Chi siamo
LA MERAVIGLIA DEL CERVELLO UMANO
Egidio D’Angelo, Professore Ordinario di Fisiologia all’Università degli Studi di Pavia (Dipartimento di Brain and Behavioral Sciences), Direttore del Brain Connectivity Center dell’Istituto IRCCS C. Mondino di Pavia e Membro della Direzione Scientifica di Human Brain Project; Vittorio Gallese, Professore Ordinario di Psicobiologia al Dipartimento di Medicina e Chirurgia – Unità di Neuroscienze, Università di Parma. Introduce Mauro Ceroni, Professore di Neurologia all’Università degli Studi di Pavia.
La meraviglia del cervello umano
Egidio D’Angelo, Professore Ordinario di Fisiologia all’Università degli Studi di Pavia (Dipartimento di Brain and Behavioral Sciences), Direttore del Brain Connectivity Center dell’Istituto IRCCS C. Mondino di Pavia e Membro della Direzione Scientifica di Human Brain Project; Vittorio Gallese, Professore Ordinario di Psicobiologia al Dipartimento di Medicina e Chirurgia – Unità di Neuroscienze, Università di Parma. Introduce Mauro Ceroni, Professore di Neurologia all’Università degli Studi di Pavia.
MAURO CERONI:
Ieri abbiamo affrontato il problema dell’intelligenza artificiale. Mi ha molto colpito che Magazzeni, che è uno studioso dell’intelligenza artificiale, abbia sottolineato che la meraviglia maggiore è il cervello umano, non è l’intelligenza artificiale, non è il computer che ha battuto il cinese campione di go, ma è il campione cinese di go.
E abbiamo sentito parlare anche di transumanesimo, e mi ha molto colpito perché questa corrente di pensiero non è basata su un fatto scientificamente provato, è basata su un assioma, che il cervello umano è comunque un pc, un computer, e questo non è dimostrato da nulla, anzi, tutta la scienza dimostra esattamente l’opposto.
Oggi abbiamo il grande dono che ci hanno fatto con la loro presenza due scienziati di livello internazionale, che umilmente, faticosamente, pian piano stanno cercando di sviscerare, da punti di vista diversi, come funziona il nostro cervello, come avviene che tutta la nostra espressività, qualunque atto di ciò che pensiamo, sentiamo, immaginiamo viene portato all’esterno, espresso, tutto passi attraverso il nostro cervello. Non c’è un istante di me che non implichi il nostro cervello, io non sono separabile dal mio cervello. Certo, il fondo di me, il mio io, la soggettività è qualcosa che sta al fondo, molto dentro, è un grande mistero, penso che siano d’accordo i relatori di oggi, però più noi cercheremo di comprendere la meraviglia di come funziona il cervello, più in qualche modo saremo aiutati ad accorgerci ancora di più della profondità, della misteriosità della persona umana.
Oggi abbiamo con noi Egidio D’Angelo, professore ordinario di Fisiologia all’università degli studi di Pavia, autore del libro di testo su cui studiano gli studenti, Fisiologia Cellulare, ed è soprattutto membro della direzione scientifica di Human Brain Project. Human Brain Project è un progetto europeo finanziato con un miliardo e duecento milioni, in atto da sei anni, che si prefigge lo scopo di modellizzare le parti e l’intero cervello, per poter comprendere meglio come funziona e sentiremo da lui in tempo reale quello che ha studiato e sta studiando e quali sono i progetti futuri che ha in mente di svolgere.
Do la parola subito al professore Egidio D’Angelo, che ci farà una presentazione di quello che sta facendo.
EGIDIO D’ANGELO:
Buongiorno a tutti, io ringrazio Mauro per l’invito, è veramente un onore e un’occasione eccezionale partecipare a questo evento. Il mio compito è sostanzialmente quello di raccontarvi, con il punto di vista di un neuroscienziato, quello che stiamo imparando e quello che stiamo capendo su come funziona il cervello.
Giustamente nell’introduzione è stato menzionato il prologo di ieri sull’intelligenza artificiale, che potrebbe arricchirsi molto dalla comprensione di quello che succede veramente nel cervello, che vuol dire studiare le funzioni delle sua cellule, i neuroni soprattutto, studiare i meccanismi con i quali i suoi circuiti lavorano.
Chiaramente le domande che rimangono sulla funzione del cervello sono molto importanti, innanzitutto quando i suoi circuiti entrano in funzione? Cosa calcolano? Perché questi circuiti calcolano, producono dei calcoli e come fanno a produrre questi calcoli? Sono quello che noi chiamiamo il when, what e how della funzione cerebrale.
Le neuroscienze attuali sono molto cambiate rispetto a quelle di un po’ di anni fa e attualmente utilizzano conoscenze che derivano non più solamente dall’osservazione clinica di pazienti che hanno subito lesioni di parte del cervello o correlazioni anatomo-funzionali o anatomo-patologiche rispetto alla clinica. Oggi la neuroscienza utilizza strumenti che provengono dall’informatica, dalla matematica, dalla fisica, oltre che dalla biologia e dalla medicina.
A questo punto siamo a livello dell’intero cervello. La cosa più straordinaria è che questo cervello non produce un’azione meccanica come il muscolo o come il cuore, ma produce un’azione comportamentale, quindi ci consente di pensare, di ragionare, di capire, di agire e quindi quello che noi misuriamo come output, come uscita della funzione del cervello non è misurabile con un normale strumento che per esempio misura una forza, misura un allungamento, misura uno spostamento.
Tutto questo crea un insieme di circostanze che rendono difficile studiare il cervello e qui nascono due approcci fondamentali: uno è quello che noi chiamiamo botton up, quindi dal basso verso l’alto, che cerca di ricostruire il meccanismo di funzionamento del cervello partendo da analisi molto dettagliate delle molecole, delle strutture subcellulari, le sinapsi, o dei neuroni. Questo approccio è potentissimo ma ha un limite, che oltre un certo livello di complessità iniziamo a confondere le nostre idee, anziché capire non capiamo più.
L’altro approccio è chiamato top down: partiamo dall’alto e scendiamo verso il basso. Possiamo partire da un’analisi clinica, da un’analisi psicometrica, da un’analisi di segnali di risonanza magnetica nucleare e da lì cerchiamo di capire cosa sta succedendo nel cervello, certo impariamo molte cose ma siamo lontanissimi dai neuroni.
Cosa fanno i neuroni? I neuroni sono cellule, hanno tutte le proprietà delle cellule dell’organismo, hanno una proprietà speciale molto amplificata che è quella di generare segnali elettrici sulla membrana cellulare.
Tutti questi comportamenti li chiamiamo comportamenti dinamici non lineari, e il fatto interessante è che i neuroni del cervello, ci sono centinaia di fenotipi, non sono tutti uguali, si comportano da questo punto di vista in modo diversificato.
Innanzitutto all’interno di un microcircuito i neuroni non fanno tutti la stessa cosa, i neuroni hanno una scarica diversificata e comunicano tra di loro ad un livello ancora più alto. Immaginate di essere in un animale e misurare la risposta dei suoi neuroni con un elettrodo chiamato elettrodo di campo; voi vedete una grossa onda che rappresenta l’insieme di tutti i contributi, di tutte le scariche, di tutti i neuroni che stanno intorno all’elettrodo.
Se voi volete andare ancora più in su, potete passare a regioni di attività del cervello. Questa volta intervengono le tecniche di risonanza magnetica nucleare, che vi fanno vedere per immagini quello che succede in diverse aree della superficie cerebrale.
Poi arriviamo più in alto e cerchiamo di capire cosa combina il cervello nel suo insieme. Nel suo insieme, entriamo nella sfera delle funzioni comportamentali, delle funzioni cognitive, delle funzioni motorie, delle funzioni emotive, entriamo all’interno di un sistema che considera la triade, attenzione, motivazione, ricompensa; abbiamo l’omeostasi, abbiamo il comportamento, il pensiero, l’ideazione la percezione. Tutte queste parole le conoscete, in qualche modo la fisiologia del cervello si interessa di collegare tra di loro e di capire le interazioni tra queste funzioni fondamentali. Un punto critico che sta alla base di tutto è il fatto che il cervello crea continuamente una realtà virtuale interna. Noi viviamo in un mondo virtuale che è il nostro mondo, il mio è diverso dal vostro o ci assomiglia molto ma non è proprio uguale.
Certamente il mondo interno del cervello è perfettamente autonomo, eccetto che si confronta con il mondo esterno tramite i sensi. Questo punto è fondamentale. Vi racconterò qualcosa di più di questa interazione tra il nostro mondo interno e quello esterno e delle strutture che controllano questa interazione.
Quando questo matching viene a mancare, nascono delle anomalie del pensiero, per esempio quelle tipiche delle psicosi in cui il mondo interno non è più in sintonia con quello esterno, va per conto suo. Dal punto di vista della fisica dei sistemi, questo tipo di organizzazione funzionale viene definito sistema complesso adattativo, complesso perché è basato sulle interazioni e adattativo perché si può modificare in funzione delle interazioni. Vi faccio un esempio molto semplice: immaginate che il cervello proceda per schemi interni che ha elaborato ed acquisito e che utilizza. Quando io dico una parola, il vostro schema si aspetta che io ne dica un’altra che ha una relazione logica con quella che ho appena detto. Allora voi aspettate che arrivi questa parola e questa parola non arriva. C’è qualcosa che non va: scateno la vostra attenzione, la vostra curiosità. Ci sono meccanismi cerebrali che scatenano l’attenzione e la curiosità sulla base dell’imprevisto. A questo punto succede che questa nuova parola che vi dico torna allo schema tramite sensi. Allora lo schema comincia a considerare: non è che questa parola in realtà sia prevedibile? Se succede ancora e ancora, vuol dire che dopo la parola a arriva sempre la parola b, allora lo schema cambia. Questo è il meccanismo di apprendimento, stiamo imparando dall’ambiente. Quindi non solo il sistema è complesso e prevede ma si adatta. Questa è la base dello schema di funzionamento cerebrale. Tutto il resto consegue. A questo punto però non capiamo ancora come funziona il cervello. Quali sono i punti critici? Stanno proprio nel fatto che il cervello è costituito da piccolissimi elementi che sono i neuroni, quello dell’uomo ne contiene circa dieci alla 12esima, che vuol dire 10miliardi, tantissimi. Questi neuroni hanno proprietà complicate, avete visto che fanno i potenziali di azione, non sono tutti uguali tra di loro, interagiscono tra di loro generando grande complessità. Quindi parlando di neuroni, noi non capiamo il cervello, è inutile dirlo. Nel momento in cui studiamo le funzioni del cervello, non sappiamo cosa fanno i neuroni. Questo è il problema. C’è una complessità molecolare e circuitale strutturale enorme, ci sono fenomeni di stocasticità. Cosa vuol dire? Alcuni fenomeni non sono prevedibili in sé ma solo per la probabilità di avvenire. Nei microcircuiti i segnali che provengono dall’interno del cervello e dall’esterno si distribuiscono secondo un ordinamento spazio temporale complicato, che noi non conosciamo completamente. Nei microcircuiti l’informazione in termine informatico viene elaborata ma non sappiamo esattamente come. A livello sistemistico i rapporti tra strutture dei circuiti, funzione dei circuiti, dinamica e controllo dei circuiti rimane largamente da capire. E poi il problema gigantesco è che il rapporto cervello mente e il fenomeno coscienza hanno una loro autonomia ancora, si distaccano dalla nostra capacita di spiegazione per vari aspetti e quindi ci mettono in difficoltà. Riassunto in termini scientifici: ci manca un modello. Noi non abbiamo un modello sulla base del quale prevedere come capire il cervello. Non entriamo in loop di tipo ontologico ma sostanzialmente noi cerchiamo di capire il cervello e non abbiamo modelli per farlo. Quindi dobbiamo costruire il modello, questo è il punto. Allora arriviamo all’Human Brain Project che è stato menzionato da Mauro. Human Brain Project alcuni anni fa si prefigge di risolvere questo problema, creare un modello del cervello che ricolleghi la microscala con la macroscala. Un modello diventa testabile, facciamo una simulazione, se poi sperimentalmente le cose sono diverse vuol dire che il modello non era completo e allora cambiamo il modello che diventa la nostra base di conoscenza. Può essere falsificabile, quindi è comprovabile. In questo modo costruiamo la comprensione del cervello. Ci sono altri problemi più pratici, per esempio: le nostre conoscenze sono frammentarie, non abbiamo conoscenza di tutto, qualcosa manca. Beh, il modello ci dice cosa manca, se noi abbiamo centomila dettagli da capire, ma abbiamo tempo e soldi per capirne mille, il modello di suggerisce i mille da cercare per primi. Quindi tutte queste motivazioni hanno spinto a creare un progetto che studi il cervello per farne un modello. Allora, come procedere? Noi abbiamo pensato in Hbp di procedere attraverso un processo di reverse engineering, di ingegneria inversa. Se noi vogliamo capire come funziona un ponte, come fa a stare in piedi, e non abbiamo le equazioni strutturali del ponte, dobbiamo ricostruirlo pezzo per pezzo, rimetterli insieme e studiare da questo insieme ricostruito le equazioni che lo tengono in piedi. Questo è quello che stiamo facendo. Quindi ricostruiamo i neuroni, li semplifichiamo, li immettiamo nei microcircuiti, i microcircuiti li ricolleghiamo in modelli di larga scala e costruiamo il modello del cervello. Mi direte: è fattibile? Sì. È fattibile, e lo stiamo facendo. Vi faccio vedere come. Tra l’altro una coincidenza che non è casuale è che quest’approccio può essere eseguito ora e non 15 o vent’anni fa, perché l’informatica sta dandoci le infrastrutture di supercalcolo, i cosiddetti supercomputer o HPC High Performance Computer, che consentono di sviluppare i modelli e di simularli. Prima non si poteva. L’altro fatto importante è che esistono degli eccezionali data banks, che contengono informazioni coordinate, strutturate e organizzate per essere utilizzate nei modelli. Prima non c’erano. Non crediate che per capire il modello basti essere biologi o medici, non basta assolutamente, quindi occorrono delle informazioni, delle strutture che derivano da numerose discipline, le neuroscienze sono una disciplina, scusate il gioco di parole, transdisciplinare. Questo vi dà un idea, non voglio entrare nei dettagli, della matematica che sta sotto ai modelli dei neuroni. Sono modelli ad equazioni differenziali che rappresentano in modo dettagliato le proprietà molecolari della membrana. Le transizioni molecolari sono rappresentate da equazioni differenziali, le equazioni differenziali descrivono il comportamento del sistema, il comportamento nel tempo, quindi dinamico, del sistema. Vi faccio vedere un esempio: quello che vedete adesso è un modello della cellula più grossa del nostro cervello che si chiama cellule del Purkinje. Tenete conto che per rappresentare questa cellula abbiamo dovuto utilizzare più di 1500 compartimenti elettrici collegati tra di loro, ognuno rappresentato da alcune decine di equazioni differenziali, e quindi la costruzione contiene circa 65mila equazioni differenziali. Questo vi dà un’idea, questo vi dà un modello dettagliato di un neurone. Questo è quello che deve fare un biologo o un biofisico per rappresentare un neurone. Questo neurone funziona esattamente come un neurone vero, quindi noi abbiamo trasferito con un processo di reverse engineering la biologia in un modello fisico. Quello che adesso voglio farvi vedere, è una esemplificazione perché fino a qui vi ho parlato di teoremi generali, di principi generali che possono anche sfuggire in qualche modo. Vi faccio vedere degli esempi. E questi esempi li applico a quella struttura che stiamo studiando più intensamente, che è il cervelletto. Il cervelletto è quella parte di cervello che sta qua dietro e che per molti anni è stata ritenuta come la sede del controllo del comportamento motorio coordinato dell’uomo e degli animali. Ma certamente lo è ancora. Provate a guardare questo video. Certamente sarebbe più interessante il pianista che ascoltare me, è incredibile quello che sta facendo, avete visto le sue mani come si muovono? E avete visto come si muove il corpo e come effettivamente il pianista stia pensando, stia immaginando, stia vivendo questo mondo musicale, questo mondo di suoni e lo stia trasformando in un azione? Allora quello che fa il cervelletto in tutta questa operazione è di coordinare tra di loro i movimenti degli oltre seicento muscoli del nostro corpo, non sta controllando quello di un dito e dell’altro dito, li coordina, quindi genera le correlazioni spaziali e temporali di seicento muscoli. E quindi dal punto di vista puramente matematico stiamo lavorando nell’iperspazio geometrico nell’ordine di centinaia e centinaia di assi. Immaginate un sistema di assi cartesiani che invece che averne due, x e y, ne ha 500, 600, 1000, 10000. Quindi quello che sta facendo questo organo interno del cervello è un’operazione spaventosa. Chiaramente la domanda è: come fa a fare tutto questo? Il punto poi è che negli studi successivi si è visto che questa operazione il cervelletto non la fa solo sul movimento ma anche sul pensiero, quindi il nostro pensiero viene coordinato nelle sue componenti logiche come se fosse un movimento. Nel momento in cui gli animali imparano a muoversi, imparano a ragionare su quello che fanno. Non è che si muovano a casaccio e basta, ragionano e si muovono. Il movimento è la messa in atto del pensiero sul lato motorio, sul lato comportamentale effettivo, ma il pensiero e il movimento hanno la stessa struttura circuitale e neurale. Il cervello nell’evoluzione si è connesso sempre di più nell’uomo alle parti che controllano il pensiero. È costituito di moduli, di questi moduli ce ne sono tanti, sono più o meno tutti uguali, la loro differenza è che si connettono a parti diverse della corteccia cerebrale. Qui vedete un esempio delle ricostruzioni delle connessioni che è stata fatta con tecniche di risonanza magnetica nucleare strutturale e poi di trattografia. Di questo poi ne parlerà di più Claudia che è presente qui tra noi. Questo studio consente di analizzare in grande dettaglio le connessioni dei moduli cerebellari con la corteccia cerebrale. Questo è un esempio in cui il cervelletto si collega in maniera funzionale con le parti di corteccia e pulsa insieme a loro. Questo studio viene fatto con la magnetoencefalografia, perché sfortunatamente l’elettroencefalogramma del cervelletto non si può fare, quindi il cervelletto pulsa in modo sincrono con la corteccia. L’altro fatto interessante: il cervelletto prende parte a fenomeni di controllo cognitivo e in questo caso sta simulando internamente le azioni di altre persone che il soggetto sta vedendo, queste persone stanno schiacciando una pallina e il cervelletto sta raccogliendo queste immagini e le sta simulando internamente, in sostanza insegnando al soggetto che guarda quello che sta facendo l’altro. Si tratta di un correlato dell’effetto mirror che è stato menzionato poco fa. Prende parte alle cosiddette reti di stato stazionario Resting State Networks, note a tutti gli studiosi di risonanza magnetica nucleare funzionale e la cosa interessante è che prende parte a quelle reti che regolano la nostra partecipazione allo stato interno, cioè al mondo interno del cervello, alla sua realtà virtuale interna e all’aggancio con la realtà esterna. Questa transizione viene regolata da reti che comprendono il cervelletto tramite le reti attentive. Quando arriva un segnale di attenzione, noi passiamo dal nostro mondo interno, quando pensiamo agli affari nostri per così dire, a quello esterno, che ci sta dando dei segnali che dobbiamo catturare per imparare, capire, difenderci e interagire con l’ambiente. Vedete che il cervelletto prende anche parte al controllo di rilascio della famosa dopamina, che è quella che controlla i nostri stati emotivi e cognitivi. Quindi non è vero che la dopamina dipende solamente dalla ventral tegmental area o che a che fare solo coi ranghi della base come c’è scritto nei libri di testo, il sistema della dopamina è controllato dall’ identificazione della novità degli errori in relazione alle aspettative e questo fatto viene controllato dal cervelletto. È comparso su Science qualche tempo fa. Quindi sostanzialmente siamo di fronte ad una struttura che mano a mano che viene studiata rivela un’ integrazione con le funzioni del cervello che sono molto più grandi di quelle che si presumevano all’inizio. Nel nostro pianista il cervelletto non sta solo controllando la coordinazione dei muscoli, che già sarebbe un’operazione eccezionale, ma sta controllando anche tutta l’interazione del pianista con l‘ambiente e tutta la sua produzione emotiva e cognitiva, quindi è una struttura totalmente integrata col resto del cervello. Per studiare questo tipo di fenomeno ancora una volta usiamo i modelli e tra poco arriveremo a questo. Vi faccio notare che quello che sta facendo il cervelletto è esattamente consistente con quello schema del sistema complesso che vi ho mostrato. Il cervelletto impara a predire la correlazione temporale tra gli eventi, siano questi motori, siano questi non motori e quindi puramente cognitivi. Questa figura la faccio vedere molto brevemente, la prima idea su come potesse funzionare tutto questo viene da gli scienziati che si chiamano Marr-Albus-Ito che sviluppano una teoria: la motor learning theory, che è la prima che cerca di mettere insieme tutto, siamo nel 1969. Questi tre scienziati sviluppano una teoria interessantissima, che tuttora è un punto di riferimento ma gli mancano molti pezzi, mancano pezzi su dove viene depositato l’apprendimento. Il fenomeno di plasticità sinaptica, che avete sentito nominare, è la base dell’apprendimento nel cervello, ma in quegli anni non conoscono ancora le caratteristiche di scarica dei neuroni, quindi non sanno come i potenziali d’azione vengano generati, si ordinino nei neuroni, e in più non considerano la geometria della connessione neurale all’interno del circuito. Quindi in qualche modo qualcosa capiscono ma gli mancano molti pezzi. Senza questi pezzi non possono fare un modello. La loro teoria rimane una teoria, non viene trasformata in un modello, cioè in qualcosa di implementato, di studiabile, e quindi non viene mai simulata. Quindi teoria, modello, simulazione. Loro hanno solo la teoria, manca il modello e la simulazione. Adesso guardate cosa succede quando la loro teoria viene trasformata in un modello e il modello viene simulato. Questo è il percorso che stiamo sviluppando all’interno di Human Brain Project. Human Brain Project non è una creazione che è venuta in mente a qualcuno otto anni fa, è nato da una catena di progetti nati intorno al ’95, alcuni diretti da noi a Pavia, altri in altre parti d’Europa. È nato e adesso continua. Qui vedete che dal neurone che avete visto prima si passa ad avere dei circuiti neurali e questi circuiti neurali vengono trasformati e semplificati e vengono inseriti all’interno o di robot o di brain simulators, simulatori di cervello. Sempre i relazione ai dati sperimentali che vi ho già fatto vedere, questa figura fa semplicemente vedere che è possibile trasformare quei modelli molto complicati, costituiti da circa 60mila equazioni differenziali, in modelli che ne contengono solamente tre. Voi direte: «Chiaramente si perde qualcosa». Certo che si perde qualcosa, ma in qualche modo riusciamo a medicare le perdite, e quello che è più importante, riusciamo a mantenere le oscillazioni di risonanza, l’adattamento, le pause, quindi il comportamento dinamico del neurone è ancora lì: non stiamo perdendo la dinamica dei neuroni. Dopodiché, questi neuroni semplificati vengono inseriti all’interno di microcircuiti ricostituiti, e in questi anni abbiamo costruito gli strumenti informatici per ricostruire i microcircuiti, abbiamo ricostruito le routine grafiche per vederli (questo non è un fatto secondario, bisogna vedere quello che si fa), e siamo arrivati a delle rappresentazioni di questo tipo.
Quello che vedete qua, è un microcircuito del cervelletto che sta funzionando. Questo microcircuito, nell’esempio, è costituito da alcune centinaia di neuroni, ma quello vero da cui questo pezzettino è stato estratto, ne contiene circa quattrocentomila.
Quattrocentomila corrisponde più o meno a un modulo di funzionamento del cervelletto: nel topolino ci sono circa trentacinque milioni di neuroni nel cervelletto, nell’uomo siamo nell’ordine di miliardi. Quindi, con uno di questi moduli creiamo una frazione considerevole del cervelletto di un topolino, e una frazione un po’ più piccola del cervelletto di un uomo. A quel punto se noi moltiplichiamo i moduli e li ricolleghiamo correttamente alla corteccia celebrale simulata, simuliamo un cervello.
Vi faccio vedere un esempio di propagazione di questi effetti modellistici. Prendete quel neurone che vi ho fatto vedere in una delle prime figure, quello che ho chiamato “granulo”, questo neurone sembra semplice perché è uno dei più semplici che si trovano nel cervello, tuttavia è molto complicato e per riuscire a sviluppare la comprensione dei suoi meccanismi di funzionamento, abbiamo dovuto sviluppare un primo modello che tiene conto di tutte le correnti della membrana cellulare, che lo fanno funzionare.
Questo modello ha portato alla scoperta di quello che noi chiamiamo “il decimo pianeta del sistema solare”: c’erano nove correnti e noi abbiamo scoperto la decima, predetta dal modello, che diceva «attenzione le cose non funzionano se non ce n’è una in più, di queste correnti». Siamo andati a cercarla sperimentalmente e l’abbiamo trovata e c’era, questo è il primo. Dopodiché il modello ha predetto il potenziale d’azione, ma non prediceva bene la sua ampiezza perché i canali non erano nel posto giusto. I canali ionici non erano nel posto giusto, li abbiamo dislocati nel posto giusto, secondo lavoro. Dopodiché non propagavano questi potenziali d’azione alla velocità corretta, nel modo giusto negli assoni, che sono i prolungamenti del neurone che vanno alle altre cellule.
Terzo lavoro, terzo modello. Quindi vedete che qui i modelli continuano ad andare avanti, e i lavori continuano ad andare avanti.
Quello che succede ad un certo punto, è che studiamo meglio il neurone, scopriamo che gli manca ancora una proprietà, usiamo il modello e prediciamo cosa dovrebbe essere, undicesimo pianeta.
A questo punto abbiamo scoperto un altro canale ionico all’interno della cellula, quindi sostanzialmente noi stiamo facendo progredire la biologia aldilà di congetture, tramite i modelli. Avremmo potuto cercare, tra le centinaia e centinaia di canali ionici presenti nel cervello, quelli giusti. Ma forse non saremmo nemmeno arrivati a immaginare che ne mancavano in questa cellula.
In realtà il modello ha predetto cosa dovevano essere, li abbiamo cercati e c’erano. Quindi vedete che i modelli hanno una potenza predittiva spaventosa, restringono il campo sperimentale a un qualche cosa di fattibile, e economicamente accessibile. Invece di spendere centinaia di migliaia di euro per fare centinaia di esperimenti, ne abbiamo fatti una quantità più piccola e abbiamo trovato più rapidamente una risposta.
Questo esempio vi fa vedere la propagazione degli effetti ancora al livello di circuito, è un’altra rappresentazione, questo è il video, e in questa rappresentazione ancora una volta vengono fatte vedere le attività dei neuroni del cervelletto all’interno di un insieme di alcune centinaia di migliaia di neuroni del modulo.
A parte il filmato, che è molto carino da vedere, la cosa interessante è che quando si analizza, si scoprono due strutture all’interno dei dati, all’interno del filmato la prima struttura è quella qua sotto, vedete che c’è quello che noi chiamiamo il “Center-Surround”, cioè una regione centrale rossa circondata da una regione blu, una specie di anello blu. Questa struttura si forma autonomamente all’interno del circuito nel momento in cui lo stimoliamo, a causa di proprietà dei neuroni, delle loro connessioni.
Quindi vuol dire che si formano dei canali che trasmettono i segnali. La parte rossa è quella che trasmette, la parte blu intorno invece isola il segnale dal rumore di fondo. Questa struttura è molto importante, la vedrete in azione tra poco. L’altra struttura, questa volta non più nello spazio, ma nel tempo, è la correlazione tra l’attività dei neuroni. Quando noi stimoliamo la rete, questi neuroni presentano una correlazione tra di loro, quindi pulsano in modo sincrono su bande di frequenza predeterminate, che sono dettate dalle proprietà di risonanze e oscillazioni dei singoli neuroni e dalla loro connettività. Quindi questo sistema modellistico sta prevedendo quello che fa il circuito.
Andiamo a fare gli esperimenti, e ritroviamo sia le oscillazioni che il “Center-Surround”, che vedete qua di lato. Quindi, siamo riusciti a predire quello che avrebbe fatto il circuito, siamo andati a vedere quello che fa, e lo fa davvero. Quest’ultimo esempio vi fa vedere cosa succede quando in questo circuito introduciamo la plasticità sinaptica, cioè d’apprendimento.
A questo punto trasportiamo il circuito all’interno di un cervello (l’apprendimento da solo non serve a nulla, se non all’interno di un cervello che interagisce con l’ambiente), allora a questo punto, introduciamo le regole di plasticità sinaptica, facciamo funzionare il circuito e lo mettiamo all’interno di un neuro-robot.
Questi esperimenti sono stati fatti nel laboratorio di Alessandra, che dovrebbe essere qui tra noi e che probabilmente ne parlerà di più nei prossimi workshops. Qui vedete che questo neuro-robot contiene il circuito nel cervelletto, i suoi neuroni all’interno del circuito stanno funzionando come nelle simulazioni che avete visto prima.
E la cosa interessante è che questo circuito impara tramite le regole di plasticità sinaptica, impara in modo autonomo, noi non gli abbiamo detto cosa deve imparare, gli abbiamo detto solo cosa deve fare.
Dopodiché, le regole dell’azione che deve svolgere, le acquisisce dall’interazione con l’ambiente esterno. Dal punto di vista informatico, sta trasferendo informazione o energia dall’ambiente esterno al suo circuito interno. Sta facendo quello che fa il cervello.
Attenzione, l’Intelligenza artificiale non c’entra niente qui, l’Intelligenza artificiale è una costruzione dell’ingegnere, che scrive delle regole e le mette in atto. Quello che noi stiamo facendo, non stiamo scrivendo nessuna regola, noi stiamo dicendo al circuito cosa deve fare e lui si arrangia da solo a farlo. Quindi c’è una grossa differenza, non confondete le due cose. Qui vedete in questa figura, lungo l’asse verticale il tempo, quindi l’apprendimento, vedete che la scarica a mano a mano che l’esercizio procede, cambia. Ad un certo punto questi neuroni del cervelletto, vedete che fanno questa striscia blu, questa striscia blu vuol dire che stanno zitti, non stanno più scaricando. Questi nuclei cerebellari profondi che ricevono i segnali dalla striscia di sopra, invece, stavano zitti e cominciano a funzionare; questo è il paradigma chiave di funzionamento del circuito cerebellare, ipotizzato dalla teoria di Marr-Albus-Ito che vi ho predetto prima.
E questo viene fuori davvero, quindi confermiamo la teoria. I modelli robotici stanno confermando la teoria. Quindi il sistema sta imparando a mettere in relazione eventi tra di loro sulla scala del millisecondo. Vi faccio vedere un esempio degli ultimi, questo è molto carino, sempre sviluppato dal laboratorio di Alessandra.
Quello che vedete qua è il circuito del cervelletto introdotto all’interno di un robot umanoide che è Nao. Questo circuito aiuta Nao a trovare la correlazione tra uno stimolo nocivo che questo laser, laser beam, che vedete qua puntato sulla pancia del robot produce e un suono. Okay, il robot sta imparando a mettere in relazione tra di loro il laser beam e il suono, guardate cosa impara a fare.
Praticamente ha generato una correlazione interna, scritta come plasticità sinaptica nei circuiti di quel modello che vi ho fatto vedere, sta scrivendo la relazione temporale tra il suono e il laser beam. Dopodiché, individuato il suono, scatena immediatamente la reazione motoria adeguata, questa gliel’abbiamo detta noi, perché lui non la sa, ma quello che è importante è che il cervelletto sta imparando la correlazione temporale.
È come se il nostro pianista imparasse che, dopo aver mosso il dito pollice e generato un tipo di suono, va mosso il dito mignolo, generando un altro suono, e uno dopo l’altro viene generata la sequenza o schema interno del comportamento motorio di tutto quel meraviglioso pezzo di musica di Chopin che avete sentito prima.
A questo punto rimane da risolvere un problema, fin qui siamo sempre andati a marcia in su, bottom-up, cosa succede se vogliamo iniziare a capire i segnali generati per esempio dalla risonanza magnetica nucleare o dall’elettroencefalografia?
A questo punto c’è un bel problema, perché noi col “bottom up” arriviamo più o meno fino a qui, in questa zona, ma non riusciamo ad andare fino a in cima in modo agevole, è ancora troppo complicato e non ci riusciamo.
In realtà i segnali che vengono dalla risonanza magnetica ci arrivano indipendentemente: noi non vogliamo costruirli apposta, noi vogliamo vederli, noi vogliamo vedere quello che succede in un uomo vero, in un cervello vero, però dobbiamo leggere e capire cosa succede ai neuroni che li generano.
Dal punto di vista matematico, si chiama “problema inverso”, quindi noi abbiamo un ensemble signal, un segnale di insieme, che è stato sì generato da delle componenti sottostanti, ma non sappiamo come.
Vi faccio un esempio con la fisica delle stelle: immaginate d’avere una stella che genera la luce e genera il calore, e voi andate a rilevare una bella mappa, come quella qua in alto a sinistra; immaginate che non sia più l’attività del cervello ma sia il calore sulla superficie di una stella. Voi sapete che tutto questo deriva dalle reazioni nucleari all’interno della stella, e quelle potete descriverle. Allora, in fisica sono state create delle relazioni molto precise tra il comportamento degli atomi e le conseguenze a livello macroscopico sulla materia, sulla massa materiale della stella.
Quindi in fisica riuscite a spiegare questa mappa sulla base del comportamento degli atomi che stanno qua sotto.
Dal punto di vista della fisiologia del cervello, non lo sappiamo ancora fare, ma vorremmo farlo, cioè noi vorremmo capire come si comportano i neuroni che stanno sotto per generare quella mappa di attività elettrico-metaboliche, che sta in cima e che vediamo là in alto.
Per poterlo fare, a questo punto, uno degli approcci che stiamo impiegando è quello appunto della cosiddetta inferenza bayesiana, o baysian inference, che risolve il problema matematico inverso di passare dalla immagine globale all’attività dei neuroni. Ma in mezzo ci va un modello, e che modello ci va?
Possiamo mettere un modello come quelli che vi ho fatto vedere, quindi praticamente usiamo il modello che vi ho fatto vedere, questi decodifica il segnale e ve lo porta giù, dicendovi cosa stavano facendo i neuroni.
Questo vuol dire comprendere come funziona il cervello. Qui ci sono dei problemi tecnici di natura informatica, e di vario livello che ci consigliano di passare da una rappresentazione intermedia, che vi accenno solamente: dobbiamo cercare di trasformare quell’attività neurale del modello che avete visto prima, in una costruzione più maneggevole, di tipo matematico, e scritto in equazioni continue, nel tempo e nello spazio. Non ve le faccio vedere, vi dico solo che le abbiamo.
E vi faccio vedere cosa succede. Succede sostanzialmente questo: nel momento in cui facciamo questa operazione, riusciamo a generare un modello questa volta astratto, non più fatto coi neuroni, che scaricano, che fanno potenziali d’azione, ma un modello più astratto che però raccoglie i segnali, quelli di sinistra che vengono dalla corteccia, li elabora e li ributta alla corteccia. In questo modo stiamo creando lo strumento di base per generare il processo di brain-simulation.
Il processo è iniziato, abbiamo altri tre anni per completarlo e speriamo di completarlo alla fine di Human Brain Project. Chiaramente la cosa importante è che tutte le proprietà che abbiamo scoperto nei neuroni in questa rappresentazione ci vadano a finire dentro, e ci sono tutte. Quindi la teoria di Marr che viene rappresentata da questo filtro adattativo, c’è tutta: abbiamo trasferito l’idea del Center-Surround, abbiamo trasferito l’idea degli oscillatori accoppiati, abbiamo trasferito l’idea del perceptrons, che sono i percettroni ovvero quella grande cellula che vi ho fatto vedere pulsare prima, abbiamo trasferito le regole di plasticità e abbiamo trasferito la connettomica, quella che deriva dalla ricostruzione di risonanza magnetica nucleare dei tratti di connessione tra il cervello e il cervelletto.
Tutto questo è rientrato nel modello del cervello. È quello che si chiama un modello “data-driven” cioè trainato dai dati. Non stiamo inventando niente, ci sono delle interpolazioni, ci sono delle assunzioni che possiamo verificare, rilassare, modificare, ma non c’è niente di inventato.
Quindi stiamo facendo il modello del cervello. A questo punto possiamo sperare di utilizzare, cercare di utilizzare questo modello per capire veramente come il cervello funziona. E sviluppare delle teorie adeguate per il funzionamento del cervello che non esistono ancora.
Voi mi direte, dal punto di vista pratico, a parte capire, che chiaramente è il nostro obiettivo numero uno, cosa succede?
Questo vi dà un’idea di quanto sta spendendo l’Europa, l’Europa allargata, per la cura delle patologie del sistema nervoso, comprese le patologie psichiche e neurologiche. Spende circa cinquecento miliardi di euro all’anno. Non stupitevi, cinquecento miliardi di euro all’anno. In Lombardia siamo intorno alla decina di miliardi di euro all’anno. In scala esattamente col costo dell’Europa, spesa socio-sanitaria, quindi ospedali cliniche, assistenza. Quanto spende l’Europa per la ricerca sul cervello? Circa cinque miliardi all’anno, cento volte meno. Attenzione, queste cifre, sembrano tantissimi soldi, divideteli su tutti gli stati: sono pochissimi.
Più o meno ci lamentiamo tutti di mancanza di fondi, chi più chi meno. Guardate dove si colloca l’Italia, la spesa dichiarata e statisticamente rilevabile dalla Commissione europea per la spesa italiana è questa, siamo intorno ai cento, neanche, tra i cinquanta e i cento milioni di euro all’anno. Son pochissimi, pensate a quanti scienziati lavorano, io, Vittorio, Mauro, tanti di noi lavoriamo su questo, se voi dividete questa cifra tra tutti noi, noi non prendiamo niente.
Guardate chi spende di più, sono gli United Kingdom, che è intorno ai trecento milioni di euro all’anno e guardate cosa spende l’industria, cosa investe l’industria, l’industria investe circa il doppio, il triplo di quanto non facciano i governi. E l’Italia qui si colloca al quinto, sesto posto, non più al terzo, vuol dire che l’industria italiana sta investendo meno sulla ricerca neuroscientifica di altri Paesi. Son tutte statistiche che dovrebbero fare riflettere il nostro sistema di ricerca, ricerca di base e ricerca applicata.
Quanto sta spendendo Human Brain Project in dieci anni? Un miliardo e duecentomila euro. Attenzione ancora, andate sulla scala. Cifra enorme, letta da sola, ma messa in scala è piccola. Quindi gli sforzi che stiamo facendo sono incommensurati alla cifra che riceviamo per sviluppare la ricerca. Speriamo che tutto questo abbia effettivamente quella ricaduta che il mondo sta aspettando, quindi che i modelli ci aiutino a sviluppare delle conoscenze neuroscientifiche, delle infrastrutture informatiche tali da promuovere la diagnosi e la cura delle patologie neurologiche e sviluppare teconologie bio robotiche e bio informatiche di alto livello. Vi posso menzionare per esempio il sistema di super computing che si sta consorziando intorno a Human Brain, che si chiama Phoenix, che consorzierà tra di loro i super computer più grossi d’Europa, che stanno a Jülich, in Germania, a Lugano, in Svizzera, a Bologna, il computer Fermi del Cineca, in Spagna e in Francia. Questi cinque super computer sono in rete e stiamo iniziando ad usarli in rete. Un altro sforzo notevole è quello del computer neuromorfo, che non è più basato sulla logica della macchina di Turing, con la cpu centralizzata, ma è basato su circuiti neurali che derivano direttamente da quelli che vi ho mostrato. Lo stiamo sviluppando anche noi in Italia, abbiamo una parte in questo e lo stiamo sviluppando insieme a Manchester, dove c’è il centro di elaborazione del cosiddetto Progetto Spinnaker, che sta elaborando il super computer neuromorfo. Quello che si spera è che tutti questi investimenti portino dei benefici per la società. Vi ricordo una frase di Feynman, che ha lasciato dei pensieri incredibili: “Se noi pensiamo che in qualche modo capiremo qualcosa sulla natura dividendola in parti, e c’è chi fa fisica, chi fa informatica, chi fa il biologo, chi fa il medico, non arriviamo da nessuna parte. Bisogna stare attenti, rimettiamo tutto insieme perché la natura, questa divisione non la conosce”. Questo tema viene sviluppato completamente nel Meeting che avremo tra poco a Erice, alla scuola internazionale Ettore Majorana di Erice, in collaborazione col Centro di Roma. Devo ringraziare tutti quelli che ci stanno lavorando, ovviamente non sono da solo e sono elencati tutti qua. Grazie per l’attenzione.
MAURO CERONI:
Non possiamo non essere pieni di gratitudine ad Egidio, per questa carrellata veramente bellissima, meravigliosa che esalta quello che ricordavo prima, che la cosa più meravigliosa è la nostra intelligenza, questa capacità conoscitiva che l’uomo ha, che passa attraverso il cervello e che è capace di affrontare e di andare a fondo dei problemi attraverso il metodo scientifico. È veramente stupefacente e meraviglioso. A questo punto passo la parola al professor Vittorio Gallese, a Vittorio, col quale dialogherò, gli farò alcune domande e chiederò a lui di condurci in questa grande scoperta che è la scoperta della nostra partecipazione agli eventi, con tutte le implicazioni che questo ha. E vorrei partire con la prima domanda e chiederti: Cervello e intersoggettività. Cosa abbiamo imparato dalle neuroscienze negli ultimi trent’anni?
VITTORIO GALLESE:
Benissimo. Allora io ho iniziato ad occuparmi di cervello parecchi anni fa, quarant’anni fa, di fatto, quando al secondo anno di Medicina feci la domanda per iniziare un internato all’allora istituto di Fisiologia, dove Rizzolatti era un baldo quarantenne con molte idee, molti progetti e soprattutto un grande entusiasmo, che ha ancora oggi che di anni ne ha il doppio. Iniziai a bottega, quindi trainando i macachi, fabbricando gli elettrodi e poco alla volta entrai, con questo apprendistato, a registrare l’attività dei neuroni. In questa prima fase della mia carriera, prima da studente e poi da ricercatore volontario, gli argomenti sul tavolo erano molto diversi da quelli dell’intersoggettività. Erano: come, in che modo navighiamo nello spazio e quindi qual è il contributo che il cervello dà alla costruzione delle mappe spaziali che ci consentono di muoverci nello spazio. La mia tesi di laurea fu un modello sperimentale della sindrome di neglect, dopodiché passammo ad interrogarci su un problema anche questo molto lontano dal tema dell’intersoggettività e cioè: come fa il nostro cervello a guidare le azioni della mano e garantire la possibilità ad esempio di afferrare degli oggetti come questo in modo compiuto? Già allora erano emerse delle proprietà abbastanza inattese, cioè, studiando le proprietà dei neuroni motori, quelli che guidano la nostra azione sugli oggetti, ad esempio, scoprimmo che alcuni di questi neuroni, oltre ad avere proprietà motorie (il che era banale, dal momento che eravamo all’interno del sistema motorio), avevano anche delle proprietà visive. Per cui il neurone che guida il mio afferramento di questo bicchiere, si attiva anche quando io questo bicchiere mi limito a guardarlo, a osservarlo. Ed è proprio durante lo studio di questi neuroni che ci imbattiamo casualmente nei “neuroni specchio”; neuroni cioè che si attivano non solo quando la scimmia afferra l’oggetto ma anche quando la scimmia vede me o un altro simile o un altro macaco afferrare quell’oggetto. Diciamo, da questo momento in poi il tema della relazione è entrato prepotentemente in laboratorio. Una cosa che dico sempre agli studenti, lo dico quando mi occupo in particolare di un tema, il tema delle emozioni: «Spero che alla fine del mio corso abbiate le idee meno chiare di quando lo avete iniziato». Nel senso che quello che noi cerchiamo di fare, come ha mostrato mirabilmente Egidio poco fa, è ridurre la complessità e il mistero a una serie di elementi che siamo in grado, che speriamo di essere in grado di misurare. Quindi di fatto noi cerchiamo di ridurre in laboratorio la complessità del mondo (nel caso specifico parliamo di esseri umani), la complessità umana, in una serie di dati misurabili, si spera ripetibili. E non c’è nulla di male in questo approccio, io rivendico di essere un riduzionista metodologico: dove comincio un po’ ad arrabbiarmi, è quando al riduzionismo metodologico si sostituisce il riduzionismo ontologico cioè: “io sono i miei neuroni”, “io sono le mie sinapsi”, “io sono il mio cervello”. Ecco, lì non ci sto più, perché noi siamo qualcosa di più complesso e differenziato della semplice attività dei neuroni contenuti nel nostro cervello o nel nostro cervelletto. I neuroni non amano, non si arrabbiano, non sperano, non si rammaricano, non promettono. Tutte queste sono caratteristiche che hanno un senso quando le attribuiamo al proprietario dei neuroni, ossia all’individuo, alla persona. E una delle nostre scommesse è di portare con le nostre lanterne tecnologiche un po’ di luce in questo mistero, cercando di capire come dall’attività del cervello e del corpo (io non parlo di cervello, parlo sempre di cervello-corpo, se no rischiamo di cadere in quelle fallacie che ci fanno parlare del cervello come di un computer, di un elaboratore di dati, la scatola delle meraviglie algoritmiche e altre sciocchezze). Direi che tutte e tre le persone che avete di fronte siamo tutti medici, tutti neurologi e quindi siamo sufficientemente vaccinati da questi deliri ingegneristico-computazionali con cui spesso ci confrontiamo leggendo gli articoli di divulgazione scientifica sui giornali e sulle riviste. Il cervello è un organo, così come è un organo il rene, il fegato, il cuore, il polmone, e quello che ancora non abbiamo capito appieno è quanto e come mirabilmente integrato sia il cervello con la rimanente parte del nostro organismo e uno dei temi di ricerca in cui ci siamo impegnati di più negli ultimi cinque, sei anni è capire proprio la relazione tra cervello e cuore, ad esempio, in relazione ma non solo, al tema delle emozioni. Quindi, una delle poche cose che ho imparato in questi quarant’anni, su cui sarei disposto a giocarmi tutto, è che la mente è relazione. Non esiste la mente dell’individuo al di fuori della quantità e della qualità delle relazioni che può stabilire. Quando iniziano queste relazioni? Prima di quello che consideriamo il giorno zero. Cominciano prima della nascita, cominciano già in utero: se voi fate ascoltare a un neonato la ninnananna che gli cantava la mamma attraverso la parete dell’addome (io durante entrambe le gravidanze ho fatto di tutto sulla pancia di mia moglie, cercando di stabilire un contatto acustico con la creatura che si stava sviluppando nel suo grembo), se voi gli fate ascoltare la ninnananna che il feto ascoltava quando era nel grembo materno e una ninnananna che condivide la stessa base armonica ma che è leggermente diversa e fate un elettroencefalogramma al cervello del neonato, l’elettroencefalogramma risponde in maniera differente alle due ninnananne. Noi abbiamo pubblicato nel 2011 un lavoro in cui abbiamo studiato i movimenti di feti gemelli nell’utero e abbiamo dimostrato chiaramente come i movimenti diretti verso il fratellino o la sorellina sono cinematicamente diversi dai movimenti che il feto compie quando esplora il proprio corpo o quando esplora le pareti interne dell’utero. Quando nasciamo passiamo da un mondo a micro gravità a un mondo in cui facciamo esperienza piena per la prima volta della forza di gravità, tanto è vero che poi, nei mesi successivi, per la disperazione dei genitori, giochiamo con gli oggetti, stiamo compiendo degli esperimenti di fisica ingenua, quindi il sistema si deve ricalibrare a questo nuovo ambiente, ma già prima della nascita, il nostro cervello-corpo fa sì che noi ci muoviamo in maniera differente a seconda di ciò che andiamo a toccare. Se è il corpo del fratello con cui condividiamo quel primo spazio di vita, bene, le caratteristiche del movimento sono quelle che, se riscontrate in un bambino, in un adulto, ci farebbero dire: «sono quelle che hanno il maggior grado di controllo». Quindi, già prima della nascita (e noi non a caso abbiamo intitolato questo lavoro “Wired to be social”, cioè, “Cablati per essere sociali”), la dimensione della socialità è fondamentale e quindi tutto quello che noi impariamo ad essere e diventare è in gran parte condizionato, determinato dalla qualità e dalla quantità di incontri che siamo in grado di potere sviluppare con altri esseri umani. Quando ci si chiede: ma com’è che noi condividiamo con lo scimpanzé oltre il 99% del patrimonio genetico e ciononostante gli scimpanzé, perfettamente adattati al proprio ambiente in natura, non organizzano i meeting, non si interrogano su loro stessi, non hanno prodotto un’arte, per quanto ne sappiamo? Un aspetto secondo me fondamentale di cui si parla poco, è che noi siamo neotecnici, siamo le creature più neotecniche che esistano; cioè, noi nasciamo immaturi. Il nostro cervello, quando nasciamo, è molto piccolo, continua a crescere e svilupparsi e compie il suo sviluppo alla fine dell’adolescenza, quando si completa la mielinizzazione nella parte anteriore del cervello. I neuroni comunicano tra di loro grazie a questi prolungamenti che si chiamano assoni, gli assoni sono come dei fili di rame: quando c’è il rivestimento isolante, la guaina mielinica, il segnale viaggia molto più veloce. Questa mielinizzazione si conclude più o meno tra i diciotto e i vent’anni. Che cosa significa? Che a differenza degli scimpanzé e ancora di più dei macachi, quindi i nostri parenti più prossimi nel regno animale, i primati non umani, il nostro cervello continua per moltissimi anni a svilupparsi. Dove? In un contesto di relazioni sociali. Questo nostro nascere immaturi fa sì che per i primi mesi di vita noi siamo completamente dipendenti dall’altro. Se l’altro non ci nutre, non ci veste, non ci riscalda, non ci protegge, noi moriamo. Non sviluppiamo il linguaggio, siamo predisposti a parlare ma se non ascoltiamo la parola dell’altro, noi il linguaggio non lo sviluppiamo. Quindi tra gli animali sociali, e ci sono mille soluzioni per costruire una socialità, a partire dagli insetti e dalle formiche, la nostra socialità è una socialità molto particolare, unica, proprio in relazione di questa fortissima dipendenza dall’altro. Allora, una delle poche cose che ho imparato in questi quarant’anni, è che la nostra mente è una mente che non si può nemmeno iniziare a comprendere se mettiamo tra parentesi l’altro. Che è esattamente il contrario di quello che il cognitivismo, negli ultimi 50-70 anni ha cercato di insegnarci, dove tutto è giocato a livello della mente del singolo individuo. Quindi tutto quello che avviene nella relazionalità con l’altro è né più né meno, secondo questa teoria falsa, sbagliata, non sarebbe altro che il calare nell’agone sociale le competenze intellettive di una mente che è già quella che è a livello del singolo individuo. Non è così: se non abbiamo gli strumenti per entrare in una relazione corretta con l’altro, le cose si complicano fortissimamente, quindi noi non siamo più gli stessi ma siamo persone con problemi di relazionalità, che possono assumere le più svariate forme. Quindi per capire la mente del singolo, non possiamo mettere l’altro tra parentesi, ma l’altro dev’essere in qualche modo… e uno dei grandi difetti, legato a limitazioni tecnologiche, è che gran parte delle neuroscienze vanno ad esaminare il cervello del singolo. Oggi cominciamo, con le tecniche della Apple Scanning, ad esempio, a misurare l’attività dei cervelli di due persone mentre vengono messe in relazione contemporaneamente e quello che noi stiamo cercando di fare, ad esempio in ambito di estetica, è capire cosa cambia quando io vado al cinema e vedo un film da solo, rispetto a quando vedo un film in compagnia di altre persone. Anche questo effetto della condivisione dell’esperienza (altra parola chiave), rispetto a quando siamo i soli a fruire di certi stimoli, è un tema ancora relativamente poco indagato ma che credo acquisterà sempre più piede nei mesi e negli anni a venire.
MAURO CERONI:
Grazie tantissimo di questa apertura al fatto che non esiste il cervello del singolo se non dentro la totalità dei rapporti. Volevo chiederti, allora: viviamo in un tempo in cui la relazione con gli altri è sempre più mediata da interfacce digitali. In che modo le neuroscienze ci aiutano a capire questi aspetti della contemporaneità?
VITTORIO GALLESE:
questo è un tema su cui, di nuovo, si è fatto ancora molto poco. Qui devo fare una premessa: le neuroscienze sono necessarie ma non sufficienti per capire chi siamo. Perché come dicevo, misurano, fotografano, uno degli aspetti che ci rende chi siamo. Un aspetto necessario, perché senza cervello non c’è mente, non c’è nulla, e drammaticamente uno dei momenti in cui abbiamo appreso di più il rapporto tra l’attività del cervello e il comportamento e l’esperienza, è stato il primo dopoguerra, perché per la prima volta, grazie al numero purtroppo enorme di feriti di guerra (feriti da arma da fuoco, quindi ferite focalizzate, che portavano via solo una piccola parte del cervello), la neuropsicologia clinica ci ha consentito di fare degli enormi progressi, cercando di capire la correlazione tra il funzionamento di certe aree del cervello e determinate funzioni sensoriali, motorie, cognitive. Ma perché non basta? Non basta per il motivo di cui parlavamo prima: non possiamo ridurre la nostra vita interiore, la nostra vita mentale, la nostra vita spirituale al funzionamento dei neuroni, perché i neuroni misurano delle variazioni di potenziale. L’unica parte del mondo che i neuroni conoscono sono i sali che li attraversano, gli ioni: sodio, calcio, potassio, cloro e poco altro. Oggi noi, attraverso la rivoluzione tecnologica, abbiamo un rapporto fondamentalmente sempre più diverso con la realtà. Diceva prima il professor D’Angelo, Egidio D’Angelo: il cervello costruisce una rappresentazione virtuale del mondo ed è verissimo; provate a pensare alla differenza che c’è tra la fotocamera del vostro cellulare e la vostra visione diretta. Immaginate di filmare quello che state vedendo e periodicamente passare con la mano davanti all’obbiettivo. Quando andate a vedere quello che avete registrato, vi rendete conto che ci sono dei buchi neri che coincidono con i momenti in cui voi avete occluso la visuale dell’ottica, della fotocamera inclusa nel vostro smartphone. Ma non è quello che ci accade in continuazione? Noi periodicamente chiudiamo il sipario che ci separa dal mondo là fuori, noi chiudiamo le palpebre e non abbiamo ancora imparato perché ammicchiamo così frequentemente. Sì, per mantenere umida la superficie della cornea, ma per farlo potremmo ammiccare molto meno di quanto non lo facciamo. E si è cominciato a vedere come questo ammiccamento sia fortemente condizionato da quello che facciamo, dove siamo, con chi parliamo, di cosa stiamo parlando ecc. Ma lasciando questo tema da parte, se no partiremmo per un altro sentiero, noi non ci rendiamo conto di questi buchi neri. A questo dovrei aggiungere anche i movimenti rapidi, i movimenti saccadici con cui noi centinaia di volte in un minuto muoviamo continuamente gli occhi. Muoviamo gli occhi e il mondo rimane fermo, chiudiamo le palpebre ma questi buchi neri non li vediamo. Perché? Perché l’immagine del mondo è una ricostruzione attiva da parte del cervello-corpo. Bene, oggi per la prima volta il nostro rapporto con il mondo è fortemente condizionato dai media. Ad esempio, esempio molto banale, prima si diceva: «È luglio, è agosto, si suda perché? Perché c’è caldo». Leggevi la colonnina del termometro e: «Quanti gradi ci sono oggi?». «38». Oggi non basta più, c’è la temperatura registrata dal mercurio, ma c’è anche la temperatura percepita, che ogni volta è sempre maggiore di quella registrata dal termometro e che paradossalmente ci fa sudare ancora di più. Perché quando mi dicono: «Percepita 40°», in qualche modo, il mio organismo si adatta. Allora perché questa rivoluzione digitale cambia le carte in tavola? Il discorso sarebbe molto lungo ma, diciamo, nei nostri rapporti interpersonali fisici, uno dei meccanismi fondamentali è il meccanismo dell’empatia. Empatia significa “sentire con l’altro”, non c’entra niente la simpatia, non c’entra niente l’essere buoni samaritani, io mi dissocio totalmente da una serie di sciocchezze che sono state scritte a proposito dei “neuroni specchio” come “la natura ci rende buoni perché ci dà i neuroni specchio, è la cultura che ci rende cattivi, il fatto di condividere non solo le azioni ma le emozioni e le sensazioni con gli altri, ci rende automaticamente buoni”. Falso. Empatizzare significa sentire con l’altro; simpatizzare, sym pathos, significa sentire per l’altro. Che sono due piani che secondo me è opportuno lasciare distinti: io posso empatizzare con la mia vittima, più dolore infliggo alla mia vittima più godo, perché sono un sadico e questa percezione diretta del dolore provato dall’altro l’ho fatta attraverso un meccanismo di risonanza, un meccanismo di simulazione, perché, la cosa che non ho detto è che ci siamo accorti come i “neuroni specchio” per l’azione erano la punta di un iceberg molto più voluminoso. Nel corso degli anni abbiamo scoperto che anche emozioni, gusto, paura, rabbia, sensazioni, tatto, dolore, noi le mappiamo nell’altro attraverso la sua simulazione all’interno del nostro cervello-corpo. E, diciamo, questo descrive l’essenza del meccanismo dell’empatia. Che non è un meccanismo cognitivo, in primis, che non è un meccanismo linguistico, è la percezione diretta di quello che prova l’altro. Io posso capire quello che prova l’altro in tanti modi diversi, quello che manca a questi modi diversi è quello che Edith Stein – che rimane l’autore del miglior libro sull’empatia che sia mai stato scritto, lo scrive nel 1912, è la sua tesi di dottorato, il suo maestro è Edmund Husserl, padre della fenomenologia – dice quando si chiede se sia possibile empatizzare anche con gli animali: “Quando io mi trovo di fronte a un animale che prova qualcosa come il dolore e fa certi movimenti, posso avvicinarmi a lui e capire quello che prova. Ma per tutto il resto, manca quello che ci caratterizza quando empatizziamo con i nostri simili, cioè manca un riempimento fenomenico”. Quindi io posso imparare a capire che quando vedo un emoticon, gli angoli della bocca che vanno in su, significa che quella persona è felice, altra cosa è farlo simulando la sua gioia, quindi attivando i meccanismi di rispecchiamento, che normalmente si attivano quando la gioia la provo io. Ci sono tanti modi di comprendere, questa è una delle tante trappole che ci tende il linguaggio, l’idea che comprendere, siccome abbiamo un’unica parola che esprime questo concetto, a questo corrisponda un unico modo di comprendere. Che è quello che ci ha detto il cognitivismo classico per tanti anni: l’altro è un mistero da risolvere, accedere al mistero dell’altro lo posso fare solo costruendo una teoria della sua mente. Falso. Ci sono mezzi molto più diretti, la scoperta dei neuroni specchio è stata fondamentale per tanti aspetti, uno di questi è stato ridare vigore al tema dell’empatia. Se voi fate una ricerca su Google e vedete chi e quanti parlavano di empatia prima del 1992 e dopo il 1992, vedrete che c’è un trend in ascesa. Ci siamo riappropriati di una vecchia idea. L’altra cosa di cui ho la certezza assoluta è quanto poco siamo sempre originali. Basta avere l’umiltà di studiare un po’ chi ci ha preceduto e molte delle idee di cui dibattiamo e discutiamo anche oggi, fieri giustamente della nostra tecnologia, di quello che abbiamo scoperto sul cervello… bene, andiamo a leggere Giovan Battista Vico e molte delle cose che noi oggi diciamo, lui le diceva già nel Settecento. Per non parlare di Aristotele o addirittura dei presocratici. Quindi, oggi, uno dei temi fondamentali per me è l’estetica, perché viviamo in un mondo sempre più estetizzato. Il ruolo fondamentale che le neuroscienze possono svolgere, non è solo o soltanto come anch’io ho fatto fin qui, cercare di capire perché un certo tipo di cinema mi tiene inchiodato alla poltrona, perché mi appassiono alle vicende di papà Karamazov o di Ivan, perché mi appassiono e mi abbandono alla contemplazione della Cappella degli Scrovegni o di fronte a un taglio di Lucio Fontana. Questo è importante, perché descrive qualche cosa che verosimilmente è unico della nostra specie. Ma l’estetica è una delle principali chiavi di lettura della contemporaneità. Perché tutto oggi passa attraverso un processo di estetizzazione. Non solo la commercializzazione dei prodotti, il marketing, ma i messaggi politici, l’educazione: oggi si parla di infotainment, di edutainment, quindi educazione e informazione devono passare attraverso un’esperienza sempre più ricca e sempre più in grado di generare piacere e quindi determinare una massiccia liberazione di quel neurotrasmettitore di cui parlava Egidio prima, che è la dopamina. Se voi ci pensate, oggi anche la politica è fatta sempre di più di comunicazione e questa comunicazione è freddamente e scientificamente studiata a tavolino, attraverso un framing estetico delle parole, delle metafore, delle immagini. Quindi se noi vogliamo andare al nocciolo della contemporaneità, noi dobbiamo mettere a fuoco questa dimensione estetica della vita sociale: primo punto. Il secondo punto è rappresentato dalla intermediazione rappresentata dalla tecnologia. Oggi voi vedete un gruppo di adolescenti (ho una figlia di 15 anni, quindi queste cose le vivo tragicamente, no, non tanto tragicamente, fortunatamente legge molti romanzi, è un’avida lettrice ancora di carta), mi è capitato più volte di vedere gruppi di adolescenti che comunicano nella stessa stanza messaggiandosi, utilizzando whatsapp o altre forme più adolescenziali di social. Whatsapp è già considerata da vecchi. Non parliamo di Facebook: «Papà, Facebook? Ma chi lo usa più!». Appunto, i sessantenni. Bene, questa mediazione non solo introduce delle modalità di relazionalità completamente sconosciute fino a pochi anni fa, ma introduce delle cose molto interessanti, anche dal punto di vista neuroscientifico. E cioè, per la prima volta le immagini le teniamo nelle nostre mani, non c’è più il telecomando, il telecomando è il nostro corpo, perché le immagini le vediamo per la prima volta nel nostro spazio peripersonale, e non più a due o più metri di distanza, come quando andiamo al cinema o guardiamo la tv seduti sul divano. La gran parte delle informazioni video e audio da cui siamo bombardati, noi le fruiamo all’interno di uno spazio che è uno spazio molto particolare, dello spazio della prossemica. È lo spazio che più gelosamente difendiamo, è lo spazio che permette a noi latini di tollerare un dialogo con una persona, che uno che è nato a nord delle Alpi, trova immediatamente intrusiva e quindi lo vedete che arretra, quando gli parliamo. Lo spazio peripersonale, cioè lo spazio che raggiungiamo… uno spazio tipicamente motorio, lo spazio delle nostre potenzialità motorie. Bene, per la prima volta la gran parte della comunicazione audio visuale avviene all’interno di questo spazio. Con delle ricadute emozionali, psicologiche e cognitive tutte da studiare. Quindi io oggi, nell’ambito delle neuroscienze cognitive di cui mi occupo… io ho tre filoni attivi al momento (spero di riattivare il quarto, il problema è quello di cui parlava Egidio, che non ci sono fondi): ruolo delle emozioni nell’intersoggettività, disturbo delle emozioni nel disturbo post traumatico da stress, noi siamo stati i primi a registrare gli elettromiogrammi in un carcere minorile a Freetown, in Sierra Leone. Abbiamo fatto una ricerca che è andata avanti per cinque anni… ok va bene, vado a concludere infatti mi hai fatto due domande invece di tre. Vedo di concludere. Questo filone “psicopatologia cervello-corpo”, schizofrenia-trauma, il linguaggio, che spero di riprendere a breve e l’estetica. Allora, parlare di estetica nelle neuroscienze… se voi parlate con molti colleghi: «L’estetica? Ma quella è una roba che devi fare quando sei in pensione!». Ecco, questo è un errore clamoroso! Al di là del capire cosa succede quando vedo una macchina mossa dalla steadycam piuttosto che uno zoom, quanto questo mi coinvolge, questo attiene alla costruzione e alla codificazione degli strumenti di comunicazione. Noi dobbiamo interpretare l’estetica non come un ambito ristretto all’ambito dell’arte ma nella sua accezione etimologica: “Aisthesis”. Perché questo fa il nostro cervello-corpo: costruisce una rappresentazione del mondo che è fondata sulla nostra relazione sensorio-motoria col mondo. Aggiungendo tutti gli aspetti di cui vi parlavo, oggi diventa indifferibile lo studio della dimensione estetica della socialità, con quelle caratteristiche che vi dicevo, sia in termini di contenuti, sia in termini di media. Ed è quello che noi stiamo facendo nei nostri laboratori e che spero di riuscire a fare sempre di più negli anni a venire. Grazie.
MAURO CERONI:
Grazie Vittorio. Mi resta solo il tempo delle cose essenziali. Domani mattina, per chi è interessato, ci sarà un workshop con entrambi i nostri relatori, nell’area brain, a mezzogiorno, mi sembra. E quindi verranno poste loro delle domande da parte di esperti per cercare di approfondire i temi che sono emersi oggi. Vi ricordo che questa sera, nell’area brain, ci sarà l’incontro con Alessandra Gandini e Claudia Pedrocchi, che parleranno di risonanza magnetica funzionale applicata allo studio delle funzioni cerebrali, in D3 alle ore 19.00.
Trascrizione non rivista dai relatori