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LA REPUBBLICA HA 70 ANNI, INCONTRO CON IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SERGIO MATTARELLA
Introducono Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli e Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
LA REPUBBLICA HA 70 ANNI, INCONTRO CON IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SERGIO MATTARELLA
EMILIA GUARNIERI:
Egregio Signor Presidente, autorità, amici, apriamo la 37°ma edizione del Meeting. Ringraziamo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l’onore grandissimo che ci fa con la Sua visita, avendo accettato di inaugurare il Meeting di quest’anno con questo incontro dal titolo “La Repubblica ha 70 anni”. Papa Francesco ha voluto accompagnare questo nostro inizio con un Suo messaggio di cui ora, Signor Presidente, vorrei dare lettura. Il messaggio ci è arrivato attraverso il vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi.
“Eccellenza Reverendissima,
in occasione del XXXVII Meeting per l’amicizia fra i popoli, sono lieto di far pervenire a Lei, agli organizzatori, ai volontari e a quanti vi prenderanno parte il beneaugurante saluto del Santo Padre Francesco, unitamente al mio personale auspicio di ogni bene per questo significativo evento.
Il titolo dell’incontro – «Tu sei un bene per me» – è coraggioso. Infatti, ci vuole coraggio per affermare ciò, mentre tanti aspetti della realtà che ci circonda sembrano condurre in senso opposto. Troppe volte si cede alla tentazione di chiudersi nell’orizzonte ristretto dei propri interessi, così che gli altri diventano qualcosa di superfluo, o peggio ancora un fastidio, un ostacolo. Ma questo non è conforme alla nostra natura: fin da bambini noi scopriamo la bellezza del legame fra gli esseri umani, impariamo ad incontrare l’altro, riconoscendolo e rispettandolo come interlocutore e come fratello, perché figlio del comune Padre che è nei cieli. Invece l’individualismo allontana dalle persone, ne coglie soprattutto i limiti e i difetti, indebolendo il desiderio e la capacità di una convivenza in cui ciascuno possa essere libero e felice in compagnia degli altri con la ricchezza delle loro diversità.
Di fronte alle minacce alla pace e alla sicurezza dei popoli e delle nazioni, siamo chiamati a prendere coscienza che è innanzitutto un’insicurezza esistenziale che ci fa avere paura dell’altro, come se fosse un nostro antagonista che ci toglie spazio vitale e oltrepassa i confini che ci siamo costruiti. Di fronte al cambiamento d’epoca in cui tutti siamo coinvolti, chi può pensare di salvarsi da solo e con le proprie forze? È la presunzione che sta all’origine di ogni conflitto tra gli uomini. Sull’esempio del Signore Gesù, il cristiano coltiva sempre un pensiero aperto verso l’altro, chiunque egli sia, perché non considera alcuna persona come perduta definitivamente. Il Vangelo ci consegna un’immagine suggestiva di questo atteggiamento: il figlio prodigo che pascola i porci e il padre che tutte le sere sale sulla terrazza per vedere se torna a casa e spera, malgrado tutto e tutti. Come cambierebbe il nostro mondo se questa speranza senza misura diventasse la lente con cui gli uomini si guardano tra di loro! Il pubblicano Zaccheo e il buon ladrone sulla croce sono stati guardati da Gesù come creature di Dio bisognose dell’abbraccio che salva. E perfino Giuda, proprio mentre lo consegnava ai suoi avversari, si è sentito chiamare «amico» da Gesù.
C’è una parola che non dobbiamo mai stancarci di ripetere e soprattutto di testimoniare: dialogo. Scopriremo che aprirci agli altri non impoverisce il nostro sguardo, ma ci rende più ricchi perché ci fa riconoscere la verità dell’altro, l’importanza della sua esperienza e il retroterra di quello che dice, anche quando si nasconde dietro atteggiamenti e scelte che non condividiamo. Un vero incontro implica la chiarezza della propria identità, ma al tempo stesso la disponibilità a mettersi nei panni dell’altro per cogliere, al di sotto della superficie, ciò che agita il suo cuore, che cosa cerca veramente. In questo modo può iniziare quel dialogo che fa avanzare nel cammino verso nuove sintesi che arricchiscono l’uno e l’altro. Questa è la sfida davanti alla quale si trovano tutti gli uomini di buona volontà.
Tanti sconvolgimenti di cui spesso ci sentiamo testimoni impotenti sono, in realtà, un invito misterioso a ritrovare i fondamenti della comunione tra gli uomini per un nuovo inizio. Di fronte a tutto questo, noi discepoli di Gesù quale contributo possiamo dare? Il nostro compito coincide con la missione per cui siamo stati scelti da Dio: è «l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante (Francesco, Discorso in occasione del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016).
Questo è l’auspicio del Santo Padre, il quale incoraggia i partecipanti al Meeting a porre ogni attenzione alla personale testimonianza creativa, nella consapevolezza che ciò che attrae, ciò che conquista e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti, ma la mitezza tenace dell’amore misericordioso del Padre, che ognuno può attingere dalla sorgente di grazia che Dio offre nei Sacramenti, specialmente l’Eucaristia e la Penitenza, per poi donarlo ai fratelli. Egli esorta a continuare nell’impegno di prossimità agli altri, facendo a gara nel servirli con gioia, secondo l’insegnamento di don Giussani: «Lo sguardo cristiano vibra di un impeto che lo rende capace di esaltare tutto il bene che c’è in tutto ciò che si incontra, in quanto glielo fa riconoscere partecipe di quel disegno la cui attuazione sarà compiuta nell’eternità e che in Cristo ci è stato rivelato» (L. Giussani, S. Alberto, J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. 157).
Con questi sentimenti, Sua Santità invoca su Vostra Eccellenza, sugli organizzatori, i partecipanti e i numerosi volontari del Meeting per l’amicizia fra i popoli la luce dello Spirito Santo per una feconda esperienza di fede e di comunione fraterna e, mentre chiede di pregare per Lui, volentieri invia la Benedizione Apostolica.
Nel chiedere a Vostra Eccellenza di assicurare anche il mio personale augurio, profitto della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio dell’Eccellenza Vostra Rev.ma
dev.mo Piero Card. Parolin Segretario di Stato”.
Il titolo di quest’anno, Tu sei un bene per me, rappresenta emblematicamente il contenuto ideale da cui nasce una iniziativa come il Meeting per l’amicizia tra i popoli. Un contenuto che nell’esperienza di questi anni abbiamo potuto verificare. Abbiamo visto che l’altro è veramente un bene, che l’incontro e il dialogo tra uomini e popoli, diversi per cultura, religione, razza, possono realmente accadere e generare quella “amicizia sociale” fatta di perdono e di gratuità, di cui recentemente ha parlato Papa Francesco. Una amicizia che può cambiare i rapporti tra gli uomini, che può cominciare a cambiare la storia, come tanti esempi anche in questo Meeting mostreranno.
Ma all’origine di tali impreviste amicizie, di tante storie e percorsi di uomini che si sono incontrati, attraversando le differenze, i conflitti, la violenza, sta l’esperienza di una certezza, che è la stessa certezza da cui nasce il Meeting, che il valore di ogni persona consiste nel suo esserci, nell’esserci del suo infinito desiderio, nell’esserci del suo cuore. E ci pare di poter affermare che questo valore può essere fondante non solo nei rapporti interpersonali. Diceva don Giussani, agli inizi degli anni ’60, parlando di democrazia: “Bisogna che il criterio della convivenza umana sia l’affermazione dell’uomo in quanto è”.
Questo significa che con l’altro si possono costruire pezzi di strada, significa che nella diversità delle persone che incontriamo può esserci il suggerimento per affrontare sfide alle quali ancora non avevamo risposta. Questo ci pare sia il valore della diversità dell’altro. Tali diversità devono poter esistere. È per questo che desideriamo intensamente che la nostra società, il nostro Paese e la nostra Europa, siano il luogo dove, nella libertà, il rapporto e il dialogo costruiscano spazi di confronto e percorsi condivisi.
Lei, egregio Presidente, facendo memoria del Referendum del ’46, ha celebrato il 2 giugno come la “festa della libertà di scelta”. Le siamo grati anche per questo, perché ci ha richiamato il valore della libertà di ogni uomo e di ogni donna, come un bene irrinunciabile, per il quale continuare ad impegnarsi e a spendere la vita.
Grazie, Presidente, di essere qui con noi. Ed ora, il professor Vittadini, Presidente della fondazione per la Sussidiarietà e, insieme al Presidente Violante, fautore e costruttore della mostra sui 70 anni della Repubblica, ci introdurrà al percorso di questa esposizione che potremo visitare nei giorni del Meeting.
GIORGIO VITTADINI:
Come sappiamo, quest’anno ricorre il 70° compleanno della Repubblica italiana: con il referendum del 2 giugno 1946, gli italiani furono chiamati per la prima volta a decidere liberamente del proprio futuro politico e istituzionale. Scelsero la Repubblica rispetto alla Monarchia ed elessero l’Assemblea Costituente che avrebbe redatto la nuova Costituzione. Il voto avvenne per la prima volta a suffragio universale: a tutti i cittadini, uomini e donne, fu riconosciuto il diritto di eleggere ed essere eletti.
Abbiamo pensato che questa ricorrenza poteva essere una preziosa occasione per trarre suggerimenti dalla nostra storia. Come ha detto il Presidente Mattarella quest’anno, in occasione delle celebrazioni del 2 giugno, “vi è bisogno di recuperare interamente il senso del vivere insieme e si tratta di un’attitudine diffusa nel nostro Paese. […] Le grandi sfide di oggi si possono affrontare e governare soltanto ricercando e trovando politiche comuni e impegni condivisi”.
La mostra sui 70 anni della Repubblica propone un racconto di questa storia con l’auspicio che sia un utile contributo al faticoso, eppure necessario, recupero del senso del vivere insieme. Cosa ci insegna la storia? In una situazione di crisi e difficoltà come quella che stiamo vivendo, cosa ci insegna la storia di questi 70 anni? Che cosa ha caratterizzato e caratterizza la vita della nostra Repubblica?
Ci siamo ormai abituati a una vita pubblica come scontro e delegittimazione continui, ma non è sempre stato così. Il titolo del Meeting di quest’anno, Tu sei un bene per me, e il titolo della mostra, L’incontro con l’altro: genio della Repubblica. 1946-2016, mostrano una strada alternativa possibile. Come ha scritto il Presidente Violante che ha ispirato e guidato il lavoro di questa mostra, “la grande risorsa dell’Italia repubblicana sono state tutte le persone che si sono assunte l’onere di costruire, operare, esortare, dirigere, sostenendo così la speranza di tutti”.
Questi “io” non si sono mossi isolatamente, ma hanno costruito e vissuto legami con altri individui di provenienza, ideali e culture anche molto diverse. Soprattutto nei momenti più critici, è prevalsa l’intuizione che solo incontrando gli altri, la propria identità si sviluppa e si arricchisce. “La democrazia nasce come dialogo e collaborazione fra entità umane che si stimano in quanto precise identità, e si rispettano non perché si autolimitano, ma per l’imperscrutabile destino della differenza, che è cammino diverso al destino comune” (L. Giussani, L’io, il potere, le opere, 2000).
Questo fenomeno è documentato fin dall’inizio. L’Italia era spaccata in due: la scelta per la Repubblica prevalse sulla Monarchia. Alle elezioni del 1948 non si sapeva davvero chi avrebbe vinto tra Dc e Pci. Eppure, nonostante i forti contrasti, si è riusciti a costruire insieme guardando l’altro come un alleato necessario, non un nemico da umiliare. L’opera di mediazione è poi continuata in Assemblea Costituente, dove la cultura cattolica e quelle socialista, comunista e liberale hanno trovato un compromesso virtuoso, che si è ripetuto nei momenti drammatici della nostra storia (ad esempio, la ricostruzione economica, il terrorismo, la guerra fredda, la caduta del muro di Berlino). Nella nostra storia, spesso ci si è incontrati e poi spesso ci si è divisi. Almeno fino alla metà degli anni Novanta, si è sempre cercato di superare le divisioni e di andare avanti. Incontrarsi, dividersi, mettersi insieme ancora, come ci tocca fare oggi per costruire. Questo mettersi insieme è la nostra storia, è l’attuazione di quello che dice un importantissimo filosofo americano, il politologo John Rawls: “Il velo di ignoranza su cui puoi vincere una battaglia, può far paura, paralizzare oppure può aiutare a vedere che si ha bisogno dell’altro”. Storicamente, la logica dell’eliminazione del nemico non è fruttuosa: la nostra storia lo dimostra. Non c’è nemico da distruggere ma qualcuno con cui costruire.
Quanto detto vale non solo per i potenti: la vita di questa Repubblica non è soltanto la vita dei grandi personaggi ma è la vita del popolo. La vita della Repubblica è vita di grandi personalità e di comuni cittadini. La nostra Repubblica è nata e nasce dalla collaborazione tra i grandi testimoni, i grandi personaggi e i cittadini che l’hanno costruita. Questo segna tutta la nostra storia. Come ha scritto ancora il Presidente Violante: “Le classi dirigenti del dopoguerra hanno avuto il merito di valorizzare, nella ricostruzione, l’iniziativa di grandi parti del popolo fino a quel momento escluse dalla scena pubblica”. Così il popolo, fatto di persone e realtà diversissime tra loro, è stato fattore dinamico della storia italiana e ha dato vita a opere economiche, sociali, culturali, artistiche che hanno contribuito al bene comune e allo sviluppo del Paese. Dall’autostrada del Sole all’Eni di Mattei, dalla lotta all’analfabetismo e dalla scolarizzazione di massa all’assistenza sanitaria per tutti al tentativo di dare una casa a più gente possibile, all’affronto collettivo di catastrofi naturali fino all’industrializzazione di un Paese prima arretrato, tanti sono i casi di impegno documentati nella mostra.
Cosa ci insegna allora la storia in questo momento difficile della storia repubblicana e del mondo? Alla metà degli anni Novanta è iniziata una dialettica politica paralizzante, perché basata sull’idea di de-legittimare l’avversario. Abbiamo sperimentato la sterilità di una logica amicus-hostis in politica. Nessuna riforma è stata possibile perché la maggioranza cercava di imporla contro l’opposizione e quest’ultima per definizione provava a bloccarla. Questa logica ha impedito la ricerca di una costruzione comune, magari imperfetta, ma condivisa e perciò più solida.
Oggi siamo di fronte all’incombenza dell’incertezza economica, della trasformazione demografica, del terrorismo, con egoismi, divisioni, paura dell’altro. Ed è forte il rischio che ogni identità si atrofizzi e vincano lo scetticismo, la delusione, lo scoramento, il lamento la rabbia, il contrasto, la divisione e alla fine il nichilismo contrabbandato come novità. Occorre riprendere il filo smarrito. La situazione sembra molto diversa dall’inizio ma il metodo di affronto è lo stesso. C’è una potenza nella persona dell’altro che facilita l’incontro. In politica e nella gestione della cosa pubblica è facile pensare che affermare il brandello di bene che c’è nell’altro sia una posizione debole o relativista. Il genio della Repubblica – al di là dei limiti e delle contraddizioni – può essere ancora adesso nella scommessa che l’altro, anche se diverso, è una risorsa e non un ostacolo.
Ha scritto Julián Carrón: “Se non trova posto in noi l’esperienza elementare che l’altro è un bene, non un ostacolo per la pienezza del nostro io, nella politica come nei rapporti umani e sociali, sarà difficile uscire dalla situazione in cui ci troviamo”. Occorre perciò tornare a vivere in nome degli ideali in cui si crede, nei corpi intermedi cui si partecipa, movimenti, associazioni, realtà politiche ed economiche, per riscoprire in queste realtà, invece di una chiusura corporativa che difende solo il proprio interesse, il desiderio di costruire il bene comune a qualunque livello. E in nome di questo occorre riprendere a incontrarsi per ritrovarsi e scoprire esempi interessanti nei tentativi degli altri, superando le differenze ideologiche.
E questo, come nella prima parte di questi 70 anni, deve coinvolgere tutto il popolo. La res publica ha bisogno che anche la parte più ai margini del popolo torni a partecipare ad un progetto comune; è fondamentale che tutti coloro che per povertà, per miseria, per dolore, per solitudine, si sono progressivamente estraniati dalla vita comune tornino ad essere protagonisti e a costruire insieme.
Le classi dirigenti, invece di cercare il consenso ad ogni costo, invece di inseguire vecchi e nuovi demiurghi, devono ritornare a servire il popolo: non bastano le dichiarazioni, occorre un lavoro reale, non alle spalle della gente ma con la gente. Così si può trovare anche la strada per affrontare a livello politico e istituzionale questioni che sembrano irrimediabilmente divisive e non ricomponibili. Come è stato all’inizio della Repubblica.
EMILIA GUARNIERI:
Ora, Presidente, mi permetto di ringraziare don Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, che oggi è qui con noi e che inviterei per un suo indirizzo di saluto.
JULIÁN CARRÓN:
Carissimo Presidente, che parole usare per ringraziarLa di questo gesto così gratuito, del Suo accompagnarci in questo giorno così cruciale, non soltanto per noi che siamo qua ma per tutti quanti ci ascoltano? Penso che il lavoro di tutti coloro che hanno curato questa mostra sarà un bene per il Paese. Per questo siamo desiderosi di ascoltarLa e abbiamo il desiderio di fare tesoro delle sue parole. Facendo tesoro, forse, possiamo anche dare un contributo al peso che lei porta, come responsabile di tutta la nostra comunità. Grazie.
EMILIA GUARNIERI:
Caro Presidente, ora La ascoltiamo.
SERGIO MATTARELLA:
Un saluto molto cordiale a tutti voi. Vi ringrazio molto di questa accoglienza, ringrazio la Presidente della Fondazione Meeting e il Presidente della Fondazione Sussidiarietà per le parole di benvenuto che mi hanno rivolto. Ringrazio molto don Carròn per avere voluto aggiungere il suo saluto, lo ringrazio davvero molto. A voi giovani presenti, e a quanti altri con il loro servizio volontario generoso rendono possibili queste giornate di incontri e dialogo qui a Rimini, voglio dire che siete una risorsa preziosa per la nostra società. Sono qui soprattutto per ringraziarvi e per incoraggiare insieme a voi tutti i giovani che sono disposti a mettersi in gioco per una speranza, per una passione, per una buona causa. La Repubblica italiana ha appena compiuto 70 anni Anch’essa è giovane: i tempi biologici sono più lunghi per le istituzioni. Ha già affrontato e superato prove impegnative.
Per diventare più forte ha bisogno di rinnovato entusiasmo, di fraternità, di curiosità per l’altro, di voglia di futuro, del coraggio di misurarsi con le nuove sfide che abbiamo di fronte.
Ovviamente si confronteranno, come è bene e come è giusto, idee e soluzioni diverse. Ma l’attitudine dei giovani a diventare protagonisti della propria storia costituisce comunque sempre l’energia vitale di un Paese. Questa spinta vale più di qualunque indice economico o di borsa. La nostra società sta invecchiando e ci sono rischi oggettivi che le potenzialità dei giovani vengano compresse. Dobbiamo scongiurare questo pericolo che minaccia la nostra, come altre, società. Anche per questo – in un tempo di cambiamenti epocali come il nostro – è necessario prestare attenzione e dare spazio alla visione dei giovani. Senza farci vincere dalle paure, dalle paure antiche e da quelle inedite. Attenti a non cadere nell’errore di ritenere nuove false soluzioni già vissute e fallite nel breve Novecento. Non ci difenderemo alzando muri verso l’esterno, o creando barriere divisorie al nostro interno. Al contrario.
Tante nuove diseguaglianze stanno emergendo. Spesso sono proprio i giovani a pagarne il prezzo più alto. Occorre ricominciare a costruire ponti e percorsi di coesione e sviluppo. Occorre rendersi conto che vi è un destino da condividere. Stiamo parlando di condivisione dei benefici e delle responsabilità, anche delle difficoltà. Condivisione dei diritti e dei doveri, della memoria del nostro popolo e del suo sguardo verso il futuro.
Nel Libro della Sapienza viene ricordato che i figli dei giusti si impegnarono al rispetto di una regola: condividere allo stesso modo successi e pericoli. Dovremmo tenere conto, nel nostro Paese, di questa sapienza antica.
Viviamo oggi l’epoca dell’io. Intendiamoci: nell’affermazione dell’individuo vi è una intrinseca verità, una crescita della coscienza, una domanda positiva di diritti e di opportunità. Il primato della persona, il riconoscimento della sua integrità e inviolabilità, il principio stesso di uguaglianza tra gli esseri umani hanno tratto alimento da questo percorso storico di affermazione della centralità dell’individuo o, meglio, della persona. L’io non è soltanto identità. È anche dignità, libertà. Libertà che – ci è stato ricordato da Kant a Martin Luther King – trova il proprio limite nella libertà degli altri, di tutti gli altri.
Il punto cruciale è che l’io non è autosufficiente. L’io ha bisogno del tu come l’aria per respirare. L’io contiene l’esigenza di diventare un “noi” proprio per fronteggiare e raggiungere quei traguardi che è stato capace di immaginare. Perché il noi è la comunità.
Il noi è anche la storia. Il noi è la democrazia. Andare oltre l’io vuole dire realizzarsi in maniera autentica anche come singoli. Vuole dire anche superare il limite del qui e ora, perché il futuro si costruisce soltanto insieme. A volte sembra persino impossibile pensare oltre il contingente. La discussione pubblica, compresa quella politica, è spesso dominata dal presente. Passare dall’io al noi ci permette di guardare più lontano.
Ricordo uno scritto di don Giussani, L’avvenimento cristiano: “L’immoralità” scriveva “è l’esperienza di un soggetto umano che non appartiene se non a se stesso. La moralità nasce, invece, come coscienza del proprio compito e insieme dei propri limiti, è l’esperienza di un uomo che viva un’appartenenza a una realtà più grande di sé”.
L’altro ci conduce meglio al domani. Insieme si consente alla società di pensarsi migliore, domani. Naturalmente occorre sempre fare al meglio oggi ciò che è possibile nelle condizioni date, ma al tempo stesso dobbiamo progettare insieme un futuro migliore per noi, i nostri figli e i nostri nipoti: senza questa dualità, senza questo duplice percorso, la politica diventa sterile o ingannevole.
Per spezzare la catena dell’autoreferenzialità, dell’egoismo e, in definitiva, dell’impotenza della politica, e del tessuto sociale è necessario dare il giusto valore all’altro, dare valore al dialogo, mettere insieme le speranze e l’amicizia. L’amicizia è una leva della storia. Anche per questo è vero che “tu sei un bene per me”. L’egoismo non genera riscatto civile. Può dare a qualcuno l’illusione di farcela da solo, mentre altri soccombono. In questi mesi abbiamo assistito a un’esplosione di egoismo e abbiamo visto a cosa può condurre l’egoismo senza limiti, con l’assassinio di tante donne. Atti compiuti da coloro che pensano agli altri soltanto come appendici di sé.
La tentazione dell’isolamento rischia di pregiudicare anche le grandi opportunità di comunicazione che la scienza ci mette a disposizione, sovvertendone la funzione. Basta pensare alla tendenza di molti a collegarsi sul web soltanto con quelli che la pensano come loro, in circuiti ristretti e chiusi. Ci si illude così che il mondo appartenga solo a chi la pensa come noi, riversando spesso su chi la pensa diversamente astio e livore. Ne risulta cancellato il confronto delle idee, lo scambio di conoscenza, il valore delle esperienze altrui: in una parola, la comunità e la sua tensione culturale.
Quando l’io perde l’opportunità del noi, tutta la società diventa più debole e meno creativa.
La libertà, in realtà, è indivisibile: non esiste se non ne godono tutti. Lo stesso benessere non resiste, non si consolida se non è condiviso. Occorre comprendere che ci si realizza davvero soltanto insieme agli altri e non da soli. È come se il principio per cui “la nostra libertà si ferma di fronte a quella degli altri” venisse assorbito e superato in un più avanzato principio: la libertà si realizza insieme a quella degli altri. Non è una considerazione di carattere morale – o meglio, non è soltanto tale – ma è un dato concreto della vita sociale. È una responsabilità della nostra Repubblica, consacrata nell’art. 3 della Costituzione che le affida il compito di rimuovere ciò che ostacola di fatto la libertà e l’uguaglianza.
L’amicizia stessa si fonda sul valore delle differenze, che ci arricchiscono e ci ricordano il principio di non appagamento, ci spingono a cercare la verità che è presente negli altri.
Nel suo La bellezza disarmata, don Carrón dedica un paragrafo alla “confusione dell’io” e un altro alla “nostalgia del tu”. In quelle pagine si disegna un percorso spirituale ma queste due espressioni, in realtà, raffigurano bene la condizione umana. È questa la prospettiva con cui affrontare il grande tema politico dell’unità. Unità del nostro Paese, unità dell’Europa, unità del genere umano intorno ai diritti fondamentali della persona. L’unità non è soltanto una questione di ordinamento giuridico o di solidità istituzionale. L’unità è anzitutto un fondamento etico e sociale comune, trasfuso in sentimenti e comportamenti vissuti.
Questa visione è stata impressa, con straordinaria lucidità e lungimiranza, nei principi della nostra Costituzione, contenuti nella sua prima parte. E questo resta un obiettivo della Repubblica da perseguire nel tempo, nel mutamento dei costumi, dei bisogni, nell’evoluzione del sistema sociale. Il nostro Paese è segnato da faglie antiche. A queste si sono aggiunte nuove divisioni, quelle prodotte dal naturale mutamento delle condizioni, non sempre regolato in maniera equilibrata, e quelle provocate dalla lunga crisi economica degli ultimi anni. Dobbiamo lavorare con impegno per ricomporre le ferite e rendere l’Italia più robusta, più solidale, più competitiva, più importante per la costruzione europea.
L’unità del Paese non è una conquista acquisita una volta per tutte: passa oggi dalla crescita del Meridione. dalle concrete opportunità di lavoro per i giovani, dal contrasto alle povertà e alle diseguaglianze. dall’occupazione femminile. dalla conciliazione dei tempi di cura e di lavoro, da uno sviluppo delle reti sociali e comunitarie che possono rinnovare e consolidare il welfare senza privarlo del suo carattere universalistico. L’unità del Paese è anche investimento nella ricerca e nei settori strategici, giustizia più efficiente, integrazione e non esclusione di chi è sfavorito dalle condizioni di partenza. Dobbiamo tutti avere cura dell’unità e della coesione del nostro Paese. Nessuno può seriamente pensare di farcela da solo. Allargare le divisioni ci rende più deboli.
La Repubblica, di cui abbiamo celebrato i 70 anni, è stata una scelta di popolo che ci ha consentito di risalire la china che avevamo percorso in caduta, il baratro nel quale eravamo precipitati negli anni della dittatura, con i lutti e la disperazione della guerra, con le macerie della distruzione. La Repubblica è nata da un referendum, e dunque da un confronto democratico. La divisione degli orientamenti, però, è stata tradotta in una straordinaria forza unitaria. Merito dei nostri padri e delle nostre madri. Merito delle forze politiche e delle classi dirigenti democratiche che hanno saputo comprendere, malgrado difficoltà molto grandi (che talvolta vengono oggi sottovalutate), ciò che li univa, al di là dei legittimi contrasti.
Questa ricomposizione ha creato sviluppo, diritti, opportunità. Ha ridotto le distanze sociali. Ha promosso conoscenze, cultura, speranze. Un esempio per tutti: la scuola, materia sempre contrassegnata da grandi contrasti che, in buona misura, ne riflettono l’importanza nella vita del nostro come di qualunque Paese. All’inizio degli anni Sessanta, quasi la metà degli italiani non aveva neppure il diploma di scuola elementare, soltanto il 15% aveva completato la scuola media, che comprendeva allora l’avviamento, e meno del 6% aveva il diploma di media superiore. Soltanto poco più di un bambino su quattro andava oltre la licenza elementare e molti meno andavano oltre il diploma di media inferiore. La Repubblica ha realizzato, in quegli anni, con uno sforzo comune, ampiamente condiviso, uno dei principali dettati della Costituzione: l’istruzione diffusa e generalizzata in Italia, per tutti e ovunque. Un grande fenomeno di avanzamento sociale, un’autentica pacifica rivoluzione positiva che ha unificato e reso più giusta e progredita la nostra società.
Certo, nel complesso ci sono stati squilibri e contraddizioni nel procedere della vicenda democratica: tuttavia il processo unitario ci ha fatto sentire, malgrado le difficoltà, sempre partecipi della casa comune. Siamo divenuti cittadini corresponsabili – uniti dal suffragio finalmente universale, con il voto alle donne di 70 anni fa – e i traguardi di giustizia, di legalità, di pace indicati dalla Costituzione sono stati avvertiti e vissuti come comuni, pur in presenza di forti contrasti ideologici e politici.
La scelta repubblicana ha influito, in grande misura, sulla definizione dell’identità del Paese. La Repubblica ci ha aiutato a ricostruire la nostra storia unitaria e a collegare, sul piano etico e culturale, il primo Risorgimento con il secondo, cioè con la Resistenza e la Liberazione. La Repubblica, con la rinascita del Paese, ha permesso di superare le cesure di questa storia travagliata su cui, ancora pochi decenni fa, insistevano sentimenti disgiunti e che, invece, le celebrazioni del 150esimo dell’unità d’Italia, così partecipate e sentite, ci hanno restituito come un percorso nazionale di crescita nella libertà e nella coscienza civile.
In passato non è stata valorizzata a sufficienza la portata storica della scelta repubblicana. Allora, ciò è stato suggerito da ragioni di prudenza e anche dalla saggezza delle leadership politiche, che non volevano accentuare la divisione tra il Nord repubblicano e il Sud monarchico. Si è posto maggiormente l’accento – come era, del resto, giusto – sulla scelta per la democrazia e sul fondamento unitario rappresentato dalla Costituzione, la casa comune, come, alla Costituente, la definiva Aldo Moro, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita.
La Repubblica, tuttavia, ha contribuito non poco a superare i momenti più difficili. Per lunghi anni l’Italia è stata l’unica democrazia tra i Paesi dell’Europa del Sud: e non è stato semplice né scontato difendere questa condizione da pressioni interne ed esterne.
Successivamente, l’insorgere del terrorismo e l’uso eversivo delle stragi negli anni Settanta è stato combattuto e sconfitto grazie a una unità repubblicana che ha coinvolto forze diverse, tuttavia solidali attorno ai valori costituzionali. La nostra storia è illuminata da occasioni di unità, da numerosi passaggi di condivisione e di comune responsabilità, che hanno permesso al Paese di compiere salti in avanti o di evitare drammatiche cadute all’indietro.
Gli inevitabili contrasti che animano la dialettica democratica non devono farci dimenticare che i momenti di unità sono decisivi nella vita di una nazione. E che talvolta sono anche doverosi. È un grande merito saperli riconoscere. Un Paese che non sa trovare occasioni di unità diventa più debole. La democrazia è libertà nel confronto ed è pure conflitto, ovviamente all’interno dei binari segnati dal diritto e dal rispetto dell’altro. Ma la democrazia è anche paziente. La pazienza della democrazia italiana ha consentito tempi di crescita e di maturazione a culture diverse. L’adesione alla democrazia si acquisisce e si rafforza praticandola, e così è avvenuto anche nel nostro Paese. La Repubblica ha consentito rinnovamento e maturazione, ha permesso un ampliamento delle basi democratiche e il radicamento della democrazia nella cultura nazionale. È bene tenerlo presente, anche per il futuro, dal momento che le democrazie hanno sempre bisogno di essere aperte allo spirito del tempo, di inverarsi nelle diverse condizioni della storia, di accogliere nelle loro istituzioni le innovazioni e le forze vive, di aggiornarsi per rappresentare sempre meglio le istanze popolari e, insieme, per rispondere con efficacia alle domande nuove di cittadinanza che la società pone alle istituzioni.
Oggi l’unità, la coesione del nostro Paese è una grande questione connessa all’unità, alla coesione dell’Europa. È una pericolosa illusione rifugiarsi nella dimensione nazionale, sperando così, velleitariamente, di difendersi dal mondo globalizzato. Lo stato dell’Unione Europea non ci soddisfa appieno, è vero. È un’Europa incerta, impaurita, lenta, che ha ridotto la sua capacità di politica lungimirante e coraggiosa. Non è ancora riuscita a risolvere la divergenza tra chi la considera soltanto un’utile cornice entro cui gli Stati collaborano e chi, con maggiore ambizione e senso della storia, la considera un percorso di crescente integrazione politica.
La missione di un’Italia consapevole del proprio ruolo e della validità storica del progetto di integrazione europea è esattamente contribuire al rilancio dell’Unione. È questo il destino migliore per noi e per i nostri giovani. Dobbiamo aprire la strada al futuro, non illuderci di poterci riparare in improbabili trincee. La separazione moltiplica le rivalità, provoca diffidenze e contrapposizioni e questi sono i germi dei conflitti – quelli che Alcide De Gasperi definiva, nel 1951, “germi di disgregazione e di declino, di reciproca diffidenza” – che non possiamo oggi rischiare di fare riaffiorare. L’Europa è la dimensione necessaria per affrontare, con umanità ed efficacia, la politica dell’immigrazione e l’accoglienza dei profughi che fuggono dalle violenze e dalle guerre. Tanta strada è ancora da fare. Ci vuole umanità verso chi è perseguitato, accoglienza per chi ha bisogno e, insieme, sicurezza di rispetto delle leggi da parti di chi arriva. Occorre severità massima nei confronti di chi si approfitta di essere umani in difficoltà, cooperazione con i Paesi di provenienza e di transito dei migranti. Ci vuole intelligenza e visione per battere chi vuole la guerra e la provoca.
Senza Europa, da solo, neppure il Paese più forte può farcela a garantire la sicurezza e lo sviluppo che i suoi cittadini chiedono. La portata inedita delle migrazioni suscita apprensione. Si tratta di un’ansia, di una paura comprensibile, che non va sottovalutata. Ma non dobbiamo farci vincere dall’ansia e dobbiamo impedire che la paura snaturi le nostre conquiste, la nostra civiltà, i nostri valori. Quelli per i quali noi europei siamo un modello e un traguardo nel mondo. Vorrei ripetere anche qui che non possiamo deturpare l’immagine dell’Europa, come luogo di libertà, di democrazia, di diritti, per renderla meno attraente. Il tema delle migrazioni, oggi, rende evidente come ci si realizzi davvero insieme agli altri e non da soli. Fino a qualche tempo addietro, i continenti erano separati. Mancavano effettiva conoscenza vicendevole e possibilità diffusa di spostamenti. Oggi i mezzi di comunicazione cancellano le distanze, fanno conoscere in tempo reale diversità di condizioni di vita e di benessere e permettono di viaggiare con relativa facilità e velocemente, anche se, come ben sappiamo, per tanti questo avviene subendo pesanti angherie e affrontando rischi gravissimi. Il mondo è cambiato ed è ormai questo. E non se ne può scendere, come ipotizzava il titolo di un vecchio film. È cambiato anche sotto altri profili, dalla globalizzazione degli elementi di fondo delle economie ai rapporti demografici. Vi sono Paesi popolosissimi in Africa, con un’età media di diciotto, vent’anni. Da noi, e in Europa, il tasso di natalità è prossimo o sotto lo zero.
I continenti sono, ormai, vasi comunicanti di culture, beni, servizi, persone: il travaso tra loro è inevitabile. Nessuno può augurarsi che si verifichino spostamenti migratori sempre più imponenti ma così rischia di avvenire, se ci si illude di risolvere il problema con un “vietato l’ingresso” e non governando il fenomeno con serietà e senso di responsabilità.
Ci può soccorrere, permettendo di governarlo in sicurezza, soltanto il principio che ci si realizza con gli altri. Che vuole dire far crescere – sul serio e presto – possibilità di lavoro e di benessere nei Paesi in cui le persone hanno poco o nulla perché, in concreto, il loro benessere coincide pienamente con il nostro benessere, con la nostra civiltà. Senza rinunciare ad essa, sconfiggeremo anche i terroristi che seminano morte per tentare di cambiare i nostri cuori e le nostre menti.
È una sfida per gli Stati democratici ma anche per le religioni. Il dialogo tra le fedi è oggi una necessità storica, è una condizione per conquistare la pace. Il dialogo tra le fedi è un atto di umiltà, che può riconciliarci con la storia dell’uomo. È questo un tema di grande valore spirituale, che ha fortissime implicazioni politiche e sociali. Dialogo tra credenti di religioni diverse, dialogo sul destino dell’uomo tra credenti e non credenti: ecco un terreno sul quale la cultura europea può dare, ancora una volta, un apporto straordinario.
Il nostro Paese ha un grande contributo da offrire all’Europa, al Mediterraneo, al mondo, in questo tempo così complicato e, peraltro, affascinante come in realtà ogni tempo. Essere e sentirsi italiani è un privilegio. Vorrei dirlo anzitutto ai giovani: dovete sentire la responsabilità ma anche apprezzare la bellezza di quanto avete nelle vostre mani. Il talento non va nascosto sotto terra ma investito con coraggio. L’Italia siete voi, è fatta dai giovani che come voi, in tante parti del Paese, stanno mettendo in gioco le loro qualità, le loro idee, le loro esperienze.
La scelta della Repubblica, con il suo patto di cittadinanza tra popolo e istituzioni, ci ha permesso di crescere in libertà, coesione, benessere, garantiti da un lunghissimo periodo di pace. Usate la vostra libertà per costruire un futuro migliore. Non restate a guardare. La casa comune, in realtà, è già la vostra.
EMILIA GUARNIERI:
Adesso, simbolicamente in rappresentanza dei giovani ai quali lei si è rivolto con così tanto affetto e passione, tre ragazzi, tre studenti universitari, si permetteranno di farle tre domande. approfittiamo ancora della autorevolezza e della magisterialità con cui lei questa mattina si è posto davanti a noi, per cui le siamo veramente grati. Prego, ragazzi.
DOMANDA:
Sono Carlo Maria Simone, dell’università Cattolica di Milano. Questa estate ho avuto la fortuna di girare l’Italia da una parte all’altra, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, e ho toccato con mano quanto il nostro Paese, ovunque bellissimo, sia segnato da radicali differenze a livello culturale, sociale ed economico. Premesso che la grande varietà di storie, linguaggi, costumi è un valore che forse nessun altro Paese al mondo può vantare tanto quanto noi, vorrei chiedere a Lei, signor Presidente, che rappresenta e certamente ama la nostra nazione nella sua interezza, in che cosa individua in essa elementi di vera unità. Considerate le tante differenze, che cos’è l’Italia? C’è la possibilità che ancora oggi l’Italia abbia qualcosa da dare al resto del mondo?
SERGIO MATTARELLA:
Ah, è una bella domanda davvero. Il nostro Paese ha una grande ricchezza di articolazione, tante differenze che sono frutto della storia di tanti percorsi culturali e di civiltà che l’hanno attraversata, l’hanno caratterizzata. Queste diversità sono una ricchezza. Si accompagnano ad uno dei più grandi patrimoni di arte e cultura che vi è al mondo, che nasce proprio da questa capacità, da queste diversità, da questa genialità diffusa e multiforme che ha il nostro Paese. Ma vi è un fondo comune a queste diversità che cresce nel corso del tempo. Basti pensare che 160 anni fa non c’era ancora lo Stato unitario, il nostro Paese era diviso in tante forme. Quando dico alle mie nipoti che le donne non votavano fino al ’46, non ci credono. Ma era una delle tante forme di divisione che attraversava il nostro Paese, aggiungendosi a quelle dei vari territori. 60 anni fa ancora, più o meno, nel nostro Paese c’era un dato di scolarizzazione molto basso, una comunanza anche di lingua, di conoscenze scolastiche e culturali che è enormemente cresciuta nel corso del tempo. Vi sono stati fenomeni che hanno incentivato la crescita di affinità e di unità del nostro Paese, dalla scolarizzazione diffusa alla TV, all’immigrazione interna. Chi è molto anziano come me, percepisce in maniera plastica quanto sia cresciuta l’omogeneità del nostro Paese: prima, era maggiore la diversità. Ma questa omogeneità crescente non deve cancellare le particolarità, le diversità, il genio locale: sono le ricchezze del nostro Paese che certo, convivono con le diversità gli squilibri, gli squilibri che vanno corretti nell’interesse comune. Però c’è nel nostro Paese una condizione di unità di fondo che va crescendo. E su cui va fatta una considerazione: l’unità non può essere gelosa, non può essere neppure esclusiva. Occorre l’unità del nostro Paese, con tutte le sue differenze, ma anche l’unità dell’Europa e l’unità del genere umano, nel senso di unità, di comunanza, di comunità. La domanda era che cosa può fare l’Italia nel mondo che si presenta oggi e che si configura per il futuro. La cosa che registro quando vado all’estero e quando ricevo qui i Capi di Stato stranieri, è una domanda dell’Italia all’estero molto alta. All’estero vi è apprezzamento per il carattere, il contenuto del nostro Paese che è maggiore di quanto all’interno non avvertiamo. Vi è una grande domanda dell’Italia, del gusto, dello stile, della creatività, della genialità italiana. In realtà è un patrimonio di grande rilievo, è un contributo specifico particolare che l’Italia fornisce alla comunità internazionale ed è un contributo che è affidato adesso a voi giovani, non tanto per prolungarlo ma per svilupparlo nelle forme diverse, facendo vivere costantemente questa creatività. Penso che lo spazio vi sia e ve ne sia molto.
DOMANDA:
Buongiorno signor Presidente, mi chiamo Davide Grammatica, studio all’università Cattolica di Milano e le sono grato per la sua disponibilità. La nostra Repubblica nasce dall’incontro di grandi tradizioni ideali (cattolica, comunista e laica socialista) e sul fondamento della fine del nazifascismo. Ma oggi l’esperienza e la cultura del popolo italiano non sembrano consistere in alcuna di queste matrici ideali, le identità appaiono confuse. Vedo realizzarsi l’omologazione di cui parlava Pasolini, una omologazione attraversata da tante minoranze. Pur essendo affascinato e orgoglioso della nostra storia repubblicana e dei valori sui quali si è costruita, mi chiedo che valore abbiano oggi quelle grandi idealità. Che cosa, a distanza di 70 anni, è ancora imprescindibile e capace di unire un popolo?
SERGIO MATTARELLA:
Siamo in un momento di passaggio di stagione storica, come tanti sanno. Qualche anno fa, è stato persino scritto un libro sulla fine della storia. In realtà, era stato scritto qualche tempo prima che cadesse il muro di Berlino, ma si era sparsa la convinzione che con la caduta del muro di Berlino, con la fine dell’Unione Sovietica si fosse conclusa l’evoluzione storica, si fosse arrivati a un tempo ottimale. In realtà, idealizzare il presente è un vizio ricorrente dell’umanità, anche perché è faticoso pensare al futuro, alla vita di coloro che verranno, è difficile pensare oltre al presente. Però questo dà il senso di come ci troviamo in un momento di passaggio tra due epoche storiche diverse; quando è così, vi è inevitabilmente un po’ di disorientamento, sembra che siano venuti meno tutti i punti di riferimento, tutto ciò a cui ci si appigliava per orientarsi. In realtà non è così, in realtà i valori che quelle culture intendevano coltivare sono valori permanenti, la pace, la libertà, l’uguaglianza, la democrazia, la crescita sociale. Ciò che cambia nel passaggio da un’epoca all’altra è il modo in cui vanno inverati nella società, il modo in cui vanno riconfigurati perché la democrazia è sempre attuale e perché la società li vive in maniera adeguata. Sono sempre quelli, i valori, quelli non vengono meno. Io credo che questo sia l’impegno che oggi ci collega al passato ma ci proietta verso il futuro: tenere conto di questi valori permanenti nel dovere di riconfigurarli, di ricollocarli nella vita che cambia in maniera nuova. E inverare poi questi valori nella realtà sociale, culturale, politica del nostro come degli altri Paesi. Credo che sia un impegno non da poco che ormai – io sono vecchio – è soprattutto sulle vostre spalle.
DOMANDA:
Sono Laura Mocci, studio Scienze Politiche all’università Statale di Milano. Noi giovani ci troviamo sempre più incastrati nelle preoccupazioni del quotidiano – avere un lavoro, comprare casa per una nuova famiglia – e cerchiamo di afferrare tutte le migliori opportunità che ci provengono dall’esterno e che altri possono offrirci. Che cosa ci insegnano, in positivo, i settant’anni della nostra Repubblica a proposito di quella energia del prendere iniziativa e dell’inventarsi nuove possibilità, che tante volte pare mancarci?
SERGIO MATTARELLA:
Quanto è stato appena detto è assolutamente vero, vi sono grandi difficoltà di fronte ai giovani, difficoltà reali, effettive, spesso gravi, che costituiscono ostacolo per la programmazione del futuro dei giovani. Queste difficoltà interpellano tutti quanti noi e richiedono risposte perché si creino condizioni per superarle. La domanda è però come si può avere l’inventiva che vi è stata nel passato. Certo, occorre coniugare visione e realismo, concretezza e coraggio per impostare una iniziativa economica, per dar vita a una iniziativa sociale. Il nostro Paese è ricco di queste qualità. Naturalmente occorre creare condizioni che consentano ai giovani di collocare queste capacità: è un compito delle istituzioni. Vedendo la mostra che prima è stata presentata, pensavo che la storia di 70 anni è una storia difficile, piena di tante difficoltà, tanti ostacoli da superare: le distruzioni della guerra, i sentimenti di avversione, se non di odio, rimasti dopo il lungo percorso di liberazione del Paese, la guerra fredda, le forti contrapposizioni, poi il terrorismo. Si è sempre riusciti a superare queste difficoltà. Oggi abbiamo altro, bisogna essere capaci di recuperare quello spirito di impegno comune ma anche di inventiva e creatività che ha consentito loro di superare le difficoltà. Naturalmente, occorre che operino insieme istituzioni e popolazioni, per creare le condizioni per i giovani, per favorire le azioni di coraggio, di intrapresa, di iniziativa, per superare difficoltà che sono reali, uno dei problemi principali, forse il più grande, che abbiamo nel nostro Paese. Grazie e auguri.