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La pittura come liturgia
‘Una novella cassidica del XVI secolo narra di un re che, per timore di incombenti pericoli e di possibili svolte politiche, inviò lontano il suo unico figlio. Dopo anni di amara assenza, il figlio ricevette una lettera dal suo re-padre. Le notizie sul genitore, invece di rendere felice il principe-figlio, lo gettarono in uno stato di angoscia e di depressione: la lettera era il segno dell’amore del padre ma consacrava, senza speranza di un tempo diverso, la loro reciproca lontananza. Furono giorni di angoscia e di annientamento. Ma un giorno il figlio recuperò la speranza e la gioia, perché si accorse che, anche se non viveva accanto al padre, aveva con sé la presenza del padre attraverso la lettera, segno dell’esistenza del genitore e testimonianza del suo amore. E’ sempre così, per tutti, quando si vive l’attesa e il sogno più non ha tempo. Sono volati “anni corti come giorni”, Luigi Montanarini è “come una elessidra che si è pian piano svuotata”, e mai è venuto meno alla pittura, che per lui è stata destino di ubbidienza, progetto di fedeltà e ostinata ricerca. Andando via dal regno dell’arte a mani vuote, ha custodito sempre presso di sè la lettera-segno, testimonianza del Regno: la pittura. Per Montanarini, la pittura è stata sempre la traccia del Regno, il luogo ove poteva consumarsi il rituale liturgico della sua inquietudine teologica, del l’interrogazione sul contenuto dellasua fede cristiana, ossia del suo essere-nel-mondo attraverso la chiamata all’esistenza nella fede (e i frammenti, le riflessioni pubblicate in questo volume ne sono testimonianza esplicita). Nel lutto per la lontananza dal regno della visione, dal “faccia a faccia” col Padre, Montanarini consacra attraverso la pittura la sua esistenza come appartenenza a quel regno e come fedeltà alla tensione del desiderare l’origine di quello oscuro fondo che è la Fede. La riflessione sulla fede passa anche attraverso la fedeltà alla pittura, e non soltanto attraverso l’esegesi biblica o l’interpretazione teologica. In questo caso la pittura è luogo di salvezza o di perdizione. Con la pittura – è questa la testimonianza dell’opera di Luigi Montanarini – si può edificare il proprio essere-nel-mondo come ineluttabile destino a ricercare nel buio la fede e il progetto salvifico a cui il mondo è stato chiamato. Un canto vuol dire riempire una brocca, anzi, meglio, rompere la brocca. Romperla in pezzi. Potremmo chiamarlo Vasi infranti. Può accadere anche alla pittura di essere un vaso infranto, ove in ogni frammento si annida l’ansia del ricercare e si posa (rannicchiandosi) una briciola di fede. Perché la pittura è chiamata ad essere nel mondo non soltanto scienza, metodo del rigore della ragione per costruire l’esattezza delle intuizioni poetiche, ma ferita che esprime l’ansia dell’uomo, a porsi come rivelazione della coscienza. Per questo l’opera di Montanarini non è mai la scienza del colore, ma la coscienza del colore. Forse per questo è assente dalla sua opera il segno: Montanarini è il pittore della materia (in quanto colore e luce) e non del segno. E poiché la sua pittura è la coscienza del colore, essa non può non essere che tragica (l’epressionismo del proto-novecento e l’espressionismo astratto americano), e nel contempo luminosa (il fauvismo e altro), ingravidata dalla certezza della fede e dall’oscurità del ricercare senza comprendere. Una pittura colma di squilibri e di contraddizioni, oscillante per l’ascendere e il discendere, diagramma dell’avventura dell’uomo chiamato ad essere nel mondo senza essere del mondo. Una pittura dove non accade la comprensione, ma è attraversata e ferita da squarci di rivelazione poiché l’esistenza non è il segno del Padre ma dell’assenza-perdita del Padre e della lontananza dal regno che qui si svela “in aenigmate et per speculum”. Carmine Benincasa’