Chi siamo
LA PERSONA AL CENTRO DELL’IMPRESA
In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Giovanni Bertolone, Amministratore Delegato Alenia Aeronautica; Luca Ferrarini, Presidente Gruppo Ferrarini-Vismara; Natale Forlani, Presidente Italia Lavoro e Portavoce Forum delle persone e delle associazioni cattoliche nel mondo del lavoro; Umberto Paolucci, Senior Chairman Microsoft EMEA, Vice President Microsoft Corporation, Presidente Microsoft Italia. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Compagnia delle Opere.
BERNHARD SCHOLZ:
Buon giorno a tutti, benvenuti a questo incontro che ha come tema “La persona al centro dell’impresa”. Io dico subito che sono molto contento per il grande interesse che ha suscitato questo incontro, mi dispiace per chi dovrà seguirlo in piedi o tramite collegamento esterno, ma a chi sta in piedi dico che si fa ancora in tempo a trovare una sala con il collegamento esterno: ce n’è una qua a destra e una fuori. Faccio un’altra premessa: questo è un focus, perché quest’anno il Meeting distingue tra incontri e focus. Focus significa che ci focalizziamo su un tema nel quale alla fine c’è la possibilità per voi che ascoltate di intervenire, potrete porre le vostre domande agli interlocutori, che sono in questo caso: Giovanni Bertolone, Amministratore Delegato Alenia Aeronautica, Luca Ferrarini, Presidente del Gruppo Ferrarini-Vismara, Natale Forlani, Presidente di Italia Lavoro che è un’agenzia del Ministero del Welfare e Umberto Paolucci, Presidente Microsoft Italia e international partner Microsoft.
Il tema della persona al centro dell’impresa sembra un po’ scontato perché sembra inimmaginabile che oggi un’impresa non metta al centro la persona ma ciò di cui dobbiamo parlare seriamente è cosa significa mettere al centro la persona. L’impresa infatti ha bisogno che la persona esprima se stessa, ma le grandi o piccole organizzazioni portano anche un valore alla persona stessa, contribuiscono alla sua crescita. Come dice giustamente la nuova enciclica di Papa Benedetto XVI, o la persona è semplicemente un esecutore di grandi meccanismi, che riceve come beneficio un salario e poi basta, o c’è un rapporto reciproco, cioè il bene della persona può veramente essere il bene dell’azienda e il bene dell’azienda può essere davvero il bene della persona. È possibile orientarci in questa direzione? Sì o no?
Cominciamo con l’intervento di Giovanni Bertolone, che da lunghi anni lavora a Alenia, nel mondo di Finmeccanica, e nel mondo dell’aeronautica e quindi dispone di una grandissima esperienza di lavoro dentro un’azienda multinazionale.
GIOVANNI BERTOLONE:
Immaginate per un attimo che possa esistere un nucleo perfette di imprese che abbiano un sistema intelligente di software, magari della Microsoft, capace di una gestione globale secondo i più aggiornati metodi tecnologici, organizzativi, industriali, economici e finanziari. Un nucleo di impresa che funzioni perfettamente. Pensate che questo possa bastare? Io penso proprio di no, nel senso che non c’è quel tipo di conoscenza o quella dinamica della conoscenza che il Meeting ha messo a tema quest’anno. Che cos’è che manca? Manca l’irrompere quotidiano di fatti nuovi, manca la lezione che si può imparare da ciò che la realtà fa accadere, rispetto alla quale tutti questi meccanismi perfetti richiedono immediatamente un riadattamento. Quello che voglio dire innanzitutto è che non esistono due sfere separate, da una parte la vita, la vitalità dell’impresa, e dall’altra la vita e la vitalità della persona. Ci sono scuole di pensiero che pensano che queste due cose debbano stare separate. L’uomo è l’uomo integrale, sia quando fa l’imprenditore, sia quando fa il padre di famiglia, sia quando va a bere con gli amici al bar. Quindi già questo punto, secondo me, è fondamentale: non c’è una separazione tra queste due realtà. Faccio un esempio di tentativo di costruzione di sistema perfetto. Per qualche anno, qualcuno della finanza ha voluto far credere che si potesse moltiplicare ricchezza basandosi solo su complesse architetture finanziarie. A questo proposito mi piace citare qui un passaggio di Oscar Giannino che ha fatto recentemente una intervista: “Due o tre generazioni dei più raffinati cervelli mondiali sono cresciuti nella convinzione che i modelli del rischio finanziario autoprodotti dagli intermediari investitori, fossero la realizzazione dell’Eden in terra”. Non sarà facile far cambiare idea a 500 tra accademici e banchieri, che nel mondo contano davvero quanto ad influenza su chi oggi si specializza in “corporate finance”. Ci vogliono anche dei buoni maestri per imparare delle cose nuove. In ogni caso questo ipotetico modello finanziario perfetto è andato in briciole in pochi giorni, l’ottobre scorso. Che cosa l’ha fatto andare istantaneamente in briciole? Secondo me due fattori, che sono in realtà fattori comuni alla nostra esperienza umana: il primo è la fiducia, in questo caso generalizzata come fiducia del mercato perché non si vuole ammettere che c’è una dimensione innanzitutto personale, comunitaria; il secondo fattore è il legame con la realtà, in questo caso il legame con la realtà produttiva, con un economia reale. Allora la ripresa della crisi sarà un percorso complesso e interattivo all’interno della globalizzazione, ma la dimensione umana che è a tema oggi speriamo che abbia un ruolo essenziale salvavita.
La persona al centro dell’impresa impone una reazione dinamica tra i modelli industriali di cui sopra ed il reagente umano fatto di competenze, esperienze, passione per la realtà, innovazione e, perché no, gratuità, creatività, relazioni. In altri termini, l’impresa ha bisogno di tutta l’energia potenziale di ciascun collaboratore che potrebbe trasformarsi se e quando si sentisse protagonista del proprio lavoro. L’impresa diventa così in primis una comunità di persone, legate da comuni interessi che interagiscono in uno spirito di servizio al bene comune, il quale include ovviamente il profitto, cioè la salute economico-finanziaria dell’azienda e la capacità competitiva, cioè la possibilità di sviluppo ulteriore. I luoghi comuni della mentalità dominante sul lavoro sono invece, al di là degli slogan, potentemente riduttivi rispetto agli interessi della persona. Alla fine si riassumono in soldi, potere e carriera. Occorre invece dire che la fecondità operativa si scatena per altre ragioni, oltre a queste, e trova ben più profonde motivazioni nel costruire il bene comune attraverso alcune libertà: libertà di pensare, libertà di proporre, libertà di decidere, di sentirsi partecipi ai successi, di imparare dalle sconfitte. L’uomo tende per sua natura a costruire, ma si lascia facilmente deviare se, nell’ambito in cui lavora, ci sono elementi di sfiducia e di egoismo.
Per questo ho ben chiaro, e questo è il secondo passaggio che volevo sottolineare oggi, che chi occupa posizioni di comando nell’impresa ha una fortissima responsabilità esemplificativa, deve cioè dichiarare apertamente qual è il concetto che ha dell’impresa, e poi lo deve almeno tentativamente perseguire. I collaboratori guardano soprattutto i propri responsabili, come si rapportano con il lavoro, come esercitano l’autorevolezza. In altre parole, li guardano come si guardano dei maestri. E dall’esito di questo sguardo si gioca molto per la possibilità di costruzione del bene comune. La recentissima enciclica di papa Benedetto XVI riprende, con il tratto della modernità dei tempi, la dottrina sociale della Chiesa, proprio dimostrando quanto essa sia, non tanto una sorta di guida sociale del cristiano, quanto piuttosto la vera strada comune. Una breve citazione: “Accanto al bene individuale c’è un bene legato al vivere sociale delle persone, il bene comune. E’ il bene di quel noi tutti, formato da individui, famiglie, gruppi intermedi, e l’impresa è un gruppo intermedio, che si uniscono in una comunità sociale. Volere il bene comune, adoperarsi per esso, è esigenza di giustizia e di carità”. Quando io penso all’azienda che ho l’onore di guidare, Alenia Aeronautica, dove, settore aeronautico incluso, lavorano oltre 13.000 persone, che a loro volta garantiscono una vita dignitosa alle loro famiglie, o quando penso a Finmeccanica, la capogruppo, e alla sua crescita di questi anni a tutti i livelli, da una parte inevitabilmente nasce l’orgoglio dell’appartenenza ma c’è sempre uno stimolo a fare di più, è quasi un chiodo fisso, per assicurare il benessere presente e futuro. Faccio un esempio. In Finmeccanica, quando si tratta di decidere su grossi programmi che hanno caratteristiche di medio-lungo termine, decenni per intendersi, nel mondo aeronautico bisogna dare per scontato che nel frattempo potrebbero accadere delle crisi. Ad esempio negli ultimi dieci anni le torri gemelle e la crisi finanziaria dell’anno scorso e di quest’anno. La coscienza imprenditoriale deve valutare questi rischi e per questo cerca, se è responsabile, una collegialità decisionale che cementa poi anche dei rapporti personali di stima e perfino di amicizia. Questa è una caratteristica del top management di Finmeccanica: un rapido processo decisionale e autorizzativo nei confronti delle aziende controllate, cui spetta comunque il compito, da una parte, di fare proposte ben definite, e dall’altra di una esecutività positiva e di successo. Cioè, questo aspetto della persona gioca un ruolo importante anche dentro lo stile manageriale. E a giudicare da quelli che sono i risultati degli ultimi anni di Finmeccanica, mi sembra che porti a un grande successo.
Nella seconda parte dell’intervento, che sarà brevissima, vorrei riprendere una parola che ho già citato, la parola fiducia. “Fiducia” ha la stessa radice etimologica della parola fede, con la effe minuscola. E proprio su questo punto voglio fare tre brevi passaggi tratti da “Si può vivere così” di don Giussani. Si chiama fede, conoscenza per fede, il riconoscimento della realtà attraverso la testimonianza che porta un altro. Tutta la cultura umana si basa sul fatto che uno incomincia da quello che ha scoperto l’altro e va avanti. Se l’io fosse patologico, stenterebbe a fidarsi, non riuscirebbe a fidarsi, e conoscerebbe molte meno cose. Questi passaggi, che sono passaggi molto semplici nella vita normale, in famiglia, sono cose che si capiscono molto bene, però hanno anche una valenza dal punto di vista dell’impresa, una valenza fondamentale. Infatti non c’è il minimo dubbio che a parità di condizioni, l’azienda che va meglio è l’azienda in cui questo aspetto di fiducia, sia a livello orizzontale, a livello di colleghi, sia a livello verticale, nei rapporti col management, è più sviluppata.
Questo tema ci fa riflettere, perché se si dice che l’elemento irrinunciabile per il rilancio dell’economia è la fiducia dei mercati, dopo poi bisogna essere coerenti su questo, perché il mercato è una entità astratta. Da lì bisogna essere coerenti fino a declinarne la possibilità fino all’ultimo collaboratore dell’azienda. Quindi, se si basa la gestione dell’azienda e i corsi di formazione sul tema del bisogno dell’altro per fare meglio il proprio lavoro, della novità che l’altro mi porta – collega d’ufficio o collega di un’altra funzione o collega di un’altra azienda -, ecco, questo da una parte comporta una riflessione dal punto di vista di chi l’azienda la gestisce, per fare sì che il clima di fiducia sia più ampio e realizzabile, dall’altra impone un cambiamento importante del singolo lavoratore, il quale, se rimane alla mentalità comune che domina nelle aziende, è fritto, se pensa che lui si merita fiducia e gli altri no finisce male. Allora si tratta di girare questo tipo di discorso, facendogli capire che avere fiducia nell’altro non è un atto di generosità, ma un fatto essenziale che potenzia la capacità di realizzazione dell’azienda stessa.
Un’osservazione che mi veniva mentre scrivevo l’intervento, è che quando riprenderemo a settembre, parlerò con il direttore del personale e mi farò dire: “Nei nostri corsi di formazione, come viene trattato il tema della fiducia?”. Facendo presente un dato di fatto: che l’uomo che guarda la realtà in modo positivo, non fa un piacere alla realtà ma cresce di più lui, quindi non c’è nulla da perdere agendo così.
Bene, questi erano i temi che volevo toccare. E fino ad ora ho sempre parlato in termini relativi agli aspetti dell’esperienza, della ragione, della passione propri dell’uomo e quindi propri dell’imprenditore. Voglio però concludere con una frase che ho udito recentemente da un parroco in una piccola località vacanziera. Nella sua omelia, peraltro molto breve, diceva: “Nella vita occorre un’infinita capacità di ricominciare”. Per me il fascino è tutto in quell’aggettivo, infinito, che porta con sé il grande desiderio di una compagnia straordinaria. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Il gruppo Ferrarini-Vismara è una tipica impresa familiare di cui ci parlerà il primogenito e fondatore, e adesso presidente del gruppo, Luca Ferrarini.
LUCA FERRARINI:
Fondatore no, perché non l’ho fatta né io né i miei fratelli – noi siamo in cinque -, l’ha fatta mio padre alla fine degli anni ’50. E questo forse ha dato uno stimolo in più a noi fratelli nell’andare a condurre l’impresa, cioè nel prendere il testimone di una cosa fatta da un uomo che è partito da cose semplicissime, e che poi ha voluto passare dall’agricoltura all’agro-industria, creando valore nell’agricoltura, e l’ha voluto poi passare a noi. Ecco.
Io ho cinquant’anni e sono diventato presidente della Ferrarini quando avevo trent’anni. Non è stato un merito, è stata una responsabilità e poi sono stato fortunato: le cose sono andate bene, l’azienda da allora è cresciuta diventando una grande società. Oggi è la prima società in Italia in questo settore per valore prodotto e la seconda per tonnellate prodotte. A contare però sono state alcune ricette molto semplici, e credo di poter parlare qua in mezzo a persone con le quali più di una volta mi sono visto e con cui più di una volta ho toccato quest’argomento: qual è il segreto di aziende piccole, che hanno un dipendente, due dipendenti, tre dipendenti, o di aziende grandi, come la Microsoft, che non so quante decine o centinaia di migliaia di dipendenti possa avere? Il segreto è sempre quello: le persone sono persone, le persone sono al centro dell’impresa. Se un’impresa è piccola, di tre o quattro persone, probabilmente è più facile riuscire ad instaurare un certo tipo di rapporto. Quando ce ne sono 1500 è più difficile, quando ce ne sono 13.000 è più difficile, quando ce ne sono 100.000 diventa ancora più difficile. Però bisogna farlo tutti i giorni, perché secondo noi sia in un’impresa privata che una pubblica non può funzionare senza questo tipo di convincimento e di coinvolgimento. Noi crediamo che la mancanza di considerazione della persona sia alla base della grande crisi finanziaria, e se ne parlava proprio adesso, ne parlava l’ingegnere. Io credo che sia stato l’esempio più grande di non considerazione dell’individuo. 500 persone che inventano dei prodotti, degli strumenti finanziari, pensando di costruire architetture finanziarie non agganciate alla realtà, è come costruire una casa senza fare le fondamenta e pensare che questa casa poi nel tempo possa durare per sempre. Non si possono creare prodotti finanziari che non esistono, o che sono relativi, i sub-prime americani, e andarli a vendere, con ancora meno responsabilità e senso del dovere, a persone che si sono sempre fidate di ciò che comperavano da quell’istituto di credito o da quell’altra persona. È una follia.
Il presidente della FED, bisogna che si mettano un po’ d’accordo però, ogni tanto dice che siamo vicini a una piccola ripresa e si vede una luce, poi dopo pochi giorni torna a dire che c’è comunque molta strada da fare. Allora, o è tutto buio o c’è una luce, o ci siamo o non ci siamo. Poi è inutile dare delle date: probabilmente la situazione più importante, più grave più brutta, più pericolosa è passata, ma noi dobbiamo ricostruire e solo considerando il valore, la crescita e la considerazione dell’individuo potremo uscire da questa crisi. Non ci sono altri modi.
Abbiamo visto nei giorni scorsi che ci sono già delle banche che hanno detto: “Beh, è successo in Inghilterra, è successo in Svizzera, è successo in Germania, è successo in America. Siccome le cose non stanno andando poi così male, è il momento che il manager cominci a prendere dei bonus”. Non sono ancora state fatte delle regole, delle briglie, i regolatori, i certificatori, i controllori non hanno fatto niente di quello che dovevano fare durante tutti questi anni. Noi rischiamo di ripartire da questa situazione, dicendo: “C’è stato un grande temporale, abbiamo avuto tutti una grandissima paura, probabilmente un po’ di gocce sono cadute in casa, abbiamo danneggiato un po’ il nostro tetto, però alla fine la casa è rimasta in piedi. Quindi riprendiamo come prima”. Questo è il nostro modo. Nei latini questo modo è ancora più facile, nei paesi anglosassoni è più sentito il senso di responsabilità, però noi oggi siamo in un mondo globale, e questa crisi tocca tutti. Bisogna fare delle regole. Se non faranno le regole, conoscendo il lupo che perde il pelo ma poi ricresce, fra 10 anni probabilmente, o 15, potremmo tornare a vivere situazioni di questo stesso tipo.
Quando avevo trent’anni mio padre ne aveva sessanta, fortunatamente lui c’è ancora e fa il papà e il nonno di mestiere, che è un mestiere molto bello, almeno così dice lui. La scelta di fare un passaggio generazionale è quel tipo di scelta incredibilmente importante nella vita di una persona. Fare un passaggio a trent’anni significa considerare che le generazioni non sono più quelle dell’inizio del secolo scorso, che duravano praticamente quarant’anni: c’erano le famiglie patriarcali, il mondo e l’economia si reggevano sull’agricoltura e su cose molto lente. Allora vi dico: se voi guardate al mondo pubblico, se guardate l’età di alcuni banchieri italiani, fatta eccezione per un signore che è venuto qui qualche giorno fa, che è giovane, quanti anni hanno? Se guardate il mondo universitario, l’età o i nomi, i cognomi, sono sempre gli stessi che girano. Guardate i notai, guardate i politici, guardate tutto il mondo che alla fine fa funzionare la macchina amministrativa e politica italiana: è datato, bisogna che si svecchi perché non avremo possibilità di crescita se non faremo lavorare i giovani. Se i giovani diventeranno vecchi, non potranno più essere giovani e allora continueremo ad avere una società che è fatta funzionare da vecchi, e sarà una società di vecchi. Perderemo le nostre opportunità, perderemo le nostre scelte, perderemo l’organizzazione, la voglia, l’istinto, tutto ciò che muove il sistema delle cose. Non soltanto i denari muovono la ricerca, è anche la fantasia. Io vengo da una terra, Reggio Emilia, dove c’erano le officine reggiane che facevano degli aeroplani. L’Italia poi ha perso la guerra, però dalle officine reggiane sono nate tantissime piccole imprese che hanno fatto meccanica, e noi abbiamo un distretto in meccanica potentissimo, considerato uno dei distretti migliori e più importanti del mondo. Bisogna poter innovare, bisogna poter rinnovare anche l’età, andare avanti, svecchiare le strutture. È molto importante quindi, parlando dell’uomo nell’impresa, che l’uomo, come vediamo noi a casa nostra, possa alla fine avere una possibilità di crescita, che non ci sia un tappo sopra. È ora che i giovani di trent’anni comincino a prendere le redini di questa società, e se non sono trenta saranno trentacinque, ma è già troppo tardi, bisogna che ci muoviamo. I paesi vicini a noi, io ho la fortuna di girare il mondo, hanno gente molto più giovane di noi. A tutti i livelli.
Un’ultima cosa, poi mi fermo. Volevo toccare, non in modo polemico ma costruttivo, l’aspetto della cassa integrazione. Si parlava prima della grande responsabilità dell’imprenditore che non è un uomo solo quando va in azienda, l’imprenditore è uomo quando beve con gli amici, mangia il gelato, va a fare una passeggiata, va in azienda, si prende le proprie responsabilità. L’imprendere deve essere totalmente uomo. Noi non siamo d’accordo su come viene fatta la cassa integrazione oggi. Non voglio entrare in un ragionamento di welfare. Non sta a me farlo, non ne ho le competenze. Io vi parlo però di stile, vi dico quello che personalmente penso, nella franchezza e nella sincerità che ha sempre contraddistinto gli interventi e lo spazio che gentilmente mi è stato dedicato al Meeting. Quando l’anno scorso, a ottobre, cominciarono questi brutti fumi neri, quando le banche non prestavano i soldi – non che se ne prestino tanti ancora oggi -, la prima preoccupazione nostra è stata quella di dire: “Che cosa facciamo?”. E la mia prima preoccupazione è stata quella di perdere i soldi piuttosto, di mettere anche il bilancio in negativo, ma di non far fare un minuto di cassa integrazione a chi lavorava. Non lo dico perché voglio cercare un applauso da voi ma perché quando si fa questo mestiere, bisogna saper accettare quello che succede, con grande soddisfazione quando si guadagna e grande dolore quando si perde. Non c’è scritto da nessuna parte che si cresce sempre e si guadagna sempre: se si ha fortuna si cresce e si guadagna ma ci sono dei momenti dove questo non è possibile. Ci sono stati dei casi di imprese, anche dalle mie parti, nel mondo delle costruzioni, nel mondo della ceramica e in altri, con dei capitali molto importanti che non ci hanno pensato un secondo a mettere in cassa integrazione tutti i dipendenti, e parlo di 800 persone. E queste imprese avevano chiuso al 31-12-2008 dei bilanci formidabili. Al pensiero di una contrazione, di un blocco dell’edilizia non hanno pensato nemmeno un secondo. Io mi dissocio da questa categoria di imprenditori, il nostro gruppo non ha niente a che vedere con questa gente. Credo che l’impresa italiana, quella vera, non faccia parte di questo tipo di mentalità. Noi dobbiamo pensare che il nostro mestiere è lungo nel tempo e se sappiamo farlo tutti i giorni con onestà e con coerenza, ci darà sicuramente dei premi e degli ottimi risultati. Bisogna però aver la forza di saper guardare sempre lontano. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Umberto Paolucci, Microsoft.
UMBERTO PAOLUCCI:
Grazie. Chiarisco subito il punto: sono 91.000 le persone che lavorano con noi. In realtà abbiamo un modello molto indiretto. Quindi quelle 91.000 danno lavoro a circa 800.000 aziende, che mediamente hanno una quindicina di persone, quindi c’è un bell’effetto di moltiplicazione. Tornando al tema dell’uomo al centro, che è super affascinante, c’è un rischio elevatissimo di fare della retorica, di scivolare quindi sul buonismo. Bisogna stare molto sul concreto, su quello che si fa, su quello che si è sperimentato, su quello che si sta toccando, su quello che si sta soffrendo. Quindi anch’io passo al tema della crisi.
Sono d’accordo con l’amico Ferrarini: la crisi è nata anche dalla mancanza di rispetto per le persone. Abbiamo visto grandi numeri, cifre, piani, miliardi di storie di persone che hanno sofferto, che non hanno ancora finito di soffrire e che non hanno ancora capito che cosa sarà del loro futuro. Dobbiamo fare di necessità virtù. Cioè, noi siamo obbligati a prendere atto della realtà e dobbiamo cogliere questa occasione per rivisitare quello che stavamo facendo dal punto di vista delle persone. Io ho avuto la fortuna ed il privilegio, e ringrazio gli amici del Meeting perché mi invitano da più di 10 anni, di parlare di temi diversi, ho avuto anche occasione di parlare del tema della persone, e nel 2006 avevo ricordato una frase di Leopardi che diceva che “bisogna vivere di travaglio e non di intrigo”. “L’intrigo” in questo momento è identificabile con l’eccesso di sofisticazione della finanza rispetto all’economia del lavoro vero e duro di ogni giorno sulle cose, sulle persone. Quindi credo che noi dobbiamo tenere a mente questa lezione, che è l’unica possibile: dobbiamo avere a cuore il benessere delle nostre persone perché quella è la maniera corretta di fare impresa, non ne esistono altre, bisogna far sì che il loro potenziale venga fuori. Bisogna impegnarsi affinché da un rapporto piacevole, gradevole con la propria azienda, con una cultura che capiscono e che contribuiscono a formare, venga fuori il meglio della persona. Io vorrei parlare di questo, che è necessario in un momento di difficoltà e di incertezza. Non siamo in grado di dare delle risposte sicure in termini di quando finiranno certi fenomeni, in termini di quando si riprenderà ad assumere, però, tutto sommato, questo non conta: conta quello che facciamo adesso e quello che faremo man mano che la situazione si svilupperà. Dobbiamo prendere atto che il mondo è diverso, che non è più come prima, che stili diversi di vita si stanno affacciando, che i prodotti che avevano successo una volta adesso sono, per dirla semplicemente, inappropriati, non hanno più senso. Altri prodotti, altri comportamenti, invece, sono sulla cresta dell’onda di quello che è giusto, corretto ed auspicabile fare.
Ci troviamo dunque di fronte a uno sconvolgimento, a un prima e un dopo, nel quale credo che si debba ridisegnare non solo i prodotti, non solo i punti di forza dell’aziende, delle persone, ma il sistema operativo del pianeta. Noi dobbiamo ridisegnare il sistema operativo di questo pianeta con una governance diversa, con una maggiore efficacia di controlli, con delle regole che devono essere funzionali. Non mi dilungo su questo, però la sfida che abbiamo davanti è di grande portata. Alcuni elementi di crisi c’erano già prima che scoppiasse la bolla che, se non altro, ha fatto andare più veloci certi fenomeni e quindi ha creato con maggiore evidenza questo mancato accoppiamento in molti settori, in molti mercati, fra domanda e offerta, e quindi disoccupazione, quindi settori che hanno una capacità produttiva uguale al triplo di quello che il mercato chiede. E non è neanche questione di chiedersi di quando finirà, perché quando finirà il mercato non chiederà più le cose che chiedeva prima, ne chiederà delle altre. Questo vuol dire che le persone devono capire che cosa sta succedendo, devono avere un’idea complessiva, poi mi fermerò su questo punto, però devono capire qual è il loro compito. Noi dobbiamo anche rassegnarci al fatto che non è più possibile in molti campi mantenere lo stesso approccio che si aveva prima. Guardiamo semplicemente all’aspetto macro-economico e politico, guardiamo al nostro Paese, guardiamo ai dibattiti di questa estate sul nord che ha certe esigenze, sul sud che ne ha delle altre. Magari non è più possibile riuscire a mettere d’accordo queste cose con una misura che vada bene per tutti, dovremo essere più flessibili, gestire i numeri piccoli, fare in modo che il nostro marketing politico, piuttosto che il marketing tout court, sia aderente alla realtà, la quale va letta con attenzione perché non possiamo permetterci di leggerla meno bene degli altri. Questa è la sfida che deve passare attraverso le persone.
Come? Cerco di entrare davvero nel merito di questo tema. Dobbiamo fare in modo che le persone nella loro vita aziendale, in quella cultura che devono capire, come dicevo prima, che devono contribuire a formare, abbiano dei punti fermi. L’economia va su e giù ma i valori dell’azienda magari non vanno su e giù, sono fermi. Abbiano dei riferimenti sicuri che sono le amicizie, le fiducie, le stime, gli errori fatti insieme, le battaglie perse insieme che ci possono insegnare un sacco di lezioni. Quindi, quello che noi dobbiamo dire alle nostre persone in un momento come questo è “Ragazzi, cercate di farvi un’idea generale di quello che succede, però poi concentratevi sulle cose che potete creare voi, che potete modificare voi, non perdetevi nell’immensità dello spazio, perché non siete Obama, siete una persona che fa parte di una squadra, la quale fa parte di un gruppo più ampio di squadre e lì dovete misurarvi, dovete avere una metrica che preveda delle date, dei tempi, dei numeri, dei risultati, la soddisfazione del cliente, delle quote di mercato e quant’altro. Quella è la vostra sfida”. Questo è il primo messaggio.
Il secondo messaggio è che dobbiamo più che mai focalizzati sull’esterno. Niente logiche di corridoio, niente guardare all’interno, bisogna misurare il successo in termini di successo dei nostri clienti, cercando di capire quello che ai nostri clienti serve per andare avanti. Dobbiamo essere guidati dai risultati, non dalle chiacchiere, essere degli agenti di semplificazione, perché la vita è già complicata e noi dobbiamo semplificarla agli altri. Questo non vuol dire banalizzare ma segmentare problemi complessi in elementi semplici, trarre energie, trarre entusiasmo dal lavoro insieme, dal team, dall’essere con gli altri, dal vincere, magari anche perdere insieme: la differenza che c’è fra una squadra vera e una squadra che “un po’ così” si vede quando si perde, quando le cose vanno male. Una squadra raccogliticcia si disfa puntando il dito e cominciando a dire: “È stata colpa tua”. Una squadra robusta, invece, si rafforza di fronte a quello che va male, trova la forza per farla andar bene la volta successiva. È anche importante essere riconosciuti come eccellenti in certi campi perché questo non se lo risparmia nessuno. Ci vuole multidisciplinarietà, guardarsi attorno, vedere come raccordare il proprio campo con quello degli altri, riempire gli spazi ed essere più bravi di tutti almeno in qualcosa. Questo vale per un’azienda, per un paese, per una persona. L’ultima cosa che è opportuno fare è sviluppare un senso di imprenditorialità in tutte le persone, non solo nell’imprenditore, che in senso stretto da noi non c’è, perché io, in teoria, non sarei un imprenditore anche se ho una grande responsabilità. Ognuno deve avere il suo senso di imprenditorialità, sapersi prendere delle sfide, dei rischi, sapendo di potere anche sbagliare delle volte, come dicevo prima, in modo tale che poi uno può anche essere se stesso in un percorso leale, aperto, condiviso con le persone che gli sono vicine, fra le quali ci deve essere anche il suo responsabile, in modo che ad ognuno sia consentito di essere una persona vera, autentica perché è difficile, è complicato recitare sempre. Perciò, è meglio consentire alle persone di essere quello che sono in un percorso di miglioramento e poi, se avrò qualche momento nel prossimo giro, parlerò anche di questo.
Secondo me fa la differenza, è essenziale che ciascuno individui dei maestri. Io benedico i maestri che ho avuto: il più grande di tutti è stato, qui a Rimini, il grande professor Franciosi che mi ha cambiato la vita insegnandomi matematica e fisica al liceo scientifico. A me preoccupano i ragazzi che non sono in grado di rispondere a questa domanda: “Quale maestro ti ha cambiato la vita?”. Se l’università, se la scuola superiore non ha fatto questo, bisogna che lo faccia l’impresa, bisogna che ci siano delle occasioni, dei percorsi, delle opportunità, perché le persone altrimenti sono sole di fronte alle loro sfide.
E allora, mi avvio a concludere questo primo pezzo, quello che noi cerchiamo di fare è agire in modo che le nostre persone sappiano orientarsi, sappiano capire le altre persone, quelle che fanno parte della loro squadra in modo da capire in che direzione si gioca, così da intuire le priorità dei clienti perché è col loro successo che si misura il nostro successo, e poi capire il valore dell’amicizia, perché è lì che si trova la forza e l’entusiasmo di continuare. Noi non siamo in condizione di poter trovare delle scuse, delle giustificazioni, neanche in questo momento così difficile possiamo dire: “Il PIL cala, allora caliamo anche noi”. Non siamo nel business delle paure ma in quello della volontà, della voglia, della passione, per arrivare lo stesso ai risultati che ci servono. E se non ci si arriva, bisogna tirare fuori il massimo della conoscenza, chiedersi perché non ci si è arrivati, senza nasconderlo ma condividendolo. Credo che non si debba aver paura di perdere il proprio lavoro ma si debba aver paura di non fare le cose giuste, soprattutto in un momento in cui c’è un alto rischio di perdere il proprio lavoro, perché da come vengono fatte le cose dipende se il lavoro lo conserviamo o lo perdiamo. Alla fine l’obiettivo è aiutare le nostre persone a capire se stesse, i propri limiti, i propri punti di forza, aiutarli a capire che quasi sempre possono fare molto di più di quello che si sono castigati a fare.
Anche questo è un percorso, la responsabilità di un manager è anche questa. Pensate ai danni che può fare un manager, quanto malamente può colpire l’autostima di una persona con due parole e, invece, quanto bene può fare nell’adottare quelle pratiche che noi cerchiamo di far diventare pratiche comuni. Mi fermo qui perché ho parlato molto. Ho alcune altre cose da condividere ma, se c’è modo, lo farò dopo. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Passo la parola a Natale Forlani.
NATALE FORLANI:
Io cercherò di fare un po’ da bastian contrario, nel senso che è un po’ il compito che mi ha assegnato il presidente e cercherò di dare una lettura un po’ diversa. Sono anch’io un amministratore di azienda, di una Spa che è anomala nel nostro mestiere, nel senso che noi ci occupiamo del sociale senza fare attività sociale. Io cerco di dare una lettura di sistema per cercare di capire perché alcuni assunti che vengono dati per scontati, in realtà non lo sono affatto. I vent’anni di sviluppo che ci hanno accompagnato erano tutti interpretati su quattro paradigmi, quattro teorie interpretative date per scontate da tutti.
Il primo paradigma era quello per cui si pensava che di fronte al processo di globalizzazione, la centralità delle imprese e della persona umana fossero la risposta migliore per reggere la novità, cioè un sistema di modernizzazione che diventava ipercomplesso e iperdinamico, in termini di spazio e tempo. È chiaro che essendo disponibili capitali e tecnologie su scala globale la differenza la dovevano fare le persone, cioè loro erano chiamati ad organizzare, come è stato spiegato bene qua.
Altri due paradigmi erano di tipo indiretto: tutti i meccanismi di fiducia erano basati su questa dinamica, cioè che ci fossero dei sistemi relazionali in grado di consentire alle persone di avere delle loro dinamiche di reazione ai rischi della globalizzazione da una parte e dall’altra che ci fossero dei sistemi esperti che correggessero, tramite il mercato, le disfunzioni. I sistemi esperti sono quelli che noi troviamo tutti i giorni: se io vado sull’aereo, non so come funziona un aereo ma do per scontato che chi sta sull’aereo sia in grado di guidarlo. Quindi ci si basava sulla fiducia nei sistemi esperti astratti, che non sono comprensibili ai più, e sulla fiducia nei sistemi relazionali che sembravano essere due meccanismi che governavano un sistema sempre più complesso.
Ultimo paradigma: c’era fiducia nella globalizzazione perché si pensava che producesse più opportunità che rischi, cioè si credeva che rispetto al tasso di distruzione di attività consolidate, l’innovazione messa in moto su scala fosse molto più ampia e producesse delle opportunità superiori ai tassi di destabilizzazione che la globalizzazione comunque induceva. C’era tutto ciò che fa parte del rischio della modernità, quel rischio indotto dalla modernità stessa, che porta tutte le persone a dover calcolare ogni giorno le proprie scelte. Perciò, il protagonismo della persona nella modernità è un punto fermo, sia che noi siamo lavoratori, sia che siamo consumatori: tutti siamo costretti a convivere con questo sistema di calcoli che ti fa diventare protagonista dal basso.
Bene, quello che è andato in crisi è esattamente questo, e dobbiamo comprenderlo perché altrimenti ci si rifugia nel buonismo. Qui nessuno viene a dire che l’impresa perseguita le persone, oppure trasferisce alle persone i rischi derivanti dal rischio d’impresa, cosa che invece avviene abitualmente: oggi uno dei processi più diffusi è quello delle imprese che trasferiscono sui lavoratori i rischi della caduta produttiva. che può dire il contrario? Poi c’è l’amico Ferrarini che giustamente dice che gli imprenditori sono responsabili dell’azienda anche nei periodi di vacche magre, è cioè compito loro dare continuità ai rapporti di lavoro, aiutare le persone con percorsi di adattamento che hanno una funzione di responsabilità sociale. Ma le imprese non fanno assolutamente questo. Quando il sistema assume questo atteggiamento, fallisce, mediamente si può dire che ragionevolmente rischia di fallire. Vediamo di capire che cos’è che non funziona, perché in Italia vivono molti indicatori del fallimento dei paradigmi che ho ricordato.
Innanzitutto la fiducia nei sistemi esperti mi sembra largamente in crisi per un motivo molto semplice con cui continuiamo a fare i conti. Infatti mentre parliamo, quella che veniva data come ovvia origine della crisi, cioè la moltiplicazione della finanza astratta, sta ancora operando tranquillamente in questi giorni, cioè i problemi delle banche a livello di sistemi finanziari si stanno risolvendo esattamente coi meccanismi che ci hanno portato dentro la crisi. Se ci fate caso le oscillazioni dei prezzi delle materie prime legate ai prodotti derivati hanno ancora le tendenze di prima della crisi, né più né meno. Il primo problema con cui abbiamo a che fare è il dominio e la velocità delle attività finanziarie rispetto alle merci e alle persone. I tassi di adattamento di finanza, merci e persone sono estremamente diversi. È importante l’interazione tra capitale e produttività per abbassare i prezzi. Se noi guardiamo questi venti anni, diversi paesi hanno avuto problemi. Il motivo per cui si discute di riforma sanitaria in America è perché è fallita la centralità dell’impresa, perché era l’impresa che pagava le assicurazioni sanitarie, che oggi costano il triplo di quanto costa mediamente il sistema italiano, per cui le imprese in difficoltà tendono a fuoriuscire esattamente dal sistema delle garanzie che non sono in grado di sostenere con le novità emerse in campo mondiale. Possiamo guardare non solo all’America ma a tutti gli altri paesi: dovunque gli indicatori di coesione sociale sono diminuiti, anche laddove è aumentato il tasso di occupazione, come in Italia, dove i posti sono aumentati di tre milioni. Nonostante questo, per quanto riguarda la distribuzione del reddito e delle opportunità nei paesi occidentali, vediamo che la forbice tra le fasce alte e le fasce basse è aumentata, e vediamo che il comportamento medio delle imprese è stato quello di rispondere remunerando bene il capitale e abbassando i costi per rimanere competitivi. Questo sicuramente è stato fatto cercando di coinvolgere la forza lavoro, ma in modo limitato: l’investimento nel capitale umano è diminuito del 25%.
Quando si dice devi comunicare per cambiare, adattare, progettare, non si parla più degli operai, si parla di quelle figure predisposte al cambiamento delle imprese, ma se non si produce gli operai vanno a casa: questo è un altro tipo di coinvolgimento, cioè il grosso del rischio è stato trasferito alla forza lavoro, che è chiamata a rispondere in modo difensivo. Certamente è importante che ciascuno ci metta del suo per adattarsi alla novità, ma non in termini, diciamo così, propulsivi, di dinamica sociale. Si fanno certe cose per evitare che vada peggio, le strategie difensive sono oggi uno degli elementi dominanti. Quasi tutti i paesi sono andati in crisi e le politiche dei redditi, cioè i sistemi e gli attori che governavano gli scambi tra incremento e sviluppo di produttività in tutti i paesi occidentali, hanno avuto questo tipo di processo. Alcuni paesi hanno anche riposizionato il sistema delle protezioni, delle tutele, anche con importanti strumenti produttivi, hanno fatto la riforma del welfare, hanno curato le politiche attive del lavoro. Mediamente i sindacati sono spariti dappertutto e il tema della responsabilità sociale delle imprese – ne parlavo prima con il presidente – è diventato un po’ una specie di marketing per coprire i comportamenti reali: quante imprese americane hanno adottato i codici di comportamento etici, di efficienza, di rispetto delle regole? La maggior parte rimane assolutamente autoreferenziale e avalla i comportamenti che vanno nella direzione opposta a quello di cui c’è bisogno. Se vogliamo uscire da questa situazione, bisogna capire davvero che cosa significa mettere le persone al centro dell’impresa. Mettere al centro la persona vuol dire partire da principi non economici: non “devo fare così perché mi serve, perché l’azienda deve essere di un certo tipo”, ma bisogna concepire l’impresa come uno dei canali di promozione della persona umana, di sviluppo del talento, di utilità sociale, di capacità di affrontare anche le questioni sociali. Quindi non bisogna vedere “la persona al centro” in una logica meramente competitiva, anche se ovviamente non deve essere ignorata. Non sto dicendo che l’impresa deve farsi carico di tutti i problemi sociali, perché fallirebbe, ma l’impresa, individuale o associata che sia, ha il dovere di capire che la capacità competitiva è il prodotto di una serie di investimenti che non sono legati alla logica del prezzo, ma alla logica di presentazione del capitale umano e sociale da cui non ci si può estraniare.
Volete un caso italiano di debolezza di questo sistema? Vi risulta che il rapporto tra scuola e lavoro in Italia sia efficace? Noi siamo il Paese che meno utilizza il capitale formato di tutto il mondo. È sicuramente un problema della scuola, ma anche l’impresa deve formare persone adeguate, sperimentare, rinnovare e inserire i giovani. Questo è un problema dell’impresa e deve essere legato ad una logica di riproduzione e di sviluppo, di implementazione di quei fattori che poi fanno la differenza sia nei sistemi competitivi sia in quelli non competitivi.
In Italia ci sono una serie di problemi che certificano che questo non avviene. Ve ne dico alcuni. Siamo il Paese, fra quelli sviluppati, che ha il più grande dualismo mercato-lavoro, è assurdo, ha un tasso di inclusione dei giovani più basso degli altri, ma soprattutto siamo il Paese che disperde di più il capitale formato, abbiamo il più basso tasso di occupazione femminile, dove uno degli indicatori di successo e modernità più importanti è proprio il tasso della occupazione femminile. Siamo il Paese che investe di meno nel sostegno dei carichi famigliari e non a caso il nostro sistema di servizio alle persone è il peggiore di tutto l’Occidente. Siamo il Paese che non considera il tema degli anziani attivi come un problema centrale per un paese che sta invecchiando, come il Giappone e la Spagna, dove però avrà un effetto ritardato ma hanno il più alto tasso di invecchiamento della popolazione.
Se questi problemi non vengono assunti dall’impresa e dalle associazione di imprese, ovvero dalle parti sociali come elementi fondanti, la coesione sarà difficile. E tutto questo nonostante i nostri grandi punti di forza: cioè la presenza di piccole e medie imprese che stanno a dimostrare che ci sono un sacco di persone che ci mettono l’anima nell’impresa o il fatto che il sistema finanziario italiano sia rimasto legato alla vivacità e alla capitalizzazione delle impresa-famiglia. Questi punti di forza, però, non basteranno ad affrontare la crisi. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Visto che non è rimasto troppo tempo, saltiamo il secondo round di interventi e do la possibilità a voi in sala di porre le vostre domande, se ne avete.
DOMANDA:
Tralascio la presentazioni, dico solo che sono un impiegato e mi allaccio allo spunto provocatorio, che ha un grosso fondamento di verità, del fatto che si fa “il marketing della centralità della persona”. Io questo lo constato all’interno del mio contesto lavorativo e anche in quello di altre imprese che conosco, parlo soprattutto di grandi imprese. C’è la moda negli ultimi anni, e prima ancora dello scoppio della crisi, di esaltare la centralità della persona, la centralità del cliente, si fa un gran parlare e poi ci si ritrova in una situazione in cui si è velocizzato moltissimo il cambiamento da un sistema “bottom-up”, con più partecipazione, a uno “up-bottom”, “up-down”, con scarsissima partecipazione. Questo è avvenuto anche grazie alla complicità più o meno cosciente di parti sociali sindacali con il fronte antagonista, a cui fa molto comodo la verticalità: c’è legittimazione reciproca tra il centro decisionale delle grandi aziende e il sindacato antagonista. Se si volesse invece investire davvero sulla centralità della persona reale, e farla diventare una cultura, si potrebbe partire dalla funzione di direttore del personale che spesso è il distillato dei difetti della grande azienda. Grazie.
UMBERTO PAOLUCCI:
Certamente nel breve periodo la dittatura può essere più efficace di un’impostazione pluralistico-democratica, quindi è più semplice reagire usando in una fase di crisi, come lei ha detto, un approccio assolutamente top-down. Io non voglio dare giudizi etici: se si è costretti a fare questo bisogna avere delle buone ragioni ed è necessario che duri pochissimo. Anche perché In realtà la visione a lungo termine delle imprese ci rimette, perché c’è un’impostazione a lungo termine nel nostro contratto con le persone.
La mia personale esperienza è stata sempre di remare in direzione opposta al breve termine, non solo nelle circostanze straordinarie che per fortuna non ho vissuto nel contesto in cui vivo adesso, ma in tutta la mia esperienza brasiliana, che purtroppo dura da molto tempo. Bisogna dar vita ad una cultura basata sull’abbattimento di tutte quelle barriere gerarchiche che non sono efficaci. La gerarchia è un impiccio, la gerarchia non serve più se è un filtro quando si comunica, non serve più se fa sentire le persone come se non fossero nella loro azienda. Credo ci siano degli approcci assolutamente antitetici in queste manovre di emergenza che lei cita e che sicuramente non posso escludere. Io credo che oggi ci sia bisogno anche di saggezza, di guardare lontano perché le grandi aziende possono permettersi di investire di più rispetto alle piccole imprese.
Da sei anni faccio il coach dei “country manager” in tutto il mondo: faccio sì che queste persone possano continuare il loro percorso di crescita che le ha portate a essere responsabili di un Paese. Sono d’accordo con quanto diceva il presidente Ferrarini, anch’io ho fatto il presidente e sono stato responsabile di persone, che sono in una loro certa fase esistenziale. E questo si affianca a tutta una serie di altri elementi: i problemi che riguardano il tuo campo, i problemi di approccio, la valorizzazione dei talenti, la creazione di un rapporto bidirezionale chiaro fra le persone: non solo io, che sono il tuo capo, valuto te, ma anche tu, che sei mio collaboratore, valuti me. Ci valutiamo in maniera trasparente, ci aiutiamo a crescere: tu mi aiuti a diventare un capo migliore, mi dici dove sbaglio, dove posso migliorare e così l’azienda diventa auto-aggiustante, auto-regolante, per cui se ci sono errori, derive o persone scorrette, perché quelle ci possono sempre essere, c’è la possibilità che la situazione venga sistemata. Se il tutto funziona, l’azienda viene considerata dalle persone che ci lavorano come un bel posto dove lavorare. Le aziende che fanno bene questi compiti a casa, sono poi sempre in cima. Questo mi fa piacere dirlo, perché anche noi ci siamo.
L’ultimissima cosa: io ho imparato molto sul campo e sui libri, ho sempre fatto così, devo dire però che ho trovato una grandissima scorciatoia, da cui ho imparato molte cose e su cui ho riflettuto a lungo questa estate: l’enciclica. L’enciclica è una grandissimo strumento e ci ho trovato dentro delle lezioni che avevo imparato duramente. Ho trovato lì gli effetti di una riunione che avevamo fatto già spiegati. Io credo che, poi magari uno potrà dissentire su alcuni punti, un’analisi dove l’obbiettivo sia non solo di non rendere infelici i suoi collaboratori, ma di aiutarli a essere felici, sia grandiosa. Non bisogna nascondere la responsabilità che hanno le aziende, gli uomini, le famiglie, la società. Quello che c’è nell’enciclica, anche togliendo la parte trascendente, e lasciando soltanto la parte immanente, che vale qui e ora, è tale che tutti quanti dovrebbero leggerla, anche per rifletterci nella propria azienda. Mi fermo.
GIOVANNI BERTOLONE:
Sentite, io ho una preoccupazione, nel senso che vedo la sala piena di giovani e mi chiedo se all’uscita da questo incontro saranno più o meno incoraggiati. La mia preoccupazione perciò non è quella di calcare ancora la mano e sottolineare la correttezza delle analisi negative degli interventi precedenti, perché i ragazzi che lavorano adesso, e quelli che cominceranno domani, aspettano il cambiamento del sistema azienda o hanno un punto di partenza positivo da cui partire?
Da questo punto di vista, ho avuto un incontro con dei ragazzi giovani ieri che mettevano a tema proprio questo. C’è sicuramente un aspetto progettuale, che deve affrontare i temi di cui parlava Forlani, sapendo che tutto è perfettibile e che non si raggiungerà mai la perfezione, ma c’è un aspetto di sussidiarietà personale per i gruppi che hanno un certo tipo di approccio sul lavoro. Anche gli operai possono di per sé aiutare ad avere un approccio diverso sul lavoro, in modo tale da essere soddisfatti, perché poi delle persone che affrontano il lavoro partendo da quello che c’è di positivo, lasciandosi di volta in volta cambiare dagli eventi positivi che capitano, esistono. A me sembra che sia importante dire ai giovani che esiste sempre uno spazio personale di approccio al lavoro nell’azienda che può essere costruttivo per il proprio io e nello stesso tempo per l’azienda. In questo senso rispondo alla provocazione di Forlani, che prima distingueva: o azienda per il sociale o per i profitti. Io non penso che sia un aut aut, nella mia esperienza è invece un e e, perché se è per il profitto che succedono i guai che ci siamo detti o se è per il sociale, la battaglia è persa.
Per quanto riguarda il sociale abbiamo costruito il sistema di lavoro più rigido che c’è. O mi scappa da una parte o mi scappa dall’altra, invece profitto e sociale possono convergere.
BERNHARD SCHOLZ:
Per concludere, lascerei brevemente la parola a Ferrarini e poi a Forlani.
LUCA FERRARINI:
Nel 1990 le grandi multinazionali alimentari, tra le quali la Nestlè, avevano dichiarato guerra al nostro settore nell’agroindustria dei salumi, fecero una campagna di acquisti molto forte e noi ci siamo evidentemente spaventati. Infatti, noi eravamo la Ferrarini, che allora era una realtà da 30 o 40 milioni di euro di fatturato, che cosa avremmo potuto fare di fronte alla Nestlè? Niente. Loro potevano andare tutti i giorni in televisione e dire che il loro prosciutto era il più buono del mondo. Potevano fare tutte quelle cose, e c’era il problema del “soddisfatto o rimborsato”, la famosa prova che non si può portare al supermercato. Che cosa potevamo fare noi? Nient’altro se non investire su di noi, sul nostro grande capitale umano. Gli uomini non si comprano al supermercato, gli uomini non si fanno, gli uomini crescono. Le esperienze più belle a volte nascono da cose stranissime: ci troviamo oggi con il nostro responsabile per la Spagna, una delle filiali più belle che abbiamo, che vende il prosciutto in Spagna, che è come vendere sabbia a Gheddafi. Noi vendiamo il prosciutto, che è più caro di quello spagnolo, in Spagna. Ecco, il responsabile per la Spagna è un ragazzo che da noi scaricava i camion, poi il preside della scuola dove si è diplomato mi ha detto che era molto bravo, allora ho preso il ragazzo, che è diventato un bravo venditore e oggi è il responsabile per la Spagna.
Con questo voglio dire che non dobbiamo fermarci alle cose che vanno male ma concentrarci su quello che veramente possiamo fare noi. La difficoltà può essere un momento per l’azienda per crescere, per cui bisogna dare una grande risposta e dire alle persone: “Io da te voglio tutto, però anch’io ti do tutto”. Voglio tutto perché noi dobbiamo fare il prodotto più buono che esista al mondo, o se non altro ci dobbiamo provare, dobbiamo farlo meno costoso possibile, deve essere quello più profumato, deve essere il massimo, noi dobbiamo farlo al meglio perché quella è la nostra storia. L’ingegnere Bertolone si chiedeva se i ragazzi, uscendo da qua, saranno più contenti, se cioè si fideranno o no. In risposta cito una bellissima frase di Einstein. Un giorno gli studenti chiesero ad Albert Einstein, che amava moltissimo i giovani: “Professore ma quand’è che un uomo è vecchio?”, e lui gli rispose: “Un uomo è vecchio quando i ricordi superano i sogni”. Allora se noi avremo la forza di stare con i piedi per terra e continuare a sognare, noi non invecchieremo mai, ma se continueremo a parlare di quello che eravamo e di quello che abbiamo fatto, noi siamo già vecchi. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Natale Forlani.
NATALE FORLANI:
Prima mi sono permesso di offrire uno scenario più problematico per spiegare anche molti problemi della quotidianità. Che cosa penso che sia utile fare? Centralità dell’impresa e centralità della persona sono problemi anche dei corpi intermedi che devono valorizzare le persone. In Italia è mancata quella qualità degli investimenti sociali che possono consentire un compiuto sviluppo del capitale umano all’interno delle imprese, ovvero la capacità di produrre coesione sociale. Questo è un elemento sul quale bisogna lavorare. Per molti anni il tema centrale in Italia è stato la contrapposizione di interessi tra fattore lavoro e fattore impresa, e nell’ossessione di regolare i rapporti è stata penalizzata qualsiasi forma di collaborazione. L’Italia è il paese che ha il più basso tasso di produzione di beni collettivi per quanto riguarda i servizi alla persona, l’ambiente, la pluralità del sistema formativo, la capacità di interagire con i sistemi sanitari. Il nostro è un sistema che ha una bassa domanda e una bassa offerta: o c’è lo Stato o c’è l’ossessione del rapporto capitale-lavoro, dentro il quale bisogna risolvere tutte le questioni sociali. Questa dicotomia produce un effetto negativo a livello di valorizzazione del capitale umano. Questo è il primo problema.
Il secondo riguarda la responsabilità sociale, come dice l’enciclica, ed è il tema della reciprocità, non dell’autoreferenzialità: faccio certe cose perché a me servono, il prodotto è reale se è condiviso, cioè se l’insieme degli interessi e dei protagonismi produce quel risultato, perché altrimenti è parziale e in molti casi è pure falso. Quante imprese fanno il bilancio sociale alla fine dell’anno per vedere che sono imprese corrette, che hanno prodotto risultati, che hanno fatto la beneficenza verso l’ente locale? Ma non è questo ciò di cui stiamo parlando, anzi, io non mi fido di quelle imprese. L’indicatore è l’insieme della valorizzazione reale dei comportamenti. Ad esempio tenere conto del problema dell’occupazione femminile: perché in Italia c’è un basso tasso di occupazione femminile? Perché il problema della conciliazione tra lavoro e famiglia è declinato a livello di welfare, a livello di comportamento delle imprese? È disastroso. Questo non è un tema marginale, stiamo parlando di 3 milioni di donne in Italia che non vengono utilizzate o vengono utilizzate male, non valorizzate. Vi risulta che ci sia un impegno collettivo in questa direzione da parte del sistema pubblico, da parte dei soggetti intermedi, da parte dell’imprese? A me non risulta. Bisogna lavorare in queste due direzioni: da una parte serve la responsabilità sociale come reciprocità, cioè capacità di produrre azioni generate da comportamenti reciproci, dall’altra ci vuole una capacità dei soggetti intermedi di creare e veicolare investimenti collettivi. Il tema del capitale umano in Italia è sottovalutato anche se ci sono, com’è noto, imprese che in questa direzione in Italia fanno la differenza, e parlo sia in termini quantitativi che qualitativi, ed è naturale che oggi a questo tavolo ci siano delle imprese che su questo tema hanno qualcosa da dire. Io non volevo polemizzare con i miei interlocutori, volevo piuttosto offrire una lettura un po’ diversa del problema.
BERNHARD SCHOLZ:
Penso che tutte le cose che sono state dette siano state utili per voi. Mi permetto solo di fare due osservazioni. Prima osservazione: affinché la relazione fra persona e impresa possa essere benefica per entrambe, è necessario che l’impresa risponda a due desideri fondamentali, non istinti, badate bene, ma desideri delle persone che lavorano al suo interno. Il primo è il realismo perché la persona ha il grande desiderio di conoscere la realtà per quello che è, quindi ottimismo o pessimismo, permettetemi di dirlo, non servono a nessuno. Bisogna che la gente sia assolutamente trasparente se si vuole parlare di mercato, le condizioni infatti sono difficili ma questa è una grande sfida per la persona che deve essere coinvolta senza che niente venga camuffato. Serve trasparenza rispetto agli obbiettivi e ai rischi che si corrono, perché solo così si può prendere sul serio la persona. La persona infatti vuole essere presa sul serio. Questo sprigiona un desiderio di conoscere, perché noi vogliamo conoscere, non vogliamo essere presi in giro.
Il secondo è il bisogno della persona di essere valorizzata attraverso la fiducia, perché se io mi sento la fiducia addosso, mi sento preso sul serio e se mi sento preso sul serio, vengo fuori con tutte le mie qualità, come il ragazzo che prima faceva il camionista e adesso è stato responsabilizzato. La responsabilità è una cosa scomoda ma è l’unica cosa che ci fa maturare. Se l’uomo scappa dalla responsabilità, è infedele a se stesso. L’impresa poi deve assolutamente sostenere il desiderio e non l’istinto di fare velocemente carriera o fare velocemente non si sa che cosa.
Per fare attenzione e tener conto di questi due desideri dell’uomo occorrono dei maestri. Nel maestro si conciliano competenze e umanità: il rapporto professionale è espresso nell’umanità e l’umanità si contraddistingue per il fatto che uno è destinato, invogliato a costruire a lungo termine, perché il breve inganna, rispettando il contesto nel quale opera. Seconda osservazione e mi rivolgo ai giovani: andate nelle aziende restando sempre fedeli a questi vostri desideri. L’azienda comincerà a rispettarli anche se al momento non lo fa ancora, perché uno che si presenta con il desiderio di conoscere senza pretese, con il desiderio di assumersi una responsabilità oggi è benvenuto, perché queste sono qualità che verranno sempre di più a mancare. Se uno si presenta in un’azienda con il desiderio di fare carriera, non considera il suo desiderio perché una persona desidera essere uomo, la carriera poi, magari, verrà di conseguenza ma bisogna avere ben chiare le priorità. Quindi seguite i vostri desideri, non gli schemi ideologici che vi vengono presentati, siate fedeli ai vostri desideri perché oggi avete ascoltato che questo si può fare da quattro persone molto competenti che conoscono il mondo e le imprese. Se un imprenditore non vi vorrà seguire in questo desiderio, non è degno di essere seguito e voi farete meglio a scegliere un’altra azienda. Grazie, buona serata a tutti.
(Trascrizione non rivista dai relatori)