LA PRIMAVERA IMPOSSIBILE. PRAGA 1968

Presentazione della mostra. Partecipa Enzo Bettiza, Giornalista e Scrittore. Introduce Sandro Chierici, Curatore della mostra.

 

MODERATORE:
Buongiorno a tutti, vi do il benvenuto a questo incontro di presentazione della mostra La Primavera impossibile. Praga 1968 che è allestita al padiglione A5. Accanto a me vedete una delle grandi firme del giornalismo italiano: Enzo Bettiza, con il quale discorreremo di questo evento che segnò in maniera decisiva la storia d’Europa e la coscienza di molti di noi. Quello di Bettiza è un graditissimo ritorno al Meeting. Nel 1994 prima e nel 1997 poi, due volte ci parlò dell’ex Yugoslavia. Oggi ci aiuterà a rivivere quei mesi carichi di speranza e insieme di tensione che culminarono con l’invasione Sovietica dell’agosto 1968. Bettiza era lì in quei giorni e nei mesi che precedettero l’invasione. La sua è una testimonianza in presa diretta che ha tutto il fascino della storia raccontata da uno che l’ha vissuta in prima persona e che ha raccolto negli ultimi mesi in un libro appena uscito, La Primavera di Praga, che raccoglie i suoi articoli pubblicati all’epoca sul Corriere della Sera. Abbiamo pensato di articolare questo incontro in due parti. Io vi introdurrò brevemente alla mostra in quanto tale, che è incentrata sul momento più drammatico della vicenda di Praga ossia l’invasione armata e poi lascerò al nostro ospite il compito di approfondire i contenuti e il significato di quella che è stata comunemente chiamata la Primavera di Praga.
Per parlarvi della mostra devo fare due premesse: la prima è che io non sono uno storico né di formazione né di professione; io mi occupo di immagine, di fotografia e di arte e questa è in primo luogo una mostra fotografica. Presenta delle immagini, scattate da fotografi cechi durante i giorni dell’invasione. I testi che li accompagnano e che troverete nei pannelli in mostra e nel catalogo, sono per lo più testimonianze letterarie e documentarie e intendono aiutare a guardare l’immagine; ciò significa che di per sé la mostra non ha l’ambizione di dare un giudizio storico articolato su tutta quella complessa vicenda che è stata il 1968 a Praga e tanto meno sul contesto del 1968 in generale in cui questi avvenimenti si collocano. C’è un altro incontro del Meeting domani che si occuperà più a fondo di questo problema. L’intento della mostra è far vedere come dei fotografi hanno colto, negli eventi che accadevano, la presenza dell’umano, quel frammento di eternità che è dentro ogni immagine. La seconda premessa è che questa mostra ha un precedente. Qualcuno di voi se lo ricorderà: due anni fa abbiamo curato una mostra simile dedicata all’invasione dell’Ungheria del 1956. Chi ha visto la mostra di Budapest e vedrà questa mostra, troverà dei punti in comune. Ci sono alcune immagini che sembrano realmente delle fotocopie, perché la fotografia esprime sempre un rapporto fra un uomo e la realtà e l’immagine non è semplicemente il prodotto di una macchina ma nasce dall’occhio e dal cuore di chi sta dietro l’obiettivo. La fotografia è un uomo che guarda altri uomini, che guarda la realtà e la storia che si svolge davanti ai suoi occhi e che fissa, nell’istante dell’immagine, una percezione, un affetto, un rapporto con questa realtà. Però mi permetto di suggerire una indicazione di metodo per guardare queste fotografie ed è quella di cercare di entrare dentro questa dinamica fra un uomo e la realtà che ha davanti e di far propria la domanda che sta all’origine di quel gesto di schiacciare il bottone per fissare in una istantanea, come dice la parola, quel frammento di eternità che in ogni momento della realtà è presente. La mostra, come accennavo prima, è incentrata sull’invasione della Cecoslovacchia che avviene nella settimana tra il 21 e il 27 agosto. L’abbiamo suddivisa in sezioni che sono cadenzate dai giorni della settimana e a ogni giorno abbiamo associato un tema, uno spunto di riflessione. Si va dai carri armati, simbolo della violenza del primo giorno – che sconvolge tutta la piccolissima nazione ceca che viene letteralmente coperta di questi mostri d’acciaio – all’impossibile dialogo che la popolazione di Praga e delle altre città della Cecoslovacchia, tenta invano di allacciare con i soldati. Uno degli aspetti che personalmente mi colpiscono di più in queste immagini è vedere come la gente è vicina ai carri armati, istintivamente verrebbe da pensare che davanti a un mostro di questo genere uno sia tentato di scappare. Lì invece vediamo che la gente addirittura ci sale sopra, che gli sta addosso e che tenta di parlare con i soldati, di spiegar loro che non è vero quello che gli hanno detto per mandarli lì, che a Praga non c’è la controrivoluzione. Guardate che qui non c’è nessuna controrivoluzione, siamo noi, ci vedete, siamo felici di stare in questo Paese, di vivere questa esperienza che stiamo vivendo, perché ci venite ad invadere? Un dialogo impossibile, davanti al quale sembra che i veri inermi siano i soldati che non sanno come rispondere e rimangono con delle facce stranite ad ascoltare queste persone, questi ragazzi, queste donne, questi uomini che gli chiedono insistentemente perché, perché? Perché siete venuti?
Un altro tema che abbiamo associato è quello della libertà di parola. Uno degli aspetti della resistenza del popolo praghese all’invasione fu una resistenza sostanzialmente pacifica. Tanto per farvi un piccolissimo esempio: nella rivolta di Ungheria ci furono quasi 15.000 morti, a Praga meno di un centinaio. Non ci fu una reale battaglia, se non negli scontri dettati dalla istintiva reazione del primo giorno che poi si affievolirono immediatamente. Ecco, uno però dei temi con cui la resistenza si articolò fu quella della parola. La gente si mise a scrivere dei cartelli, degli striscioni che appendeva nelle vetrine, sulle case, dappertutto. Questo desiderio di riaffermare quella che era stata una delle conquiste della Primavera di Praga, cioè la libertà di esprimersi. Un altro tema: Praga è nostra. Il cuore della mostra, lo vedrete, è una ideale ricostruzione della grande Piazza San Venceslao che divenne il punto di attrazione di tutta questa massa di gente che trovava lì il luogo dove raccogliersi, dove parlare, dove discutere, dove esporre sul monumento le bandiere, gli striscioni, i cartelli, come un desiderio di dichiarare e di riaffermare che la patria era loro, non era degli invasori. Un’altra sezione l’abbiamo chiamata: “Comunque vivere” ed è quella che presenta gli aspetti più collegati, diciamo di somiglianza maggiore, con le foto di Budapest. Si vede anche qui una foto incredibile, di un uomo che attraversa la strada ad un incrocio spingendo una carrozzina con un bambino, una scena di vita normalissima; ma, invece della macchine, all’incrocio sono fermi dei carri armati. Oppure si vedono due bambini che giocano su un carro armato abbandonato, fanno i salti dal carro armato o un operaio che guida un muletto, di quelli che trasportano pallet, che saluta con un sorriso incredibile questo corteo di gente che va a protestare con gli striscioni. “Comunque vivere”, perché dentro qualunque situazione, anche la più disperata, il desiderio di vita dell’uomo tende ad emergere, viene fuori inesorabilmente, non c’è situazione che lo possa del tutto annientare. Poi c’è anche il tempo dell’umiliazione, quando Dubček ritornò, Dubček che venne di fatto rapito dai russi subito dopo l’invasione e portato prima in Ucraina, poi a Mosca, dove fu messo a un tavolo davanti a Breznev e lì dovette accettare la terribile condanna di riconoscere che l’esperimento Primavera di Praga era fallito, che il socialismo dal volto umano non aveva prospettive. Tornato a Praga alla radio fece un discorso che è ricordato con delle parole bellissime da Milan Kundera nell’Insostenibile leggerezza dell’essere, quando dice: Dubček faceva delle pause incredibili, tratteneva a stento le lacrime e in quelle pause c’era tutto l’orrore che si era abbattuto su Praga. Umiliazione rafforzata anche dal fatto che lo stesso Dubček non poté nemmeno scappare da questa situazione, fu costretto, di fatto, a rimanere capo del partito per quasi un anno, perché non c’era nessun altro che i russi avessero trovato che potesse sostituirlo, per cui lui si trovò a vivere questa situazione terribile di dover essere la condanna, ad incarnare la condanna di quello che lui stesso aveva fatto nei primi mesi dell’anno.
E qui si chiude questa parte della mostra dedicata ai giorni dell’invasione. Poi c’è un’altra sala, un po’ più piccola, che è dedicata a Jan Palac, il ragazzo che nel gennaio del 1969 si bruciò vivo e il cui esempio fu seguito da diversi altri giovani come lui, per protestare contro l’invasione ma anche contro il silenzio che era calato su questi eventi. Il suo gesto disperato è rimasto nella coscienza non solo del popolo praghese, come si vede bene dalle fotografie del funerale, con quella folla oceanica, ma è anche rimasto in Occidente come simbolo della rivolta. Infine una piccola sezione finale, con un accenno a quello che scaturì da questa rivolta di Praga, a quel filone sotterraneo, a quella Polis sotterranea come la chiamò Havel, a quella società alternativa che, sotto l’apparenza della società ristabilita, del sistema socialista ristabilito secondo i parametri sovietici, restò viva e mantenne desta l’attenzione per il tema della libertà, della dignità dell’uomo, dei diritti dell’uomo. Si tratta di quel movimento che poi trovò occasione di riemergere, di risgorgare fuori, otto anni dopo, nel 1976 e che nel 1977, prendendo spunto dalla firma dell’accordo di Helsinki, dalla dichiarazione di Helsinki sui diritti dell’uomo, sottoscritta anche dalla Russia si concretò nel movimento di Charta 77, che fu uno degli elementi che poi portarono alla rivoluzione di velluto del 1989.
Alla mostra sono collegati due video, uno molto breve che corre in continuo in una delle sale dedicata proprio ai primi scontri e un altro, un pochino più lungo, di una mezz’oretta, che riprende un po’ tutto il percorso della mostra, con delle immagini per molti versi inedite in occidente; è uno stralcio di un documentario mandato in onda dalla televisione ceca nel maggio scorso, in cui tra l’altro compare un frammento di un’intervista a Jan Palac, nel letto d’ospedale, fatta nei giorni che intercossero fra il suo bruciarsi vivo in piazza e la sua morte, una cosa davvero commovente. Vi invito a guardarlo anche perché, a parte le interessanti corrispondenze che si trovano fra le immagini del video e alcune delle fotografie, certamente la forza del video, i personaggi che vi compaiono – c’è un intervento molto bello di un giovanissimo Havel proprio a seguito del sacrificio di Palac -, hanno una forza e una immediatezza che la fotografia, statica, non ha. La mostra, come dicevo, tratta del termine, del culmine, dell’epilogo di un momento storico, di un esperimento che ha radici più profonde e che si è svolto concretamente nell’arco di tempo che va da gennaio a luglio del 1968. E qui la lascio la parola a Enzo Bettiza, che ha ricostruito…, ha vissuto in prima persona, come dicevo prima, questo lungo periodo, questi sei mesi di tensione, di desideri, di piccole conquiste, e che può raccontarci meglio che cosa è stata la primavera di Praga. Grazie.

ENZO BETTIZA:
Buon pomeriggio, buon pomeriggio a tutti. Quando andrete a vedere la mostra fotografica di cui vi ha parlato Chierici, vi accorgerete che la violenza è statica nelle vie di Praga, non è una violenza esplosiva, apparentemente molto assassina, crudele, no, ci sono i bellissimi palazzi di Praga, tra i più belli in Europa, ci sono dei carri armati che sembrano calati da Marte in mezzo a un centro urbano non fatto per accoglierli, intorno molti giovani studenti, studentesse, tranquilli, che chiacchierano spesso con i carristi russi, che non sanno dove si trovano. Molti di questi giovani russi che erano stati mandati a schiacciare la Cecoslovacchia ribelle, non si sa ribelle di che, credevano di trovarsi, per manovre militari speciali, in Ucraina o in Romania. Non sapevano che erano giunti nel cuore, loro, slavi, di una delle più antiche, più civili città slave d’Europa. Questi grandi slavi erano giunti fra questi civilissimi piccoli slavi, senza sapere che erano stati mandati lì dai loro padroni moscoviti per schiacciarli e per togliergli la libertà che volevano riavere. Poi vi dirò che cosa significa per un Cecoslovacco riavere la libertà, la democrazia che volevano ricostituire, poi vi spiegherò che cosa significa per un Cecoslovacco ricostituire la democrazia, per riavere anche la dignità nazionale, e poi vi spiegherò subito che cosa significava per un Cecoslovacco riavere la dignità nazionale.
La Cecoslovacchia era la Boemia e la Moravia da una parte e la Slovacchia dall’altra, che dopo il 1918, crollato l’impero austro-ungarico, formeranno una bi-nazione. I Boemi, i Moravi, gli Slovacchi costituivano, all’interno del multi-nazionale e multi-confessionale impero austro-ungarico, un bulbo di intensissima civiltà, industriale, culturale, accademico-universitaria – una delle più antiche università d’Europa è quella di Praga – oltre che politica. Ora, nei confronti dell’impero austro-ungarico i Boemi hanno sempre rappresentato, accanto agli Ungheresi che comandavano molto di più, un’aspirazione nazionale che Vienna non gli ha mai accordato e che loro volevano sempre ottenere. Caduto l’impero austro-ungarico, abbiamo avuto nei vent’anni fra le due guerre, fra le due guerre mondiali e europee, un’efflorescenza, un tripudio di orgoglio nazionale, di capacità tecnica, di libertà e di democrazia, quali in Europa non ce n’erano. L’unico punto di confronto che poteva reggere la civiltà cecoslovacca, dei cecoslovacchi, fra le due guerre, era la Svizzera. Sia la Svizzera, che la Cecoslovacchia erano considerate le due piccole nazioni europee che meglio avevano appreso i metodi di vendita e di distribuzione delle merci americane e che meglio avevano saputo adottare, nell’epoca dei grandi totalitarismi, fascismi, nazional-socialismi, bolscevismi, che circondavano l’Europa, la vita democratica e le istituzioni della libertà. I comunisti, che erano stati radiati da tutti gli stati fascistoidi del tempo, dall’Ungheria, dalla Romania, dalla Jugoslavia, dalla Bulgaria, avevano le loro organizzazioni molto prospere, molto ben costruite, nella libera Cecoslovacchia, governata da un filosofo che si chiama Masaryk e da un uomo politico molto notevole che si chiamava Benes, cioè due presidenti di una nazione che fra poco sarebbe stata inghiottita da Hitler con la famigerata truffa di Monaco. Ecco, questo per capire, questa prolusione un po’ storica per capire che cosa vedrete fra poco, questi inutili carri armati che entrano come nel burro in una società, in una duplice nazione slava, con la gente che non tocca un fucile, che non spara contro nessuno. Tant’è che, a differenza di quello che accadde dodici anni prima in Ungheria, dove gli ungheresi non slavi, non liberati dai russi, ma durissimamente occupati dai russi, – gli ungheresi avevano mandato insieme con le armate hitleriane loro soldati a invadere e fare la guerra alla Russia – ebbene, a differenza di questo duro scontro di dodici anni prima fra i magiari e i russi slavi, lì non c’era nessuno che sparava contro i russi, ed era stato molto più facile per i russi, per i russi occupanti dell’Ungheria, trovare un Quisling, un governante fantoccio, che trovarne uno in Cecoslovacchia. Tant’è che uno dei più grossi paradossi di questa occupazione del nulla, di questa occupazione del vuoto, di questa occupazione irreale, priva di ogni senso, fatta con settemila carri armati e cinquecentomila soldati, cinque armate di cinque paesi del patto di Varsavia, è che si è ridotta a che cosa? A dover rimettere al potere Dubček, Alexander Dubček, arrestato, lavato a fondo nel suo cervello e rimesso a Praga a sostituire se stesso. Dubček è stato rimesso a sostituire Dubček, perché in quella situazione di vuoto assoluto i russi non riuscivano a trovare un fantoccio degno e capace di poter governare il paese occupato. Dunque, quello a cui noi abbiamo assistito, qui vedo molti giovani, vedo anche molti spettatori attenti di età media, non tutti si ricordano quello che accadde, ma noi abbiamo vissuto nel ventesimo secolo in Europa, noi abbiamo vissuto dei momenti di una terribilità, come dire, fatale, nella seconda metà del secolo scorso, una terribilità che ha avuto una escalation continua, soprattutto nei paesi satelliti occupati dall’Unione Sovietica. I comunisti italiani, occidentali e francesi, soprattutto italiani in particolare, ci hanno sempre abituato a considerare il mondo comunista in maniera duale, in maniera dualistica, dicendoci sempre che da una parte c’erano i comunisti buoni all’opposizione, i comunisti occidentali, i quali si opponevano a governi capitalisti reazionari stimolando e fortificando le istituzioni democratiche dei nostri paesi, in particolare Italia e Francia, che conoscevano, che ospitavano i due partiti comunisti più importanti del mondo occidentale; e dall’altra parte, diceva Togliatti, c’era al potere un comunismo cattivo. Il comunismo, quando è buono fa l’opposizione, e quando è cattivo governa. O se volete, quando governa è cattivo, quando si oppone è buono. No. La verità comunista dell’Europa non era duale, era triangolare, nel senso che avevamo da noi i buoni comunisti che facevano l’opposizione, avevamo poi i cattivi comunisti al potere a Mosca, ma avevamo anche i comunisti di mezzo, i comunisti né buoni né cattivi, i comunisti nazionali in Polonia, in Cecoslovacchia, un tempo, prima della rottura con la Russia, in Yugoslavia, in Ungheria, avevamo dei comunismi intermedi che hanno pagato caramente e salatamente il fatto di essere occupati, anziché liberati, dall’Unione Sovietica. Eh, questi nostri famosi e buoni comunisti di opposizione! Prendiamo per esempio il partito comunista italiano: quando si tratta di schiacciare l’Ungheria, che cosa fa Togliatti? Brinda con un bicchiere di vino rosso in mano, brinda alla repressione degli Ungheresi, e non soltanto, ma induce, preme nei confronti dei sovietici perché Nagy e Maleter vengano impiccati dopo l’insurrezione ungherese. Togliatti non ci sarà più quando Dubček verrà arrestato, condotto a Mosca e riportato a Praga dai russi, ma ci saranno Longo e ci sarà già in arrivo Berlinguer. Che cosa faranno questa volta i comunisti occidentali, i francesi, gli italiani? Deploreranno, deploreranno. Noi spesso leggiamo nei giornali che hanno condannato l’intervento di Praga. No, non hanno condannato. Hanno deplorato. Cosa significa deplorare? Significa giustificare l’aggressore e compatire l’aggredito. E’ questo che accadde. Non soltanto questo, ma se noi andiamo a vedere bene in fondo come stanno le cose, dopo due mesi, nel settembre del ’68, Longo spedisce Cossutta a Mosca a ricucire quel tanto di incrinatura che si era creata con la flebile deplorazione di Longo nei primi giorni d’agosto. Cossutta va a Mosca, parla con Suslov, che era l’ideologo sovietico di maggior punta al tempo e riesce in qualche maniera a ricucire. Berlinguer, Berlinguer Enrico, sul fatto che la base comunista avesse dei sussulti di simpatia per i carri armati russi, diceva: la nostra base ha dei sani riflessi di un sano istinto di classe. Amendola, l’uomo della destra comunista, l’uomo che rappresentava un po’ il travaso della tradizione filosofica crociana nel partito comunista di Gramsci, disse: il socialismo dal volto umano non è altro che uno slogan agitatorio. Voi capite che questo povero paese di quest’antica e profonda civiltà, che era la Cecoslovacchia, abbandonata alla zampata dell’orso russo, non trovò nel mondo occidentale nessun appoggio, non trovò nessun grande appoggio di potenza politica e militare nelle grandi nazioni come l’America, l’Inghilterra e la Francia, perché c’erano i famosi patti di Yalta, che spartivano l’Europa in supposte zone di influenza. Non c’era nei movimenti del sessantotto occidentali nessun interesse per l’unico sessantotto degno di memoria e di stima, che era quello cecoslovacco, tant’è che uno dei prìncipi giovanili del sessantotto europeo, il tedesco Rudi Dutschke – ve lo ricorderete, chi ha l’età per ricordarsi, quando venne ferito a Berlino da un imbianchino neonazista – bene, Rudi Dutschke nel 1978, dieci anni dopo, poco prima di morire, rilasciò questa intervista, che in qualche modo spiega il sottotitolo del mio libro, che parla di una rivoluzione dimenticata. Disse Rudi Dutschke all’intervistatore: in retrospettiva il grande evento del sessantotto europeo non è stato Parigi, il maggio parigino, è stato Praga, ma all’epoca non potevamo rendercene conto. Non potevano rendersene conto perché erano senz’altro troppo impegnati nella rapsodia pancomunista, che vedeva nei cortei, indistintamente venerati e contraddittoriamente, Mao, Ho Ci Min, Stalin, Trotzky assassinato da Stalin, Che Guevara mandato allo sbaraglio in Bolivia da Castro. Questa rapsodia comunisteggiante, che in qualche modo imbandiva i piatti e le piazze dei sessantotto italiani ed europei occidentali, in un certo senso era assolutamente insensibile, assolutamente indifferente a comprendere le ragioni del sessantotto dei giovani orientali. E a questo punto vorrei leggervi brevemente quello che un noto dissidente polacco, molto noto, Alexander Smolar, che visse le due esperienze: lasciò la Polonia negli anni settanta, prima ancora degli anni settanta, e visse un po’ il sessantotto europeo nell’ottica di uno che aveva visto anche il sessantotto orientale, ed è interessante quello che lui scrive e dice, è molto interessante. Ascoltate attentamente quello che questo acuto osservatore dell’est diceva a quel tempo: “Gli estremisti occidentali avevano un’idea di libertà completamente diversa da quella dei giovani polacchi e cecoslovacchi. Mentre la nostra idea di libertà, la nostra, polacca e cecoslovacca, dice lui, era un’idea tradizionale, liberale, non violenta, per loro, per i giovani occidentali, ogni vincolo era un impedimento all’esercizio della libertà. Diversa da quella dei rivoluzionari occidentali, era anche la nostra idea di democrazia, nostra, cecoslovacca e polacca: loro, gli occidentali, parlavano di democrazia diretta, consideravano la loro come una democrazia formale e falsa, rifiutavano così quelle istituzioni che per noi costituivano un modello ideale. Criticavano il mercato e la società dei consumi, cui tutti noi ambivamo. Il sessantotto esasperò l’antinomia tra protesta e norma costituita. Lo spirito del sessantotto occidentale fu la negazione delle regole, dei doveri e della legge, la legge del diritto, la legge delle convenzioni sociali, la legge morale della tradizione e persino la legge marxista della storia. Sui muri si leggeva: sii realista, chiedi l’impossibile; vietato vietare. I manifestanti della primavera di Praga non hanno mai pensato di sovvertire le regole, al contrario, nel lottare per la libertà il loro obiettivo era imporre le regole del diritto e dell’etica, imponendole al regime, qualunque esso fosse, per limitarne gli abusi. Dunque, da una parte noi avevamo una ricerca di riformare la democrazia con metodi violenti e illegali; dall’altra parte non avevamo nessuna volontà di distruggere qualche cosa, se non di riportare, a Varsavia come a Praga, quei germi di libertà e di democrazia, soprattutto a Praga, che erano fioriti negli anni tra le due guerre, non solo, ma anche all’egida di uno degli imperi, dei grandi imperi europei, quello austro-ungarico, che aveva un grande senso del diritto, del rispetto dell’individuo, e anche, dove era possibile e necessario, anche dello spirito di nazionalità. Non dimentichiamoci che la Cecoslovacchia ai tempi dell’Austria fiorì, ai tempi della Russia slava deperì”.
Ecco in poche parole quello che io volevo dirvi, quello che io volevo comunicare da un’esperienza personale. Al di là della Cecoslovacchia, al di là della Polonia, al di là della Russia, della Bulgaria, dell’Ungheria, paesi che conosco, nei quali ho passato gran parte della mia vita per ragioni di lavoro, ma anche al di là del paese dove sono nato, io sono nato in Dalmazia, al tempo in cui diciottenne vidi anche qui l’impiantarsi di un potere comunista che mi obbligò all’esilio, dopo di ché girai e conobbi in profondità tutto il mondo comunista, tranne la Corea del Nord e Cuba, ma dalla Cina alla Germania Orientale, dalla Yugoslavia alla Bulgaria, e soprattutto per giungere alla Cecoslovacchia sfortunata del 1968, posso dire e posso garantirvi, per quanto riguarda la mia esperienza personale, che tutto quello che vi ho detto è frutto di un incontro diretto con la storia, non è frutto di uno studio della storia. E’ diverso incontrare la storia e viverla sulla propria pelle ed è molto diverso studiarla sui libri. I libri, gli articoli, i libri che ho scritto, hanno la loro importanza, senza dubbio, anche per la mia carriera, per la mia vita, ma per me molto più importante delle pagine cartacee che ho dedicato alla storia è stato, per esempio, questo mio incontro con voi, con la parola diretta, per dirvi che cosa ho tratto dalla storia come lezione e come speranza, attraversandola e soffrendola, in maniera diretta. Grazie.

MODERATORE:
Io ringrazio di cuore Enzo Bettiza per questa testimonianza. Queste ultime parole che ci ha detto mi hanno veramente toccato profondamente. E’ proprio vero che è diverso vivere la storia dallo studiare la storia, e quello che noi siamo chiamati a fare, e che ci ricorda anche il titolo del Meeting di quest’anno, è proprio vivere la nostra storia, perché la storia non è soltanto il passato, ma la storia è oggi, la storia è l’istante che stiamo vivendo noi, che stiamo vivendo noi oggi, qui e ora, e sappiamo bene che, o accade qui e ora, o non ha senso.
Vorrei appunto prendere spunto da una frase che Havel scrive nel 1978 in un suo libro, Il potere dei senza potere, per tornare un attimo al tema della mostra. “Il tentativo di riforma politica non fu la causa del risveglio della società cecoslovacca, ma il suo esito ultimo”. Ecco, credo che la lezione che possiamo trarre dall’esperienza cecoslovacca, dalla primavera e poi dal percorso successivo degli anni a seguire fino al risveglio di Charta 77, cui accennavo in apertura, sia proprio questa costante tensione a mantenere viva la ricerca del significato, la domanda di significato del proprio essere, del proprio agire, del proprio vivere. Perché là dove questa domanda è viva, prima o poi trova il modo di emergere, mentre il grande pericolo che viviamo tutti è proprio quello di intorpidire la domanda, di intiepidire la domanda, e il gioco del potere su di noi è sempre quello di portarci a intiepidire la domanda, di ammorbidire la nostra domanda.
Ecco, io credo che questo resti come frutto di questo incontro. Sono molto grato a Bettiza per averci dato questa chiave di lettura, che vale non soltanto per la mostra, ma un po’ per tutte le esperienze e gli incontri che andremo a fare durante questo Meeting. Vi invito ovviamente tutti a visitare la mostra – ci sono delle guide molto brave che la presentano – a vedere il video e vi lascio ai prossimi appuntamenti di questo Meeting. Vorrei però, prima di chiudere, ringraziare quanti hanno collaborato alla organizzazione della mostra: Angelo Bonaguro, Dana Kundrova da Praga e Daria Rescaldani, gli architetti che l’hanno progettata, i ragazzi di Brera che hanno fatto una bellissima ricostruzione, la vedrete, dipinta, della piazza San Venceslao.
A voi ancora un grazie e ai prossimi appuntamenti.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

24 Agosto 2008

Ora

15:00

Edizione

2008

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri