Chi siamo
LA NATURA DELL’UOMO È RAPPORTO CON L’INFINITO
La natura dell'uomo è rapporto con l'Infinito
Partecipa Javier Prades López, Rettore dell’Università San Dámaso di Madrid. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
LA NATURA DELL’UOMO È RAPPORTO CON L’INFINITO
Data
Martedì, 21 agosto 2012
Ora
17.00
Partecipano:
Javier Prades López, Rettore dell’Università San Dámaso di Madrid.
Moderatore:
Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’amici fra i popoli.
MODERATORE:
Buonasera, benvenuti. Ringrazio don Javier Prades per aver accettato di tenere questo intervento che, come sapete, è l’intervento centrale di questa XXXIII edizione del Meeting avendo appunto il titolo che coincide con il titolo del Meeting, “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”. Lo ringrazio per la sua amicizia con il Meeting, per il calore di questa sua amicizia, lo ringrazio per il suo contributo non solo di oggi, ma in modo particolare di oggi, ben sapendo che gli abbiamo chiesto di accogliere nell’orizzonte del suo vasto impegno pastorale e culturale anche questo lavoro per noi, questo lavoro di aiuto a noi al capire che cos’è questo Meeting e cos’è questo tema. Javier Prades è sacerdote della diocesi di Madrid, laureato in Giurisprudenza, dottore in Teologia alla Gregoriana di Roma. Attualmente, e questo è un aspetto della gravità dell’impegno, è rettore all’Università San Dámaso di Madrid, direttore della Rivista Spagnola di Teologia, membro del comitato di redazione di altre riviste e membro della Commissione Teologica Internazionale. Quindi, ci rendiamo conto che gli abbiamo chiesto oltre che il lavoro che è legato a tutti questi suoi impegni, abbiamo chiesto anche questo lavoro per noi e quindi ti ringraziamo moltissimo.
Prima di cedergli però la parola, vorrei sottolineare che già in questi giorni noi abbiamo visto, abbiamo proprio visto con gli occhi e toccato con la mano che la natura dell’uomo è rapporto con l’Infinito. Lo abbiamo ascoltato e visto nella testimonianza del reverendo Habukawa di ieri pomeriggio, lo abbiamo visto in quello struggente bisogno di amero, di pace e di bellezza che si sprigionava dalla musiche e dalle danze dello spettacolo inaugurale, un bisogno a cui l’uomo con le sue mani non riesce a dare risposta. Ma abbiamo anche visto, in questi giorni, come questa natura che riconosce il suo rapporto con l’Infinito diventa una umanità capace di uno sguardo diverso sulla realtà. Ci sono tanti esempi al Meeting di questo: la mostra sul rock di Waters, la mostra su Dostoevskij della Tat’jana Kasatkina, dove proprio in maniera suggestiva si vede l’evidenza di un modo cristiano di guardare il mondo. Come dice don Carrón nell’introduzione al catalogo della mostra “una documentazione di che cosa sia la conoscenza nuova”. Quindi questa natura dell’uomo come rapporto con l’Infinito è qualcosa che abbiamo visto e continuamente vediamo all’opera. Ma abbiamo anche visto come questo tema stia attirando l’interesse non solo qui di noi al Meeting, stia diventando qualcosa attorno a cui anche la grande stampe si sta cimentando, accorgendosi di quale incidenza storica una posizione umana così possa avere. Ma, soprattutto, stiamo vedendo la libertà di persone capaci di spendersi gratuitamente, unicamente perché attratte da questo infinito presente; penso ai 4000 volontari, penso alle tante testimonianze di persone e di opere che in questi giorni incontriamo. Queste sono persone che percepiscono nell’esperienza che la propria natura è rapporto con l’Infinito e che per vivere la consapevolezza di questa natura spendono gratuitamente il loro tempo qua. Don Giussani una volta ebbe a dire, parlando con i volontari, che l’unico modo che l’uomo ha di imitare in qualche modo il divino, quindi di vivere il rapporto con l’Infinito, è la gratuità. Il rapporto con l’Infinito, diceva sempre Giussani, è l’unica alternativa alla schiavitù del potere. Non è che il rapporto col potere, quanto uno abbia il rapporto col potere, lo si misura con gli applausometri, il problema è vivere una esperienza, vivere una condizione personale che consenta di essere liberi dalla schiavitù del potere. E anche in questi giorni stiamo assistendo allo spettacolo della libertà di un popolo sempre più numeroso, come anche l’incontro di oggi documenta, che ha saputo accogliere con stima e cordialità il Presidente del Consiglio, non per un calcolo politico, ma unicamente riconoscendo il valore di un incontro reale che al Meeting stava accadendo. Un popolo, lo dicevamo anche col Presidente Monti quando si chiedeva “Come mi accoglieranno?”, lui è arrivato fuori è gli abbiamo detto “Presidente, questo è un popolo non addomesticato, non addomesticabile, questo è un popolo libero, che non ha paura di confrontarsi con nessuno ma che ha la libertà ovviamente di scegliersi gli interlocutori”. Siamo persone che sanno bene che la cosa più preziosa che abbiamo è il nostro desiderio di verità e non siamo disposti a barattare con nessuna egemonia e con nessun potere l’esperienza di popolo che difende e tiene vivo questo nostro desiderio. Il nostro amico egiziano Farouq Wael, che è già qui a Rimini e che in questi giorni abbiamo e avremo modo di incontrare, diceva, a proposito delle loro lotte per la libertà in Egitto, “Non si combatte per conquistare la libertà, ma si lotta perché già si vive una esperienza di libertà.”. E la libertà che noi mai ci stancheremo di domandare al potere e alla politica è solo l’esito di una libertà che già viviamo e che nessun potere può toglierci. Questo è il motivo per cui il tema di oggi c’entra fino in fondo col l’umano che siamo e c’entra fino in fondo con il nostro muoverci nella realtà e nella storia, e questo è il motivo per cui ci interessa capire ancora meglio perché la natura dell’uomo è rapporto con l’Infinito. Prego.
JAVIER PRADES LÓPEZ:
Ringrazio innanzitutto il Meeting di Rimini, nella persona di Emilia Guarnieri, non soltanto per l’invito a rivolgervi oggi la parola, di cui mi sento veramente onorato, ma più ancora per l’accoglienza piena di ragione e di affezione che da molti anni mi fa sentire qui come a casa mia, una casa dove si spalancano tante finestre al mondo intero. Faremo tre tappe, tre parti nel percorso di oggi: primo, guarderemo nella prima parte la percezione di questo rapporto con l’Infinito nella cultura attuale, nella seconda la percezione del rapporto con l’Infinito cambiata nell’esperienza cristiana, trasformata nell’esperienza cristiana, e nella terza parte alcune implicazioni culturali di questa novità di esperienza di rapporto con l’infinito. Qui, come le grandi tappe alpine del Tour de France, sarà sempre in salita, più dura sarà la terza. Cominciamo.
In un recente articolo sulla stampa spagnola, lo scrittore Gustavo Martín Garzo descrive il panorama culturale contemporaneo. Ispirandosi al film di Sofia Coppola, Le vergine suicide, sostiene che la regista ha voluto tradurre in immagini, cito, “l’eterna dissociazione tra realtà e desiderio che da sempre tribola e fa penare l’uomo.”, e prosegue, “Ognuno di noi deve accettare che la vita che l’aspetta è troppo limitata perché vi possano albergare tutte quelle aspirazioni e quei desideri che ci portiamo dentro.”. Citando Walter Benjamin prosegue: “Uno dei problemi del mondo attuale è la povertà di esperienze. L’incapacità di fare esperienze e di trasmetterle è forse uno dei pochi dati certi che l’uomo di oggi possiede riguardo a se stesso. La banalità della nostra vita si confonde con la banalità di gran parte della cultura del mondo che ci circonda.”, sempre lui, “Passiamo da una storia all’altra senza che nessuna lasci sulle nostre labbra qualche parola degna di essere conservata.”, e finisce così: “Gli uomini e le donne di oggi vivono senza mettere nessun freno ai loro desideri e, nonostante ciò, raramente hanno avuto meno cose da dirsi.”. Martín Garzo, lo scrittore, avverte una sproporzione tra realtà e desiderio e denuncia la banalità del nostro tempo che attribuisce alla povertà di una esperienza umana di quelle esperienze vissute che sono in grado di cambiare la vita. Come prova di questa penuria osserva che è raro che qualcuno abbia voglia di raccontare ad altri qualcosa che valga la pena narrare, dove non si mette limite ai nostri desideri, dice lui, tuttavia non abbiamo cose da dirci. Il giornalista Pedro García Cuartango, sulle pagine del suo giornale, denuncia anche lui un clima di banalità. L’elemento nuovo rispetto al primo scrittore è che Cuartango intuisce che questa superficialità deriva dall’eliminazione di Dio e che questa eliminazione suscita una ribellione nell’umano, perché non riusciamo ad accettare di essere insignificanti e crediamo, non si sa perché, che la vita debba avere un senso. Subito dopo il giornalista giunge alla constatazione amara del fatto che nella nostra società non è possibile neppure porre questo livello ultimo di domande perché non si può parlare di vero o di falso perché domina l’apparenza. Gli articoli di Martín Garzo e di Cuartango centrano senza dubbio aspetti di fondo della nostra società. Evidentemente la nostra cultura occidentale è molto complessa e sarebbe necessario segnalare tanti altri aspetti per dare una descrizione completa. Nonostante ciò questi giudizi offrono elementi validi per capire il presente. Si potrebbe semmai osservare che, comunque, questa sproporzione tra realtà e desiderio che spinge alla ricerca di qualcosa d’altro continua a dirsi attraverso molte espressioni del nostro tempo. Per esempio, il mondo artistico è un succedersi paradossale di racconti frammentari che cercano di narrare il desiderio di qualcosa che valga la pena anche solo per dar forma all’insoddisfazione di fronte a una vita insignificante all’anelito di una vita diversa. Gli stessi Martín Garzo e Cuartango, i due giornalisti, l’hanno fatto, hanno sentito il bisogno di narrare la loro esperienza, di affermare qualcosa che giudicano che valga la pena che altri conoscano. E ci sono non solo questi giornalisti ma tanti esempi. Scegliamone alcuni. Comincio dalla musica più popolare, il pop rock. Uno dei gruppi più conosciuti nella famosa movida madrileña degli anni ’80, Los Secretos, attraeva già allora migliaia di giovani, dicendo cose come queste:
“Tante notti senza dormire cercando da una parte all’altra fino a un nuovo giorno. Deve esistere qualcosa di diverso da quello che ho visto ad ogni angolo di strada. Quanto è difficile vivere se non si può scegliere quello che si desidera. Sogno qualcosa che mi faccia uscire da me stesso e mi faccia sentire che c’è qualcosa nella vita oltre te.”
Si potrebbero citare molti gruppi famosi a livello internazionale che trascinano masse intere di giovani di tutto il mondo. A loro modo si tratta di racconti che gridano un bisogno, spesso con stridore, spesso tragicamente, e cercano in qualche modo una risposta che, non poche volte, è così parziale da diventare una conferma dell’insufficienza che denunciano.
Ma passiamo ad un’altra forma di arte contemporanea, molto meno popolare, e che esige da noi molto di più per essere compresa. Mi riferisco alla scultura, ed in particolare a uno degli esponenti più significativi del XX secolo, Eduardo Chillida. Per farlo dobbiamo cambiare registro, del ritmo frenetico della musica rock e di immergerci nel silenzio denso, stimolante delle opere monumentali del grande scultore di San Sebastián. A proposito del senso delle sue sculture, Chillida sostiene, cito, “Tutte le opere d’arte in realtà sono interrogativi, domande, e le Sue opere”, dice, “vogliono porci di fronte ad un orizzonte infinito, a un punto di fuga misterioso insito in tutta la realtà.”. Cito: “Vorrei mettere l’uomo davanti ad uno spettacolo così impressionante com’è l’orizzonte, irraggiungibile, necessario. Perché se ci pensi bene l’orizzonte è irraggiungibile, nessuno lo può negare, se tu avanzi lui si sposta. Sono arrivato a pensare che forse l’orizzonte è la patria comune di tutti gli uomini”. Fine citazione. Nella contemplazione paziente dei suoi capolavori, di fronte al mare a San Sebastián e Chinchón, si sente il racconto di una apertura, di una domanda di infinito tipicamente umana che si converte in un abbraccio. La solidità del cemento armato e dell’acciaio si piega al movimento della scrittura di Chillida e la materia più resistente si mette al servizio dell’anelito più alto dello spirito umano, una espressione dove tutti si possono incontrare. Cerchiamo di precisare in cosa consiste questo qualcosa d’altro che si cerca a volte disperatamente, questo orizzonte che è la patria comune di tutti gli uomini, attraverso la letteratura. Lo scrittore argentino Ernesto Sábato scriveva queste riflessioni, cito: “Mi hanno rimproverato sempre il mio bisogno di assoluto, che d’altra parte appare nei miei personaggi. Questo bisogno attraversa come un alveo la mia vita, meglio come una nostalgia di qualcosa a cui mai sono arrivato. Io non ho potuto mai calmare la mia nostalgia, addomesticarla dicendomi che quell’armonia è esistita un tempo nella mia infanzia. L’avrei voluto ma non è stato così. La nostalgia è per me uno struggimento mai soddisfatto, il luogo che non sono mai riuscito a raggiungere. Ma è ciò che avremmo voluto essere, il nostro desiderio. È cosi vero che non si riesce a viverlo, è così vero che non si riesce a viverlo, che potremmo credere perfino che risieda fuori dalla nostra natura se non fosse perché qualsiasi essere umano porta in se questa speranza di essere questo sentimento di qualcosa che ci manca. La nostalgia di questo assoluto è come lo sfondo invisibile, inconoscibile, ma con il quale confrontiamo tutta la vita.”. Fin qui, Sabato. Le parole di Ernesto Sábato sono di nuovo il tentativo di raccontare ad altri la natura del desiderio che ci identifica come essere umani. Non lo considera come l’eco di una regressione infantile, ma lo definisce come uno strano struggimento per qualcosa che non si raggiunge e che vogliamo essere. Non è difficile riconoscere attraverso questa descrizione letterario l’impronta di quel complesso di evidenze ed esigenze che costituiscono l’esperienza umana elementare, e che prendono il nome biblico di cuore. Ecco come lo descriveva Giussani: “Tutte le esperienze della mia umanità e della mia personalità passano al vaglio di una esperienza originale, primordiale, che costituisce il volto nel mio raffronto col tutto. In che cosa consiste questa esperienza originale, elementare? Si tratta di un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste. Ad esse potrebbe essere dati molti nomi, possono essere riassunte con diverse espressioni (esigenza di felicità, di verità, di giustizia). Sono come una scintilla che mette in azione il motore umano, prima di esse non si ha alcun movimento, alcuna umana dinamica. Qualunque affermazione della persona, dalla più banale e quotidiana alla più ponderata e carica di conseguenze, può avvenire solo in base a questo nucleo di esigenze ed evidenze originali.”. Fin qui Giussani. Come abbiamo potuto vedere nel nostro velocissimo scorcio, dal giornalismo alla musica, dalla scultura alla letteratura, non sono poche le voci che di fatto rimandano all’esperienza elementare, a quel complesso di esigenze ed evidenze che muovono la vita e senza sosta la lanciano oltre spingendoci a scoprire quell’orizzonte ultimo, veramente ultimo di quello che siamo e del perché viviamo. Pur frammentarie, pur imperfette, pur non riuscite, queste espressioni oggi ci sono. Un fattore essenziale di quel complesso di evidenze è che al centro dell’esperienza elementare si trova un’apertura, una tensione insopprimibile verso un qualcosa che è nella realtà e allo stesso tempo ci rimanda oltre, che noi sperimentiamo nella vita perché ci rilancia più in là, verso un mistero il cui vero volto non riusciamo a scoprire da soli ma che non possiamo smettere di cercare.
Seconda parte. Questa esperienza del rapporto con l’infinito attraverso la novità del Cristianesimo. Nell’ambito della cultura plurale dell’occidente, dove convivono le espressioni più variate, come abbiamo potuto sentire, si può anche ascoltare un racconto, un racconto dell’esperienza di un rapporto singolare con l’infinito, la storia dei primi uomini che hanno incontrato Gesù e che nel tempo l’hanno riconosciuto come il Cristo, il Messia di Isreale, il figlio di Dio. Il Vangelo è un lungo racconto di esperienze legate al rapporto con l’infinito. Gli evangelisti conoscono dei fatti che vale la pena raccontare. Non li mettono per scritto con lo scopo di intrattenere ma di confermare la solidità degli insegnamenti ricevuti, come dice San Luca. Potremmo riferire, ne conosciamo quasi tutti che siamo oggi qui, tante scene del Vangelo in cui molte persone, diverse fra di loro, incontrano Gesù e corrono a raccontarlo alle loro famiglie, agli amici, ai vicini. In tutti questi episodi una persona corre a raccontare agli altri una cosa che non è banale, perché gli ha cambiato la vita: l’incontro con Gesù di Nazareth. Non ci stupisce che Benedetto XVI affermi che il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. Chi si incontrava con Gesù faceva un’esperienza così vera che era portato a raccontarla ad altri, perché anche loro potessero andare a conoscerlo personalmente. Ma che cosa vedevano in lui? In estrema sintesi potremmo dire che in quell’incontro riconoscevano una presenza eccezionale, senza nessun paragone, in cui intuivano che Dio si faceva vicino, anzi, che era li con loro. Tenendo presente il titolo del Meeting, potremmo dire che quando quegli uomini hanno conosciuto Gesù, hanno fatto un’esperienza singolare, di rapporto con l’infinito, perché quell’uomo portava all’infinito. Lo faceva, per così dire, sentire, vedere e udire e in tal modo avvertivano che la loro vita trovava compimento in quel rapporto. Quando San Marco descrive l’inizio dell’attività pubblica di Gesù, lo dice con tutta chiarezza: Gesù arriva al cuore degli affetti più personali, insegna nella Sinagoga e lascia a bocca aperta chi l’ascolta. Ha potere sui demoni e la genti dice: costui opera con una autorità mai vista. Per questo la sua fama corse per tutta la regione. Curava gli ammalati, scacciava i demoni, si occupava, con una attenzione tutta particolare, di coloro che lo seguivano giorno dopo giorno, i suoi amici.
Durante la convivenza con questo uomo straordinario, essi andavano scoprendo i tratti inconfondibili con cui potevano conoscere l’infinito, il mistero di Dio e quindi conoscere se stessi. Io non ho trovato un modo più efficace di descrivere questa sorprendente valorizzazione di se stessi e del proprio destino come frutto dell’incontro con Gesù che le parole con cui Don Giussani parlò davanti a Giovanni Paolo II in Piazza San Pietro , il 30 maggio 1998 “Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?” Nessuna domanda mi ha mai colpita nella vita così come questa. C’è stato solo un uomo al mondo che mi poteva rispondere ponendo una nuova domanda. “qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà se stesso?” “ O Che cosa l’uomo potrà dare in cambio di sé?” Nessuna domanda mi sono sentito rivolgere così che mi abbia lascito il fiato mozzato come questa di Cristo. Nessuna donna ha mai sentito un’altra voce parlare di suo figlio con una tale originale tenerezza e una indiscutibile valorizzazione del frutto del suo seno con una affermazione totalmente positiva del suo destino e solo la voce dell’ebreo Gesù di Nazareth. Ma più ancora, “nessun uomo può sentire se stesso affermato con dignità di valore assoluto al di là di ogni sua riuscita.” Nessuno al mondo ha mai potuto parlare così. Ciò che avevano percepito i primi discepoli, ciò che ha percepito con questa drammatica sensibilità Don Giussani, e ciò che magari anche ciascuno di noi ha potuto scoprire con stupore e umiltà e che nell’incontro con Gesù emerge la nostra vera statura, la statura dell’uomo e del suo desiderio di quella nostalgia di assoluto che percorre le culture umane. Anche per questo l’incontro con lui fa risplendere la condizione divina di Gesù inviato nel mondo per rivelare Dio Padre. Chi lo incontrava poteva scoprire se stesso, il mondo e Dio, secondo una novità inimmaginabile e guardare tutto con uno infinito con lo sguardo di Dio. All’origine di questo sguardo divino sull’umano non si trova nessuna teoria filosofica o religiosa, nessun tipo di gnosi antica o moderna a un fatto. La sequenza di fatti e di parole della vita e la passione di Gesù che culmina con la sua risurrezione. La risurrezione è anche essa un fatto, un fatto nella storia che si può raccontare con semplicità e insieme con eccezionalità assoluta. Quell’uomo che aveva cambiato l’umanità dei suoi discepoli era morto e fu deposto in un sepolcro, quando sembrava che la delusione più amara avesse messo fine a ogni attesa, perché anche quella presenza eccezionale aveva dovuto soccombere alla morte e ci lasciava anche noi in balia alle tenebre, i vangeli narrano che qualcosa è accaduto. Tre giorni dopo la sua morte alcune persone che lo avevano conosciuto sentono pronunciare il loro nome, e si girano verso chi li chiama. Altri discepoli pieni di melanconia perché tutto era finito, camminano a testa bassa verso casa e improvvisamente un terzo viandante si affianca a loro e parla, e li fa respirare “chi è costui?” Allora uno dei due che cammina dice “dai non andare via, resta con noi qui questa sera” e si fermano a riposare. E mentre cenano, quello sconosciuto spezza il pane, lo benedice, e il loro cuore batte forte, comprendono quello che sta accadendo e dicono: “Dio mio è lui”. Sono fatti come questi quelli che la tradizione cristiana primitiva racconta ripetutamente. Dice San Paolo “in seguito apparve a più di 500 fratelli in una sola volta, la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti”. Questi fatti e queste parole che culminano nel grande fatto della risurrezione portano ad una trasformazione radicale di quell’esperienza di orizzonte irraggiungibili che Chillida considera la patria comune di tutti gli uomini. Don Giussani ci aiuta a comprendere questo nucleo della fede cristiana. Cito “Cristo risorto “ – questa è una delle altre cose che mi preme di più in assoluto di oggi quello che sto per dire adesso – “ Cristo risorto è il primo e fondamentale avvenimento in cui il punto di fuga è diventato esperienza dell’uomo” Siccome in una realtà il punto di fuga, in qualsiasi realtà è l’indice di un oltre, di quello che sta oltre, questo oltre è diventato carne ed ossa, il contenuto del punto di fuga è diventato esperienza dell’uomo perché il contenuto del punto di fuga è il mistero di Dio è Cristo Risorto, è Dio fatto uomo, che entra nella tua esperienza. (fin qui Giussani) Ecco la chiave di volta del nostro percorso di oggi, quello che i cristiani testimoniano nei loro racconti non è la soppressione delle domande umane o la scomparsa dell’enigma dell’esistenza, ma un modo sorprendente di vivere il contenuto di quel “oltre” che è iscritto in ogni cosa. Don Giussani lo ha commentato una volta in una immagine poetica a me particolarmente cara, lui commenta un canto spagnolo la famosa Sevillana del adiòs che dice (.. in spagnolo) questa barca che diventa sempre un punto più piccolo e si allontana e l’orizzonte scompare e l’avete magari sentito qualche volta nel flamenco. Giussani di fronte a questo canto diceva così “il cristiano è un uomo appoggiato alla sbarra del porto, che è là e guarda il mare nel quale non c’è niente salvo quell’ultimo filo che si chiama orizzonte. Mentre per l’uomo solito quel filo d’orizzonte è il punto dove tutto scompare, il “barquino” della canzone era un punto che è poi scomparso, per il cristiano quella linea d’orizzonte è come l’enigma, il mistero da cui deve arrivare a lui qualcosa, una terra ignota da cui deve arrivare a lui uno che porta una ricchezza inimmaginabile. E infatti a un certo momento appare un punto sulla linea dell’orizzonte e questa barca che è un punto, diventa sempre più grande finché si delinea anche nei suoi fattori interni e si vede un uomo, il barcaiolo seduto dentro. La barca si avvicina alla riva, attracca, e l’uomo che stava aspettando abbraccia l’uomo che arriva. Il cristianesimo nasce così come l’uomo che aspetta che abbraccia l’uomo che arriva dall’altrimenti enigmatico e prima ignoto orizzonte. Se togliete questa immagine non ci resta che una confusione presente, un nulla presente. (fin qui Don Giussani)
Che conseguenze nascono dal partecipare all’esperienza di questo abbraccio. La più importante, così come lo insegnano le scritture è la novità. Ecco io faccio nuove tutte le cose dice l’Apocalisse, tutto è nuovo perché tutto ciò con cui l’uomo cristiano entra in rapporto riconoscendo Cristo risorto, assume una nuova natura, o meglio assume la sua vera natura conforme al suo destino eterno. San Paolo non esita a definire come una nuova creazione la radicale trasformazione del mondo dovuta alla Risurrezione di Cristo. E nel vangelo di Giovanni Gesù esorta Nicodemo a nascere di nuovo, a 60 anni suonati, altrimenti non si può partecipare di questa profonda novità dell’essere grato.
Vediamo alcuni tratti velocemente di questa novità.
Dobbiamo segnalare prima che la forma per così dire naturale dell’esperienza del punto di fuga non riesce da sola a dare pieno significato a quello che si vive e perciò non può assicurare la sua propria permanenza. Quante espressioni di questa insoddisfazione abbiamo visto negli esempi della prima parte. La conseguenza di questa insoddisfazione, di questa forma naturale è che non si riesce a sperimentare nella propria vita qualcosa che cambia il mondo. La forma naturale cambia solo quando grazie all’incontro con Cristo, si comincia sperimentare lo scopo di ogni cosa, il rapporto di ogni cosa con un destino buono e definitivo attraverso il nostro essere e agire nel mondo. Per fare un esempio molto semplice di quello che dico baste evocare quelle situazioni in cui uno si sente dire da un compagno di lavoro “ma tu sei diverso, perche?” Questo tipo di episodi, apparentemente insignificanti, sono come il seme dell’esperienza di un mondo nuovo del cambiamento del mondo che nasce dalla resurrezione di Cristo. Il collega di lavoro percepisce qualcosa cui non sa ancora dare un nome ma che sperimentalmente quasi fisicamente potremmo dire, è già diverso da quello che fanno tutti.
Come matura, secondo tratto della novità, come matura a partire dall’impatto con questa sorpresa iniziale l’autocoscienza della persona.
Per dire solo il punto essenziale possiamo dire che ognuno personalmente supera la forma naturale dell’esperienza elementare in cui si esprime il grido insoddisfatto del cuore di fronte al mistero sconosciuto quando incomincia a vivere e poi, progressivamente, vive l’offerta. Infatti che cos’è l’offerta? Sembra una parola molto, e lo è, sublime molto nobile, che cos’è? L’offerta è la forma suprema della domanda è perciò la forma suprema dell’autocoscienza dell’io che giunge fino all’offerta di se. L’offerta è la domanda che nasce dal percepire che un altro, il Mistero infinito, mi fa adesso, secondo la formula geniale “io sono tu che mi fai”; cioè la tua grazia mi costituisce tanto che il mio stesso vivere adesso, in questo istante è come un prodigio. Mi hai fatto come un prodigio, dice il salmo 139, per questo, proprio per questa consapevolezza l’uomo cristiano implora il mistero di farlo essere, fatti vedere, cioè fai che io ti faccia vedere, che io ti manifesti, questa, dice Giussani, è la passione suprema della vita.
Terzo tratto: Quando questo impatto e questa autocoscienza matura, in se e nei compagni di lavoro o di università, nasce una compagnia umana che non si spiega a partire da fattori puramente naturali della convivenza. Gesù dice ai suoi discepoli che sua madre e i suoi fratelli sono coloro che fanno la volontà del Padre suo e San Paolo lo traduce in questa affermazione così cara a tanti di noi “ tutti voi siete uno in Cristo Gesù” Si tratta di un modo di stare insieme che non obbedisce a calcoli di interesse di piacere, o di utilità ma che nasce dalla pura gratuità del fatto che Cristo è risorto. Questo è vero fino a tal punto che in senso stretto Cristo Risorto continua ad essere visibile nel mondo attraverso l’esistenza del popolo di Dio, della Chiesa egli si rende presente nel mondo attraverso la compagnia che nasce da questa novità di vita che l’esprime. E’ per questo che dice Giussani che la Risurrezione si attesta creando il nuovo popolo di Dio, la grande opera di Dio nel mondo e che essendo risorto, si è identificato con un popolo nuovo e la sua grande opera.
La quarta, l’ultimo quarto tratto, fra tanti altri che possiamo notare, della novità del cristianesimo è l’esperienza dell’infinito come misericordia presente.
Davanti alla consapevolezza molto acuta degli errori che sorgono dalla nostra libertà in quanto ferita dal peccato e della nostra superficialità, rinasce lo stupore quando si avverte che neanche i peccati riescono ad impedire del tutto che il mistero si faccia presente attraverso la nostra vita. Con un’espressione molto colloquiale diceva Giussani “poi dopo, dopo tutto quello che ho detto, uno si trova a fare un po’ il cane, fa la pipì vicino alle piante e dice “Oh Dio ma guarda, e per lui sarebbe tutto finito. Invece chi lo fa, proprio da quello, proprio dal suo errore dice “vedi, io sono perdono”. Ecco, in modo sintetico quattro tratti inconfondibili della novità di vita che Gesù ha portato nel mondo, vale a dire 4 tratti concreti della realizzazione di questo rapporto con l’Infinito, una novità che attira, ’l’autocoscienza come offerta, un compagnia che nasce dalla pura gratuità, la misericordia.
Eccoci arrivati alla terza parte, incominciamo a pedalare per davvero.
Nella terza e ultima parte vogliamo tener presente che il titolo del meeting parla esplicitamente di una natura dell’uomo, cioè di come siamo fatti, della nostra fattezza, non solo delle cose che pensiamo, ma di come siamo fatti noi, e su questa cosa adesso entreremo perché ci possono essere un po’ di obiezioni.
La storia che si può raccontare, anche con entusiasmo, questa storia di cui ho fatto adesso un brevissimo racconto, è veramente universale? Conviene realmente a tutti gli uomini? Ha la forza e la dignità culturale per paragonarsi con le conquiste delle scienze naturali, delle scienze sociali che sembrano ridurla spesso a un puro sentimento soggettivo, che si limita al privato? Mi sono ricordato in merito di una canzone di Claudio Chieffo “ti diranno che tuo padre era un personaggio strano, un poeta fallito un illuso di un cristiano, ti diranno che tua madre era una sentimentale, che pregava ancora Dio mentre si dovrebbe urlare”. La storia che abbiamo narrato potrebbe essere in fondo in fondo nient’altro che poesia? Un’illusione che ti consola, una sorta di auto convincimento emotivo? Se negli anni ’70 prevaleva il rifiuto del cristianesimo in nome di una ribellione sociale e politica oggi la sfida è diversa, forse più profonda. Non c’è bisogno di eliminare la fede cristiana, si preferisce negare il suo carattere universale, basta chiuderla nel ghetto delle opinioni soggettive, dei sentimenti o delle convinzioni particolari che si possono professare in privato, sempre che non abbiano la pretesa di dire la verità circa l’uomo,circa il mondo, circa Dio. Ci interessa il percorso di questa terza parte proprio perché anche noi possiamo essere vittime di uno sguardo ridotto su noi stessi come se l’esperienza cristiana che si incontra e di cui si parla anche con entusiasmo, non avesse la forza di cambiare la comprensione dell’umano in quanto tale. E’ come se fossimo anche vulnerabili e cedessimo al sospetto che questo incontro non ci insegna la verità dell’uomo, non ci dice la natura dell’uomo e dunque non è conveniente per tutti. E’ evidente che la prima responsabilità che abbiamo di fronte a questa sfida è quella di vivere la novità che ci ha raggiunto, che nasce dallo sguardo di Cristo su di noi. Si tratta quindi di essere cristiani, di vivere la vita del nuovo popolo di Dio che è il luogo, come abbiamo visto, della manifestazione di Cristo risorto contemporaneo a noi per opera dello Spirito Santo. Da questa vita, nasce per ognuno la responsabilità di approfondire una riflessione critica, sistematica sulle ragioni dell’esperienza che si vive. Quando noi parliamo di novità di diversità che attrae, di sorpresa di compagnia diversa, diciamo qualcosa di diverso da uno stato d’animo di sentimento rispettabili ma che non sa dare ragioni di se. Questi tratti veramente trovano il loro fondamento nella natura dell’uomo? E sono ragionevolmente proponibili a tutti? Ecco, le dimensioni di questo lavoro culturale sono immani e non si possono descrivere in termini generici. Io mi limito all’ambito che mi è più proprio per vocazione personale e per il mio lavoro quotidiano, ma ognuno di noi dovrà verificare per ciò che riguarda il suo ambito come avviene il cambiamento degli schemi del mondo di cui San Paolo urge ogni cristiano. La fede cristiana, abbiamo detto, nasce secondo un dinamismo di incontri che abbiamo descritto. Questo fatto particolare, questa storia sin dall’origine, ha avuto la vocazione di arrivare sino agli estremi confini del mondo sia in senso geografico che spirituale (questi giorni qui si vede veramente è un’altra cosa). Man mano che questa storia cresceva e testimoniava la novità di vita che portava, si è elaborata, è nata lungo i secoli una riflessione sull’esperienza dell’uomo a partire dalla Sacra Scrittura della tradizione e dall’uso della ragione che coglie l’umano illuminato dalla fede. Il nucleo di questa dottrina è l’affermazione dell’uomo come creato ad immagine di Dio. Mediante questa formula la Chiesa concepisce l’uomo come persona con una dignità irriducibile, costituita dal suo rapporto con Dio come suo creatore e il cui destino finale è la vita eterna. Ha scritto ieri, l’altro ieri, il Papa Benedetto nel suo messaggio autografo per il meeting, cito “dire che la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito, significa allora dire che ogni persona è stata creata perché possa entrare in dialogo con Dio, con l’infinito. All’inizio della storia del mondo Adamo e Eva sono frutto di un atto di amore di Dio fatti a sua immagine e somiglianza e la loro vita e il loro rapporto con il creatore coincidevano” – la loro vita e il loro rapporto con il creatore coincidevano. (fin qui il Papa) Dice per questo il Concilio Vaticano II che “l’uomo è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stesso e che non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di se”. Di fronte alla domanda del salmo 8 “ che cos’è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi” la Chiesa risponde dicendo che “l’uomo è immagine di Dio”.
Per dar ragione di questa comprensione dell’umano, la fede ha proposto lungo i secoli alcune affermazioni di cui segnalo le tre più importanti: l’uomo è immagine di Dio, si capisce più o meno che cosa vuol dire, ecco, almeno queste tre cose:
In primo luogo, l’uomo è immagine di Dio perché l’uomo è uno in corpo e anima.
Secondo, l’uomo è immagine di Dio perché ha una intrinseca costituzione sessuale, è uomo maschio e femmina, uomo e donna.
In terzo luogo, l’uomo è immagine di Dio perché la sua irriducibile individualità non si può realizzare se non in una costitutiva socialità: anima-corpo, uomo-donna, individuo – comunità.
Possiamo e quello che voglio oggi difendere qua, questi tre aspetti sono un modo concreto con ognuno di noi per come è fatto, riflette l’apertura verso l’infinito che gli è propria per natura, l’uomo in quanto immagine di Dio è misteriosamente aperto all’infinito per natura e di ciò noi abbiamo esperienza concreta in queste tre dimensioni di unità duale che ho citato.
Su ognuno di questi tre punti si potrebbe aprire un dibattito fantastico perche la cultura dominante, almeno in Europa,non saprei dire se in tutto il mondo, su questo si scatena furiosa, cioè tutta la questione se il fatto di essere uomo o donna rimandi più in là è discusso dalla radice delle teorie di genere che dicono:”No,questo è un prodotto culturale”. Sul rapporto individuo-società ne potremmo parlare senza fine. Lasciamo questi due punti e ci limiteremo a qualche suggerimento, a qualche spunto sul primo di questi tratti che è in un certo senso quello fondante: ognuno di noi è se stesso in una unità inscindibile di corpo e di anima. Ovviamente è decisiva perché il titolo del Meeting possa essere, stare in piedi ed è perciò molto criticata da una certa mentalità comune che si ispira in una certa lettura ridotta di risultati delle scienze che ci dicono che l’uomo si spiega esaurientemente a partire dalla materia. Nessuno può negare la dimensione corporale dell’uomo ed anche quella spirituale, ma invece di rispettare la dualità degli elementi in gioco e accettare l’enigma, ecco il punto di fuga, che suppone la loro unità, non mancano teorie che risolvono in falso l’unità duale semplicemente negando uno dei due poli: poiché non riesco da solo con le mie forze a ricongiungerli, che cosa faccio, elimino o l’uno o l’altro. Se in altre epoche della storia le riduzioni potevano essere di tipo spiritualista ed eliminavano i valori del corpo umano, oggi prevalgono le teorie che cercano di risolvere l’enigma dell’umano prescindendo dalla dimensione spirituale. L’ enigma non si risolve, semplicemente, si dissolve. Rispetto al nostro tema queste teorie sono, sarebbero una obiezione radicale. Il rapporto con l’infinito, descritto nei sintomi di cui ho parlato, insoddisfazione, nostalgia, domande ultime, novità, attesa, eccetera, sarebbero il puro risultato di certi fattori antecedenti. Prima, all’inizio del ventesimo secolo, ci dicevano di tipo psicologico, la psicologia materialista. Poi ci hanno detto:”Invece no, è una sociologia”. Poi ci hanno detto:”E’ una biologia”. Oggi saremmo lì lì sulla neurobiologia, fra poco arriveremo alla chimica e ultimamente alla fisica e alla chimica, ritornando paradossalmente nelle teorie che davano inizio al pensiero di occidente. Sarebbero dunque tutti questi tratti di cui ho parlato con tanto entusiasmo niente altro che fenomeni di ordine puramente materiale. L’io e la sua apertura verso l’infinito sarebbero il prodotto del cervello. Per questo oggi si parla di una concezione naturalistica dell’uomo in cui lo spirito, la mente si riduce al cervello inteso come organo neurobiologico. Secondo la famosa formula ben nota di Franz Krieg: “Non sei altro che un mucchio di neuroni”. Probabilmente questo naturalismo è uno degli avversari più formidabili del titolo di questo Meeting. Queste teorie devono poggiare su un pregiudizio che si può formulare così: le conquiste scientifiche ci obbligano ad escludere l’esistenza dello spirito nell’uomo. Ecco, si dice, con il metodo di analisi scientifica non si riesce ad identificare la realtà spirituale e pertanto questa non esiste. Si tratta, penso, di una prima evidente riduzione dell’ambito della realtà e della sua conoscenza che non viene messa in discussione: la conoscenza umana sarebbe esclusivamente quella scientifica. Di questo si è occupato largamente il Meeting negli anni scorsi, in questo anno siamo grazie a Dio ben illustrati. Io mi limito a ricordare che se non si rispettano i modi diversi di usare la ragione si commettono gravi errori, come ha detto Jurgen Habermas. Dice lui Cito) ”La fede scientista in una scienza che un giorno potrà non solo completare l’autocoscienza personale mediante una descrizione oggettivante, ma dissolverla in essa, non è scienza: è cattiva filosofia”. (fine della citazione). Però, invece, se si evitano questi abusi, crediamo che, al contrario di quello che può suggerire una certa divulgazione superficiale, il mondo della scienza offra oggi delle possibilità non prive di difficoltà per un dialogo fecondo e in questo senso il punto di contatto reale fra l’uomo comune,ognuno di noi che è qui, e siamo ognuno, facciamo il nostro mestiere, e l’uomo comune, il filosofo, lo scienziato o il teologo, è l’interesse per la conoscenza dell’ io e della sua libertà. E per questo stesso motivo sosteniamo che la risposta all’enigma dell’unità duale anima-corpo come costitutiva dell’uomo non verrà mai solo dalla scienza. E’ uno di quei terreni dove con più evidenza risulta necessario l’approccio multidisciplinare. Quando ci troviamo davanti ad obiezioni di questo tipo, che fanno appello alla conoscenza scientifica per dissolvere l’unità duale anima-corpo ed eliminare così a radice il rapporto con l’infinito proprio della nostra natura umana, che cosa possiamo dire. Ricordo telegraficamente alcuni dati ben noti a tutti che hanno interesse per il nostro tema di oggi. La prima sorpresa è che una posizione puramente materialista non riesce a dare ragione della singolarità del corpo umano. Le scienze antropologiche, sicuramente da metà del ventesimo secolo fino ad oggi, ci mostrano che il corpo umano è diverso dal corpo degli animali proprio perché è il corpo di un essere spirituale. Le teorie materialiste non riescono a dare ragione di questa serie di peculiarità del corpo stesso dell’uomo. Ciò che succede spesso è che invece si divolgano esperimenti dove si mostra come certi animali hanno riprodotto qualche aspetto di certe attività spirituali dell’uomo e emerge questa domanda:”Si può o si potrà riprodurre tutte le caratteristiche proprie di un essere vivente spirituale?”. Il filosofo tedesco Spaemann dice, invece che la domanda decisiva sia piuttosto un’altra e usa questo esempio: “Che cosa significa essere un pipistrello – cito lui – non lo sappiamo e non lo sapremo mai perché noi non abbiamo un’anima di pipistrello, non siano pipistrelli. Se lo fossimo, non saremmo più noi stessi ma pipistrelli e non sapremmo che cosa è essere umano e neanche sapremmo che cosa è essere un pipistrello perché con ogni probabilità appartiene all’essere del pipistrello non poter riflettere su quello che è”. Lo scientismo materialista non riesce a spiegare il corpo umano e meno ancora ovviamente la peculiarità dei fenomeni mentali anche se deve riconoscere la loro esistenza. Gli scienziati più equilibrati, di quelli che io conosco, confessano che la spiegazione tra questa articolazione tra processi materiali e spirituali risulta misteriosa e che siamo molto lontani dall’avere una risposta scientifica nel caso in cui la scienza potesse cercare di offrircela. Invece, quello che sì risulta assurdo è pretendere che partendo dalla conoscenza neurobiologica del cervello si arrivi alla realtà stessa dei beni spirituali immateriali. Sempre Spaemann segnala molto acutamente che è impossibile che in un cervello si possano leggere le note di un quartetto di archi di Mozart o il calcolo infinitesimale. Tutti capiamo che non è possibile identificare quello che si sta dicendo a partire dal puro esame dei meccanismi neurobiologici che si mettono in funzione quando pensiamo o parliamo. La conoscenza e la libertà umane sono fenomeni spirituali, immateriali che non constano di parti e che risultano dunque inaccessibili ad un metodo che pretende a ridurli a pura realtà materiale. D’altra parte, privati della loro dimensione spirituale, i fenomeni umani biologici non sono realmente niente. Per fare un esempio che tutti possiamo conoscere più o meno da vicino un tumore, considerato esclusivamente come un puro fatto biologico, cioè una determinata evoluzione di cellule, non è nulla. E invece è tutto, acquista tutta la sua carica di domanda, muove tutta la ragione e la libertà appena è vissuto, appena appare ad una coscienza spirituale. Oggi noi possiamo apprezzare i progressi delle correnti della neuroscienza che non riducono la conoscenza scientifica al risultato dell’esperimento. Secondo questa posizione a cui mi sto riferendo, che viene chiamata normalmente “posizione di terza persona”, lo scienziato si limita ad osservare gli oggetti esterni a lui; l’oggetto potrebbe essere lui stesso, l’uomo stesso, ma se stessi, ma guardato come un oggetto esterno secondo un metodo che offrirebbe la massima garanzia di oggettività e di comunicabilità universale. Per questo, la prospettiva di terza persona sostiene che tutto quello che non si può esaminare in questo modo rimane fuori dal metodo scientifico: questa è una tesi che si era diffusa tempo fa. Oggi oltre a questa si sente anche parlare, anche in ambito neuroscientifico, della cosiddetta “prospettiva di prima persona” che accetta di tener conto di quello che il soggetto dice di se stesso, delle sue percezioni, dei suoi sentimenti, delle sue emozioni. Taluni neuroscienziati considerano che un pregiudizio non scientifico rinunciare a questa fonte di dati che senza dubbio si trova davanti chi realizza un esperimento. Si può andare oltre e sostenere che, in qualsiasi osservazione scientifica, quello che non è immediatamente evidente di per sé alla ragione di un uomo sono precisamente i dati dell’esperimento. Al microscopio o con il telescopio si vedono forme, macchie, colori che sono sempre interpretati dalla ragione del ricercatore che presuppone molte altre conoscenze, molte anche non scientifiche. Ciò che invece sì è evidente è in cambio la coscienza immediata del ricercatore di fronte a quello che sta facendo. Il ricercatore sa che sta misurando, sa che sta calcolando, così come l’immediatezza concomitante con cui è presente a se stesso. Ogni conoscenza sperimentale passa inevitabilmente attraverso la mediazione di questa presenza a sé nelle attività che si fanno e nell’autocoscienza,ma non succede lo stesso nella conoscenza naturale propria del mondo della vita in cui non è necessaria la mediazione della conoscenza scientifica. Tutto quanto abbiamo detto finora non vuole sminuire in assoluto i progressi scientifici che ci mostrano la sorprendente interazione tra processi materiali corporali e dati spirituali. Lo spirito dell’uomo non è uno spirito puro, angelico. Noi non siamo degli angeli, noi siamo degli uomini e il nostro spirito è in intima unione e distinzione con il suo corpo e qui anche che dal migliore ambito scientifico e filosofico rinascono le domande. Come è possibile che da soli elementi materiali non dotati di coscienza possa esistere la coscienza. Che cosa è allora l’uomo? Come si può conoscerlo adeguatamente? Partendo da queste domande della scienza, e in questo caso potrebbero essere le neuroscienze, si riapre la questione affascinante della capacità della scienza per raggiungere la verità reale ed interrogarsi circa il fondamento della conoscenza, che anche non è solo scientifica. La scienza è una attività spirituale dell’uomo che non può rinunciare ad interrogarsi sul proprio fondamento, non solo perché si scontra con certi limiti, ma anche perché si interroga circa i fondamenti ultimi della verità che raggiunge con sicurezza. Attraverso questo cammino la scienza si apre alla collaborazione interdisciplinare con altre conoscenze che permettono di riprendere quelle domande svelando in esse una radicalità che le converte in domande ultime. Dobbiamo trarre delle conseguenze da quanto detto finora. Una spiegazione dell’ uomo puramente immanente di tipo materiale non riesce a dar conto dell’enigma dell’uomo, non spiega la dimensione mentale che inevitabilmente ognuno utilizza mentre cerca di negare la sua stessa esistenza, non spiega bene neppure la peculiarità della sua esistenza corporale. La concezione materialista dell’uomo non rende giustizia agli elementi corporali e spirituali tipici dell’uomo così come appaiono nel suo agire e per questo non riesce a spiegare il significato stesso della ragione e dell’autocoscienza come fenomeni indiscutibilmente presenti nell’uomo e sui quali riposa l’attività scientifica. Quando l’uomo si concepisce in termini materiali si riduce ad un mero dato aleatorio. Nessuno può più garantire il potere della ragione di raggiungere la verità, né attestarne la sua necessità. Se la condizione umana perde il suo carattere spirituale si riduce ad un puro factum, a un dato, neurobiologico, al modo di un meccanismo cibernetico, sociologico, come autoregolazione impersonale di strutture sociali?
In questo caso, partendo da sé stessi, l’uomo non si può assicurare un senso. La mera contingenza sperimentale non può dare fondamento alla ragione.
A mio giudizio, questa è la diagnosi decisiva: la ragione scientista che riduce indebitamente l’uomo a pura materia, non riesce più a dar ragione del suo stesso senso e del suo agire razionale, a partire dalle premesse che essa stessa ha stabilito. L’attività razionale dell’uomo, ivi inclusa quella dello scienziato che postula il materialismo, non sarebbe altro che uno sguardo immobile di una cosa, di un soggetto, o, piuttosto, di un oggetto che ignora sé stesso.
Le conseguenze della riduzione materialista sulla libertà sono gravissime. Per non dilungarmi troppo cito, come sintesi, le parole di uno che ha saputo anticipare queste conseguenze in tutta la loro crudezza, sempre Friedrich Nietzsche. Cito: “si scoprì finalmente che anche questo essere, l’uomo, non è responsabile, perché egli è completamente una conseguenza necessaria, a partire dagli elementi e dagli influssi delle cose passate e presenti. Perciò” – dice Nietzsche – “l´uomo non può essere ritenuto responsabile di niente, né in merito al suo essere, né ai suoi motivi, né ai suoi atteggiamenti o comportamenti. Così si è giunti a sapere che la storia dei sentimenti morali è la storia di un errore: l’errore della responsabilità, il quale riposa a sua volta sull’errore della libertà, della volontà” Se questo è l’esito di una concezione dell’uomo che nega la sua unità duale di anima e corpo, se non si riesce ad avere una spiegazione dell’enigma, possiamo dire almeno, come finale, che il cammino resta aperto e che tocca a ognuno di noi, all’uomo comune, allo scienziato, al filosofo e al teologo, riprendere il cammino. Tocca a ognuno di noi scoprire lo stupore davanti a sé stessi, commuoversi davanti alla propria fattura umana, meravigliarsi davanti alla misteriosissima unità che ci fa essere quello che siamo, immagine di Dio.
Finisco. La novità più grande che il cristianesimo introduce nel mondo è proprio l’esperienza dell’incontro con Cristo, morto e risorto, che converte il mistero che si percepisce oltre, il punto di fuga, così come si attesta anche in me e in te, in tutti noi, lo converte nel contenuto di un rapporto umano, lo fa diventare contenuto di esperienza. L’enigma non scompare, ma è potenziato in modo tale che la ragione e la libertà si sentono provocate come non mai. Ecco quello che accade all’uomo cristiano anche davanti alla sua unità di anima e corpo, rilanciato, sfidato a non ridurre il reale secondo misure che non fanno giustizia alla esperienza elementare.
Il frutto di questo incontro è una autocoscienza di sé chiara, piena di certezza circa la propria origine e circa il destino che ci attende, fino a rendere possibile il dono di sé.
L’esempio più bello che io ho visto in vita mia è ancora Giussani che dice così, come quella novità di autocoscienza… “è una semplicità del cuore quella che mi faceva sentire e riconoscere come eccezionale Cristo, con quella immediatezza certa, come avviene per l’evidenza inattaccabile e indistruttibile di fattori e momenti della realtà che, entrati nell’orizzonte della nostra persona, colpiscono fino al cuore” – fin qui Giussani .
L’uomo educato dalla Chiesa può vivere con una certezza immediata, che nasce dall’evidenza indistruttibile con cui la realtà, in tutte le sue dimensioni, anche la realtà umana, ci tocca fino al cuore, e così il riconoscimento di Cristo domina la vita e la rende capace di dare tutto con letizia.
Per la certezza che nasce da una evidenza accolta con semplicità di cuore il cristiano comunica a tutti quello che gli è accaduto, ha veramente esperienze da raccontare, perché gli hanno cambiato la vita radicalmente, e diventa un protagonista imprevisto e tenace della storia umana.
La forma più sorprendente e definitiva del rapporto esistenziale con l’infinito è la mendicanza, che permane nel tempo grazie all’iniziativa con cui l’infinito stesso, da sempre, ci precede. Cito: “l’esistenza si esprime come ultimo ideale nella mendicanza. Il vero protagonista della Storia è il mendicante. Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”.
MODERATORE (Elena Guarnieri)
Caro Prades, avevi ragione, la terza parte è stata una bella passeggiata di montagna. Molto affascinante, però. Non andiamo – io, almeno, dico, per quanto mi riguarda – non andiamo via di qui dicendo “adesso riprendo il testo”, che è un’affermazione molto noiosa, secondo me, anche perché siamo qua, siamo al Meeting, non per riprendere i testi. Io vado via di qui soprattutto affascinata da una prospettiva come quella che tu hai illustrato, cioè affascinata, commossa innanzi tutto, ancora una volta, da questa esperienza del bisogno, della domanda di infinito che tu ci hai fatto vedere, commossa dal modo con cui ci hai ri-detto che il cristianesimo è una storia da raccontare, e che è cominciato con il racconto di una storia. E assolutamente affascinata e curiosa di capire, di cogliere, di sperimentare, di accorgermi sempre di più di queste implicazioni culturali di cui tu ci hai parlato, delle quali tu ne hai illustrate alcune, giustamente dicendo, però, questo è il terreno di paragone per ognuno. Quello che mi affascina è questa possibilità di una conoscenza nuova. Lo dico, e non posso non dirlo – vedo qui davanti a me don Negri – la prima volta che ho sentito dire nella mia vita, Sua Eccellenza Monsignor Negri, che Cristo è la nostra cultura, è stato da lui e avevo 15 anni. Questo mi ha affascinato e sono ancora dietro a scoprire che cosa vuol dire e quali siano le implicazioni di questo. Ma lo scopro non tanto riprendendo i testi, ma vivendo la strada e l’esperienza nella quale sono.
Quindi io ti ringrazio moltissimo, mi sembra insieme a tutti.
Trascrizione non rivista dai relatori