Chi siamo
LA MISSIONE DI FRODO: INDIVIDUO E COMPAGNIA NEL SIGNORE DEGLI ANELLI. A 50 ANNI DALLA MORTE DI TOLKIEN
Giuseppe Pezzini, Professore Corpus Christi College, Oxford; Paolo Prosperi, Sacerdote, Fraternità San Carlo Borromeo.
Nel Signore degli Anelli i personaggi sono chiamati a aderire ad una missione che è innanzitutto individuale, tra cui prima di tutti quella di Frodo, chiamato a portare l’Anello – lui solo – fino al Monte Fato, e così diventare il grande eroe hobbit della Terza Era. Al contempo, la missione di Frodo ha implicazioni per il bene di tutti, e non sarebbe concepibile senza l’amicizia con Sam e Gandalf, e più in generale senza la Compagnia dell’Anello che lo accompagna. Queste due dimensioni – individuale e ‘comunionale’ – non sono in opposizione in Tolkien ma semmai sono due poli imprescindibili della stessa esperienza, come due eliche dello stesso DNA narrativo (la ‘missione’, nelle sue varie accezioni semantiche). Dividerle ed opporle è tentazione costante nella storia umana, che necessariamente genera violenza, come dimostrato dalle grandi ideologie del Novecento (comunismo e individualismo, nelle sue varie forme). A 50 anni dalla morte di Tolkien, un dialogo su uno dei paradossi chiave del Signore degli Anelli, che spiega anche molto del suo fascino e contenuto profetico.
Con il sostegno della Regione Emilia-Romagna, Ars Aedificandi e Tracce.
LA MISSIONE DI FRODO: INDIVIDUO E COMPAGNIA NEL SIGNORE DEGLI ANELLI. A 50 ANNI DALLA MORTE DI TOLKIEN
LA MISSIONE DI FRODO: INDIVIDUO E COMPAGNIA NE IL SIGNORE DEGLI ANELLI. A 50 ANNI DALLA MORTE DI TOLKIEN
Giovedì 24 agosto 2023, ore 21.00
Auditorium isybank D3
Partecipano
Giuseppe Pezzini, professore Corpus Christi College, Oxford;
Paolo Prosperi, sacerdote, Fraternità San Carlo Borromeo.
Prosperi. Benvenuti a tutti a questa serata su John Ronald Reuel Tolkien, l’autore de Il Signore degli Anelli, pensata in concomitanza con il cinquantesimo anniversario della morte del grande scrittore inglese. È un onore e soprattutto una gioia per me e per l’amico Beppe Pezzini essere con voi questa sera. Prima di entrare in medias res, due parole su chi siamo. Come vedete, non c’è un moderatore: abbiamo deciso di presentarci a vicenda, proprio per l’amicizia che è nata in questi ultimi anni anche attraverso la comune passione per Tolkien.
Vicino a me c’è Giuseppe Pezzini, torinese di nascita, ma cittadino britannico di adozione. Giuseppe vive a Oxford, la città di Tolkien, dove lo scrittore è anche sepolto, e insegna lingua e lettura latina all’Università di Oxford appunto, ma dirige anche un centro di ricerca su Tolkien. È autore di molte pubblicazioni tolkieniane, tra cui vi raccomando un libro in uscita per la Cambridge University Press, in inglese per chi può leggerlo: Tolkien e il mistero della creazione letteraria, un libro bellissimo che io ho avuto la fortuna di leggere prima che uscisse.
Pezzini. Buonasera a tutti. Ringrazio innanzitutto il Meeting dell’invito, ma soprattutto di aver dedicato una serata a Tolkien in un anno così importante. Vorrei presentarvi don Paolo Prosperi, che è qui con me questa sera. Don Paolo è un sacerdote missionario della fraternità San Carlo Borromeo. È anche teologo, professore e scrittore. Sono usciti due libri quest’anno, che vi raccomando, uno su Peguy, bellissimo, e uno su Satana. Don Paolo ha svolto la sua missione prima in Russia, a Mosca, per cinque anni, e poi per nove anni negli Stati Uniti, a Washington. Ha quindi conosciuto molto da vicino quelle che sono state le due grandi ideologie del Novecento, ideologie ancora oggi molto pervasive e che si stanno, secondo me, trasformando in uno scontro tra Est e Ovest. Sono ideologie che assolutizzano unilateralmente due valori che saranno al centro della discussione di questa sera: cioè, il valore della comunità, della collettività, del noi, a Est, e il valore dell’individuo, dell’io, a Ovest. Ma, come vedremo questa sera, per Tolkien non c’è contrasto tra questi due valori. L’ “io” e il “noi” sono due eliche di uno stesso DNA. Non si possono separare, sennò l’organismo morirebbe. Vi ho così introdotto il tema di questa serata che avrà la forma di un dialogo. Un dialogo tra me e don Paolo, due persone che hanno storie diverse, età diverse, sensibilità diverse; che hanno idee diverse su molte cose: infatti, quando parlo con don Paolo, spesso si discute in modo acceso ma molto bello. Come già accennava Paolo, in questi ultimi anni, lui e io abbiamo camminato assieme in un percorso comune, uniti innanzitutto da una grande passione per la persona di cui parleremo questa sera e per la sua opera. Camminando assieme, siamo diventati amici, compagni. Quella di questa sera è la condivisione di un’amicizia tra me, Paolo e il grande Tolkien. Questo viaggio sarà un cammino in cinque tappe in cui io e Paolo ci alterneremo. Un po’ come fanno i personaggi del Signore degli Anelli. Lascio dunque a Paolo la parola per la prima tappa.
Prosperi. Se mi venisse chiesto di dire sinteticamente di che cosa parla Il Signore degli Anelli, risponderei così: della missione affidata a Frodo Baggins, un hobbit, un mezzuomo della Contea, di distruggere l’Anello del potere, forgiato da Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor, e così liberare i popoli della Terra di Mezzo dalla minaccia del suo potere. Fin qui tutti d’accordo. Ma è tutto qui? Ovviamente no, e tuttavia in un certo senso sì, poiché tutte le altre avventure di cui si narra nel Signore degli Anelli hanno senso soltanto in quanto si connettono per un verso o per l’altro, all’unica grande missione di Frodo. Torneremo più tardi sull’importanza dell’interconnessione tra le missioni e le gesta dei vari personaggi e sulle ragioni profonde di essa. Qui mi interessa piuttosto richiamare l’attenzione su un dato più basilare. Il Signore degli Anelli è prima e più di ogni altra cosa la storia di una chiamata paradossale. La chiamata del piccolo Frodo, il mezz’uomo della Contea, ad accollarsi una missione che per cosmica importanza e per difficoltà lo supera da tutte le parti. Mi pare dunque cruciale chiedersi che cosa abbia voluto esprimere l’autore con questa scelta del suo principale protagonista. La risposta a questa domanda, come si vedrà cammin facendo, non è univoca, è sfaccettata, pluriforme. Anzi, si potrebbe addirittura dire che tutti i pezzi del mosaico che stasera costruiremo hanno lo scopo di avvicinarci ad una risposta sempre più articolata a quest’unica, fondamentale domanda. In questa prima tappa del percorso, vorrei partire da un passo cruciale, quello in cui il re degli elfi Elrond reagisce alla disponibilità di Frodo di portare l’anello a Mordor. Cito. «”Prenderò io l’anello – disse Frodo – ma non conosco la strada”. Elrond levò gli occhi e lo guardò, e Frodo si sentì il cuore trafitto dall’acutezza dello sguardo. “Se intendo bene tutto ciò che ho udito – disse – credo che questo compito sia destinato a te, Frodo; se tu non trovi la via, nessun altro la troverà. È giunta l’ora del popolo della Contea, ed esso si leva dai campi silenziosi e tranquilli per scuotere le torri e i consigli dei grandi. Quale dei Saggi l’avrebbe mai predetto?”» Parte del fascino che irradia dal Signore degli Anelli dipende da questa semplice idea, così superbamente espressa da Elrond. In barba ai disegni e ai calcoli dei grandi, ecco che un mezzuomo è scelto dal destino con la “d” maiuscola per aprire una via di salvezza, là dove neanche i saggi sanno trovarne una. L’epica, dunque, ovvero l’onore e l’onere di compiere imprese degne di canti e di poemi, non è appannaggio di una casta di superdotati, di supereroi, dei cosiddetti grandi. L’eroismo è a disposizione di tutti, anche dei Mezzuomini, dei piccoli come Tolkien, che si definiva un hobbit in tutto e per tutto, insomma come ciascuno di noi. E perché lo è? Perché ciascuno di noi è partecipe, sebbene spesso non se ne renda conto, dello stesso conflitto cosmico di cui ci parla Il Signore degli Anelli. È questa, io credo, la prima e non ultima ragione del planetario successo del libro. Tolkien ci trasporta certamente in un mondo immaginario, frutto della sua straordinaria fantasia. Lo chiama mondo secondario. Tuttavia, proprio così facendo, ci parla di noi. Ci apre gli occhi sulle profondità e le altezze nascoste dentro le pieghe della nostra apparentemente piccola esistenza, e così ce ne rivela le vere dimensioni, ci restituisce il sentimento della grandezza nascosta in quella vita reale alla quale la lettura delle sue storie sembra in apparenza sottrarci. Leggere Tolkien, dunque viaggiare con Frodo e Sam, Merry e Pipino, significa certamente anche astrarsi temporaneamente da quella che chiamiamo vita reale ordinaria. Ma il frutto di questo viaggio nell’altrove è in realtà una visione nuova del qui ed ora. È la ricezione di occhi capaci di vedere l’epica nascosta dentro ogni ordinaria giornata. Un passo di un capitolo che mi è caro, Le Case di Guarigione, dice tutto questo in modo meraviglioso. L’hobbit Merry giace a letto convalescente a causa dei postumi del terribile scontro con re dei Nazgul. Pipino, il suo amico, appena giunto a visitare Merry, nell’invitarlo a fumarsi un po’ di buona erba pipa, cerca di consolarlo, buttandola sul ridere: «”Noi Tuc e Brandibuck (le due famiglie di Mary e Pipino, n.d.r.) non ce la facciamo a vivere a lungo sulle alture”. “No – disse Merry – io non ci riesco. O comunque non ancora. Ma perlomeno, Pipino, ora possiamo vederle e onorarle. Suppongo che sia meglio cominciare con l’amare ciò che si è fatti per amare: devi mettere le radici in qualche posto, e la terra della Contea è profonda e abbondante. Eppure, vi sono cose più profonde e più alte, e senza di esse nessun vecchio contadino potrebbe coltivare il suo giardino in quella che chiama pace, anche se ne ignora l’esistenza. Io sono contento di conoscerle, almeno un poco”». Come Merry, così anche noi siamo fatti per amare il luogo concreto dove siamo posti, il nostro giardino, la nostra Contea. Siamo fatti per mettere le radici in un posto preciso, a coltivarlo e averne cura. E tuttavia è vero per noi, come per Merry, che questo aver cura, questo amore per il nostro piccolo orto, come si suol dire, è come se ricevesse una forza moltiplicata dalla conoscenza di quelle cose più profonde e più alte che Merry, e noi lettori con lui, viene a conoscere nel corso della grande avventura che lo porta lontano dalla Contea, al seguito dell’amico Frodo. Ogni nostro gesto, per quanto banale possa sembrare, è inserito nel contesto di un confronto epico, di una guerra cosmica in cui si gioca la salvezza del mondo. “Cose più profonde e più alte”, che Merry dice di essere contento di conoscere. È questo ciò che ci libera dal sentimento della banalità e della pochezza del vivere e ridona al cuore, dentro le piccole o grandi sfide della nostra personale vita, quel respiro epico, quel cavalleresco slancio ideale che è forse ciò che più manca all’uomo d’oggi, sebbene egli non cessi di averne nostalgia, come proprio il successo de Il Signore degli Anelli testimonia. Quanto appena detto, ben ci introduce al passo successivo. Si è detto che per Tolkien la vita umana diviene pienamente tale, ossia qualcosa di grande, solo quando è vissuta come missione. Si è anche detto che Tolkien vuol farci recuperare il sentimento della dimensione epica dell’esistenza, e aiutarci così a riscoprire il valore e la gloria. Dobbiamo ora dire qualcosa sul contenuto della missione di Frodo e dei suoi compagni, nonché sulla natura profonda della peculiare guerra, della guerra sui generis che oppone i nostri eroi a Sauron, il che ci porta necessariamente a parlare dell’anello del potere.
Pezzini. Prima tappa, dunque, l’uomo ha una missione epica da compiere. Nella seconda tappa ci occuperemo del contenuto della missione. In cosa consiste la missione? Nel caso de Il Signore degli Anelli, in cosa consiste la missione di Frodo? La risposta l’ha già data Paolo: Frodo deve portare l’anello sul Monte Fato, deve gettarlo nel fuoco per così distruggerlo e distruggere il potere di Sauron. Ma questo compito, e cominciamo a entrare in profondità, è solo il culmine della missione, il punto d’arrivo. Ed è un punto d’arrivo che Frodo non raggiungerà mai perché, se vi ricordate, all’ultimo momento, proprio sul ciglio del baratro, Frodo si rifiuterà di lasciare l’anello ed esso verrà distrutto solo grazie all’intervento violento ma provvidenziale di Gollum, questo hobbit corrotto con cui lui ha viaggiato tutto il tempo. La distruzione dell’anello però non è tutto. Gandalf il saggio, fin dall’inizio, rivela a Frodo che deve custodire l’anello senza però mai usarlo. Frodo deve accettare di prendere l’anello, che diventa il suo fardello, ma non deve fare ricorso al suo potere. Possiamo dunque dire che il contenuto della missione di Frodo è quello di rinunciare ad usare il potere dell’anello. La distruzione dell’anello è solo l’apice e l’emblema di un più generale rifiuto dell’uso del suo potere. Ma cosa significa tutto questo? Che cosa vogliono dire tutti quei personaggi che sono chiamati a rinunciare all’anello? Il Signore degli Anelli è di fatto una serie di no detti dai personaggi all’uso del potere dell’anello. Ma qual è il potere dell’anello o, per meglio dire, i poteri dell’anello? Perché l’anello, in verità, ha tre poteri principali. Il primo è quello di diventare invisibili, cioè, nascondersi alla vista degli altri. È l’uso che ne fa Bilbo, per esempio, per sfuggire agli odiati cugini all’inizio della storia e poi per scomparire durante la festa d’addio. Il secondo potere invece è quello di controllare la volontà degli altri, la coercizione. Come recitano i famosi versi incisi sull’anello: “Un Anello per domarli, Un Anello per trovarli, Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli”. E grazie a questo secondo potere, la coercizione, per esempio, che Sauron ha corrotto e controlla le volontà degli uomini che sono diventati cavalieri neri, i Nazgul, gli schiavi dell’anello, i suoi servi più temuti. L’anello ha anche un terzo potere, quello di ritardare la morte. Infatti, proprio con la promessa di questo terzo potere che Sauron aveva irretito i Cavalieri Neri e li aveva trasformati appunto in “non morti”. I Nazgul sono “non morti”, persone che non muoiono. Ed è grazie allo stesso potere dell’anello che Gollum e Bilbo hanno acquisito una innaturale lunga vita, una longevità che non è immortalità, ma semmai una non vita. Dice Bilbo: «Io che mi sento tutto magro, come dire, teso; rendo l’idea? Come del burro spalmato su di una fetta di pane troppo grande». Questi tre poteri: invisibilità, coercizione e longevità, sono differenti ma correlati; perché hanno tutti e tre a che fare con l’affermazione della propria individualità, a prescindere dagli altri. Potremmo dire, più precisamente, una libertà intesa come indipendenza dagli altri e potere sugli altri. Vediamo meglio cosa intendo dire. Il primo potere, quello di diventare invisibili, è la rappresentazione plastica di questo desiderio di indipendenza: il potere di vedere gli altri senza che gli altri vedano noi, evitare gli altri, separarsi dagli altri perché ci consideriamo o vogliamo essere indipendenti e dunque superiori. Lo dice bene Gandalf, all’inizio della storia, quando racconta di quando Gollum trovò l’anello e scoprì che, quando lo portava, nessuno in famiglia riusciva a vederlo. «Era molto compiaciuto della sua scoperta che teneva accuratamente segreta; se ne serviva per penetrare segreti che l’incuriosivano e sfruttava in modo perverso e malvagio le notizie che apprendeva. Non c’è da stupirsi se divenne inviso a tutti e se i parenti lo evitavano». Il potere dell’anello, dunque, divide Gollum dalla sua famiglia. Il secondo potere, la coercizione, consiste invece nell’imporre la propria volontà su quella degli altri, un’affermazione di sé, dei propri progetti e delle proprie idee che viola il grande mistero della libertà umana. Questo secondo potere è il potere di usare, di controllare gli altri, asservendoli a sé e alle proprie idee. Badate bene, e questo è un punto fondamentale, questo tentativo di controllo degli altri non sempre ha all’origine uno scopo malvagio o egoistico. lo vediamo benissimo nel caso di Boromir, il grande guerriero di Gondor. Pensando a quello che dice Papa Francesco del contesto in cui viviamo, Boromir è l’ultimo rampollo di una dinastia, di un impero che si sta dissolvendo e che cerca di mantenere il potere. Sentite cosa dice Boromir quando spiega a Frodo cosa ha in mente subito prima di tentare di impadronirsi dell’anello con la violenza. «Ecco che nell’ora del bisogno la sorte porta alla luce l’anello del potere. È un dono, io dico, un dono ai nemici di Mordor. È una follia non usarlo, non usare il potere del nemico contro di lui. L’anello mi conferirebbe il potere del comando, come respingerei gli stuoli di Mordor e tutti gli uomini convergerebbero sotto il mio stendardo». Caso simile di un desiderio, possiamo dire, buono all’inizio è quello di Saruman, che vuole l’anello in maniera morbosa, ma questa sua ossessione è legata a un generale progetto, possiamo dire, egemonico, giustificato da una preoccupazione però apparentemente nobile. Come spiega Saruman a Gandalf in un dialogo cruciale. Dice Saruman: «Ma abbiamo bisogno di potere, potere per ordinare tutte le cose secondo la nostra volontà, in funzione di quel bene che soltanto i Saggi conoscono». Saruman è il saggio, l’intellettuale, quello che sa. «Non c’è più da sperare negli Elfi. Questa è dunque la scelta che si offre a te, a noi: allearci alla Potenza. Sarebbe una cosa saggia, Gandalf, una via verso la speranza … Si tratterebbe soltanto di aspettare, di custodire in cuore
i nostri pensieri, deplorando forse il male commesso cammin facendo, ma plaudendo all’alta meta
prefissa: Sapienza, Governo, Ordine». Dunque, la tentazione di Boromir e di Saruman, che è la tentazione del secondo potere, è quella di combattere il nemico con le sue stesse armi, usare l’anello di Sauron apparentemente a fin di bene, nel tentativo, pensate quanto attuale, di riaprire una speranza di vittoria in una guerra che sembra già persa. Questa è la tentazione che Tolkien considerava molto attuale nel suo contesto storico alla metà del Novecento, e che infatti esplicitamente associò con le azioni degli alleati negli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale, con precise allusioni all’uso della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, che Tolkien considerò un grandissimo tragico errore. Ho fatto questo inciso geopolitico non perché voglia aprire una discussione pacifista sul presente, ma voglio solo ricordare che questa sera non stiamo parlando solamente di un mondo fantastico, semmai attraverso il linguaggio fantastico della letteratura stiamo scandagliando i misteri della storia dell’uomo, le tentazioni che sempre si ripropongono, sempre uguali in circostanze diverse; come, appunto, la tentazione di distruggere o controllare gli altri in nome di un bene collettivo o di imporre una visione giusta sulla storia a scapito della libertà, del bene e della verità. Ma veniamo al terzo e forse più importante potere dell’anello, quello di ritardare, di rifiutare la morte, cioè di affermare la propria individualità oltre i limiti dell’esistenza umana. Rinnegare la morte significa rinnegare l’alterità per eccellenza, cioè Dio che ci ha fatto mortali. Nella visione di Tolkien, infatti, rifiutare la morte significa ribellarsi al disegno misterioso del creatore, che ha creato gli uomini mortali e cioè ha stabilito che il loro destino si compisse oltre le mura del mondo. Non siamo fatti per morire in questa terra, per stare confinati in questa terra. Con questo terzo potere dell’anello, dunque, l’uomo arriva a contrastare la sovranità di Dio, dice Tolkien. Nella teologia del mondo tolkieniano, infatti, la morte è descritta come il dono supremo di Dio agli uomini. Il limite è un dono. Lo dice bene lo stesso Tolkien in una lettera, la lettera 156, che vi leggo brevemente. «La visione del mio mito è che la morte non è una punizione per la caduta, ma una parte biologicamente e quindi anche spiritualmente inerente alla natura dell’uomo. Il tentativo di sfuggire alla morte è malvagio perché è innaturale ed è sciocco, perché la morte in questo senso è il dono di Dio». Per Tolkien, la paura e la riluttanza ad accettare la morte, e dunque la propria finitezza, la propria creaturalità, sono dunque strettamente collegate al problema del rapporto tra Dio e gli uomini. Gli uomini, ne Il Signore degli Anelli, sono chiamati ad accettare il dono misterioso di Dio e compiere in questo un atto di suprema fiducia in lui. La tentazione degli uomini di ritardare la morte, e cioè il terzo potere dell’anello, significa in ultimo rifiutare l’alterità di Dio per affermare la propria individualità, indipendentemente da e contro di Dio.
Nella teologia tolkieniana, accettare la morte è il supremo atto di speranza in Dio. Chi ha letto il libro, ricorderà la bellissima scena finale della morte di Aragorn nelle Appendici. Quindi, accettare di morire è un atto di fiducia in Dio. Allo stesso modo, ne Il Signore degli Anelli, nella storia, rinunciare al potere dell’anello, rinunciare all’anello, è anch’esso un atto di speranza, è un atto di fiducia nell’alterità sapiente di Dio, nel destino che ha affidato a Frodo la sua missione, che non combatte il male con il male, che non tollera la coercizione della libertà altrui, e che ha deciso di affidare agli hobbit la missione più importante della storia, come diceva Paolo. Stiamo entrando nelle profondità dell’arte tolkieniana che, come scrisse lui stesso nelle sue bellissime lettere, ha a che fare, appunto, con il problema della morte e con quello della sovranità di Dio. Dio che ha creato l’uomo libero, individuale, persona, ma in relazione, in relazione con Sé, e con le altre creature che ha creato. Un Dio che rivela la sua sovranità attraverso il dono misterioso e così contradditorio della libertà e della morte. Con il suo triplice potere, dunque, l’anello rivela che nell’opera di Tolkien il tentativo di separarsi dagli altri, il primo potere, di controllare la libertà degli altri, il secondo potere, di prevenire la morte e dunque rifiutare il proprio limite, il terzo potere, tutti questi tre poteri sono tre aspetti della stessa tentazione: ribellarsi alle regole di Dio ed ergersi sopra di lui e le altre sue creature. Contestare e ribellarsi all’autorità di Dio per affermare la propria individualità in una ricerca illusoria di autonomia e supremazia. Al contrario, invece, rinunciare al potere dell’anello significa accettare di restare in relazione con Dio e con le altre sue creature fino ad arrivare a morire per esse come Dio stesso: un atto paradossale, un ultimo paradossale compimento della propria personalità, come vedremo più avanti. Non posso dilungarmi come vorrei sulla teologia secondaria tolkieniana che è sicuramente affascinante e direi anche profetica. A conclusione di questa seconda tappa, sul contenuto della missione, vorrei solo sottolineare che lo scopo del compito di Frodo consiste dunque nel rinunciare ad affermare la propria individualità indipendentemente da, oltre e contro quella degli altri. In positivo, questo significa accogliere il mistero dell’alterità, intesa come libertà creata e voluta da Dio, rispettare la libertà delle altre creature che non possono essere manipolate neanche a fin di bene, ma anche soprattutto rispettare la libertà di Dio che è origine della libertà creata e che agisce nella storia secondo vie misteriose. Il contenuto della missione di Frodo è dunque strettamente collegato al mistero della persona umana, unica e irripetibile e pure dipendente in relazione, in un rapporto di figliolanza e dunque di fratellanza e questo ci introduce alla prossima tappa, alla terza tappa e lascio la parola a Paolo.
Prosperi. Terza tappa: la compagnia dell’anello o della mutua promozione o esaltazione di missione personale e amicizia. Se il fine della missione è la vittoria sull’egocentrismo, come abbiamo sentito, ovvero sull’illusione che la pienezza della felicità stia nell’essere da sé stessi e per sé stessi, allora si capisce perché amicizia e compagnia non possano che occupare un posto centrale ne Il Signore degli Anelli. Vivere da amici significa infatti cercare e trovare la pienezza della vita e della gloria non nell’autonomia e nella supremazia sugli altri, ma al contrario nella mutualità dell’amore reciproco nell’essere da e per l’altro. Si intravede così il vero motivo per cui il tema della compagnia occupa una funzione così centrale nella trama del libro. In realtà, tra la meta della missione di Frodo e il modo per giungervi, ovvero grazie all’aiuto dei compagni di cammino, c’è un gioco di rispecchiamento assai più profondo di quel che appare a una lettura superficiale. Si potrebbe infatti pensare che la compagnia di amici sia per Frodo essenziale semplicemente perché, come si suol dire, l’unione fa la forza. Che mai potrebbe Frodo senza l’aiuto di Gandalf, di Aragorn, del fidato Sam, eccetera eccetera. Ma è solo in questo senso meramente materiale, che la compagnia gioca un ruolo decisivo nel cammino che porta alla distruzione dell’anello? La risposta che proponiamo, ovviamente, è no. Ma cerchiamo di capire perché. Per cominciare, torniamo alla questione della scelta di Frodo come portatore dell’anello. Considerandola però non più dal punto di vista della scelta dell’autore ma dal punto di vista interno al racconto, cioè come scelta del Destino o, come Tolkien stesso dice in altri testi, di quel Dio, creatore provvidente, che nel mondo di Tolkien prende il nome di Iluvatar e che agisce nella Terra di Mezzo soprattutto attraverso la mediazione di Gandalf, che altro non è se non un angelo. Perché il destino assegna al piccolo, inesperto Frodo una missione così ardua, per non dire disperata? Perché proprio Frodo? Frodo stesso si pone la domanda: «”Cosa darei per non aver mai visto quest’Anello! Perché è toccato a me? Come mai sono stato scelto io?”. “Queste sono domande senza risposta”, disse Gandalf. “Puoi credere che ciò non sia dovuto ad alcun merito particolare o personale: non certo per via della forza o della sapienza, in ogni caso. Ma sei stato scelto tu, e hai dunque il dovere di adoperare tutta la forza, l’intelligenza e il coraggio di cui puoi disporre”». Nella scelta di Frodo c’è un elemento di imperscrutabile gratuità, questo è il senso della risposta di Gandalf, che appartiene alla natura di ogni divina elezione. Nella Bibbia capita lo stesso. Frodo non deve chiedersi, innanzitutto, perché proprio lui sia stato scelto. Deve piuttosto trasformare il riconoscimento della sovrana gratuità di questa scelta in fonte di fiducia e coraggio. Dentro questo incidente, aveva spiegato lo stregone poco prima, vi era un’altra forza in gioco. È difficile a dirsi e non saprei essere più chiaro ed esplicito. Bilbo era destinato a trovare l’anello e non per volontà del suo creatore, cioè di Sauron, ma per una volontà più alta. Nel qual caso anche tu eri destinato ad averlo, il che può essere un pensiero incoraggiante. Gandalf sa anche, e lo dice, che gli Hobbit sono in realtà una razza «stupefacente, cioè dotata di qualità insospettabili ad un primo sguardo». Quali? Qui ne sottolineo una e la più paradossale, ma anche forse la più importante: la loro piccolezza. La piccolezza. C’è qui al Meeting una mostra su Santa Teresina di Lisieux; invito tutti ad andare a vederla, in un certo senso è molto tolkieniana, la piccola via. In che senso si deve considerare la piccolezza Hobbit una qualità, addirittura una dote che rende Frodo più idoneo di quel che sembri all’ardua missione? È Gandalf stesso a chiarirlo, quando Frodo vorrebbe affidare a lui l’unico anello. Proprio perché grande e potente, Gandalf non saprebbe resistere alla tentazione di usare l’anello per fare del bene, come prima ricordava Beppe, ossia per imporre ordine e giustizia nel mondo con la forza, finendo per diventare un nuovo Sauron forse non migliore del primo. Frodo, al contrario, proprio perché mezzuomo, sebbene non immune, lo sappiamo, dal potere soggiogante dell’anello, possiede però un senso della propria piccolezza e debolezza che funge da naturale argine all’illusione di potersi elevare a sovrano assoluto di sé e del mondo intero. Capiamo così quanto sia ragionevole la scelta di un hobbit quale portatore dell’anello e di altri tre per accompagnarlo, by the way. Gli hobbit, proprio perché piccoli e deboli, sono paradossalmente assai meno di ogni altro essere esposti al potere seduttivo dell’anello. E perciò, sotto un certo rispetto, più forti di ogni altra razza. Viene in mente san Paolo: «Quando sono debole è allora che sono forte». Quando sono piccolo è allora che sono grande. È vero che anche persino l’umile Sam, quando l’anello finirà temporaneamente nelle sue mani, verrà afferrato da un improvviso delirio di onnipotenza, che lo porterà a immaginarsi per qualche istante salvatore e beneficatore, lui che era un giardiniere, dell’intera Terra di Mezzo. E tuttavia, se tali pensieri non avranno troppa presa su di lui, ciò è anche perché egli sa fin troppo bene d’essere nulla più che un semplice giardiniere hobbit. Quando Frodo è prigioniero, Sam deve usare l’anello per andare in suo soccorso. «In fondo alla sua anima – scrive Tolkien – viveva ancora indomito il buonsenso Hobbit, ed egli sapeva in fin dei conti di non essere abbastanza grande per poter portare un simile fardello, anche se le visioni non fossero state esclusivamente ingannevoli illusioni. Il piccolo giardino di un libero giardiniere era tutto ciò di cui aveva bisogno, e non un giardino ingigantito alle dimensioni di un reame». In sintesi, la forza e grandezza degli hobbit sta prima di tutto nella loro debolezza e piccolezza. Quella piccolezza che li rende più di tutti gli altri esseri capaci di conservare quel realistico buon senso che la tradizione cristiana chiama umiltà, cioè letteralmente, dal latino, humilitas, humus cioè terra, la capacità di tenere i piedi per terra, ancorati all’humus, alla terra, senza inseguire voli, appunto, pindarici, anzi, di Icaro. Si vede, così, come avere dei compagni di strada sia per Frodo essenziale. In effetti, proprio l’esperienza quotidiana del conforto e del sostegno dei compagni sia per Frodo l’argine più formidabile all’azione seduttiva dell’anello su di lui, azione che assume a più riprese la forma di una sottile tentazione, la tentazione di pensare che gli debba andare solo, che debba proseguire da solo, come di fatto prova a fare più volte nel corso della storia. In realtà, è vero l’esatto contrario e infatti il destino fa in modo che ciò non accada nell’ora cruciale in cui la compagnia si scioglie. Frodo non può compiere la missione da solo non tanto perché non conosca la strada in senso materiale. Qui c’è proprio un gioco, un’ironia tolkieniana. La vera strada è il non andare da solo, perché lo scopo della missione altro non è che la vittoria sul demone dell’individualismo, dell’illusione di poter essere e fare tutto da sé. Ma facciamo un passo ulteriore in questa terza parte. Si è detto finora che la compagnia è per Frodo scudo, perché argine a quella spinta all’autonomia e alla recisione di ogni legame che il contatto con l’anello gli inietta nel cuore. C’è però di più. Come ogni lettore di Tolkien ben sa, l’amicizia tra i membri della compagnia, il tema di questo Meeting, è anche il motore di quasi tutte le più eroiche gesta narrate ne Il Signore degli Anelli. Un’amicizia che cresce nel tempo tra i membri della compagnia, anche a coppie, e la cui forza si manifesta progressivamente. Anche qui, io credo, è però importante non fermarsi alla superficie. Occorre, cioè, chiedersi, se ci sia un nesso tra la natura della missione di Frodo, ovvero la distruzione dell’unico anello, con tutto ciò che significa, di cui Beppe ha parlato così bene, ed il fatto che proprio l’amore per l’amico o per gli amici, penso su tutti ovviamente a Sam Gamgee, sembra essere nel romanzo la forza che abilita alle più grandi vittorie sui servi del nemico e quindi sul potere dell’anello. Ovviamente sì, ma procediamo per gradi. Innanzitutto, si deve dire che ciò che inizialmente crea il legame tra i membri della compagnia è la missione. Legolas e Gimli, per esempio, un elfo e un nano, o comunque da secoli non certo amici, mai sarebbero divenuti amici se la missione comune non li avesse uniti. Ma c’è di più. Si deve anche dire che è proprio la missione a creare il terreno ideale per il nascere di forti amicizie tra i compagni di strada. Perché? Lo sappiamo. Quale terreno? Mi riferisco a quel terreno che si chiama pericolo. Il pericolo. Un’avventura che comporta il continuo rischio della vita è un topos della letteratura e anche del cinema di tutti i tempi. I membri della compagnia sono continuamente messi nella condizione di potere e dovere salvarsi la vita a vicenda, il che da un lato crea forti legami di mutua gratitudine e affetto, ma dall’altro, attenzione, offre l’occasione di dimostrare tale affetto fino all’eroismo. E qui viene il bello, che è l’inversione, per così dire, della dinamica: la missione crea l’amicizia, ma l’amicizia rende possibile la missione. Se è vero che l’amicizia è inizialmente generata dalla condivisione della missione, a mano a mano che la missione procede, ci si avvede che proprio l’amore per gli amici o per l’amico sempre più diviene quella forza che innalza il singolo, dandogli il coraggio e, mi si permetta, la furia, il furore necessario a compiere imprese che si riveleranno poi, a conti fatti, decisive per il successo della comune missione. Facciamo qualche esempio. Prendiamo la più grande impresa del piccolo Merry. Cos’è che spazza via dal cuore di Merry il terrore del re dei Nazgul, che ghiaccia il sangue nelle vene a chiunque gli si pari dinnanzi? Non possiamo leggere tutto il brano stupendo che descrive questa metamorfosi che avviene in Merry, rendendolo capace di infliggere all’avversario un colpo fatale. Quel coraggio, lo dice Tolkien, nasce dal sentimento di pietà e meraviglia che lo invade al vedere la bella Éowyn rimasta sola ad affrontare il grande capitano. «Il suo cuore si empi di pietà e meraviglia, e ad un tratto il coraggio della sua razza, lento a sorgere, si destò, strinse i pugni. Éowyn non doveva morire, così bella, così disperata, o comunque non doveva morire sola, senza aiuto». Esempio ancora più fulgido è l’indimenticabile scena del duello di Sam con il mostro Shelob. È l’amore di Sam per Frodo a trasformare il piccolo giardiniere della Contea in un furioso guerriero capace d’avere successo là dove persino i più grandi eroi dei tempi remoti avrebbero forse fallito, dice Tolkien. «Frodo giaceva supino per terra, e il mostro era chino su di lui. Sam non perse tempo a domandarsi che cosa dovesse fare, se un atto di coraggio, di lealtà o di collera, balzò avanti con un urlo e, afferrando con la mano sinistra la spada di Frodo, partì all’assalto. Nemmeno nel selvaggio mondo delle bestie, si era mai visto un attacco così feroce. Disturbata nel suo sogno gongolante dal piccolo grido, Shelob volse lentamente l’immonda malvagità del suo sguardo verso di lui. Ma prima che si accorgesse di essere assalita da un furore ineguagliato nel corso dei lunghi anni passati, la lucente spada le morse il piede, amputandole l’artiglio. Sam, con un salto fu dentro, fra gli archi dei tentacoli, elevando con violenza e rapidità l’altra mano, colpì gli occhi che si affacciavano nella testa curva. Uno di essi si spense. L’immensa pancia lo dominava con la sua putrida luce e il lezzo lo fece quasi venire meno. Tuttavia, la sua furia lo sostenne, infondendogli vigore per un altro colpo … Mai Shelob aveva sopportato e immaginato un sì atroce tormento in tanti lunghi anni di malefici … “Vieni lurida bestia”, urlò Sam, “hai ferito il mio padrone, bruto, e la pagherai. Noi andremo avanti ma prima regoleremo i conti con te, vieni assaggia di nuovo questa spada”. Come se lo spirito indomito di Sam ne avesse rinforzato la potenza, la Fiala avvampò improvvisamente, come una fiamma bianca nella sua mano. Irradiava il bagliore di una stella fuggita dal firmamento che fende l’oscurità con indomabile fulgore. Mai un simile terrore piombato dal cielo aveva bruciato con tanta forza la faccia di Shelob. I raggi le trafiggevano la testa ferita, lacerandola con intollerabile dolore, mentre la spaventosa infezione di luce dilagava da un occhio all’altro». Mi permetto solo due osservazioni legate tra loro. La prima riguarda il battere e ribattere di Tolkien sulla ferocia ed il furore più che belluini, cioè di belva, di Sam. Paradossalmente è proprio la forza e la purezza dell’amore di Sam per Frodo, cioè quanto di più nobile, alto e spirituale vi è in lui, a rendere la furia dell’hobbit più implacabile di quella delle bestie. È una santa collera che arriva a farlo rivaleggiare con la ferocia della stessa Shelob. Non solo l’anello, dunque, ma anche l’amore, in apparenza così inerme e inoffensivo, conferisce al suo portatore, al portatore della fiamma dell’amore, spaventosi poteri. Non a caso Tolkien ci tiene a segnalare che la fiala di Galadriel sembra intensificare il suo fulgore a causa del contatto con l’indomato fuoco che arde nel cuore di Sam. Fuoco che, come sappiamo, è tutt’uno con l’amore di Sam per il suo padrone. È la fiamma dell’amore di Sam per Frodo, dunque, ci sta dicendo Tolkien, a potenziare la luce che inabita la pietra, facendola divampare, conferendole un’incandescenza capace di bruciare gli occhi del mostro Shelob. È l’amore la forza vittoriosa.
Alla fine di questa tappa, vorrei sottolineare, dunque, come la natura comunionale della missione di Frodo trova nella battaglia di Sam contro Shelob una rappresentazione emblematica. Se la missione di Frodo non fallisce è perché Sam è con lui. Ma Sam a sua volta non fallisce perché il suo misurarsi con Shelob non ha come scopo l’affermazione del suo valore, del suo coraggio, ma al dispiegarsi del suo amore per padron Frodo. Proprio questo darsi in totale dimenticanza di sé è ciò che lo porta a ergersi in tutta la sua personale grandezza, anzi a innalzarsi al di sopra del suo naturale potenziale. E questo ci introduce alla prossima tappa.
Pezzini. Eccoci alla quarta tappa che chiameremo il fallimento vittorioso di una mission impossible. Nelle tappe precedenti, abbiamo introdotto l’idea che la missione di Frodo ha una duplice dimensione, una personale e l’altra comunionale, una dimensione individuale e una cosmica. C’è un io, ma c’è un tu e c’è un noi. Questi due poli, l’io e il noi, sono inseparabili per Tolkien, perché da un lato il singolo ha bisogno della totalità, della compagnia per compiersi, perché è nel darsi al tutto, all’essere che l’io si compie. Dall’altro, però, senza l’azione del singolo, non c’è la salvezza del tutto. E il tutto esiste, in fondo, per dare a ogni singolo la possibilità di compiersi. Perché le cose stanno così? Perché c’è questa bipolarità, io e noi, nella natura dell’essere? O meglio, che spiegazione dà Tolkien di questo paradossale dato di evidenza dell’esperienza della storia umana? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo scendere ancora più nelle profondità della grandiosa visione tolkieniana della vicenda umana, individuale e collettiva. Ci aiuterà un passo dalla lettera 181, in cui Tolkien affronta di petto questi problemi, rispondendo alle domande di un lettore su qual sia il significato ultimo della storia de Il Signore degli Anelli. Dice, dunque, Tolkien: «L’idea, all’interno della mia storia, è che ogni avvenimento e situazione umana ha due aspetti. Ogni evento ha due aspetti. Primo aspetto, la storia e lo sviluppo dell’individuo. Ogni evento è qualcosa da cui possiamo ricavare del bene, del bene definitivo per noi stessi». Da una parte, ogni evento della nostra vita è un’opportunità per crescere e sviluppare la nostra personalità. Dall’altra, ogni evento della vita dell’uomo ha anche un secondo aspetto, una seconda dimensione. «La seconda dimensione – prosegue Tolkien – è la storia del mondo che dipende dall’agire dell’individuo in modo gratuito». L’inglese è più preciso: “for its own sake”, in modo gratuito. Il mondo viene salvato se l’individuo agisce in modo gratuito a livello personale. Ci dice Tolkien, con la sua tipica profondità e densità, che la storia del mondo, cioè la storia che è fatta di tutti gli irripetibili istanti di ogni storia individuale, la storia del mondo dipende dalla gratuità con cui ciascun individuo agisce in risposta agli eventi della propria storia. Ma cosa vuol dire? Cosa stiamo dicendo? Tolkien lo chiarisce più avanti nella lettera, facendo riferimento proprio alla missione di Frodo. Spiega Tolkien: «Ci sono situazioni anormali in cui uno può trovarsi, situazioni in cui il bene del mondo dipende dal comportamento di un individuo in circostanze che richiedono una forza fisica e morale che lui non ha. Frodo era in una posizione simile». La missione di Frodo, dunque, e possiamo dire ogni missione umana, è una missione impossibile, una mission impossible da tutti i punti di vista. Continua Tolkien: «La missione di Frodo era destinata a fallire in quanto parte della salvezza del mondo ed era anche destinata a fallire disastrosamente in quanto storia del percorso del goffo Frodo verso la nobilitazione, la sua santificazione. La sua missione sarebbe fallita, infatti, ma soltanto se il solo Frodo fosse stato coinvolto». La missione di Frodo sarebbe un completo fallimento se la considerassimo solo dal punto di vista individuale del nostro eroe, il primo aspetto, il primo polo di cui parlavamo. D’altra parte, non saremmo qui questa sera se la missione di Frodo fosse fallita completamente. La nostra storia è individuale ma al contempo è parte di una storia più grande. Infatti, possiamo dire che l’anello viene distrutto e come dice poi Frodo a Sam, sulle pendici infuocate del Monte Fato, alla fine la missione è compiuta. Come è stato possibile questa vittoria, questo paradossale successo? Certamente non grazie a un eroismo alla Tom Cruise di Frodo. Frodo non è il personaggio dei film di Mission Impossible; semmai la missione di Frodo ha successo proprio perché era stata abbracciata da Frodo gratuitamente. L’inglese, lo ricordavo, dice “for its own sake”, gratuitamente, cioè perché aveva uno scopo giusto e perché era in obbedienza ad una chiamata del destino. Basta questo. Questa gratuità dell’adesione è quella che permette a Frodo di andare avanti senza preoccuparsi né dell’esito né dei propri limiti e perciò senza mai cedere alla tentazione della disperazione e dell’orgoglio. La vera grandezza di Frodo non è quella di essere riuscito a portare l’anello sul Monte Fato, ma è semmai quella di avere accettato liberamente, “for its own sake”, una mission impossible, una missione impossibile, dando credito alle circostanze che gliel’hanno affidata, fidandosi di chi, come Gandalf, gli ha fatto capire che quella missione era destinata proprio a lui, come abbiamo sentito prima. La grandezza di Frodo, e possiamo dire la nostra grandezza, la grandezza di tutti noi, è quella di prendere su di sé il proprio fardello pur sapendo di non essere la persona adeguata a una missione così importante. Frodo ha aderito alla sua missione in obbedienza alle circostanze della vita. Circostanze che, dice Tolkien in un’altra bellissima lettera, non sono altro che la modalità con cui Dio si fa presente nella concretezza della vita dell’uomo. Tornando alla nostra domanda, possiamo dire che Frodo è stato scelto per questa missione perché era cosciente di non essere in grado di compierla, il che significa, per converso, il suo sperare contro ogni speranza. La sua speranza contro ogni speranza è la sua più grande impresa, è il suo necessario contributo a realizzarsi del piano misterioso di vittoria contro il male, il piano misterioso di Gandalf, Gandalf l’emissario di Dio nella Terra di Mezzo. Le virtù chiave dell’eroismo di Frodo non sono dunque la forza fisica o spirituale, la saggezza, la pazienza o il coraggio, quanto piuttosto virtù squisitamente relazionali: l’umiltà, la fiducia e soprattutto la speranza. Frodo non è un pazzo suicida; piuttosto, il suo “sì” alla mission impossible è ragionevole perché è radicato nella affidabilità di chi gliel’ha assegnata e cioè, innanzitutto, Gandalf. Fidarsi di Gandalf, per Frodo, significa più o meno coscientemente di fidarsi di colui che l’ha inviato e dunque far proprio la speranza di Gandalf stesso che, come sappiamo, è la speranza di vincere contro Sauron senza usare il potere del male, senza usare il potere dell’anello, confidando solo nel piano misterioso di Dio che chiede, appunto, la distruzione dell’anello. Questo è quello che fa Frodo e in questo compie un grande atto di speranza. Frodo accetta di non essere il padrone della propria storia e non sarà colui che la porterà a compimento. Chi porterà a compimento questa storia è infatti il destino, ovvero Dio, il grande autore della storia, come dice Tolkien in una lettera, il grande autore che non è mai nominato ma è sempre presente ne Il Signore degli Anelli.
Tornando alla polarità di cui parlavamo prima, possiamo dire che la storia di una persona, la nostra storia, si compie proprio nel momento in cui l’individuo accetta di appartenere a una storia più grande e dunque accetta di morire, di fallire, sperando nel Signore di quella storia. La nostra storia individuale può e anzi deve fallire se essa vuole contribuire al compiersi della storia del mondo, che sempre chiede l’aprirsi all’irruzione risolutiva di un Altro. Questo è il grande paradosso al cuore della vicenda Il Signore degli Anelli, che è in fondo il grande paradosso del mistero del potere di Dio.
Prima di lasciare la parola a Paolo, per la conclusione del nostro viaggio con un’ultima breve tappa, voglio leggere un breve passo della stessa lettera 181 in cui Tolkien chiude il cerchio del suo ragionamento e si concentra su quella che, secondo lui, è l’azione più importante della storia di Frodo, e cioè la sua decisione di avere pietà di Gollum. Se vi ricordate a un certo punto, Frodo ha la possibilità di uccidere Gollum, questo hobbit corrotto, ma decide in obbedienza a Gandalf di non farlo. Sentite cosa dice Tolkien: «ma a questo punto, la salvezza del mondo e la salvezza dello stesso Frodo vengono raggiunte grazie alla sua precedente pietà e capacità di perdonare le offese. Gollum l’avrebbe certamente tradito e alla fine avrebbe potuto derubarlo. Avere pietà di Gollum, proibire che venisse ucciso, era una follia o l’esempio della convinzione mistica del valore della pietà e della generosità, anche se si fossero dimostrate disastrose nel nostro mondo». Questo lo trovo bellissimo. La misericordia per Gollum è l’atto supremo con cui l’individuo Frodo accetta la follia della propria missione in nome di un’affermazione mistica del valore della pietà. E la misericordia, non a caso, è l’attributo principale di Dio, come ricorda Tolkien stesso in un’altra lettera. Amare Gollum, il grande nemico, è dunque il vero apice della missione di Frodo, la sua rinuncia definitiva al potere dell’anello. La misericordia è il grande antidoto al potere, è l’espressione a un tempo di carità verso l’altro e di fiducia nel potere di Dio. La misericordia per Gollum è infatti il momento in cui Frodo accetta definitivamente la parzialità della propria storia, cioè che la sua storia è parte della grande storia di Dio, il Signore del Bene, alla cui giustizia e sapienza Frodo si affida col suo atto di profonda pietà per Gollum. La misericordia per Gollum è infine l’atto con cui Frodo accetta definitivamente il suo personale fallimento, perché sa bene che Gollum lo tradirà. Conclude infatti Tolkien: «Gollum alla fine derubò Frodo e lo ferì ma, per una ‘grazia’, l’ultimo tradimento avvenne in un momento particolare, quando quell’azione malvagia era la più benefica che qualcuno avrebbe potuto fare per il bene di Frodo! Grazie a una situazione creata dalla sua capacità di perdonare, Frodo si salva, e viene sollevato dal suo fardello. E giustamente alla fine gli sono stati accordati gli onori più alti». È grazie al suo atto di misericordia, che, come abbiamo detto, è anche l’atto di suprema gratuità e fiducia in Dio e di speranza, che la missione di Frodo può compiersi per grazia. Frodo diventa così veramente un eroe ed è perciò giustamente compensato ed onorato. Non solo la vittoria contro Sauron è raggiunta, ma anche il suo personale cammino di nobilitazione è concluso, al di là di ogni aspettativa. Infatti, Frodo non è diventato solamente un eroe, nel classico senso del termine, o un Tom Cruise, un eroe hollywoodiano, è stato introdotto a qualcosa di molto molto più grande, che è il mistero dell’eroismo dell’amore di Dio. Lascio la parola a Paolo per un’ultima, brevissima tappa.
Prosperi. Abbiamo visto, nella terza tappa, come l’amore, il donarsi dell’io conferisca una forza vittoriosa, come nel caso di Sam nella battaglia contro Shelob. Nella quarta tappa, abbiamo invece detto come questo amore per l’altro da sé porta ad accettare persino il proprio fallimento apparente e ad avere misericordia del nemico, all’affermazione gratuita di un bene che trascende le circostanze di tempo e spazio. Domandiamoci ora perché questo amore, che va fino all’estremo, sembra essere l’unica forza che porta alla vittoria sul nemico. La risposta, in fondo, è semplice: l’amore, che trova nel dare la vita per gli amici la sua perfezione, è l’unica esperienza in cui alla creatura, cioè a noi, è dato di gustare un potere corrispondente al cuore più di ogni potere che l’anello conferisce. Detto in altri termini, se la carità è il vero anti-anello, come si è visto nelle ultime due tappe, è perché l’appiccarsi al cuore della sua fiamma fa gustare il possesso di un potere che davvero rende simili al potente per eccellenza, e cioè Dio, e perciò libera dal fascino seduttivo dell’anello, che promette gloria divina ma in realtà non la dà, né la può dare. Non la dà non tanto perché non dia potere, dà potere, ma piuttosto perché il potere che l’anello dà ha in fin dei conti ben poco di divino. Tolkien sottoscriverebbe quello che dice san Giovanni, e cioè che Dio è carità. Anzi, carità reciproca, cioè appunto amicizia. È solo mediante l’amicizia, quando essa ha la grazia ad essere profonda e vera, che la creatura arriva a fare esperienza del divino e perciò riceve il potere di vincere la forza di gravità dell’anello. In conclusione, nel cristianesimo vince chi ama di più, ha detto qualcuno. Noi aggiungiamo: in Tolkien pure.
E con Frodo come la mettiamo? Non ha Frodo perso il duello con l’anello? No, in realtà non l’ha perso. E ciò non solo per la prontezza al sacrificio dimostrata, e nemmeno solo per la pietà che ha saputo avere per Gollum, pietà a conti fatti foriera di vittoria, come abbiamo sentito. Ma anche perché, nel suo perseverare contro ogni ragionevole speranza, egli ha puntato tutto non su sé stesso, ma su chi lo aveva chiamato. E proprio così ha amato pienamente. Poiché l’amore non è solo nel dare, ma anche nell’aprirsi a ricevere. Non solo nel darsi totalmente, ma anche in questo darsi nell’affidare totalmente all’amato il successo del proprio dono. L’amicizia vuole parità, uguaglianza, reciprocità. E che reciprocità d’amore potrebbe esservi tra Frodo e il destino se Frodo non scommettesse sul destino tanto follemente quanto il destino ha scommesso su di lui? Abbiamo finito. Grazie per l’attenzione.