione di democrazia, un’illusione, perché uno dice una piattaforma dove tutti possono dir la loro ma la dicono senza un minimo di cognizione di causa, cioè, è un’illusione dannosissima, quindi una riflessione su questo.

 

Sommella. Tocca di nuovo a me, ecco perché mi fermava prima. Sarò più breve. Anche questo è un tema enorme. Intanto io direi diffidate delle sigle, perché io adesso anche con i ministeri non ci capisco più niente, cambiano continuamente nome, restano poi alla fine e hanno delle competenze analoghe, hanno queste sigle, queste frasi, minime, che non ci si capisce nulla, anche il MES, ne abbiamo scritto a profusione su Milano Finanza, il Fondo salva Stati, come tante cose. Noi abbiamo questa sfida, parlo dell’economia, della finanza, che poi alla fine è la vita di tutti i giorni. Papa Ratzinger, secondo me, ha dato la definizione perfetta della finanza, un ponte tra l’oggi e il domani, e l’economia sono l’oggi e il domani, e chi vive l’oggi e il domani siamo tutti noi. Quindi cercare di spiegare al meglio ma in modo semplice concetti complessi, spesso declinati e tradotti dall’inglese, e questo è un problema per noi che viviamo nello spazio comune europeo. Noi che abbiamo una lingua ricchissima, noi italiani, dobbiamo declinare dall’inglese terminologie spesso astruse, spesso davvero ostiche e quindi dobbiamo utilizzare la ricchezza dei nostri vocaboli e certo questa è una palestra importante. Quindi noi dobbiamo cercare di rafforzare la nostra natura italiana, il nostro regalo più grande che, a mio modo di vedere, è la nostra intelligenza, e metterla a frutto

 

Scholz. È un gap culturale, si direbbe oggi, usando l’inglese.

 

Sommella. Sì, oppure è anche un divario culturale. Noi abbiamo una lingua così ricca, che quando abbiamo dovuto tradurre e inserire in Costituzione il pareggio di bilancio che sulla base dei regolamenti europei era lo zero budget, pareggio lo abbiamo declinato come equilibrio, cioè noi abbiamo anche un’altra, che non è la stessa cosa del pareggio, si può stare in equilibrio pur non essendo in pareggio. Quindi usiamo questa ricchezza, cerchiamo di tradurre in modo scenico la realtà leggendo tantissimo, leggendo i giornali degli altri, è quello che ricordo sempre ai colleghi, leggendo i libri, leggendo la letteratura da cui possiamo tradurre e trarre sempre grandissimi insegnamenti, non perché la storia è sempre la stessa e si ripete, ma perché noi abbiamo questa grande cultura che ci scorre nelle vene, dobbiamo cominciare a sentirla pulsare in tutti i nostri settori. La tecnologia, e concludo, è sicuramente una grandissima opportunità laddove ci mette in condizione di comunicare, di prevalere la forza della macchina, come diceva Einstein, però la macchina può risolvere problemi, non ne può creare. Noi che li possiamo creare, dobbiamo essere consapevoli dei problemi che creiamo e dobbiamo dare delle risposte a tutti coloro che ci leggono. Indubbiamente le piattaforme sono importanti, sono il futuro, sono l’oggi, però devono rispondere, e lo dico anche da operatore dell’informazione, ad alcuni canoni, faccio riferimento alla causa che sta portando avanti da pochi giorni il New York Times, uno dei giornali più importanti e famosi del mondo, nei confronti dell’intelligenza artificiale, dei chat GPT. Cioè, devono anche stare nel nostro recinto, devono rispettare il diritto d’autore, perché, torniamo di nuovo a Mattarella e Bergoglio, tutto nasce dall’individuo, tutto nasce dalla persona, tutto ruota intorno a questo individuo e persona, lasciamogli alcuni canoni di certezze come quello del rispetto di chi crea e che produce intelletto.

 

Scholz. Agnese Pini. Grazie.

 

Pini. Il punto vero, lei diceva poco fa, i social network sono l’antitesi del pensiero, effettivamente è così, perché il pensiero, in senso filosofico, cos’è? Nasce dalla sintesi. E mentre i social network vivono, cioè i like li prendono e quindi vivono i social network sulla base di tesi e antitesi, cioè di vederla bianca o nera. Per cui, effettivamente, queste due cose sono incompatibili. Tendenzialmente, quindi, solo da questo punto di vista, anche i giornali sarebbero incompatibili con i social network. Il punto è che noi non possiamo non stare dentro i social network, cioè non possiamo non usare i social network, noi giornali, perché, come dicevo poco fa, il grosso del dibattito pubblico si è spostato lì, per cui se i giornali stessero nel loro Aventino e dicessero, no, noi non ci piacciono i social, non siamo i social. Quindi non abbiamo alternativa allo starci dentro, proprio perché non abbiamo alternativa al fare il nostro lavoro, cioè, stare il più possibile dentro il dibattito pubblico. Però il rischio vero è quando anche i giornali, il problema di sovrapporre informazione e comunicazione, stando molto dentro i social network anche noi, ce l’abbiamo perfino noi giornalisti e noi giornali, che a volte per stare meglio dentro la zona social, rischiamo di diventare anche noi troppo simili ai social. Questo è il vero rischio. I social network, tra l’altro, sono il regno di che cosa? non dell’informazione che li può usare, li può abitare, l’informazione deve abitare i social network. I social sono il regno proprio della comunicazione, della sua amica ma rivale. Si dice che sui social ci sono i contenuti, ci sono i content creator, che sono gli influencer, cioè, producono contenuti. I social esistono perché sono pieni di contenuti che prevedono un cuoricino o un non cuoricino, quindi un sì o un no. L’informazione, appunto, è tutta un’altra cosa, è basata anche sulla sintesi, cioè sulla capacità di fare un’analisi tra una tesi e un’antitesi, tirandoci magari fuori una notizia. Ecco, il rischio che noi corriamo e che io vedo, lo vedrete anche voi, perchè è manifesto e spesso si scivola quasi inevitabilmente in questo errore che però è molto pericoloso, rischiamo che nel dover abitare i social per esistere, per stare il più possibile dentro il dibattito pubblico, finiamo a volte per confonderci al social network e quindi per venire meno al nostro dovere. Per fare che cosa? Cioè, come è che, in fondo dei giornali, che cosa dovrebbero continuare a fare, che cosa fanno e che cosa devono continuare a fare in questa frammentazione del reale, della comunicazione, della socialità e dello stare nel dibattito pubblico? È semplicemente il nostro lavoro. Cioè, noi tutti gli strumenti per fare bene, cioè per fare bene l’informazione, li abbiamo già. Abbiamo un ordine professionale che ci dà delle regole deontologiche che non rispettano i social network, non a caso, che ci dà dei limiti etici, morali, valoriali, non possiamo pubblicare foto di minori, sui social network si può fare, non possiamo insultare il prossimo a nostro piacimento, sui social network si può fare, dobbiamo verificare quello che diciamo, sui social network questo non succede. Ecco, l’informazione in questo, e qui invece sono ottimista, ha già tutti gli anticorpi, tutti gli strumenti, tutto l’astuccio di lavoro per stare dentro la complessità del mondo social e starci bene. Dobbiamo ricordarci di saperlo fare e di farlo quotidianamente senza cedere a volte alla tentazione di abbassarci a livello del contenuto del cuoricino o non cuoricino che fa vivere i social.

 

Scholz. Grazie. Molinari.

 

Molinari. Il punto è che noi siamo nella fase, come dicevamo prima, adolescenziale della rivoluzione digitale, dove gli eccessi sono la norma. Per avere un’idea, per fare un paragone, la genesi della radio come strumento di massa avviene in Germania, l’anno seguente alla salita al potere di Hitler. Qual è una delle prime decisioni che prende il cancelliere Hitler? quella di dare delle sovvenzioni a tutte le famiglie tedesche affinché possano facilmente avere in casa una radio. Goebbels usa la radio per fare arrivare dentro le famiglie direttamente il verbo della propaganda nazista e così consolida l’ideologia in ogni famiglia. Se fino a quel momento le notizie arrivavano attraverso la carta stampata, che non era molto diffusa, con il tam tam, il voce, quello che uno sentiva camminando per strada o parlando con qualcuno, improvvisamente questo nuovo strumento della tecnologia che è la radio, viene gestito con spregiudicata abilità dal cancelliere nazista per consolidare il suo potere affidandolo all’uomo del male che era Goebbels. Poi oggi la radio in realtà noi sappiamo che è un grande strumento di confronto, di battito, di democrazia. Questo succede quando uno è all’inizio di una stagione tecnologica. Noi siamo all’inizio di una nuova stagione dove, come ripetendo l’espressione usata questa mattina dal Presidente della Repubblica, c’è homo homini lupus, la realtà, c’è Hobbs, siamo ancora nella foresta, dove tutti possono aggredire tutti e allora il vero interrogativo è come iniziare a imporre, come giustamente prima si diceva, delle regole che possano traslare, trasferire lo stato di diritto dalla realtà fisica, nella quale noi viviamo, nella realtà digitale. Questa è la sfida. La sfida è la creazione, la codificazione di diritti digitali. Questo straordinario tema, sul quale tutti noi siamo assolutamente digiuni, fa capire perché, quando recentemente all’inizio di un corso di laurea in Legge alla Columbia University, il Rettore della facoltà si rivolge ai propri alunni, ai freshman, quelli che iniziano il primo anno di corso, e gli dice: guardate se uno di voi immagina di fare l’avvocato come l’hanno fatto i vostri padri e i vostri nonni non troverà mai lavoro, deve invece immaginare la professione legale in maniera innovativa che sia coerente con il mondo che verrà. Una sfida è quella dei diritti digitali. In uno dei suoi ultimi interventi a Davos, Angela Merkel fece un discorso, secondo me storico, dicendo che esistono tre Internet. Uno è l’Internet che nasce negli Stati Uniti garantito e protetto dalla libertà assoluta di espressione che consente agli OTT, grandi giganti della Silicon Valley sostanzialmente di spadroneggiare senza limiti, consentendo anche le espressioni più aggressive nei confronti degli avversari politici o commerciali, l’altro estremo è il modello cinese, dove invece c’è il controllo totale e assoluto delle comunicazioni digitali da parte del partito comunista, e poi c’è il modello europeo, modello europeo che è basato sul diritto. E in effetti, da quando la Merkel, sono passati due o tre anni, fece quel discorso, da Bruxelles, dal Parlamento Europeo, dalla Commissione, sono arrivate leggi direttive, ad esempio oggi è entrata in vigore anche in Italia la Digital Service Act, che iniziano lentamente, dal basso, in maniera delimitata ma efficace, a definire i diritti digitali. Questa è la strada. E se io dovessi dare dei consigli a studenti di legge, giuristi, avvocati nei paesi europei, direi questo è il terreno. Noi abbiamo bisogno di incrociare lo stato di diritto che protegge tutti noi cittadini europei con la sfida della realtà digitale. Io credo che questa può essere la risposta più efficace all’uso spregiudicato dei social network da parte di singoli individui che li usano ad esempio per aggredire i giovani, penso al cyberbullismo, di leader populisti spregiudicati come Trump, che l’altro ieri ha rilasciato un’intervista incredibile a Carlson, un giornalista americano, postata su l’ex Twitter , oggi X, io vi invito a vederla perché è la fine dell’intervista, è una conversazione nella quale il presunto intervistatore diventa quasi un complice dell’intervistato e viene venduta come intervista, o addirittura di autocrati e dittatori che li usano per diffondere, bugie come faceva Goebbels nel ‘34.

 

Scholz. Grazie. Fontana.

 

Fontana. Solo qualche piccola aggiunta alle tante cose dette. Intanto bisogna capire che un po’ sta cambiando anche l’atteggiamento del pubblico e degli utenti, cioè il rapporto che si aveva con l’informazione su Internet di qualche anno fa è già molto diverso da quello che un pezzo dell’opinione pubblica dei diversi Paesi ha in questo momento. Dico banalmente, quando un po’ di anni fa si è sviluppato, soprattutto grazie alla banda larga e alla grande esplosione dei siti e dei social network e delle informazioni in rete, si è detto che i giornali sono finiti, non c’è più futuro, e l’informazione è gratuita. Perché a un certo punto, e arrivo adesso in America, non parlo dell’Italia, ognuno di noi poi ha le sue costituence di riferimento, perché in America ci sono 8.800.000, mi pare ultimo dato, di americani che decidono di abbonarsi al New York Times e decidono di non utilizzare l’enorme varietà di social network e di siti per la propria informazione quotidiana? perché probabilmente si riconosce valore a qualcosa che è molto diverso da quello che possono dare gli altri strumenti di comunicazione, informazione e social network. Questo è un punto molto rilevante per dire che noi possiamo vivere nei social network, possiamo portare la nostra informazione su tutti i canali che la tecnologia ci metterà a disposizione, ma dobbiamo programmaticamente essere qualcosa di diverso. Perché il lavoro di comprendere bene le cose, saper dare gerarchia, fornire ogni giorno ai nostri lettori un’agenda del giorno, agenda fatta di notizie verificate, di riflessioni, di prospettive, di approfondimenti, è un lavoro che permette di mettere enormemente in contrasto con quello che è lo spirito essenziale di un social network, la rapidità, la facilità delle risposte, la enorme propensione ad affermare il proprio punto di vista come punto di vista assoluto, utilizzo in base di comunicazioni e utilizzo di propaganda e ricerca dei like. Tutti strumenti che francamente non debbono avere nulla a che fare con un’informazione seria e responsabile, questo è un punto molto fondamentale di differenza. Quindi i social network sono spesso delle buone fonti di notizie, sono un buon modo per stare e per raggiungere pubblici vasti, ma fanno un lavoro diverso. Poi facciamo un piccolo esercizio, immaginate di dover affrontare un tema in assenza di giornali di informazioni, solo andando, saltando e mettendo insieme le mille… i video del politico di turno, il video dell’influenza, le cose, cioè, diciamo, un inferno. Io credo che ci sia un momento della propria vita e della propria giornata in cui si debba trovare un punto, uno scoglio, un riferimento a cui affidarsi per la propria agenda informativa, per conoscere le notizie, per poterle analizzare, per poterle approfondire. Quindi, fuori dalla logica di risposte facili e illusorie a problemi complessi, che è la logica classica. Francamente, pensare che una notizia o un’informazione che conta tantissimo nelle nostre vite, possa essere risolta con un video di 60 minuti o con un altro in cui si mescola divertimento a informazione, credo che non sia il modo giusto di costruire le proprie vite. Posso dire qualcosa di desueto, forse, del nostro dibattito pubblico, nelle nostre scuole, nel nostro modo di crescere, bisognerebbe anche recuperare minimamente il fatto che non è tutto facile nella vita. Se vuoi diventare un bravo medico devi poter approfondire, se vuoi diventare un bravo ingegnere, se vuoi avere informazione, un pizzico della propria vita la devi spendere non accontentandoti di qualcosa di immediato e di istantaneo e di facile. Quindi noi siamo passati da un’informazione, io circa 7-8 anni fa, quando comincia Internet and Explorer, noi avevamo un sistema che ci diceva, siccome tutto era click, tutte le informazioni gratuite, tutto facile, un sistema che ci diceva: guarda, queste sono le notizie che stai leggendo, metti insieme questo, organizzale così per avere il massimo dei lettori e vi posso far immaginare quali erano le notizie, sfilate di lingerie, pesci più mostruosi dell’oceano. Allora uno si può divertire e organizzare la propria informazione in questo modo, certamente non è l’informazione che noi vogliamo e dobbiamo fare e credo che non sia utile a nessuno, non sia quello di cui le persone in crescita, le comunità hanno bisogno.

 

Scholz. Grazie. Arriviamo all’ultima domanda. È un dato statistico che durante la pandemia quando cominciavano a fiorire i complottismi vari nei social, c’è stato un crescente riferimento alle vostre presenze sul web, perché la gente in qualche modo voleva capire qualcosa in più. E questo conferma anche quello che avete detto, il vostro impegno di andare sui fatti, di renderli presenti anche quando non sono immediati o facili nella loro complessità. Però voi avete anche un’opinione. Dentro il pluralismo delle idee, anche voi date un’idea attraverso gli editoriali, i commenti, gli stessi vostri titoli sono interpretativi. E quindi entriamo nella logica del pluralismo. Il pluralismo vive del fatto che c’è una diversità di quotidiani, ma c’è anche la domanda in quanto un quotidiano al suo interno deve curare un certo pluralismo. Quindi tanti vi leggono perché vi sentono più vicini alla loro idea culturale, politica, sociale, religiosa, Questa è una scelta legittima e quindi c’è la pluralità delle testate. Come vedete voi la relazione fra una vostra identità culturale, politica e il pluralismo? Maurizio Molinari.

 

Molinari. Questa è una bellissima domanda e ha a che fare col tema di cui discutevamo prima, questa continua ricerca e aggiornamento di come usare al meglio le nuove tecnologie. Perché? Perché la parte identitaria del lettorato in realtà segue soprattutto il prodotto di carta, mentre sul digitale il pubblico è generalista. Quindi questo significa che offre a noi, nelle nostre mansioni, una grande opportunità, quella di sviluppare un doppio linguaggio, un linguaggio più identitario sulla carta e un linguaggio invece più universale sul digitale. E questo significa iniziare a diversificare i contenuti che si posizionano sulle varie piattaforme, perché, come dicevamo prima, ci sono tipologie diverse di pubblico. Chi compra il giornale di carta, chi arriva sul sito del giornale navigando, chi arriva su un social network, chi frequenta i diversi social network, sono persone differenti. Gli studi, lentamente poi, adesso naturalmente se voi chiedete a me cosa serve nel tuo giornale, servono i data analyst, servono gli analisti di dati, ma gli analisti di dati che iniziano a lavorare sul nostro traffico, ci dicono questo ed è straordinariamente affascinante. Le tipologie di pubblico sono completamente diverse, non sono le stesse persone. Chi arriva sul sito di Repubblica navigando non è sempre la persona che compra il giornale di carta e non è quello che arriva sui nostri social network, sono persone diverse; quindi, la sfida è usare linguaggi diversi per raggiungere tutti in maniera differente. Allora è chiaro che la carta è il brand, è l’identità fondamentale, allora Repubblica racconterà una storia particolare come il duello fra la Meloni e Salvini con una tinta diversa dai suoi competitors di mercato, e quindi naturalmente parlerà con questo taglio al proprio lettorato e darà una chiave di lettura che alcuni possono condividere e altri possono contestare. Ma se c’è lo sbarco della sonda indiana sulla Luna allora lì la competizione con gli altri non è più identitaria ma è sull’arrivare per primo con le informazioni di maggiore qualità, riuscendo poi a trattenere l’interesse del lettore e continuando a dare approfondimenti. E questa, secondo me, è la finestra straordinaria, l’approfondimento sul web, perché è lì che come giustamente prima i colleghi stavano osservando, è lì che c’è la sfida. La sfida è quando si convince il lettore digitale a dedicare più tempo alla lettura, è la diminuzione del tempo dedicato alla lettura che genera l’intolleranza. E chi legge solamente due righe e pensa di aver compreso assolutamente tutto, che arriva a delle deduzioni su un argomento che non conosce, e inizia a scrivere sui social delle cose invereconde su fatti che non sono mai avvenuti. Perché? Perché non usa il tempo per riflettere. Il rischio vero è questo cortocircuito. Sono d’accordo con quello che diceva prima all’inizio rispondendo alla prima domanda Luciano Fontana. Uno degli antidoti a questo è spingere le nuove generazioni nella scuola, nel sistema dell’istruzione a formarsi in maniera di arrivare già protetti all’uso dei social, ovvero a imparare a leggere sui libri, studiare sui libri di carta. Noi tutti siamo arrivati al digitale dopo esserci formati sulla carta; Quindi, ognuno di noi sa che per impossessarsi di nozioni serve del tempo, perché leggere un libro o leggere un articolo comporta del tempo. La generazione nativa digitale questa cosa non la sa, non l’ha mai fatto, perché inizia subito ad assumere informazioni senza legare il fattore tempo al fattore conoscenza, e quindi su questi giornali possono fare un lavoro straordinario ma hanno bisogno del supporto, del sostegno del sistema dell’informazione che sappia rispondere alla sfida digitale.

 

Scholz. Grazie.

Fontana. Naturalmente il tema dell’identità di un giornale è un tema molto importante e lo è particolarmente per noi anche perché qualche volta era stato coniato anche un aggettivo per il Corriere della Sera dicendo che era cerchiobottista, cioè cercava di tenere insieme un po’ troppe cose che insieme non potevano stare. Allora io voglio dire alcune cose per farmi capire molto semplicemente. Io penso, e l’ho forse già detto prima, che un giornale è un sistema di informazione, quando parlo di giornale ormai parlo delle tantissime cose che un sistema di informazione come il Corriere, come Repubblica, il Comitato Nazionale, Milano Finanza fa, non possa viversi come lo specchio assoluto dei propri lettori. I lettori non possono vivere quel giornale come lo specchio di se stessi, perché questo è molto pericoloso, crea delle comunità autoreferenziali di appartenenza, ma non crea crescita, dibattito e non crea prospettiva. Questo per me è un punto molto importante, come quando si dice io, se c’è una cosa che odio ad esempio della politica è quando i politici mi dicono io sono come te, no, non devi essere come me, se fai il politico devi essere meglio di me a fare quella cosa, perché ti ho votato e voglio che mi dai prospettive, progetti, orizzonti. Ecco, la stessa cosa non vorrei mai che fosse per un giornale. Quindi avere un’identità forte non significa avere delle idee e dei punti di vista che escludono tutti gli altri. Io non vorrei che nessun lettore, nessun italiano, si sentisse escluso dalla nostra informazione. Cioè, fare un giornale che tutti possano leggere, fare un sistema di informazioni di cui tutti possano essere utenti e questo non significa perché diamo ragione a tutti, ma perché c’è quella serietà e fattualità del raccontare notizie, pluralismo di opinioni, rispetto delle opinioni diverse, che se anche un giorno non sarai d’accordo con quello che io ho scritto, sai che ti sto rispettando e che non lo faccio per partito preso e per faziosità. È certamente un equilibrio difficile in un mondo in cui cercano tutti delle identità molto definite, in cui mettersi l’elmetto in testa è la cosa più facile che possa accadere. Però il pluralismo, l’apertura degli orizzonti, è qualcosa che noi come sistema di informazione dobbiamo avere come il nostro obiettivo principale. Se un giornale che apro al mattino non mi dice: a questa cosa non avevo pensato, guarda, c’è un punto di vista di cui non avevo tenuto conto che mi dà modo di ragionare, di far crescere. Se non facciamo questo, se non abbiamo l’originalità delle cose che stiamo raccontando, noi falliamo completamente il nostro obiettivo. Quindi l’identità forte è un’identità aperta che è fatta del modo in cui si rispettano i lettori, è fatta anche di opinionisti interni, cioè io ne ho un certo numero, spesso anche in combattimento tra loro dentro il giornale, però penso che alla fine questo sia qualcosa di molto utile per chi vorrà venirci a leggere e soprattutto forma le basi della crescita di un pensiero critico che è l’elemento fondamentale per tutte le altre cose, per crescere nella società, per costruirsi un proprio ruolo dal punto di vista sociale e economico, e soprattutto, ripetendo un po’ quello che stamattina Mattarella ci ha detto, per costruire una società che sa che dalla composizione, dalla situazione di conflitto c’è poi la possibilità di futuro. Senza questo facciamo ognuno il nostro compito, bastoniamo i nostri avversari, ma non faremo nulla di utile né per l’informazione né per il Paese.

 

Scholz. Roberto Sommella.

 

Sommella. La domanda è vera, è molto bella, molto profonda, la diversità tra l’identità e la professione. Come persona so di non sapere, che devo approfondire, che devo leggere, che devo imparare ad ascoltare molto più che ascoltarmi, che devo approfondire ancora di più le mie conoscenze. Da professionista so che devo far sapere, che ho questo obbligo di coscienza, come servizio essenziale, ma insomma come servizio pubblico alla fine, anche se siamo giornali privati, di far sapere quello che accade con quella ritualità che mi ricorda molto la commedia, il teatro. Il giornale ogni giorno è la stessa messa in scena che cambia e che non deve dare nulla per scontato. Non è la sitcom, non è una serie, che tutto si dà per scontato. Anche un’altra cosa che ricordo spesso ai miei colleghi, non diamo tutto per scontato, sennò il lettore si trova oggi a leggere una cosa che sembra avvenuta su Marte invece che sul pianeta Terra. La commedia, il teatro dell’esistenza, come in tanti altri lavori, si mette in scena ogni giorno nel giornalismo, ha questa capacità romantica. Io sì, sono un po’ romantico, lo ammetto, però di mettere insieme le persone. Quindi quello che ha detto questa mattina il Capo dello Stato, cioè che l’amicizia non deve essere solo tra simili, perché l’amicizia tra simili diventa omogeneizzazione. L’amicizia deve essere tra diversi, tra differenti e deve unire e deve ridurre le disuguaglianze, perché l’amicizia fra simili è appunto il giornale che si guarda nello specchio, è il lettore che cerca le proprie convinzioni, le conferme alle proprie contraddizioni, le conferme anche alle proprie discriminazioni. E questo sicuramente il giornale ha questa grandissima responsabilità, economico, finanziario, generalista che sia, è quella di non alimentare le discriminazioni ma di spiegarle e di combatterle, con l’uso più possibile delle parole giuste per spiegare realtà complesse. Mentre invece sui social accade, ci sono delle letture molto interessanti e delle scritture degli studi che ha fatto ad esempio una professionista come Susan Grenfell sull’esaltazione delle discriminazioni che avviene proprio attraverso i like, attraverso l’uso smodato dei social. Ecco noi siamo su quel territorio, su quella frontiera ma indubbiamente la carta è il territorio di coloro che si vogliono riconoscere simili e invece il grande oceano dei social è il territorio di tutti coloro che si vogliono informare e noi viviamo su questo pendio ogni giorno con questa arte anche artigianale per certi versi che è quella del giornalismo, non mandiamo navicelle nello spazio e dobbiamo anche non prenderci troppo sul serio e parlare di più e comunicare di più con la gente.

 

Scholz. L’ultima parola Agnese Pini.

 

Pini. Ho l’onere di concludere. Allora tiro un po’ anche le somme di quello che è stato detto finora, perché mi colpiva molto quello che hanno detto tutti i miei colleghi sulla importanza dell’identità dei giornali. La questione dell’identità è una garanzia per i lettori assoluta. Perché? Perché fa in modo tale che il giornale non appartenga ovviamente né al direttore che si trova a dirigerlo perfino per poco tempo in genere, per pochi anni quando va bene, ma neppure dell’editore che si trova a editarlo in quel dato momento, perché i giornali sono prodotti culturali chiamiamoli così, è cultura il giornale, che sopravvivono e vivono in alcuni casi per tempi anche ultracentenari. Due dei giornali che dirigo Il resto del Carlino e La Nazione sono tali, e lo stesso vale per Il Correre della sera, indipendentemente da chi in un dato momento storico li edita o li dirige. E questa è la garanzia dell’identità, perché quel prodotto culturale rispettando la sua identità viene acquistato o non acquistato dai lettori perché si riconoscono nell’identità di quel giornale. Se il direttore di turno o l’editore di turno tradisce quell’identità o quella storia, il lettore se ne accorge immediatamente e ha il potere di non comprarli più. Quindi si riequilibra immediatamente da sola la questione dell’identità, importantissima e straordinaria, perché appunto garantisce che il giornale di carta ma, secondo me, anche digitale, alla fine. È vero che sul digitale i click sono più volatili, il pubblico è più volatile, non c’è dubbio, ma resta forte anche l’espressione dell’identità sul digitale. Questa è la prima garanzia per il lettore. Poi c’è certamente un altro aspetto importante che il giornale può offrire, perché è vero che rispetta l’identità dei lettori, ma fa una cosa di straordinaria utilità rispetto a quello che avviene per esempio soltanto sui social network. Se voi vi informate solo attraverso i social, e siete, per esempio, ossessionati, non lo so, dalla paura dello straniero, mettiamo il caso, oppure dai tacchi a spillo, oppure dalla melanzana alla parmigiana, va bene qualunque cosa, il vostro algoritmo vi riempirà il feed, la vostra home page dei social di contenuti che sono sempre nella paura dello straniero, piuttosto che tacchi a spillo, piuttosto quello che a voi piace. E quindi vi convincerete di stare dentro una bolla in cui il tema diventa centrale. Si creano così quei cortocircuiti mentali, intellettuali, dentro cui tanti di noi oggi si trovano perché, se si informano soltanto attraverso i social, quindi soltanto attraverso l’algoritmo, avrete l’illusione che non ci siano in realtà possibili alternative a quelle che voi stesse vi costruite e a quello a cui voi stessi vi interessate o vi piace. Questo è un grave problema. Nei giornali invece trovate che cosa, pur nel rispetto dell’identità? Quella pluralità necessaria a sapere che la realtà intorno a voi è estremamente più grande, più complessa, anche di quello che vi piace o anche di quello che vi interessa. Il segreto del giornale è quello di aprire la mente aldilà degli interessi specifici, naturali di ciascuno di noi, che vanno bene ma che possono anche diventare pericolosi perché ci restringono lo spazio di riflessione, di analisi intorno. E c’è poi un terzo punto importante per quel che riguarda i giornali. Quindi l’identità, la pluralità delle informazioni, ma poi il fatto che i giornali sono fatti di molte persone. I sistemi di informazioni tradizionali, diciamo così, giornali, siti internet, tv, radio, sono molte le persone che contribuiscono a fare il giornale. I giornali si decidono nelle riunioni di redazione, che sono fatte dal direttore e da molti colleghi. E perché è fondamentale che ci siano appunto più persone? Vedete, quando l’influencer o il singolo giornalista che diventa influencer, per quanto possa essere talentuoso, per quanto possa essere bravo, è solo. E quando si è soli si è inevitabilmente molto più esposti al rischio di sbagliare. Ora il nostro mestiere, essendo un mestiere basato sulla scelta, perché i giornali sono insieme di scelte con cui contribuisce a creare l’identità, la pluralità, eccetera, essendo un mestiere di scelte, è un mestiere ad altissimo rischio di errore. I giornali sbagliano tanto perché scelgono tantissimo, e ogni volta che tu scegli ti esponi al rischio di sbagliare. Perché nei giornali tu riesci a ridurre il più possibile il margine di errore? Non lo azzeri, ma lo riduci. Perché i giornali sono decisi, sono scelti da molte persone, da una pluralità delle famose riunioni di redazione. Questo aiuta a ridurre il margine d’errore, per questo l’informazione attraverso i giornali, dico giornali per semplificare, ma appunto i sistemi di informazioni, diciamo così, veri, è una garanzia assoluta per voi, a maggior ragione appunto in un mondo comunicativo in cui capire le differenze tra la realtà e le realtà virtuali autoprodotte attraverso appunto i famosi algoritmi, è sempre più difficile, è sempre più complicato. Non è una promessa legata al fatto che nei giornali non troverete errori, appunto i mestieri basati sulla scelta sono mestieri che si espongono allo sbaglio e all’errore, ma sicuramente l’identità, la diversità e la pluralità di persone che concorrono a prendere quelle decisioni è una grande garanzia di verità di informazione per voi.

 

Scholz. Grazie. Nietzsche ha detto una volta: “non esistono fatti, esistono solo interpretazioni”. Oggi abbiamo assistito a un dibattito che ha fatto emergere che i fatti esistono ma che è un impegno enorme di farli parlare, di renderli presenti, di individuarli, ma che esistono anche le interpretazioni, che esistono le valutazioni per forza. Io ringrazio perché oggi siamo diventati più capaci, e per me questo è fondamentale, di valutare anche le valutazioni. E quindi è un dialogo aperto che abbiamo anche noi con i giornali, proprio perché c’è una trasparenza sulla loro identità. Non è che io leggo un giornale, come è stato detto, come un dogma. Lo leggo come un contributo alla maturazione di una mia valutazione delle mie scelte politiche, sociali, economiche che devo fare, ma senza i quotidiani penso che sia impensabile. Quindi grazie mille per il vostro contributo così trasparente, così sereno e lucido. Grazie mille.

 

 

Data

25 Agosto 2023

Ora

15:00

Edizione

2023

Luogo

Auditorium isybank D3
Categoria
Incontri