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LA QUALITÀ COME CULTURA: LA FORZA DEL MADE IN ITALY
La qualità come cultura: la forza del Made in Italy
In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Stefano Berni, Direttore Generale del Consorzio per la Tutela del Grana Padano; Ferruccio Dardanello, Presidente di Unioncamere; Riccardo Monti, Presidente dell’Agenzia per la Promozione all’Estero e l’Internazionalizzazione delle Imprese italiane; Vincenzo Tassinari, Presidente del Consiglio di Gestione Coop Italia e di Centrale Italiana. Introduce Enrico Biscaglia, Direttore Generale della Compagnia delle Opere.
LA QUALITÀ COME CULTURA: LA FORZA DEL MADE IN ITALY
Ore: 11.15 Sala C1 Siemens
ENRICO BISCAGLIA:
Buongiorno a tutti. Ringrazio i relatori che hanno aderito all’invito del Meeting di ritrovarsi per riflettere e discutere insieme su questo tema: “La qualità come cultura: la forza del Made in Italy”. Quando ci troviamo spesso all’estero, magari nelle missioni imprenditoriali, a me capita, mi è capitato anche di recente quando la Compagnia delle Opere ha organizzato un grande evento, Matching Cina, di scoprire come il nostro Paese, le nostre eccellenze produttive siano guardate con ammirazione, conosciute, invidiate. E in realtà il gusto del bello, la creatività nella moda, nell’arredo, la ricchezza nella produzione alimentare, la grande capacità tecnica della meccanica o nella meccanica, l’arte dell’accoglienza nel turismo e nella ristorazione: queste sono le grandi qualità riconosciute alla cultura imprenditoriale italiana, sono la forza del made in Italy. Questa apertura che si incontra, questa simpatia, questa curiosità va però accompagnata – e non sempre è così, è un grande valore ma non basta da solo – dalla costruzione di rapporti che poi devono essere improntati a una serietà negli impegni, a un’organizzazione adeguata dell’impresa, a un’attenzione, nel caso di un affronto di mercati esteri, delle differenze culturali che si incontrano appunto nei diversi Paesi. D’altronde che la qualità sia la condizione per esserci in un mercato globale, ci dice che abbiamo una potenzialità enorme ma abbiamo anche tanta strada da fare. In questa prospettiva, abbiamo oggi con noi quattro testimoni privilegiati, persone che nelle diverse responsabilità che hanno in questo tema della qualità nel mercato globale, di questa forza del made in Italy, sono non solo testimoni privilegiati ma anche veri e propri protagonisti, attori protagonisti. E quindi ve li presento: abbiamo con noi Stefano Berni, che è il direttore generale del Consorzio per la Tutela del Grana Padano; Ferruccio Dardanello, che è da molti di noi ben conosciuto perché al Meeting è un amico costante e che è presidente di Unioncamere, dell’Unione Nazionale delle Camere di Commercio (cogliamo l’occasione poi per fargli gli auguri perché è appena stato rieletto a questa carica che ricopre dal 2008); e Riccardo Monti, Presidente dell’Agenzia per la Promozione all’Estero e l’Internazionalizzazione delle Imprese italiane; da ultimo abbiamo Vincenzo Tassinari, anche lui un amico del Meeting, presente in tante precedenti occasioni, che è il presidente del Consiglio di Gestione di Coop Italia e di Centrale Italiana. Ai nostri amici relatori pongo questa domanda: quali cambiamenti sono utili nei diversi campi, se non indispensabili, per far sì che questo driver dello sviluppo, la qualità nel mercato globale, coinvolga l’intero Paese, sprigionando quell’enorme potenzialità inespressa di cui il nostro Paese dispone? La parola a Stefano Berni.
STEFANO BERNI:
Grazie e buongiorno a tutti. Mi fa piacere anche quest’anno essere al Meeting – ormai sono più di dieci – che, oltre che un piacere, è anche un onore poter essere qua. Ma raccogliendo lo spunto del coordinatore dell’incontro, io credo che sia sempre più evidente, e magari uso un termine forte, un po’ paradossale, che l’Italia, che produce e che esporta, di fatto sia condannata a produrre qualità e distinzione, perché è ovvio che al di là delle attività produttive che obbligatoriamente si realizzano e si consumano in Italia, ad esempio servizi come luce, acqua, gas, sanità, trasporti pubblici e interni, telefonie, la gran parte, oserei dire tutte le altre attività produttive che guardano all’export, e che quindi possono essere concorrenziali dall’import, non possono che distinguersi e affermarsi per appeal, qualità e caratteristiche di pregio. Infatti il costo delle produzioni italiane non può concorrere coi costi dei Paesi emergenti, e quindi il confronto sulle commodity è irrimediabilmente perso, e lo è da tanto tempo. E se ciò è un concetto a mio avviso vero per tutta l’economia in generale italiana, lo è ancora di più per quella agroalimentare. Però, per evitare di essere evanescenti quando si parla di qualità, è anche bene definire, per chi deve operare a favore della qualità, che cos’è il concetto di qualità, che cosa vuol dire qualità. Nell’alimentare, e mi riferisco a questo, qualità non è solo gusto o sapore: qualità è anche sicurezza, naturalità, digeribilità, nutrizionalità, equilibrio, certezza dei passaggi che portano il prodotto dal campo alla tavola del consumatore, tradizione e storia. È quindi un concetto molto ampio e ogni consumatore attribuisce il suo valore a tutte o a parte delle caratteristiche che ho appena enunciato e che concorrono a definire la qualità. In Italia ad esempio, nel settore che io meglio conosco, che è quello che frequento professionalmente, che è quello del latte, anche qui al Meeting mi è già capitato di dire che in Italia abbiamo un latte di ottima qualità, ma anche buona parte della Germania e della Francia ha del latte di eccellente qualità, e addirittura ci sono dei latti di qualità superiore in termini di proteine e grasso, come per esempio il latte austriaco o il latte svizzero. Quindi abbiamo un’ottima qualità del latte e questo è un fatto sicuro, ma abbiamo una certezza, che abbiamo il latte che costa di più a produrlo e quindi a comprarlo, per chi lo deve comprare rispetto a tutti gli altri partners europei. Quindi noi – per almeno tanti anni, io ho definito almeno quindici: è un numero che può essere un’indicazione – non riusciremo a concorrenziare i prezzi alla produzione franco tedesca, che sono i maggiori player europei e mondiali, ma rimanendo in Europa, europei, di latte. Noi in Italia potremmo avvantaggiarci del valore del trasporto per portare il latte da là in Italia, e quindi potremmo attribuire al valore, al costo del prodotto, questa differenza producendocelo in casa, anche perché in Italia si produce circa il 60% del fabbisogno lattiero caseario. E’ il 64% per la precisione, ma siccome il 10% viene esportato attraverso i formaggi DOP, diciamo che si è attorno al 60%. Quindi siamo comunque deficitari e perciò possiamo avvantaggiarci di questo costo del trasporto per portarlo da là a qua, però noi dobbiamo e possiamo distinguerci solamente avendo un buon latte, un ottimo latte ma non necessariamente il migliore. Possiamo e dobbiamo distinguerci per la qualità dei prodotti trasformati e soprattutto della percezione che questi prodotti caseari trasformati – mi riferisco prevalentemente ai formaggi – hanno sul mercato nazionale e mondiale. Certo in Italia noi ci avvantaggiamo delle rigide norme sanitarie, perché in Italia sono più stringenti che da altre parti. La mozzarella blu, la mucca pazza o altre emergenze sono sempre state importate, e quindi ci possiamo avvantaggiare di questa qualità distintiva. Ma fino a quando non raggiungeremo l’autosufficienza che dicevo prima, cioè fino a quando non faremo l’altro 40%, abbiamo la fortuna, tra virgolette, come sistema produttivo del latte, di poterci avvantaggiare di questo margine di trasporto che vale circa il 10% sul prodotto finito pagato alla stalla. E non è sufficiente, quindi abbiamo bisogno di valori superiori, ma questi valori superiori dobbiamo guadagnarceli, sudarceli, e soprattutto meritarceli. Sottoposti ad un unico giudizio, che è quello del consumatore. Quando si fa un prodotto alimentare, è bene raccontarlo in maniera compiuta, in maniera precisa, ma alla fine il giudizio che conta è quello del consumatore.
Facendo una piccola case history del Grana Padano, posso dire che il consorzio e i suoi 200 soci produttori e stagionatori di Grana Padano ha improntato negli ultimi 10-15 anni le azioni, le scelte secondo questi principi. Noi alla fine degli anni ’90 producevamo poco più di 3 milioni di forma, una forma è circa 40 chili, poco meno, e per fare una forma occorrono 500 litri di latte. A distanza di 15 anni superiamo ampiamente i 4,5 milioni di forme prodotti in un anno e abbiamo avuto un incremento produttivo intorno al 40% in meno di 15 anni. Il latte a Grana Padano si è sempre avvantaggiato nel medio periodo rispetto ad altre destinazioni, basta guardare i dividendi sul prezzo latte delle numerose cooperative che producono il Grana Padano. Il 60% del Grana padano è prodotto da strutture cooperative. Poco meno di 15 anni fa, esportavamo 400.000 forme, ore ne stiamo esportando 1.400.000, quindi abbiamo moltiplicato per tre virgola qualcosa l’esportazione e il prezzo del latte Grana Padano, che rappresenta come quantità il 25% del latte italiano e il 50% del latte della zona di produzione che è la Lombardia, il Veneto, parte del Piemonte e il Trentino anche con la sua variante Trentingrana. Questo latte ha sempre fatto da driver a tutto il latte italiano. E’ evidente che molti produttori di latte vorrebbero entrare, proprio per questo vantaggio competitivo rispetto all’altro latte italiano diversamente destinato, però noi dobbiamo garantire una crescita, e i numeri che ho detto prima lo testimoniano, ma che deve essere ordinata per avere un prezzo tale da garantire la qualità, perché la qualità costa, fare qualità e avere tutte quelle attenzioni costa. Però per fare questo, come mi è capitato di dire anche con enfasi l’anno scorso qui, abbiamo bisogno di maggiori regole e maggiore trasparenza a favore del consumatore. Questo per poterci distinguere e non confonderci e quindi abbiamo bisogno di regole, che però la Comunità Europea stenta a diramare, perché evidentemente fa più comodo, soprattutto per i grandi player del latte dei Paesi del Nord Europa che prima ho citato, che sia così. Ancora non è applicata e applicabile la legge italiana sull’etichettatura. Non lo è in Italia e perciò tanto meno all’estero. E allora succede che fioccano i similari che ci scimmiottano, i quali, legalmente ma slealmente, confondono il consumatore. Sono i prodotti che io chiamo delle etichette mute, cioè quelle che non dicono niente, anzi, vorrei aggiungere le etichette che mentono, perché ti fanno capire cose che non sono. Pensate che noi riteniamo, da studi che abbiamo fatto, che 700 milioni di euro sia il danno che il Grana Padano subisce per queste scimmiottature e per le frodi. Diciamo che le frodi – in Italia praticamente non ci sono, le abbiamo stroncate in maniera energica e praticamente le abbiamo annullate – all’estero ci sono ma sono meno. Ma soprattutto il danno che subiamo è dalle finzioni. Nessuno di voi oggi se va nel supermercato che c’è fuori da qua e compra un prodotto – facciamo un test, che potete anche provare se vi piace, in giornata – prende una busta di grattugiato sulla quale non c’è il marchio Grana Padano o Parmigiano Reggiano, riesce a sapere da dove proviene quel prodotto, perché non c’è scritto. Anzi c’è il bollo CE Italia perché la legge impone che venga messo il bollo CE nell’ultimo luogo di confezionamento, quindi magari è confezionato in uno stabilimento italiano, il nome è assonante, magari lo chiamano Gran Gusto, Gran Sapore, Gran Fino, Gran Bello. C’è la I di Italia, è tutto scritto in italiano e il consumatore ritiene che magari sia una seconda linea del Parmigiano Reggiano o del Grana Padano. Nel 70% dei casi in Italia questo prodotto proviene dall’Est Europa. Io non ho niente contro l’Est Europa, anzi, abbiamo anche dei collaboratori che provengono da lì, ma perché non dobbiamo andare a dire al consumatore che questo formaggio proviene dalla Romania, dalla Polonia, dalla Repubblica Ceca, dalla Bulgaria, dalla Lettonia, dall’Estonia … non sto citando a caso, sto citando luoghi dove avviene quello che sto dicendo, cioè produzioni di similare, probabilmente perché il consumatore forse ancora si fida un po’ meno delle garanzie e delle sicurezza alimentari che avvengono in quei Paesi. Sta di fatto che non è detto, e quindi servono regole. Le regole ci servono per andare in battaglia e vincere la sfida, valorizzando la qualità nei confronti delle imitazioni e per rimanere in tema di olimpiadi appena terminate, sarebbe come se l’assenza di regole ci inducesse a pensare come se la Vezzali e compagni sulla punta del fioretto non avessero avuto il terminale che si accendeva quando toccavano l’avversario. Fioretti spuntati: la mancanza di regole per noi è “fioretti spuntati”. Senza regole, chi ha dalla parte sua le capacità, fa fatica poi a vincere e a spuntarla. Perciò servono regole, serve qualità vera, serve fantasia per inventare prodotti graditi al consumatore acquistando i quali il consumatore effettivamente deve percepire di avere di più. E bisogna far sì che si possa conoscere qual è il valore che il consumatore vuole, a cui dare la sua scelta e gli va proposto in modo chiaro e convincente. La qualità quindi e un miscellanea, un mix tra ciò che si dà, ciò che il consumatore riesce a percepire e ciò che il consumatore intende spendere per quel prodotto, di cui ritiene o ha effettivo bisogno. Quindi la vera sfida da vincere sulla qualità è quella del rapporto qualità/prezzo. Proporre qualità non capite o inaccessibili, non serve. Proporre prezzi da concorrenza dei Paesi dell’Est, che siano europei o ancor peggio asiatici, è impossibile. Perciò occorre dare salubrità, sicurezza, sapore e gusto a prezzi accessibili, accettati e possibili, comunicando quindi qualità vera e distintiva. Occorre alla fine che la qualità diventi una vera cultura delle nostre produzioni primarie e trasformate, perché nel consumatore, soprattutto quello europeo, il concetto della qualità è già presente e soprattutto la chiede. La nostra strada è stata, negli ultimi 20 anni questa, parlo della strada dell’agroalimentare italiano, ma lo sarà sempre di più e sarà solo questa. Le altre strade per noi sono troppo in salita. I nostri costi non hanno l’agilità dello scalatore. La nostra qualità però ha la certezza del passista che vuole, sa e deve andare lontano.
ENRICO BISCAGLIA:
Grazie veramente per l’intervento di Stefano Berni che ha già portato a galla tutti i temi della qualità in un mercato ampio. Adesso sentiamo Ferruccio Dardanello, che ha la fortuna di poter guardare a questo in un’ottica ampia, quella delle imprese italiane che sono iscritte alla Camera di Commercio.
FERRUCCIO DARDANELLO:
Grazie Enrico, grazie per l’invito, grazie di questa partecipazione che dà al sottoscritto anche lo stimolo per portare a una platea così importante quelle che sono le ricchezze di questo nostro Paese, la ricchezza della qualità, la ricchezza del made in Italy, la ricchezza di questo patrimonio inesauribile che ha fatto un po’ la storia del nostro Paese in questi ultimi 50 anni, in questi ultimi nostri 60 anni. Dobbiamo essere fieri di quello che siamo riusciti a fare e deve essere questo uno strumento, la radice del nostro successo per poterla costruire e migliorare, ottimizzare, promuovere, sviluppare. Nel prosieguo del nostro impegno istituzionale, del nostro lavoro quotidiano, nell’impegno che insieme a Riccardo Monti andremo, nel prossimo futuro, ad ottimizzare per far sì che sempre di più e meglio si possa parlare del nostro Paese e parlando del nostro Paese si parli di qualcosa di bello, di qualcosa di affascinante, di qualcosa di ricco, culturalmente, come diceva Bernhard, di grandissimo interesse. Perché il titolo di questo incontro di oggi è un po’ come un gioco di specchi: non c’è qualità che nasca senza avere una cultura in cui affondare, lo dicevo prima, le proprie radici e non c’è cultura che non esprima prima o poi qualità, nel senso di originalità, di creatività, di unicità, di riconoscibilità. Ecco tutti quegli strumenti che hanno fatto in questi anni di quest’italian sound, come è facile oggi in qualche modo chiamarlo, lo strumento per dare valore alla nostra storia e per dare valore alle cose che abbiamo saputo fare. Mi è piaciut, una considerazione, letta molto tempo fa, di quel grande economista che era John Kennet Galbraith, che era consigliere di Roosevelt e di Kennedy, che già 30 anni fa spiegava il segreto del successo dell’Italia nell’epoca del miracolo economico. Era un’Italia uscita dalla II guerra mondiale in condizioni disperate. Oggi noi ci lamentiamo del momento difficile che noi viviamo, ma pensate che cos’era allora il nostro Paese, con una disoccupazione a livelli altissimi, con l’industria semidistrutta e con tutto quello che non c’era più all’interno del nostro Paese. Galbraith diceva che il successo del nostro Paese, dell’economia italiana, stava innanzitutto nella bellezza del Paese, del territorio, delle location, di come noi lavoravamo. O meglio nell’abitudine degli italiani a vivere nella bellezza, nel modo delle loro città e a scegliere sempre le cose belle tra quelle egualmente efficienti. C’è un altro aneddoto che racconto sempre e che credo abbia attinenza anche alla giornata odierna. Della bellezza dicevo, del territorio che noi viviamo ogni giorno, della realtà straordinaria che qualcuno ci ha voluto regalare e che abbiamo saputo, a volte non sufficientemente, utilizzare, ma ne abbiamo saputo beneficiare noi stessi. Racconto, quando parlo del nostro Paese, quando parlo della bellezza del nostro Paese, che poi dopo ha attinenza assoluta con la qualità che arriveremo subito dopo in qualche modo ad accennare. Tempo fa ero sulla piazzetta di Amalfi. Molti di voi probabilmente ci sono già stati, e sotto un portone, sotto un arco della piazzetta di Amalfi, in quella meraviglia architettonica di Amalfi, ho intravisto una targa. Su questa targa c’era scritta una cosa bellissima che ho scolpito dentro di me e che ho già ripetuto non so quante migliaia di volte ma vedo che ogni volta che la racconto, vedo la condivisione della gente che sta davanti a me. E c’era scritto una cosa semplicissima: nel giorno del giudizio universale, se un cittadino di Amalfi andrà in Paradiso, per lui sarà una giornata qualsiasi. Vuol dire che questa gente aveva vissuto tutta la vita in paradiso senza rendersene conto e senza avere la consapevolezza di vivere un territorio che era già lui stesso espressione di qualità, era lui stesso espressione di grandissima eccellenza. E ho la consapevolezza, la certezza, avendo visitato il nostro Paese da Nord a Sud, da Est a Ovest in tutti questi anni, che in ogni angolo del nostro Paese noi possiamo mettere una targa di questo tipo, dalle nostre Alpi al Sud del nostro Paese, da Est a Ovest, in qualsiasi regione d’Italia c’è qualcosa di magico che deve essere e deve diventare lo strumento dal quale partire, per dare la qualità al nostro made in Italy, per dare ancora di più la consapevolezza delle cose che noi possediamo. Quindi la bellezza dei territori, l’arte che i nostri uomini, i nostri geni hanno saputo, nel passato, nei secoli, in qualche modo costruire, la nostra storia ricca di incredibili avventure, di incredibili successi, l’abilità, la creatività della nostra gente, dei nostri operai, dei nostri artigiani, l’immaginazione. E poi questo territorio che dà completezza a tutto quanto noi abbiamo e sappiamo fare. Ecco, tutto questo io credo che sia il principio dal quale è partito questo processo di qualità, questo processo che oggi ci dà la possibilità sui mercati del mondo di avere la certezza di aver di fronte a noi, comunque, nonostante le difficoltà del momento, ancora grandi possibilità da poter mettere in campo. Noi oggi abbiamo in Italia circa 200.000 gli imprenditori che sfidano il mercato globale e portano sui mercati del mondo le ricchezze del nostro made in Italy. Io penso che dovranno essere molti di più nel prossimo futuro e noi, Camere di Commercio – qui con me c’è Alberto Drudi, rappresentante del sistema delle Camere di Commercio delle Marche, c’è Gavino Sini, rappresentante di un’altra importante realtà del nostro Paese, che l’Italia insulare – siamo presenti in tutte le realtà con i nostri uomini, che stanno immaginando, proprio nel processo a venire in questo 2013, 2014, 2015, come creare le condizioni perché sempre di più e sempre meglio tante piccole imprese italiane possano sfidare il mercato globale. E potranno farlo grazie proprio a queste politiche che noi metteremo in campo, ma grazie in modo particolare a cosa loro sanno produrre, alle cose magiche che sanno in qualche modo proporre, alle emozioni che sanno trasferire con questo brand, made in Italy. Lo dico con la convinzione e ne ho anche la certezza – ogni tanto qualcuno mi chiedeva: ma dici una cosa, ne sei poi proprio sicuro? Sì, sono proprio sicuro -: sappiate che il brand made in Italy nel mondo è il terzo brand conosciuto dai consumatori del mondo. Dopo Coca Cola e Visa, il terzo brand che i consumatori del mondo conoscono o che hanno l’ambizione di conoscere è il nostro brand, il nostro made in Italy. Quindi abbiamo di fronte a noi ancora un mondo di opportunità da mettere in campo, stimoli forti, fortissimi che dobbiamo dare a tutti coloro, ancora tantissimi, che magari da soli non sono in grado di affrontare il mare aperto dell’internazionalizzazione con questo bagaglio, con questo strumento, con questa ricchezza, con questo fardello, con questo zaino straordinario di cose che noi facciamo. E credo che riusciremo in questo nostro intento, perché il Paese ha bisogno assolutamente di avere questo stimolo forte, ulteriore in questo momento difficile, congiunturale, che tutti noi conosciamo, che tutti voi conoscete. E oggi il mare aperto, l’internazionalizzazione è l’unico degli strumenti che sta dando delle risposte positive a questo nostro procedere economico. Ma questo procedere economico sarà ulteriormente arricchito e potrà in qualche modo arricchirsi di nuove potenzialità, se noi avremo anche ancor di più la consapevolezza che lavorando, non quantitativamente, ma qualitativamente, noi riusciremo a raggiungere i grandi obbiettivi. Noi non potremo mai competere con quei grandi mercati che hanno nella produzione quantitativa lo strumento del loro agire quotidiano. Noi vogliamo e riusciremo in qualche modo a confrontarci e ad affermarci mettendo insieme, invece, le grandi potenzialità del nostro essere, le grandi potenzialità che, abbinate a questa cultura del territorio, a questa cultura della nostra terra, a questa cultura della nostra tradizione, riusciranno in qualche modo a darci quegli strumenti per potere essere meglio competitivi. In un’azione però unica, coesa, non più frazionata, non più divisa. Oggi sul campo dell’internazionalizzazione, nel campo della qualità dell’internazionalizzazione, c’è bisogno che ci sia una politica unica, non 100.000 che fanno le stesse cose. Negli anni passati contavamo centinaia di protagonisti che volevano in qualche modo mettersi dietro di sé la bandierina dell’internazionalizzazione. C’erano persino le parrocchie che facevano internazionalizzazione, le Proloco, i Comuni, le Comunità montane, non diciamo le Province, le Regioni che magari avevano anche istituzionalmente il compito, sperperando tante risorse, a volte creando della confusione all’interno dei territori. Si arrivava in qualche Paese del mondo lontano dove c’erano tante sigle, tante realtà, e pensate un cittadino del mondo che ha già la difficoltà di individuare dov’è l’Italia nel grande mappamondo perché è un piccolo francobollino, e se quel piccolo francobollino è ancora diviso in 8.000 entità, come noi eravamo soliti agire fino all’altro ieri, che sono i nostre 8.000 campanili, le nostre 8.000 diverse realtà, pensate che razza di confusione abbiamo saputo, nonostante tutto, creare. Bene oggi è ora, è il momento di utilizzare ulteriormente la qualità per avvalorarci nel mondo, ma di darci delle regole nuove e di mettere in condizioni poi anche i nostri imprenditori di avere delle regole identiche agli altri. Perché mi piange il cuore quando leggo, quando constato che un imprenditore tedesco, che ha già tutti i vantaggi che ha, lo sappiamo bene, è inutile ripeterli quest’oggi, ha anche un costo della finanza che è la metà di quello che è il costo di un imprenditore italiano. Allora diventa quasi impossibile poter competere con qualcuno. Ed è rimasto ed è possibile in questo momento, perché dietro a questa produzione italiana di qualità ci sta un Paese con tutte queste eccellenze, queste emozioni, che auguriamo che il buon Dio ci voglia conservare anche per il futuro.
ENRICO BISCAGLIA:
Grazie Ferruccio, ora do la parola a Riccardo Monti. Per chi, essendo la prima volta che è al Meeting con noi, almeno come relatore, non lo conosce, è una persona che si è presa una bella bega da qualche mese, perché dal mese di aprile, è Presidente dell’Agenzia per la Promozione dell’Internazionalizzazione, quella che un tempo si chiamava ICE; e si è preso una bella bega, perché il governo ha fatto un giro di valzer, prima aveva sciolto l’ICE che poi è rinato sotto una diversa denominazione, ma con grande desiderio di cambiamento. Lui è responsabile di uno di questi processi che non sono sicuramente facili. Riccardo Monti faceva, fino a qualche mese fa, prima di quest’impegno, un lavoro importante nel campo della consulenza, è un professionista in una delle società più importanti in campo internazionale, che opera anche per il nostro Paese, per cui ha fatto la scelta di offrire alla pubblica amministrazione il suo servizio, senza che ciò sia scontato e non comporti un sacrificio. La seconda cosa è per quello che Dardanello ha richiamato alla fine, cioè che uno dei problemi, forse quello più difficile da affrontare, è proprio che nel campo dell’internazionalizzazione nel nostro Paese c’è bisogno di mettere assieme diversi soggetti: mentre è facile dirlo e tutti si dichiarano d’accordo sul tema, nel momento in cui si mettono le mani in pasta non è altrettanto facile farlo. Per questo volevo dirvelo, per farvi capire che ascolteremo con grande interesse lui che è all’inizio di una responsabilità molto importante per tutti. Grazie, Riccardo.
RICCARDO MONTI:
Innanzitutto mi vorrei agganciare a quanto hanno detto sia Berni che Dardanello: la sfida di questa grande qualità che è tipica del made in Italy è quella di farlo conoscere, di valorizzarlo in giro per il mondo e di difenderlo. Ci sono delle macrotendenze che sono evidenti: da un lato, dal lato dell’offerta, in tutto il mondo, in tutti i settori l’offerta si moltiplica. Un viaggiatore tedesco che entrava nella sua agenzia di viaggio negli anni ’70, aveva un centinaio di destinazioni, e Rimini era una delle prime; adesso, ci sono circa 25-30mila destinazioni offerte dall’agenzia media tedesca, quindi la moltiplicazione dell’offerta è un dato evidente. Dal lato della domanda c’è una sempre maggiore complessità, una sempre maggiore capacità di molta gente di scegliere, di fare analisi comparative sofisticate, ma la grande opportunità del made in Italy è che cresce nel mondo la gente che può spendere, che vuole spendere bene, la gente che si informa e confronta i prodotti; quindi, questa è la premessa. Questo trend si sta riflettendo anche sui dati del nostro export. I valori unitari medi sono cresciuti di circa il 40% gli ultimi sei, sette anni, quindi già oggi gradualmente l’Italia sta uscendo da prodotti che sono a basso costo unitario. Ma vi vorrei portare su che cosa dobbiamo fare, come dobbiamo fare per vendere e per difendere questo grandissimo patrimonio del made in Italy. Prima Berni parlava del latte austriaco, latte tedesco; circa un mese fa ci fu un evento di cronaca che portò all’arresto di un titolare di un’azienda casearia che produceva mozzarella. Questo evento è stato prontamente utilizzato dai nostri, ahimè, tanti nemici, perché devo dire che nel mondo del food c’è una concorrenza spietata, per cui rapidamente siamo finiti sui giornali dei tedeschi e austriaci, con il film che l’industria alimentare italiana era in mano alla mafia. Quindi sono andato a a dire che i protocolli produttivi italiani sono i più rigorosi del mondo e che così come la criminalità può investire negli immobili, in titoli di Stato e in iniziative finanziarie di vario tipo, ahimè, capita che investa anche in aziende industriali della filiera food, ma il cibo italiano è molto qualitativamente buono e sano e monitorato in maniera, devo dire, molto attenta. Questo è un esempio di come ci dobbiamo difendere da attacchi che vengono da tutte le parti. Nota forma di attacco classica, cito sempre il mondo food, è quello che si chiama “italian sounding”, prodotto che non ha nulla a che fare con l’Italia, con il nome italiano, con un richiamo all’Italia, magari qualcheduno che è emigrato negli Stati Uniti, che si chiama Auriemma, mette una foto del Golfo di Napoli e produce un formaggio che chiama mozzarella. Questo tipo di azione vale 60 miliardi di euro solo nel mercato americano. Vi faccio questi esempi per dire che la chiave di volta per promuovere il made in Italy, la sua qualità, è l’educazione del cliente, l’educazione dei mercati, il radicamento dell’Italia nei mercati. Quindi, cosa dobbiamo fare noi come agenzia per favorire tutto questo? La prima cosa da fare è, come diceva prima Dardanello, fare massa critica, evitare dispersione. Il nome made in Italy è forte, è ricercato, è richiesto, è apprezzato. Quindi già fare perno sul sistema italiano di supporto produzione all’estero è un ottimo punto di partenza. Fare massa critica non significa solo usare il nome made in Italy, significa concentrare le risorse laddove hanno maggiore impatto, fare progetti che permettono non solo di entrare in un mercato, ma di radicarsi in quel mercato. Sono sicuro che al di là delle frodi possibili, chi prova il vero grana-padano e lo mangia per dei mesi, dopo non si sbaglia più; quindi l’elemento di radicamento nei mercati è fondamentale. Bisogna lavorare su le modalità più intelligenti. Faccio un esempio: la grande distribuzione; noi abbiamo, ahimè, una debolezza storica che ci penalizza in tanti settori, non solo agroalimentare, è la carenza di una grande distribuzione internazionale. Le iniziative che noi stiamo mettendo in cantiere sono molto orientate verso programmi, in tutte le grandi economie in crescita, di presenza e radicamento nella grande distribuzione, che significa anche attaccare un mercato non dalle prime tre, quattro città, ma dalle prime venti o trenta città, quindi significa fare un salto qualità anche di dimensione. In quel cartello si parla di passione, anche Dardanello ci ha parlato di passione; una grande leva che noi abbiamo è che la nuova rete estera è integrata, sfrutta sempre di più, abbinando promozioni di un prodotto e di un territorio, la promozione integrata. Quindi quando si vende un prodotto italiano si racconta una storia, una storia di territorio, una storia di specialità locale, di luoghi molto belli, molto pensati; quando uno va in giro a vendere il vino toscano, sta vendendo l’Italia, la sua storia, il rinascimento, un territorio. Come dire: noi dobbiamo imparare a promuovere il prodotto con tutto quello che implica. Per cui il riferimento ai territori di origine, alla passione che sta all’origine della qualità dei nostri prodotti, è un modo di vendere tante cose insieme, quindi di mettere a fattor comune le risorse promozionali. Un aspetto molto importante in questo contesto è la capacità di vendere Italia come sistema, e quindi la capacità anche di attrarre investitori italiani sul nostro sistema produttivo. La delocalizzazione è un fattore che molto spesso è sottovalutato. Fare bene un yacht, come lo fanno in Italia i nostri vicini del gruppo Ferretti, che ne sono una prova, non è una cosa tanto semplice, la filiera, il know how, il radicamento e la passione con cui si fanno certi prodotti non si sradicano facilmente. Quindi una delle leve che noi abbiamo per favorire, spingere l’internazionalizzazione del prodotto italiano è attrarre qui investitori e fare in modo che le nostre aziende in difficoltà, che producono delle eccellenze italiane, diventino parte di gruppi più grandi, diventino di proprietà di investitori internazionali. Quando un grande imprenditore russo ha comprato la Gancia, l’export di spumante in Russia è aumentato a livelli esplosivi. Questo lo dico perché? Perché la promozione moderna del sistema Italia passa per un’integrazione della gamba di export, della gamba di accompagnamento delle aziende italiane che vogliono investire all’estero, crescere all’estero e farsi apprezzare all’estero, perché non si va in Cina, in Russia, negli Stati Uniti senza investire in questi Paesi. Per cui se uno vuole penetrare questi mercati educando il cliente, penetrando la grande distribuzione, creando anche modelli nuovi di retail, questo lo si fa investendo. Quindi il governo sta cercando di far muovere insieme sia la gamba promozionale che quella finanziaria, quindi la Simest e la Sace. L’Italia non ha niente da temere, a volte, anche a cedere il capitale, la proprietà di aziende laddove ci sia quella passione, quel radicamento territoriale, quella capacità che è unica del made in Italy. Quindi noi abbiamo una sfida molto importante e delicata, ma la buona notizia è che molti dei settori in cui siamo forti, la meccanica che in questa regione è fortissima, il food, la filiale agroalimentare in senso lato, la nautica, la moda, il lusso, l’arredamento, sono tutti settori che hanno un beneficio enorme, naturale, diretto dalla globalizzazione, quindi noi dobbiamo cavalcare un’onda che ci porta normalmente in questa direzione. Circa sei mesi fa, ricordo che parlavo con un grande imprenditore dell’Angola e la cosa di cui si lamentava è che è molto difficile in Angola avere buon prodotto italiano e citava i vostri cugini del parmigiano. Ma noi abbiamo in Africa, in medio-oriente, in Cina … la Cina ha ottanta città con oltre cinque milioni di abitanti, con centinaia di migliaia di consumatori che hanno voglia del bello, del ben fatto in Italia; noi dobbiamo arrivare in tutti questi posti raccontando la storia del made in Italy. È uno sforzo titanico, ma vi assicuro che il riassetto in corso, sulla componente promozionale – e devo atto alla grandissima disponibilità a collaborare, all’apertura di Dardanello, del sistema camerale così come anche di altre amministrazioni che hanno un passato di, diciamo, frizione, se non di aperto scontro – permetterà a chiunque abbia qualcosa di bello made in Italy, con la sua storia da raccontare, con la sua passione sottostante, di trovare nella rete estera, che supporta questo sforzo, un terreno molto fertile e speriamo presto anche una capacità operativa molto più mirata, molto più focalizzata e molto più efficacie. Grazie.
ENRICO BISCAGLIA:
E ora la parola a Vincenzo Tassinari che è stato citato come una piattaforma della qualità nella grande distribuzione, una piattaforma che apre per le imprese l’affronto del mercato naturalmente interno ma anche mondiale.
VINCENZO TASSINARI:
Bene, buongiorno a tutti. C’era un grande Presidente della Repubblica francese, Francois Mitterand, che diceva che la distribuzione moderna, la grande distribuzione era la portaerei della produzione del Paese. Credo che quello che è stato fatto poi, in merito allo sviluppo della distribuzione in Francia, sia un elemento sicuramente critico nei confronti di quello che invece si è fatto in Italia, dove la distribuzione moderna continua ad avere sicuramente un ruolo molto diverso e inferiore a quello che ha in grandi economie europee. Quindi partendo da questo gap, che quando si parla di made in Italy e di promozione dei prodotti italiani all’estero, è chiaro che i francesi, ma non solo i francesi, prima di tutto vendono i prodotti di casa loro; questo è un punto importante, lo vendono ovviamente in Francia, nei loro Paesi, ma lo vendono anche dove sono presenti. Il fatto che la distribuzione in Italia non sia così protagonista come in altri Paesi, richiederebbe un’ora di tempo per far capire a voi perché grandi imprenditori come Agnelli, come del Vecchio, abbiano abbassato le bandiere e venduto ai francesi e noi siamo rimasti quei piccoli che siamo. Però, detto questo, io vorrei fare un ragionamento che appunto serve a chiarire perché il prodotto italiano va rivolto prima di tutto ai consumatori, nel mondo, in Europa e in Italia. E quindi a mio parere non si può prescindere da un’analisi di questo tipo. Noi siamo di fronte a una crisi economica, siamo di fronte a una crisi economica italiana ma anche internazionale, dove i cittadini consumatori per primi hanno problemi a sostenere i loro consumi. Monti è venuto qua a Rimini, ha detto che vede la fine del tunnel; io, dal mio osservatorio, purtroppo questa fine del tunnel non la vedo: da tutto agosto io ho una perdita dei consumi sull’ordine dell’1,5% e se questo ha valore e se ci aggiungo che c’è un dato di inflazione del 4%, è chiaro che il valore sostanziale è che noi siamo di fronte a un crollo dei consumi. C’è una analisi che nessuno ha valorizzato, e che invece io vorrei portare alla vostra attenzione, che dice che l’Europa non è che stia tanto meglio, e quindi il problema è capire che c’è una politica economica europea, parlo della nostra Europa, e quindi italiana, che io, non vado per tanti giri di parole, reputo sbagliata, perché se io vado a vedere anche nella grande Germania, io ho che i cittadini tedeschi non stanno molto meglio dei cittadini italiani, siamo di fronte anche lì a un Paese che ha un segno meno di fronte all’andamento dei consumi e siamo di fronte a un Paese, come tutti quelli europei, che ha un aumento di inflazione che è superiore a quello del reddito di quei cittadini. Noi siamo di fronte a una politica economica che sta impoverendo i cittadini europei, e l’impoverimento dei cittadini europei, giriamola come vogliamo, comporta sicuramente meno consumi sulle tavole. Non voglio parlare di altri settori dove il disastro è ancora più imponente, a due cifre, voglio parlare del food e quindi c’è un problema di questa natura. E dico: come mai nessuno – stiamo parlando di prodotti alimentari – sta prendendo in mano una questione fondamentale che si riferisce alla necessità di un sostegno delle famiglie e dei consumatori europei e italiani? E’ necessaria una battaglia contro la speculazione, che comunque anche nel corso del 2012 ci sta facendo tornare al 2008. Noi siamo di fronte a una speculazione, nel mercato dei cereali in particolare, che porterà al rincaro, già ci ha portati, del 20% sul grano, ma del 50% minimo sulla soia, sul mais. È vero che c’è la siccità, nessuno lo mette in dubbio. Ma è anche vero che sei volte i futures sui cereali hanno già girato e quindi la speculazione, che incide poi sul potere d’acquisto dei consumatori, indubbiamente c’è. Quindi io credo che prima di tutto bisogna fare questo tipo di analisi. Io spero, e credo anche, che questi messaggi di natura politica più ottimistici facciano bene, perché comunque una quota importante dei consumi è determinata anche dall’approccio psicologico, dall’attesa, dalle aspettative dei cittadini, dei consumatori, quindi facciamo bene, fa bene il Governo a lanciare dei messaggi positivi; però è pur vero che noi non possiamo nasconderci di fronte al fatto che questo problema di reddito e di potere di acquisto e di approccio ai consumi da parte di cittadini italiani non finirà nel 2012, non finirà nel 2013 e sicuramente fino al 2030. Se vogliamo rispettare il calo dell’indebitamento pubblico di 40 miliardi all’anno, com’è scritto, sicuramente noi siamo di fronte a delle politiche di rigore che dovranno continuare. Allora dove para questo mio ragionamento molto sintetico? Para al fatto che i cittadini e i consumatori italiani ed europei possono essere portati a una modalità di consumo che privilegi innanzitutto, e forse solo, il valore del prezzo dei prodotti. Quindi noi siamo di fronte a una tendenza che altro che qualità, altro che rassicurazione: io ho bisogno di mangiare, io ho bisogno di arrivare alla fine del mese. Questa tendenza del prezzo più basso a tutti i costi, come può essere superata? Io capisco bene che il made in Italy è vincente, è vincente nel mondo ma anche in Italia. I miei consumatori, 7 milioni e mezzo di soci della Coop, mi dicono che vogliono continuare a mangiare italiano: questo è un indice molto importante, il made in Italy deve avere prima di tutto delle basi consistenti nel nostro Paese. E quindi io devo cercare di portare il mio consumatore su un terreno più qualitativo, più virtuoso, per cui va bene il prezzo, te lo devo dare, però il prezzo deve essere coniugato da valori, e questo è assolutamente importante. Il made in Italy in Italia e nel mondo non può essere solo un’etichetta, ci devono essere sotto dei contenuti di sostanza. Io recentemente sono stato negli Stati Uniti per un giro di lavoro e nei supermercati americani ho visto molti di quei prodotti dei quali Berni diceva. Ma il problema di chi è? Di chi imita e di chi copia il made in Italy che per il 70% è falso? O è anche un problema nostro, del nostro Paese, di organizzazione, di efficienza, per cui le cose che diceva il dottor Monti sono di sostanza perché noi non siamo capaci di vendere la nostra ottima produzione? Questo è il tema assolutamente importante. Quindi bisogna provare a dire che il prodotto italiano, l’eccellenza del food che vince nel mondo… noi abbiamo una bellissima esperienza a New York, nessuno lo sa, noi siamo soci con Italy and Italy che ha aperto, come tutti sanno, un bellissimo punto di ristoro e di vendita dei prodotti italiani, che ha 30mila newyorkesi al giorno che entrano in questo punto di vendita ed è un grande successo. Io quello che penso ve lo dico: il made in Italy deve essere appunto un’etichetta indubbiamente valorizzata con logiche di marketing e di comunicazione appropriate, ma che dietro ha della sostanza, dei valori. Allora, i valori sono quelli che ha detto Berni, non ho nessun problema a dire che sono corretti, ma i valori in questo mondo nell’alimentare italiano sono anche quelli della sostenibilità, sono anche quelli della solidarietà, dell’eticità, cioè chi produce nel rispetto delle esigenze dei consumatori; chi produce nel rispetto dei produttori; chi produce nel rispetto dei diritti umani dei consumatori. Allora, queste cose, guardate bene che non è vero che i consumatori americani piuttosto che di altri Paesi le vedono in subordine. Io vedo che nei loro supermercati c’è un grande sviluppo di organiche, quindi del biologico, c’è un grande sviluppo di produzioni qualitative. Quello che in sintesi voglio trasmettere: il made in Italy è vincente nel mondo; la produzione italiana non riesce ancora ad essere quella che vince nel mondo. E’ una cosa diversa. Ci vogliono progetti, importanti, con dei contenuti che diano quella distintività di cui diceva appunto Berni, distintività vuol dire che io produco in modo diverso per te consumatore a una qualità sicuramente imbattibile, e questo è fuori dubbio, dopodiché io credo che ci vogliano dei progetti e ci vogliano dei soggetti. Al dottor Monti: io credo che non possiamo essere, come diceva Mitterand, la portaerei, perché la distribuzione italiana non è internazionale, purtroppo. Però io come Coop mi sono proposto. C’è stata una proposizione da parte del Ministro Passera e del Ministro Catania: la Coop che cosa fa? La prima catena distributiva italiana cosa fa? La Coop non esporta il proprio modello, la Coop è però presente nel mondo: il 2012 è l’anno della cooperazione, un miliardo di cooperatori, la più grande cooperativa della Coop è in Giappone, è presente in Europa. Allora io ho dichiarato la mia disponibilità a costruire un progetto che permetta, anche attraverso la cooperazione mondiale europea, di promuovere l’ottima produzione italiana. Quindi ci vogliono progetti fondati, e non li abbiamo, sull’efficienza, sull’organizzazione, sulla comunicazione, sulla valorizzazione di quei contenuti che l’etichetta made in Italy deve avere. Ecco, io credo che un segnale di questo tipo vada incontro a quei consumatori che noi, come Coop, non vogliamo abbandonare, quei consumatori che vanno certo alla ricerca della convenienza, ma assieme alla convenienza vogliono il rispetto delle loro esigenze, dei loro valori, della loro qualità, della rassicurazione, dell’eticità. Questo è un canale importantissimo dal punto di vista strategico dell’agricoltura e della produzione italiana e io credo che su questo aspetto l’esempio che noi portiamo avanti, è un esempio che sicuramente dal punto di vista della distintività italiana merita la grandissima attenzione. Io voglio chiudere questo mio intervento con una piccola chiosa; come diceva il direttore Biscaglia, da tanti anni io partecipo, la Coop partecipa al Meeting dell’amicizia, partecipiamo con grande convinzione da tanti anni. Ultimamente qualcuno mi ha detto: “Ma che cosa vai a fare tu al Meeting di Rimini quest’anno?”; io ho detto che vado al Meeting di Rimini anche quest’anno perché nel Meeting di Rimini si esprimono dei valori di solidarietà, di sostegno, che sono valori propri della cooperazione; e a chi mi rimproverava di venire qui al Meeting di Rimini, io gli ho detto: guardate, cari signori, che nel 2005, quando la Coop era sotto schiaffo, abbiamo una banca e menate di questa natura, gli unici che si alzarono difendendo la cooperazione furono i vostri dirigenti, Vittadini e Vignali, e quindi io sono qui anche per testimoniare la solidarietà alla vostra organizzazione, al vostro gruppo, che ha sicuramente un peso molto importante in termini cooperativi e sicuramente noi siamo una risposta, credo, a chi dice che non esiste etica con economia; no, no: noi rispetto a un capitalismo speculativo, la cooperazione nel suo complesso è una risposta che dice che non c’è solo la speculazione, c’è fare economia sana, c’è fare economia onesta, c’è fare economia trasparente e soprattutto c’è fare economia per i cittadini e i consumatori del mondo. Voi lo rappresentate, alla Coop lo rappresentiamo e io credo che stare insieme sia sempre un elemento di forza.
ENRICO BISCAGLIA:
Poiché i nostri relatori sono stati bravi a contenere i loro interventi, possiamo permetterci una breve replica, che ciascuno può fare sull’argomento che gli altri hanno trattato e che io un po’ accompagnerei. Siccome il primo a parlare è Berni, volevo chiedere questo: il suo intervento è stato un po’ un punto di riferimento per tutti dal punto di vista di ciò che consente, diciamo, la qualità e l’affronto della qualità nei mercati. Volevo anche stimolarla su questo fattore: il Consorzio Grana Padano è un insieme di produttori e anche stagionatori, quindi sono molti imprenditori che lavorano insieme o che hanno messo a fattor comune alcune cose. Questo primo aspetto che difficoltà è, che storia ha? Lo dico, il Consorzio Grana Padano ha 50 anni di storia. La seconda domanda è: questa è stata una condizione per affrontare il mercato nel mondo, diceva che 1 milione e 400mila forme sono collocate all’estero. Ecco, questa esperienza se ce la racconta in tre minuti.
STEFANO BERNI:
Molto velocemente, è evidente che molti produttori che producono lo stesso prodotto non possono che stare insieme. Ciò avviene per il Grana Padano, per il Parmigiano Reggiano, per il Prosciutto di Parma, per tutti gli altri prodotto D.O.P. Però questo esempio può servire anche ad altri che poi decideranno di stare insieme e quindi per noi è stato un po’ più facile: l’essere insieme era quasi una condizione e ci ha dato dei vantaggi. Il Grana Padano è diventato il prodotto D.O.P., non solo il formaggio più venduto in tutto il mondo, ma ci ha dato dei vantaggi che possono essere anche d’esempio, anche se noi abbiamo tantissima strada da fare, in relazione anche a quello che diceva Tassinari, ed esco un attimo per chiudere con una battuta: la qualità deve essere correlata, e io ho cercato di dirlo, alla compatibilità economica, ma comunque è un concetto che il consumatore chiede e, dietro la qualità, abbiamo detto cosa c’è. Io ho la sensazione che mentre le catene italiane, a incominciare da Coop Italia per passare alle altre, Conad, Esselunga, Ld e poi adesso non voglio citare tutte le sigle, ce ne sono tante ma piccolissime, ci aiutano a valorizzare questa distinzione, questa eticità e questa qualità, le catene col cuore e il portafoglio fuori dall’Italia ci subiscono. E voglio parlare un secondo del terremoto, che non c’entrerebbe niente, invece c’entra tanto. Il terremoto in Emilia e bassa Lombardia ha causato grandissimi danni, anche ai prodotti D.O.P.: Parmigiano Reggiano 600mila forme, ogni forma 500 litri di latte, 600mila forme cadute, Grana Padano 300mila. Noi siamo andati alle catene, in primis la Coop, proprio in ordine di tempo, e abbiamo detto: “Senti, abbiamo bisogno di una mano, vogliamo vendere più prodotto per recuperare parzialmente i danni che abbiamo avuto, ma vogliamo anche aiutare la gente terremotata, i sindaci delle cittadine terremotate”. Allora, Coop, in un centesimo di secondo, Coop Italia ha detto ok, e l’ha fatto, Conad pure, Ld pure. Io posso dirvi che, ad oggi, molte catene italiane hanno aderito a questa iniziativa di solidarietà a favore dei cittadini, ovviamente vendendo più Grana Padano un po’ anche a favore del Grana Padano e dei 31 caseifici iper-danneggiati, le catene estere, invece, si sono defilate, se ne sono sbattute della solidarietà, della richiesta di aiuto. Buona parte, al momento, delle catene estere, quelle delle grandi insegne roboanti, che trovi in tutto il mondo e che tengono i prodotti D.O.P. italiani, perché sono obbligati a farlo, perché altrimenti perdono clientela, ma non lo fanno per valorizzare davvero il made in Italy e la distinzione. E quindi, questa mia provocazione, perché fa parte anche del mio carattere, la lascio li, anche come risposta, cioè le risposte che devono essere date, come diceva Monti, sono anche legate alle sensibilità che gruppi come Coop Italia hanno e che gruppi, che non voglio citare per non dimenticarne qualcuno, non hanno, e quindi abbiamo bisogno di avere dei driver anche nei rapporti verso l’estero, con la distribuzione estera, che al momento ci sta solo accettando, subendoci. È chiaro che se stiamo insieme, se il made in Italy sta insieme, questa accettazione subita diventerà sempre più ascoltata e sempre più accettata da questi grandi gruppi internazionali, che al momento non ci danno la considerazione e l’attenzione che meritiamo, a cominciare da un cosa che io ritengo veramente rabbrividente, il fatto che rispetto a un terremoto che è capitato, ha causato morti, danni, eccetera, abbiamo avuto una risposta immediata dalle catene italiane e una latitanza assoluta da parte dei gruppi esteri, anche di quelli che vanno per la maggiore.
ENRICO BISCAGLIA:
Grazie veramente. Ed ora Dardanello, che nel suo intervento ci ha aperto, diciamo, un po’ uno sguardo più ampio e ci ha detto che abbiamo un mondo di opportunità davanti. Gli chiediamo cosa si sta facendo e cosa si può fare di più perché queste opportunità si concretizzino.
FERRUCCIO DARDANELLO:
Molto sinteticamente, io credo che per valorizzare di più e meglio questo nostro straordinario patrimonio, abbiamo bisogno che ci siano delle politiche che vanno anche in questa direzione. Non possono da soli gli imprenditori, anche se sono straordinari nella loro originalità e nel loro impegno, affrontare il mercato. Quindi c’è bisogno innanzitutto che ci siano parità di regole tra gli imprenditori italiani e gli imprenditori nostri concorrenti. Ci sono imprenditori nostri concorrenti sul mercato europeo che devono avere le stesse nostre regole, devono avere gli stessi nostri costi, per fare in modo che le nostre merci abbiano la stessa capacità di competere sui mercati del mondo. Poi bisogna combattere la contraffazione, lo dicevamo prima e lo diciamo da sempre. E’ vero che il nostro prodotto è un prodotto contraffatto, perché è un prodotto vincente. Ma bisogna fare una politica contro la contraffazione identica alla politica che si sta cercando di fare contro l’evasione, contro il lavoro nero in questo momento nel nostro Paese. Credo che tutelare in questo modo le nostre produzioni, vuol dire tutelare il nostro Paese. E noi cosa stiamo facendo in tutto questo contesto a livello internazionale? Sentivo prima Tassinari che chiedeva: non abbiamo grandi progetti. Beh, noi un grande progetto ce l’abbiamo e lo stiamo realizzando con un impegno e una passione straordinaria, grazie anche allo strumento delle nostre camere di commercio italiane nel mondo, è il progetto della valorizzazione della ristorazione italiana nel mondo. A tavola, in qualsiasi angolo nel mondo, si vende il Paese, non si vende solo il Grana Padano o qualche eccellenza straordinaria del nostro agroalimentare, ma a tavola si vende la moda, l’arte, la cultura, la meccanica, tutto quello che noi disponiamo. Ma per poter attrarre a tavola questi nostri cittadini del mondo, abbiamo bisogno di garantire loro che, a quella tavola, ci sono quelle emozioni che dicevo poc’anzi, c’è il rispetto di quelle che sono le regole di produzione, che ci sono le ricette che provengono dalla nostra storia, dalla nostra cultura, c’è il vino prodotto nelle nostre cantine, c’è l’olio prodotto nei nostri frantoi, ci sono le cose che ci contraddistinguono e ci fanno diventare vincenti. Bene, in un anno e mezzo abbiamo certificato già quasi 1500 ristoranti in 57 Paesi del mondo e ci approntiamo in modo che nel 2013-2014 si possa arrivare a 4000 di questi straordinari siti in ogni angolo del mondo, dove chi entra in quel ristorante, che sarà fregiato da una targa (Ospitalità Italiana. Ristoranti Italiani nel mondo), sa che entrando lì trova un pezzo di Italia. Ed è quel pezzo di Italia che non è soltanto il frutto di cose che ci sono in quella tavola, ma che dietro quella tavola ci sono tutte le altre grandi opportunità che il made in Italy può offrire. Credetemi, è un progetto di una importanza stratosferica, c’è stata un po’ di diffidenza all’inizio, nell’approcciarsi a questo progetto, ma vedo che adesso l’entusiasmo sta arrivando e stanno arrivando anche i risultati. Io vorrò, anche per il prossimo futuro, che in questi 3-4000 imprenditori ci sia la capacità di arrivare anche alle piccoli produzioni, alle produzioni di qualità, che sono tantissime nel nostro Paese, e che oggi hanno difficoltà ad entrare sui mercati del mondo. Quindi, una piattaforma logistica che possa portare in ogni dove questo ben di Dio sul piano agroalimentare, che poi è il trampolino per far sì che il nostro Paese si possa avvalorare, diventare sempre più protagonista nel suo complesso. Io credo che questo sia un piccolo esempio, ma non tanto piccolo, perché si sta mettendo veramente in moto un grande meccanismo finalmente di valorizzazione complessiva del nostro Paese e credo che con la volontà che ci contraddistingue, e che contraddistingue anche il sistema italiano, credo che ancora una volta ci riusciremo. Grazie.
ENRICO BISCAGLIA:
A Monti, pur lasciando a Riccardo la libertà di dire quello che eventualmente vuole replicare, volevo chiedere questo: mi sembra che una delle urgenze sia che molte più imprese italiane giochino la partita sui mercati del mondo. Oggi sono circa 200.000 le imprese che hanno un fatturato sull’estero anche piccolo, diciamo. Quindi poche rispetto ai 6.100.000 imprese che abbiamo nel nostro Paese: e allora che cosa si può fare in questa direzione? Perché accompagnare le imprese nel mondo, come ci capita spesso di fare, non è facile, ma spesso dà soddisfazione, perché si vede che questa, che all’inizio sembra una cosa difficile e irraggiungibile, invece è possibile anche per tanti piccoli. Nell’ambito dei mesi di lavoro che hai potuto già realizzare, quali sono le priorità che vedi perché questo si possa compiere?
RICCARDO MONTI:
Si, ti rispondo subito. Allora: 200.000 imprese sono poco rispetto a 6 milioni, ma sono tante in assoluto, perché pensiamo che l’Inghilterra sta a 50.000, la Francia a 100.000. Quindi già oggi siamo di gran lunga il Paese con il maggior numero di esportatori. Abbiamo incontrato Ministri di grandi Paesi europei che ci dicono che vorrebbero imparare dall’Italia a permettere, anche ad aziende molto piccole, ad avere un procedimento ascensionale. Resta il fatto che è una priorità, secondo tre cose: la prima è favorire un processo pervasivo di educazione su come si esporta; anche nella più remota provincia italiana ci vuole uno sportello in grado di spiegare almeno le cose basilari su come esportare e in quali mercati. Per questo stiamo con il sistema camerale. La seconda leva importantissima è: piattaforme semplici e pervasive di e-commerce. Il più piccolo artigiano di qualunque parte di Italia, con un buon sistema di e-commerce, può vendere magari il prodotto ripetuto. Il turista sta magari ad Amalfi o a Cortina e con il sito web vende l’acquisto ripetitivo. Questa è una cosa molto potente, ci stiamo lavorando per renderlo facilmente accessibile a tutti. La terza leva: l’aggregazione, i contatti di rete, quindi aggregarsi per esportare. Mi aggancio a Tassinari, due cose telegrafiche: sono d’accordissimo, il modello Eataly è un modello vincente. E’ un modello vincente per due motivi, uno è perché è un luogo di educazione. I newyorkesi vanno perché fanno corsi, perché comprano libri, perché respirano cos’è l’italian food – non è un supermercato, non è un ristorante. Quindi modello vincente proprio perché education. Come sistema Italia potremmo avere in Eataly la grande distribuzione che non abbiamo mai avuto, e io mi auguro da cittadino – e con il lavoro che faccio lo farò in ogni modo – che in ogni grande città del mondo ci sia una realtà come Eataly, che educhi i consumatori locali a cos’è il prodotto italiano e ne racconti la storia e le origini. Ultimo punto: il sistema della cooperazione. In cabina di regia abbiamo incontrato il sistema di cooperazione e personalmente sono rimasto sorpreso dalla enorme proiezione internazionale. Già oggi siamo cooperazione, quindi raccolgo la sfida e sicuramente dobbiamo sfruttare la galassia della cooperazione in chiave di promozione ed export.
ENRICO BISCAGLIA:
Grazie a Riccardo, mi sembra che l’intervento di Tassinari l’abbia già introdotto Riccardo stesso, cioè su queste tre leve che lui ha detto, la grande distribuzione già sta operando anche solo sul mercato interno e costituisce un avvio di questo processo per tante imprese. E poi può diventare – mi sembra interessantissima questa cosa – un punto di riferimento per chi vuole un prodotto selezionato dell’Italia. E quindi da voi questa sfida è colta. Che possibilità vede di una prospettiva di questa natura per i prossimi anni?
VINCENZO TASSINARI:
Noi siamo convinti di essere protagonisti attivi di progetti di questa natura perché fanno bene al nostro Paese. Se io volessi correre la tendenza al prezzo più basso, indubbiamente potrei diventare domani il più grande importatore di prodotti cinesi. Io credo di non poterlo e doverlo fare, perché la Coop è una realtà italiana che interagisce con i consumatori italiani, con i cittadini italiani, ma anche con i produttori e gli agricoltori italiani. Quindi la nostra disponibilità sta nel nostro essere, è fondante. Io parto con questa disponibilità dicendo: cari amici produttori, insieme a me analizziamo bene queste esigenze dei consumatori italiani, europei e del mondo. Il dubbio è che la realtà distributiva è vista un po’ come ostile, la nemica dell’agricoltura italiana, ci siamo beccati anche una legge al riguardo. Io sto lavorando con il Ministro dell’agricoltura, invece, per dimostrare che la distribuzione italiana, per prima la Coop, possa svolgere questo ruolo di cerniera fondamentale tra i consumatori, che hanno le loro necessità, i loro valori, e i produttori. Questo noi proviamo a esprimerlo anche con dei progetti cosiddetti di co-imprenditorialità. Allora la co-imprenditorialità per me è fondamentale per creare le basi vincenti della nostra produzione, cioè non solamente dire “io produco”, ma siccome produci dell’ottima agricoltura italiana, me la devi vendere. Non è così automatico, bisogna che proviamo a capire dove dobbiamo correggere le nostre distorsioni, ed è indubbio che le nostre distorsioni stanno in polverizzazione delle imprese, mancata innovazione tecnologica. Chi è che sta valutando che un mercato fondamentale italiano, che è quello dell’olio, sta diventando invece dominio della Spagna, e la Spagna sta comprando i nostri marchi italiani? Capiamo la strategia di questi Paesi? Ma se io vado a vedere l’ottima produzione pugliese e vado a vedere l’ottima produzione spagnola, ci sono degli impatti di carattere tecnologico innovativi, organizzativi, che noi dobbiamo correggere. Il contributo che voglio dare io non è solo quello di vendere i prodotti ma quello di creare le basi, insieme a voi, che permettano appunto di poter essere vincenti nel mondo. Questa è la chiave fondamentale, dopo di che io dico: dietro l’etichetta mettiamoci i valori, e noi siamo su questo piano i primi in Italia. La produzione italiana, per rispetto della salubrità, dell’ambiente, per il rispetto dei diritti, è la prima nel mondo. Mettiamoci questi valori, organizziamoci bene, comunichiamo bene, perché se non comunichiamo e se uno va con 200 marchi a cercare di promuovere il proprio olio piuttosto che il proprio formaggio, no sortisce nulla. La competizione internazionale è diversa. Da me vengono i Paesi del mondo a offrire i loro prodotti e capisco cosa c’è dietro in termini organizzativi. Anche su questo aspetto l’Italia deve fare un passo avanti, quindi la disponibilità della Coop è una disponibilità negli interessi dei propri soci cooperatori e negli interessi dei nostri produttori e dell’agricoltura italiana. Ma su questo non in modo acquiescente, ma in un modo che dica – dal punto di vista dell’osservatorio internazionale – quali sono i nostri punti di forza, come valorizzarli e quali sono i nostri punti di debolezza che bisogna correggere.
ENRICO BISCAGLIA:
Ringraziamo tutti i relatori perché, diciamo, hanno dato un contributo per cui io penso che si potrebbe partire. Tanto ci sarà di riflessione su questi temi, tanto ci sarà di verifica su queste cose emerse oggi. Ringrazio quindi tutti voi del contributo che ci avete portato.