LA NASCITA DI SISTEMI PLANETARI: ALL’ORIGINE DELLA DIVERSITÀ DEI MONDI

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Stefano Facchini, professore di Astrofisica, Università degli Studi di Milano; Ewine van Dishoeck, star and planet formation expert, Kavli-Prize winner, Leiden Observatory. Introduce Marco Bersanelli, professore di Fisica e Astrofisica, Università degli Studi di Milano

Una nuova importante scoperta sui pianeti e sulla loro formazione, il ruolo fondamentale dell’acqua nel nostro pianeta e nella realizzazione di questo processo. Uno dei fronti più affascinanti dell’astrofisica contemporanea è comprendere come le leggi di natura e le condizioni fisico-chimiche dell’universo abbiano portato alla formazione della Terra, del sistema solare e degli innumerevoli sistemi planetari intorno a stelle lontane. Nell’ultimo decennio, grazie a nuovi strumenti da terra e dallo spazio, per la prima volta siamo in grado di osservare direttamente la nascita di nuovi pianeti e di raccogliere informazioni dettagliate sulla sorprendente varietà e ricchezza che caratterizza i sistemi planetari al di fuori del nostro sistema solare. In questo incontro esploreremo insieme dati recentissimi ottenuti con i più potenti telescopi oggi disponibili, grazie ai quali stiamo incominciando a comprendere il processo di nascita e di evoluzione dei pianeti, e ad allargare anche la nostra visuale sulle origini del pianeta che abitiamo.

Con il sostegno di Tracce

LA NASCITA DI SISTEMI PLANETARI: ALL’ORIGINE DELLA DIVERSITÀ DEI MONDI

LA NASCITA DI SISTEMI PLANETARI: ALL’ORIGINE DELLA DIVERSITÀ DEI MONDI

Giovedì 22 agosto 2024 ore 21:00

Auditorium Isybank D3

Partecipano:
Stefano Facchini, professore di Astrofisica, Università degli Studi di Milano; Ewine van Dishoeck professoressa di Astrofisica Molecolare, Osservatorio di Leiden, Olanda.

Introduce:

Marco Bersanelli, professore di Astrofisica, Università degli Studi di Milano

 

Bersanelli. Buonasera, buonasera a tutti. Benvenuti a questo incontro, che, come ogni anno al Meeting, ci invita a guardare da vicino un argomento, un tema di frontiera della scienza, un tema riguardante un aspetto della natura che, grazie alla ricerca, noi riusciamo ad avvicinare. È visto il titolo di quest’anno del Meeting, che ci invita a riflettere su ciò che è essenziale, abbiamo pensato di mettere a tema qualcosa che è veramente essenziale per ciascuno di noi e per ogni forma di vita conosciuta: il fatto che noi viviamo su un pianeta. Noi viviamo su un pianeta molto particolare, straordinario, la nostra Terra, alla quale è dedicata la mostra e l’area scientifica qui al Meeting, per cui potremo, visitandola, apprezzare tutte le caratteristiche veramente eccezionali del nostro pianeta. Ma la Terra non è l’unico pianeta; ci sono gli otto pianeti del nostro sistema solare e una moltitudine sterminata di pianeti intorno ad altre stelle. Ma il fatto stesso che i pianeti esistano, cioè che la natura abbia inventato questo ambiente planetario, è un fatto straordinario, tutt’altro che scontato. La loro formazione è qualcosa di complesso, e soltanto oggi l’astrofisica riesce, inizia a riuscire, a comprendere come si formano i pianeti. Ecco, questo sarà il tema di oggi e abbiamo due, come sempre quando facciamo questi incontri, grandi protagonisti di questo tipo di ricerca. Vorrei subito andarveli a presentare, iniziando da Stefano Facchini. Stefano è professore di astrofisica all’Università Statale di Milano; ha fatto il dottorato all’Institute of Astronomy di Cambridge e ha poi ricoperto posizioni di ricerca al Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics, di cui i supervisor erano Ewine, che fra poco presenteremo, e Agarking. La ricerca di Stefano si concentra sulla caratterizzazione delle condizioni fisiche e chimiche della formazione dei pianeti e sulla scoperta dei pianeti nelle nubi soffici, grazie alle quali queste strutture si formano. Recentemente ha vinto un importante Grant, un ERC, ed è anche corresponsabile di un programma chiamato ESO ALMA, un progetto di grande portata per l’individuazione di pianeti nascosti appunto nei loro dischi protoplanetari, di cui sentiremo parlare stasera, ed è anche alla guida di vari programmi di JWST per l’imaging diretto di questi protopianeti. E lo scorso febbraio Stefano è stato protagonista di una scoperta importante pubblicata su Nature Astronomy, che ha avuto anche un’eco significativa, con una release dell’ESO, sul ruolo particolare che l’acqua svolge nella formazione dei pianeti. Grazie Stefano per essere qui.

Facchini. Grazie a voi.

Bersanelli. Ewine van Dishoeck. Ewine è una delle massime autorità mondiali nel campo della formazione planetaria, dell’astrochimica e della fisica del mezzo interstellare. È professoressa di astrofisica molecolare all’Università di Leiden, in Olanda, e ha ricoperto posizioni di ricerca a Harvard, a Princeton e al Caltech. L’impatto del suo lavoro è davvero straordinario, enorme, soprattutto per il modo innovativo in cui ha unito la chimica con la fisica per comprendere questi processi astrofisici veramente complessi. Ha avuto un ruolo di primo piano anche nella pianificazione di telescopi della nuova generazione, come JWST e ALMA. Ha ricevuto una serie veramente impressionante di riconoscimenti, di cui cito solo uno: il premio Kavli, che è paragonabile al premio Nobel. Ewine fa parte anche di molte accademie nazionali, tra cui quella dei Paesi Bassi, degli Stati Uniti, della Germania, della Norvegia, fa parte della Pontificia Accademia delle Scienze ed è stata Presidente dell’Unione Astronomica Internazionale. Ma vorrei dire anche che Ewine ha cresciuto una generazione di astrofisici, di cui uno è Stefano, ma non è l’unico presente qua. Oggi a pranzo eravamo in tre o quattro, veramente suoi figli scientifici. Questa sua attenzione all’educazione e alla formazione scientifica dei giovani credo sia di un’importanza paragonabile al suo diretto contributo scientifico. E dulcis in fundo, è un’appassionata di arte ispirata dall’astronomia. Quindi grazie, Ewine, per essere qui con me. Bene, allora io proporrei di incominciare a farci raccontare, cominciando da Stefano, qualcosa della loro ricerca, di questa comprensione di questo fenomeno straordinario, complesso e vitale, essenziale, che è la formazione dei pianeti.

Facchini. Grazie Marco, abbiamo deciso di fare queste presentazioni in piedi perché siamo abituati a parlare così quando presentiamo i nostri risultati scientifici. Ma prima di iniziare, volevo anche io rinnovare la mia gratitudine a Ewine per essere qui, perché il lavoro con lei, mentre ero al Max Planck Institute in Germania, è stato veramente una parte essenziale della mia crescita e della mia costruzione professionale. Quindi grazie ancora a Ewine per esserci.
Riprendendo quanto diceva Marco nell’introduzione, quello che tenterò di farvi vedere con brevi accenni scientifici oggi è rispondere a alcune di queste immense domande. Quali sono quei meccanismi fisici e, in parte, chimici per cui l’universo, nella sua grande complessità, nella sua enormità e nel suo ordine, è in grado di portare allo sviluppo e alla costruzione di sistemi così piccoli, così accuratamente precisi, che sono i sistemi planetari? Vivendo sopra uno di questi, diamo per scontato che esistano, ma scientificamente è un processo molto complesso, e non è scontato che le leggi fisiche e le condizioni iniziali dell’universo, in maniera coesa, portino a questo fiore, se vogliamo, che sono i sistemi planetari stessi. E che cosa ne determina le proprietà? Iniziando a guardare, ci faremo aiutare da alcune slide durante queste due presentazioni. Per anni, per decenni, secoli, addirittura millenni, l’uomo si è abituato o ha potuto vedere un sistema planetario, che è il nostro sistema solare. Come sapete, questo è formato da otto pianeti e da molto tempo si sa che si distingue in due classi principali. I pianeti interni, che sono i pianeti rocciosi come Marte e la Terra stessa. I pianeti esterni, che possiamo classificare come giganti gassosi. Uno di questi è Giove. Una piccola parentesi: tutte le immagini che farò vedere sono immagini scientifiche, fotografie o dati. Le uniche simulazioni che farò vedere le specificherò, quindi saprete se stiamo guardando immagini o simulazioni. Ma da questo sistema solare, la domanda che giustamente si pone a noi e a tutti è: che cosa succede nel cielo sopra di noi? In questa grandissima struttura che è la nostra galassia, in cui adesso facciamo un piccolo zoom per vedere quante stelle la abitano. Sono circa 200 miliardi solo nella nostra galassia. Attorno a ognuno di questi puntini, che ogni sera, sia che li vediamo o meno, sono sopra la nostra testa, attorno a queste ci sono pianeti di che tipo e come si sono formati? La scienza, dal 1995 circa, ha evidenziato che il numero di sistemi planetari è in realtà immenso. Questo è l’unico grafico scientifico che vi farò vedere. Quello che vedete è un grafico in cui, in giallo, riproduco i punti che sono del sistema solare, ogni punto rappresenta un pianeta. Più ci alziamo nel grafico, più i pianeti sono massivi, quindi Giove. Più andiamo verso destra, più i pianeti si trovano distanti dalla stella attorno a cui orbitano. Ognuno di quei punti grigi è un pianeta osservato attorno a una stella che non è il Sole. Ad oggi ne abbiamo osservati più di 5.500. Ma senza spiegare nel dettaglio questo grafico, ci sono due conclusioni che gli scienziati hanno potuto dedurre. La prima è che, in media, nella vicinanza del nostro sistema solare, ogni stella ospita almeno un pianeta. Questo significa che il meccanismo di formazione planetario è estremamente efficiente. Il secondo punto è che questi pianeti mostrano un’enorme varietà nelle loro proprietà fisiche. Da che cosa lo capiamo? Che quei puntini grigi non cadono dove sono i puntini gialli. Non perché manchino o non possiamo ancora osservarli, quelli simili a quelli gialli, ma sicuramente c’è molta diversità. E questo deve dipendere da come si formano i pianeti stessi. Per andare a zoomare dentro una regione dove in questo momento si stanno formando pianeti, vediamo brevemente questo video in cui ancora abbiamo la Via Lattea sopra di noi e ci addentriamo nella costellazione del Toro. Questa stella arancione, per chi è appassionato, è Aldebaran. Riconoscete il Toro, e andiamo in una regione che ha una nube molecolare, di cui parlerà meglio Evine, e continuiamo a zoomare. Adesso stiamo vedendo luce visibile, poi passeremo tra poco all’infrarosso, che è una luce un po’ diversa per vedere meglio dentro, e tra qualche istante accenderemo le onde radio, quindi osserviamo questo stesso sistema attraverso le onde radio, che vuol dire che andiamo a vedere materiale molto freddo e questo è quello che osserviamo. Al centro c’è una stella che non possiamo vedere con questo tipo di luce e attorno vediamo questa struttura ad anelli. Questa struttura di anelli che si colloca su un piano è quello che noi chiamiamo disco protoplanetario, che è uno dei sistemi in cui in questo momento pensiamo stiano nascendo pianeti. Lo riprenderò in breve che cosa stiamo vedendo con quest’immagine: stiamo vedendo piccoli granelli di polvere, grossi circa un millimetro, che a meno 250 gradi emettono un pochino di energia di luce che noi riusciamo a catturare con i nostri telescopi, ma lo riprenderemo. Questo ancora è lo stesso sistema, semplicemente girato. In basso a sinistra potete vedere quali sono le lunghezze tipiche, le dimensioni tipiche di questo sistema, in cui il diametro è circa 400 volte la distanza che c’è tra il Sole e la Terra. Anche questa è un’altra immagine, sempre di un altro disco protoplanetario, di queste strutture ad anelli che sono un po’ più grosse del nostro sistema solare in questo caso. E da che cosa sono formate? Nell’1% sono formate da polvere o da piccoli grani che sono grossi circa un millimetro o un centimetro. Ma nella grande maggioranza, circa il 99% di questi, sono formati da gas, come vedete in questa immagine, principalmente da idrogeno molecolare e da elio, ma anche da monossido di carbonio che noi possiamo osservare dalla Terra. Come si formano questi pianeti? In modo molto semplice, poi ci addentriamo un pochino. Le grandi nubi molecolari, che hanno dimensioni dell’ordine di decine di migliaia di parsec, decine di migliaia di AU (unità astronomiche), scusate, queste strutture piano piano iniziano a collassare su sé stesse perché sentono la gravità l’una parte dell’altra. Collassando su sé stesse, hanno una piccola rotazione e iniziano a collassare ruotando sempre in maniera più vertiginosa per dei motivi fisici molto semplici in realtà e girando sempre più velocemente, quello che succede è che si forma un disco piatto. È in questo disco che si formano i pianeti; questo è un disco protoplanetario, ed è per questa ragione che i pianeti del nostro sistema solare si trovano su un piano, perché sono nati da esattamente una di queste strutture. Queste non sono immagini reali, ma sono ricostruzioni. Che cosa succede nel disco e come si formano i pianeti in questo disco? Ci sono due modi principali. Il primo modo si chiama instabilità gravitazionale, una cosa un pochino complicata. Per spiegarvelo vi faccio vedere questa piccola simulazione. Quando il disco ha molta massa, ruotando attorno alla stella, può accadere che delle piccole parti del disco diventino instabili e del gas vada a collassare su sé stesso formando enormi grumi di gas, grossi circa 10 o 5 volte la massa di Giove. Questo è uno dei modi con cui pensiamo si possano formare i pianeti più massicci mai visti attorno ad altre stelle. Ma non solo possiamo supporlo dalla teoria, ma recentemente abbiamo iniziato a catturare questo tipo di immagini, che è l’immagine di un gas un disco protoplanetario, che dalla struttura a spirale sta evidentemente andando dentro un processo di instabilità gravitazionale. Ma la cosa interessante è che questo forma molto pochi dei pianeti che abbiamo visto finora, quindi non è il meccanismo di formazione dominante. Qual è, invece? Quello che pensiamo è il cosiddetto metodo, in inglese si chiama coracretion, che vuol dire metodo di crescita di un nucleo. E che cosa dice questo? Adesso non leggete questo grafico, le parole che ci sono dentro. Ma questo significa che la polvere, che è della dimensione di un micron, un milionesimo di metro, che sta dentro questo disco, piano piano deve poter appiccicarsi, in qualche modo, crescere, coagulare e diventare grossa quanto, ad esempio, la Terra. Questo vuol dire che da particelle che sono grosse un milionesimo di metro dobbiamo formare qualcosa che è grosso 10.000 chilometri in raggio. Sono, si dice, 13 ordini di grandezza, che vuol dire 13 zeri scritti uno di fianco all’altro in crescita di dimensioni. E questo significa che sono circa 50, per semplificare, 50 zeri in crescita di massa di questi sistemi. Ora non abbiamo il tempo di entrare nei dettagli di come questo meccanismo funzioni, ma quello che posso dirvi è che moltissime domande attorno a come questi piccoli grani di polvere piano piano crescano fino a formare nuclei di pianeti come Giove o la Terra stessa hanno moltissime domande che sono ancora aperte, sono un attivissimo campo di ricerca. Quello che però l’universo ci dice è che questo processo, che è l’insieme di tanti processi complicati, è incredibilmente efficace, cioè funziona incredibilmente bene, funziona così bene che noi oggi siamo qua a poterne discutere. Ora, che cosa possiamo fare per andare a trovare questo tipo di pianeti, a fare osservazioni che ci dicano come e se questi meccanismi funzionino? Usiamo un certo tipo di strumenti, di telescopi. Farò vedere dati soprattutto da due telescopi fondamentali. Uno è ALMA, che è quello che io preferisco per storia e perché lo utilizzo molto quando riesco a ottenere dati. È un insieme di antenne che sono grosse 12 metri in diametro, sono circa 60 antenne, che si trovano a 5100 metri nell’altipiano di Chajnantor in Cile, e lavora nelle onde radio, per semplicità. L’altro strumento invece sono telescopi che lavorano in luce visibile e infrarossa, sempre in Cile, che hanno il nome di Very Large Telescope, sempre di ESO, quindi a guida europea e anche italiana. Osservando tante di queste stelle che nascono, che sono al centro di ognuno di questi dischetti, cosa abbiamo capito? Che la maggior parte, se non tutti, i sistemi in cui stanno nascendo i pianeti oggi, ora che li guardiamo, hanno queste sottostrutture, le chiamiamo, questi anelli e questi spazi vuoti, così come sono gli anelli di Saturno. Qui stiamo vedendo ancora un’immagine dell’emissione termica della polvere. E in modo analogo possiamo vedere immagini di come questi dischi siano visibili quando vediamo la luce riflessa dalla stella principale, dalla stella centrale. Questa è un’immagine di una luce, chiamiamola riflessa, nell’infrarosso. Anche qua vediamo che questi sistemi non sono dischi puliti, ma sono molto, si dice, sottostrutturati. Hanno degli anelli, hanno delle spirali. Perché? Che cosa vuol dire? Quello che pensiamo è che questi sistemi siano strutturati perché stanno interagendo con pianeti che vi stanno nascendo. E siamo andati a cercarli. Questa, che sembra un’immagine abbastanza non particolarmente interessante, quello che in realtà vi sta facendo vedere, se vi focalizzate su questi due piccoli punti, è che al centro c’è una stella che è coperta da un piccolo dischetto per non bruciare la fotocamera dietro al telescopio. È questo piccolo punto luminoso vi sta facendo vedere il primo pianeta che sta nascendo in un sistema fuori dal nostro. Se facciamo un passo indietro mentale, penso che possiate realizzare quanto questo sia impressionante. A oggi, in un sistema che è vecchio più di 4 miliardi di anni, possiamo assistere alla nascita di un nuovo mondo. E non solo, abbiamo osservato questo stesso sistema, però ora a lunghezze d’onda radio, e quello che abbiamo visto è che quel puntino era da un’altra parte. Vedete che ora è a destra, non è più sotto. E che cosa abbiamo capito? Che in realtà questo sistema in cui stanno nascendo pianeti ospita due pianeti in formazione, che vengono chiamati con questi nomi strani, PDS-70B e C, e che questo puntino che vediamo sulla destra, in realtà, scusate, altro non è che polvere che sta formando, pensiamo, delle lune attorno a un pianeta che sta nascendo. Non vediamo solo pianeti in formazione, ma anche lune in formazione. Come facciamo però a osservare questi pianeti in altri sistemi? Perché è estremamente difficile trovarli mentre questi pianeti stanno nascendo. Parentesi che mi sono dimenticato di dire, quanto ci mettono a nascere i pianeti? Circa da 1 a 10 milioni di anni, che per chi fa astrofisica è un tempo estremamente breve. Tutto è relativo. Qui vi faccio vedere una simulazione che ci dice che quando un pianeta è immerso in un disco protoplanetario e ruota attorno, va a formare nel gas delle strutture a spirale. Perché? Perché crea delle onde, come quando, lo vedremo tra poco, lancio un sasso in uno stagno, questo va a creare delle onde; la stessa cosa sta succedendo in questo disco che orbita un pianeta, che funge da sasso, che va a orbitare nello stato dinamico del sistema. E, sarò breve, quello che si è capito è che mentre nel gas si vedono delle spirali, nella polvere ci si aspetta di vedere degli anelli, che è esattamente quello che vi ho fatto vedere prima. E questo ci dice che probabilmente alcuni, se non tutti, degli anelli che vi ho fatto vedere ci stanno dicendo che questi sistemi, che nascono pianeti appena nati, ospitano pianeti appena nati. Ma come facciamo a vedere se queste spirali ci sono? E questo è uno della ricerca di cui mi sono occupato negli ultimi tre anni circa. E altro non è che, per analogia a quello che vi ho detto poco fa, pensate a una papera che sta nuotando in un lago, va a creare delle onde che nel suo caso sono a cono. Se noi prendiamo questo cono e lo mettiamo dentro un disco che gira, questo diventa esattamente le spirali che vi ho fatto vedere prima. In realtà è un concetto molto semplice. Che cosa abbiamo fatto? Siamo andati a cercare queste piccolissime perturbazioni in questi dischi. Questo è un lavoro degli ultimi tre anni che non è stato ancora pubblicato, ma lo mostriamo in anteprima al Meeting. Queste sono alcune delle immagini di questi dischi protoplanetari mostrati nel gas. Adesso i colori cambiano perché sono onde radio, quindi dobbiamo mapparli in colori visibili. Ma quello che possiamo fare, siamo riusciti a fare, è che noi riusciamo a vedere in maniera estremamente accurata la velocità di questi sistemi. E se noi togliamo la velocità di rotazione che noi conosciamo molto bene, quello che andiamo a vedere è la piccola velocità di queste onde che si propagano nel disco. A sinistra sono i dati, in mezzo il modello di un disco che ruota normalmente, e a destra, quello che vediamo, è il risultato di queste ondine che emergono nella nostra accurata analisi dati. E quello che si vede è che questi dischi ospitano esattamente quelle spirali che erano state predette per interazione tra disco e pianeta. Non tutti, ma almeno alcune. Un piccolo accenno: noi con questo tipo di dati riusciamo a vedere del gas che si muove a circa 10.000 miliardi di chilometri da noi a velocità di 10 metri al secondo, che vuol dire che io riuscirei a vedere e a distinguere in termini di velocità una persona che sta correndo su questo palco. Noi lo facciamo 10.000 miliardi di chilometri da noi in un sistema in cui stanno nascendo pianeti. Questo è il livello della tecnologia che siamo riusciti a sviluppare per avere questo tipo di informazioni. Concludo. E queste altre spirali. Con l’ultimo accenno, c’è una zona molto particolare in cui questi pianeti potrebbero o possono nascere, che è la zona di transizione in cui questo disco da molto caldo, in cui l’acqua è quindi in vapore, diventa molto freddo, in cui l’acqua diventa ghiaccio. Questa zona di transizione, in inglese la chiamiamo snow line, non so in italiano se abbiamo una traduzione, ma penso che l’abbia capito tutti. È una zona in cui l’acqua, passando da ghiaccio a vapore, condensa sempre di più su questi grani, facendoli diventare delle specie di grandi palle di neve, quindi si appiccicano facilmente e fanno crescere nuclei di pianeti. Pensiamo che Giove potrebbe essere nato esattamente così. Ora, che cosa siamo riusciti a fare? Siamo andati in questo ultimo sistema, in questo stesso sistema che abbiamo visto prima, HL Tauri, e quello che siamo riusciti a fare per la prima volta è riuscire a mappare il vapore acqueo nel centro di questo sistema. Questo che cosa ci sta dicendo e quindi mi concludo poi portando all’intervento che sarà di Ewine, è che abbiamo delle prime immagini che ci dicono come proprietà della materia a livello, diciamo, minuscolo quantistico nell’infinitamente piccolo in realtà decidano meccanismi fisici che accadono su scale di miliardi, anzi più, di miliardi di chilometri che decidono, possono decidere della formazione stessa di pianeti e che possono aver deciso della formazione del nostro sistema solare così com’è. In questo c’è questo intrinseco e stupendo legame tra quello che è la proprietà della fisica nell’infinitamente piccolo, nel suo plasmare, la fisica dell’estremamente grande, che è l’universo nella sua interezza, ma per quello che ci interessa stasera, la formazione planetaria. E penso non ci sia momento migliore per lasciare la parola a Ewine, che è la massima esperta esattamente di questi temi. Grazie.

Van Dishoeck. Buonasera. Buonasera. Mi scuso per non riuscire a parlare in italiano, quindi parlerò in inglese, ma è davvero un piacere vedervi qui così numerosi, è davvero fantastico essere qui. Quindi, continuerò il racconto che vi stava facendo Stefano e lo farò avvalendomi di alcune slide, ma per prima cosa ci tengo a ringraziare tutti i giovani con cui ho avuto il privilegio di lavorare, Stefano ma tantissimi altri, anche alcuni che sono qui nel pubblico. È grazie a voi che adesso abbiamo tutti questi risultati straordinari. Bene, Stefano vi ha già parlato del cielo e qui nelle Dolomiti avete un cielo stellato di notte meraviglioso. Potete vedere non solo i pianeti ma anche la Via Lattea. E allora ci si può chiedere: ma da dove veniamo? E qual è il nostro spazio, il nostro ruolo nell’universo? Ebbene, possiamo richiamare le parole di Kant, che disse che le due cose che riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuove e crescenti sono il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me. Quindi le nostre origini risalgono proprio alla Via Lattea, a queste nuvole. Uno dei miei hobby, non solo l’astronomia, ma anche l’arte. Provenendo dai Paesi Bassi, non devo allontanarmi per andare ad ammirare la notte stellata di Van Gogh, ma dall’altra parte del mondo, gli indigeni in Australia avevano già cominciato a sognare la Via Lattea e quindi l’avevano già resa parte integrante della loro vita. Vi invito anche a vedere la bellissima mostra di William Congdon proprio qui al Meeting. Ci sono diversi dipinti della Luna, fra l’altro. Abbiamo già parlato della diversità degli esopianeti. Ogni stella ha almeno un pianeta e ci sono più pianeti che stelle nella nostra Via Lattea. Ma abbiamo la Terra, abbiamo Giove, ma abbiamo anche altri pianeti, i cosiddetti super-Terre o mini-Nettuno, che non ci sono nel nostro sistema solare. E quindi questo solleva un interrogativo: qual è la loro composizione? Potrebbero essere pianeti abitabili? E allora è proprio di questo che parleremo. E collegato a questo tema, c’è un’altra domanda: in che modo ci siamo formati 4,6 miliardi di anni fa? Ebbene, su questo abbiamo informazioni dagli asteroidi, ma anche traiamo informazioni dalle comete. Le comete non sono solo rocciose, non sono solo rocce, sono rocce e ghiaccio. E abbiamo proprio anche una missione molto, molto importante e interessante su questo tema, e vi parlerò anche dello strumento più nuovo e recente che abbiamo per studiare questi interrogativi. Si tratta del telescopio spaziale James Webb. In realtà è il risultato di un viaggio durato 30 anni, perché ci sono voluti 30 anni per arrivare a questo momento. Qui nell’angolo, qui in alto, vedete i pannelli solari, vedete proprio Webb in azione. È stato un momento davvero emozionante, l’ultimo momento in cui l’abbiamo avvistato grazie al lavoro di migliaia di tecnici, ingegneri, manager e scienziati. Abbiamo questa straordinaria missione condotta dalla NASA, ma anche con un fortissimo coinvolgimento europeo. Io ho cominciato a essere coinvolta con questo progetto più di 25 anni fa. Sono stata parte dei comitati e ho anche contribuito alla costruzione di uno degli strumenti che sono installati su Webb. Quindi si tratta dello strumento MIRI, del medio infrarosso. Vedete qui Webb, che, appunto, vedete la Terra, vedete la Luna, ed è a una distanza di 1,5 milioni di chilometri, e adesso Webb si trova lì, e quindi si trova in un luogo in cui ha sempre la Luna, la Terra e il Sole dallo stesso lato. Vedete quindi anche i rumori che interferiscono con il segnale. C’è un grande schermo che protegge da queste interferenze. Ma cosa rende questo telescopio unico? Innanzitutto è enorme, è grandissimo, 6,5 metri, e soprattutto ha una struttura particolare. Vedete che è innanzitutto molto grande, soprattutto rispetto ad esempio a quel gruppo di persone che era vicino a lui nella foto, ma soprattutto Webb è speciale per altri motivi: i suoi occhi, per così dire, sono molto più potenti dei nostri, vanno oltre la spettrometria del colore dell’arcobaleno. Quindi abbiamo sentito parlare delle onde radio, conosciamo i raggi X, e Webb dov’è? Vediamo che questo telescopio può vedere la parte infrarossa dello spettro, che è oscurata dalla nostra atmosfera. È per questo che bisogna andare nello spazio per poter vedere l’infrarosso. Ma il telescopio è dotato di vari strumenti a bordo, quattro. Abbiamo delle telecamere, quindi delle macchine fotografiche speciali potentissime, ma anche degli spettrografi che permettono di trasformare le radiazioni in colori dell’arcobaleno e utilizziamo proprio questo per studiare la chimica. Si tratta di strumenti estremamente sofisticati. E perché abbiamo deciso di rivolgerci all’infrarosso? Innanzitutto perché così possiamo sbirciare all’interno di queste nebulose, di queste nuvole, per studiare come nascono anche le stelle. Ma adesso vorrei accompagnarvi in un viaggio alla scoperta di come questo telescopio è stato costruito, come è stato possibile. Allora, qui vediamo questi strumenti che abbiamo costruito tra il 2002 e il 2008, quindi diverso tempo fa. Poi questi strumenti sono stati mandati nel Regno Unito e successivamente sono stati integrati e consegnati alla NASA, quindi negli Stati Uniti, e quindi al Centro di Voli Spaziali a Washington. Poi tutti questi strumenti sono stati uniti, messi insieme, e il telescopio è stato costruito. Quindi vedete questo occhio dorato che lo contraddistingue. Gli strumenti sono stati poi installati sul retro del telescopio. E poi da Goddard tutto è stato mandato a Houston. E qui forse qualcuno si può ricordare dell’importanza di Houston come centro. “Houston, abbiamo un problema,” la famosissima frase relativa alla missione Apollo. Ma la stessa camera di test è ancora disponibile ed è stata di fatto utilizzata proprio per testare il telescopio Webb e tutti i suoi strumenti, le dotazioni. Questo è avvenuto proprio a Houston. Questa fase poi da Houston è andata a Los Angeles e là vedete questo schermo solare che è stato installato, è stato testato completamente, e questa è stata una fase essenziale per poter consentire anche il raffreddamento del telescopio. Poi da Los Angeles è passato alla Guiana Francese, dove c’è il sito di lancio dell’ESA, è stato trasportato via nave. Ecco, per fortuna non ci sono stati problemi o dirottamenti della nave e vedete che è arrivato poi al sito di lancio e da lì è stato integrato nell’Ariane 5, quindi il razzo che vedete qui. E perché questo? Perché è quello che ha la punta più grande, perché Webb aveva bisogno di stare perfettamente nella punta, quindi è stato installato alla perfezione, quasi come un origami, è stato messo sulla punta di questo razzo di lancio e poi è stato lanciato e quindi è stato dispiegato nello spazio. Per fortuna è andato tutto bene, anche se i problemi potenziali potevano essere tanti. In realtà è andato tutto benissimo, eravamo tutti sollevati quando qualche mese dopo ha mandato le prime immagini e abbiamo visto che tutto funzionava bene e abbiamo ricevuto queste splendide immagini estremamente nitide. Quindi davvero siamo stati tutti molto contenti e sollevati e quasi ogni giorno praticamente riceviamo bellissime immagini dal telescopio Webb. Qui vedete un’intera galassia. Ecco, vedete anche quello che è possibile collegare con lo strumento MIRI. La parte blu sono le stelle, quindi con le lunghezze d’onda più corte. Vedete che questa galassia è piena di stelle in formazione. Questo è un altro esempio. Vedete invece l’esplosione che dà vita a una stella e poi tante altre. Guardate queste bellissime immagini, una più bella dell’altra. Potete vedere anche il sito webtelescope.org e anche scaricare queste foto. Ma adesso torniamo alle nostre nuvole. Quindi potete riconoscere questa costellazione, credo che la riconosciate, è Orione. Cosa c’è fra le stelle? Lo spazio tra le stelle non è vuoto, ma è pieno di un gas estremamente diluito. Le concentrazioni più spesse appunto vengono chiamate nuvole, un po’ proprio come la nebulosa di Orione. Queste nuvole consistono quindi di gas ma anche di particelle di polvere. Questo gas non è quello della tavola periodica che avete imparato al liceo. L’idrogeno è sicuramente l’elemento più abbondante, poi c’è l’elio, ma non fa molto chimicamente. Ma l’elemento più interessante è l’ossigeno, l’azoto, il carbonio, quelli sono gli elementi anche di cui siamo fatti noi. E sono presenti in frazioni, pochissimi, sono davvero scarsi. E siamo stati sorpresi dal fatto che, nonostante il vuoto, c’è una grande ricchezza chimica. Vediamo alcune immagini di queste nuvole scure e in media ci sono solo 10.000 particelle per centimetro cubo, quindi milioni di volte meno rispetto alla densità che abbiamo sulla Terra, con una pressione molto più bassa, un vuoto molto più alto. Quindi vediamo che c’è sicuramente un vuoto estremamente più alto ed è anche molto freddo, molto più freddo che sulla Terra. E abbiamo queste particelle di polvere, di cui ha parlato anche Stefano, che assorbono e riflettono la luce e soprattutto fanno apparire queste nuvole molto scure. E così come quando, ad esempio, del fumo si libera nell’atmosfera non lo si vede molto a lungo. Vedete qui un’altra nebulosa. Vediamo che grazie alle immagini di Webb possiamo, per così dire, vederle anche noi. Ma vediamo qui un’altra immagine, questa è la stessa nuvola di prima però adesso vista dal telescopio mentre prima era vista come la vedremo normalmente in arancio. Vedete quindi la nuvola e poi in rosso i puntini sono stelle che nascono e quindi ne vedete, ce ne sono varie e in un certo senso le possiamo vedere con precisione. E poi anche i famosi pilastri della creazione, sempre visti adesso grazie a MIRI. E vedete questi puntini, altre giovani stelle che si sono formate in questa nuvola. Questa è una nuova immagine mandata sempre dal telescopio di una protostella che è ancora integrata nella nuvola. Ma vedete questi getti che si sono formati e che è come se spingessero via tutti i materiali circostanti. Questa immagine, vedete, è stata messa anche sulla copertina di questa pubblicazione, “È nata una stella,” ed effettivamente in questa immagine vediamo una stella che è appena nata. Ma cosa osserviamo in queste molecole? Come le osserviamo? Stefano ha parlato di ALMA, che ci permette di ruotare le molecole, ma le molecole possono anche vibrare, quindi possiamo, per così dire, allungarle, possiamo anche piegarle. È questo che adesso riusciamo a fare a vedere con il telescopio Webb, che ci consente quindi di osservare anche altri tipi di molecole che con ALMA non possiamo vedere, quindi non solo a livello gassoso ma anche a livello di ghiaccio. Vedete, qui c’è l’acqua, ma ci sono anche altre molecole molto complesse che ora abbiamo rilevato grazie a ALMA, ma anche grazie a Webb. Quindi, l’acqua svolge un ruolo molto importante. Ma in che forma si trova l’acqua, di fatto? È presente come gas? È presente come ghiaccio? Ma non è presente come liquido, a parte sulla superficie dei pianeti. Quindi, grazie al telescopio Webb, possiamo vedere questi ghiacci. Qui vedete un lavoro pubblicato di recente. Abbiamo lavorato su questi ghiacci vibranti che sono stati rilevati rispetto a delle stelle nascenti. Qui vedete un grafico che mostra anche le cosiddette firme di questo ghiaccio, quindi i segni di questo ghiaccio e soprattutto qualcosa che possiamo misurare e rilevare grazie al telescopio Webb. Grazie a questo tipo di lavoro e anche a lavori precedenti, abbiamo effettuato esperimenti di laboratorio e simulazioni e ora pensiamo di aver capito come si forma l’acqua nello spazio. Pensiamo che avvenga quando gli atomi di idrogeno e quelli di ossigeno si uniscono su questi granelli di polvere, quindi si trovano a vicenda, si incontrano per così dire, si salutano e poi formano quindi ossido di idrogeno e poi acqua, e poi probabilmente ci vogliono migliaia e migliaia di anni e questo poi è quello che consente la formazione di acqua su questi granuli che ne vengono avvolti. Pensiamo che la maggior parte dell’acqua che è presente sulla Terra si sia formata così, quindi a partire da queste nuvole prima della formazione del sistema solare. Uno dei miei colleghi pensa quindi che l’acqua sia più antica del Sole stesso. Pensateci, la prossima volta che bevete un sorso d’acqua, state sorseggiando delle molecole che hanno più di 4,5 miliardi di anni. Ma abbiamo visto non solo l’acqua, abbiamo visto anche molecole più complesse in questi ghiacci, sempre grazie al telescopio Webb. E di fatto c’è stato un comunicato stampa qualche mese fa e l’abbiamo intitolato “CHEERS,” quindi “Salute!” E vedete, appunto, che è stato trovato il Margarita nello spazio, così hanno titolato le agenzie. Ecco, vedete che si può andare nella nebulosa di Orione e farsi una birra alla spina. Ecco, forse c’è più alcol lì che in 27 bottiglie di whisky. Diciamo che però in realtà si tratta di una concentrazione solo dell’1%, non del 40%. Ma per riassumere, quindi c’è tanta acqua, tanti materiali organici e quindi questi mattoncini, per così dire, sono molto diffusi. Ora, negli ultimi minuti, vorrei parlarvi di come questi materiali riescono poi a portare a nuovi sistemi planetari. Qui vedete questi dischi rotanti, quelli anche bellissimi che vi ha mostrato Stefano, e poi vedete anche che questi granelli collidono, si scontrano e poi vedete che con questa collisione aumentano, crescono, e quindi è così poi che creano sistemi sempre più grandi che alla fine probabilmente porteranno alla formazione di pianeti pieni di queste molecole, quindi i cosiddetti planetarismi. E vediamo quindi che ci sono delle sinergie tra questi dischi colti dal telescopio ALMA e anche da questi altri elementi rilevati dal telescopio Webb. Abbiamo pensato quindi che questi dischi si formano, che portano poi alla formazione di pianeti. E se un pianeta fosse come una torta, una torta con delle ciliegie sopra, adesso cosa stiamo cercando di fare, grazie a Webb e ad ALMA? Stiamo cercando di risalire agli ingredienti, quindi lo zucchero, l’acqua, la farina. Ecco, tutto quello che è necessario per poter preparare un dolce, una torta. E quindi adesso stiamo proprio cercando di fare questo con il telescopio spaziale James Webb. Un ingrediente chiave, come ha anche detto Stefano, ed ecco perché la sua osservazione è stata di così grande importanza, perché al di là abbiamo, è caldo vicino alle nuove stelle, dall’altra parte è freddo e c’è questa ice line, questa snow line, dove si formano preferenzialmente questi grandi pianeti. Ma sappiamo che questi granelli di ghiaccio portano anche altri materiali. E come possiamo vederli? Possiamo vederli? innanzitutto sì, la risposta è sì. Vedete, vediamo lo stesso sistema. Quindi PDS 70, quindi c’è un giovane pianeta, ma qui lo vediamo adesso con MIRI. Se zoomiamo all’interno, vedete che questo è un bellissimo lavoro di Giulia Perotti, ricercatrice italiana, che ha fatto questa scoperta e ha visto l’acqua nella parte più interna dove i pianeti di matrice terrestre si stanno formando. Ma poi c’è una chimica molto diversa. Alcuni di questi dischi sono ricchi di acqua, altri di idrocarburi. Se guardiamo qui, vediamo tantissimi elementi, anche in una serie di molecole che sono presenti in questo disco e che quindi sono disponibili per la costruzione di nuovi sistemi planetari. Ci troviamo quindi in tempi davvero entusiasmanti perché abbiamo tantissime informazioni sui materiali, la composizione di questi materiali che sono disponibili per portare alla formazione di pianeti a partire da questi dischi. Webb inoltre osserva anche gli esopianeti, esopianeti maturi e quindi trova CO2, acqua ed è riuscito anche a studiare il tempo atmosferico su questi esopianeti. Webb è anche in grado di tornare nel nostro sistema solare per studiare Giove e anche la presenza di acqua sui pianeti del sistema solare. Quindi finisco qui e spero di avervi portato in un viaggio in questa scienza che è davvero entusiasmante e che ci sta facendo vivere grandissime scoperte e soprattutto ci dà anche un senso di prospettiva perché noi siamo solo un puntolino in questo spazio e qualcosa che ci riporta anche a una certa modestia e un senso di tolleranza, perché alla fine, ebbene, siamo tutti uguali sotto uno stesso meraviglioso cielo. Ed è un messaggio molto importante di cui ricordarsi in questi tempi così turbolenti. Grazie mille.

Bersanelli. Grazie, vorrei porvi un paio di domande molto rapide, una battuta perché abbiamo visto il progresso straordinario anche molto recente che sta succedendo ora su questi temi. Vorrei chiedervi, secondo il vostro punto di vista, che cosa ci dobbiamo aspettare come prossimi passi importanti? Se potreste immaginare, per esempio, che cosa un giovane qua presente, magari studente di scuola superiore, quando diventerà un ricercatore, studierà queste cose, su che cosa sarà focalizzato. Secondo te, Stefano?

Facchini.  Allora, secondo me, per rispondere a questa domanda bisogna anche vedere lo sviluppo di nuovi strumenti che saranno disponibili alle prossime generazioni. Adesso volevo far vedere questa slide. Questo è uno strumento, anche qui a guida europea, insieme al Cile. È un nuovo telescopio che sta venendo costruito da ESO, l’European Southern Observatory, in cui ho anche lavorato. Questo sarà un nuovo telescopio che opererà nel visibile e nell’infrarosso, avrà uno specchio di 39 metri di raggio. Ora, lo specchio più grande che lavora adesso nel visibile è di circa 10 metri, quindi passiamo a uno specchio di 39 metri di raggio, che è formato da circa 780 piccoli specchi esagonali da 1,4 metri di raggio, una cosa che tecnologicamente è veramente complessa. Ma, ad esempio, questo strumento, che inizierà a osservare nel 2029, avrà un occhio che sarà in grado di fornire immagini molto più nitide delle zone anche centrali di questi stessi dischi protoplanetari. Io penso che, in termini di formazione planetaria, si avranno nuovi occhi come questo, forse altri come uno strumento che si chiama NGV-Lay nel 2040, che ci renderanno capaci di osservare la formazione planetaria su scale che sono analoghe alle scale della Terra, di dove si è formata la Terra. E forse la seconda cosa, rapidamente, che credo sarà uno sviluppo enorme in questo campo è quello di andare a caratterizzare quelle che sono le atmosfere di pianeti che si sono già formati e fare un legame causale tra quelli che sono i processi di formazione e il loro prodotto finito, che sono queste atmosfere. Questo è un campo che sta esplodendo e molti astronomi del futuro lavoreranno esattamente nel svelare questo tipo di connessione causale.

Bersanelli. Ewine, cosa c’è nella tua sfera di cristallo sul futuro di questo settore?

Van Dishoeck. L’astronomia è guidata dalle nuove strutture, nuovi strumenti, ne abbiamo visto qui ad esempio un esempio. Il telescopio Webb ha richiesto trent’anni per essere costruito. Forse quello che verrà dovrebbe essere già in corso di sviluppo, perché è chiaro che, se adottiamo la stessa prospettiva temporale, chi appunto metterà a punto i futuri strumenti forse adesso è alla scuola materna. Comunque, speriamo che i nuovi strumenti siano altrettanto riusciti e di successo come il telescopio Webb.

Bersanelli. Un’ultima battuta: è chiaro che una ricerca come questa tocca da vicino cose che ci sono molto care. Siamo al nostro pianeta, siamo alla vita, la vita nostra, di qualunque forma di vita conosciuta che abita su un pianeta. Mi aggancio per fare subito una domanda: ma per voi anche personalmente, qual è la motivazione che vi spinge a continuare a lavorare in questo campo?

Facchini. Allora, questa è una bellissima domanda, ce l’ha stata inviata prima, quindi ci ho pensato un attimo. Penso ci siano molti modi di rispondere. Quello che sicuramente mi spinge a fare questo tipo di lavoro, sicuramente innanzitutto, è un desiderio o una passione innata di scoprire qualcosa che ad oggi nessuno ha potuto conoscere. Cioè, c’è questo gusto che è intrinseco nello scoprire qualcosa che è di assolutamente nuovo. In questo senso, secondo me, un astrofisico, un astronomo, come altri tipi di professioni, fa un analogo di quelli che erano gli esploratori di secoli fa. È veramente andare a scoprire qualcosa che per la prima volta si svela a me stesso, che lo guardo, che lo conosco. C’è un secondo aspetto che per me è sempre fondamentale in questo tipo di ricerca e nel mio lavoro ed è che, lo dico spesso, c’è questo elemento che è il più difficile da comprendere, misterioso, dell’universo stesso, che sono io, che lo sto conoscendo. E per me è sempre fondamentale poter vedere o pian piano scoprire, o ogni tanto non vedere e cercare, quindi, questo nesso che c’è tra questa immensa realtà, nella sua complessità, nel suo ordine, nella sua bellezza, nella sua durezza e me stesso. E questo ultimamente è un motore che è fondamentale per me nel lavoro che faccio e che è, se vogliamo, l’elemento essenziale, rievocando la parola del Meeting, per me, professionalmente, è lavorare anche con persone, con amici, direi, in alcuni casi, che hanno questo stesso driver, questo stesso spinta di desiderio di scoprire questo pezzo di realtà immensa che è l’universo e di sentire un nesso con sé.

Bersanelli. Grazie.

Van Dishoeck. Stefano, che risposta? Sicuramente la passione con cui svolgiamo il nostro lavoro è una parte fondamentale. E in questi tempi in cui spesso le persone guardano verso il basso, guardano il loro telefonino, a me invece piace guardare verso l’alto, guardare in alto, chiedermi cosa c’è là e chiedermi anche qual è il nostro ruolo in questo universo gigantesco. Perché se smettiamo di farci domande di questo tipo, come società, come umanità, ebbene, allora penso che avremo perso qualcosa. Se non continueremo a porci questi grandi interrogativi come esploratori e chiedere cosa c’è oltre, per me questo è davvero uno dei fattori chiave che mi hanno sempre motivato e animato nel fare questo lavoro di ricerca. Non mi spingerei a dire che vorrei trovare la vita su qualche altro pianeta; probabilmente saranno le prossime generazioni a fare questo. Noi siamo forse la prima generazione di umani con la tecnologia disponibile per dare una risposta a questa domanda, cioè se c’è vita nell’universo altrove, ma credo ci vorrà ancora un po’ di tempo. Tuttavia, adesso abbiamo la tecnologia per farlo. Ecco, già compiere questo viaggio, già essere in grado di zoomare, vedere i pianeti che si formano, la complessità di questa chimica che si combina, è affascinante ed è estremamente soddisfacente ed è un elemento motivazionale fortissimo.

Bersanelli. Davvero dobbiamo ringraziare tanto Ewine e Stefano. Non credo che tutti abbiamo capito proprio tutto quello che ci è stato detto stasera. Però credo che due cose si siano capite molto bene. Una è quanto raffinata sia la natura, in questo caso nel momento della formazione di questa cosa così importante, che sono i pianeti, e quanto lavoro di attenzione alla realtà ci sia dietro questo tentativo di comprendere. L’altra cosa che si è capita è che ci sono ancora grandi domande aperte, sia nel dettaglio della comprensione, ma anche queste grandi domande a cui Ewine faceva riferimento. Esiste vita altrove? Potremmo mai riuscire a vederla, ad accorgercene? Ecco, noi non abbiamo delle risposte. E quando avremo trovato risposte a queste domande, avremo altre domande alle quali non avremo risposte. Io credo che questa terra incognita, questo panorama ancora ignoto, sia qualcosa di essenziale per noi come esseri umani. Il fatto che esista qualcosa oltre ciò che noi comprendiamo, qualcosa che ancora attende di essere raggiunto da uno sguardo umano, è essenziale. E se c’è una cosa che il nostro mestiere, la scienza, ci garantisce, è che questa terra incognita ci sarà sempre. C’è sempre qualcosa che va oltre ciò che noi comprendiamo. E quindi, questo credo che Ewine e Stefano ce l’abbiano fatto vedere oltre che capire, e quindi, di nuovo, le ringraziamo. Devo dare un avviso importantissimo, che è il seguente: ognuno di noi può dare una mano al Meeting. Il Meeting è fatto anche di questi eventi che ci portano ai confini dell’universo, ma è una realtà grande e non esiste se non per il contributo che ciascuno di noi può dare in tanti modi. Uno dei quali è quello di poter donare al Meeting, e questo si può fare alle postazioni “Dona ora” caratterizzate dal cuore rosso che conosciamo e se no lo vedrete. Le donazioni dovranno avvenire unicamente ai desk dedicati dove i volontari indossano la maglietta rossa “Dona ora”. Ma c’è un altro fatto che è stato proposto e deciso proprio molto l’atro ieri, ed è il seguente: in questo particolare momento storico, dove sempre più incognite ci fanno chiedere come è possibile costruire un dialogo di pace, a cui anche Ewine faceva riferimento prima, non possiamo non sentirci provocati e riaccesi da quanto ci ha detto il Cardinale Pizzaballa nel suo intervento inaugurale a questo Meeting. Per questa ragione, il Meeting devolverà parte delle donazioni raccolte in questa settimana per l’emergenza in Terra Santa. Grazie e arrivederci.

Data

22 Agosto 2024

Ora

21:00

Edizione

2024

Luogo

Auditorium isybank D3
Categoria
Incontri