La macchinizzazione dell’uomo e l’umanizzazione della macchina

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Paolo Benanti, Docente alla Pontificia Università Gregoriana di Roma ed esperto di bioetica, etica delle tecnologie e human adaptation; Miguel Benasayag, Filosofo e psicanalista argentino naturalizzato francese. Introduce Marco Aluigi, Vicedirettore & Congress Manager Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS.

Gli uomini e le donne dispongono ancora di quella singolarità del vivente di cui parla Benasayag? Oppure anche grazie all’ausilio di tutte le nuove tecnologie, mediche, hardware e software, assomigliano sempre di più a macchine? Le macchine di ultima generazione, i primi androidi e i robot, stanno al tempo stesso assomigliando sempre più ad esseri umani. Qual è il discrimine? E che cosa ci permetterà di preservare la nostra unicità, e la nostra passione per ciò che in effetti siamo?

Con il sostegno di Tracce.

LA MACCHINIZZAZIONE DELL’UOMO E L’UMANIZZAZIONE DELLA MACCHINA

«Sai che cos’è il test di Turing? Sì, lo so cos’è il test di Turing: è quando un umano interagisce con un computer e se l’umano non capisce di interagire con un computer il test è superato. E questo che informazione ci dà? Il computer ha un’intelligenza artificiale. Stai costruendo un’IA? Ne ho già costruita una e nei prossimi giorni tu sarai la componente umana nel test di Turing. Oh, porco cane! Sì, esatto, Kaleb, hai capito, perché se il test viene superato tu ti ritroverai al centro del più grande evento scientifico nella storia dell’uomo. Se hai creato una macchina cosciente non si tratta della storia dell’uomo, questa è la storia degli dei».

 

Marco Aluigi: Buongiorno a tutti e grazie di essere qui. Il dialogo letto adesso dal nostro bravo attore Giampiero Bartolini che abbiamo appena ascoltato è tratto dal film: “Ex machina”.

Il nostro incontro di oggi si chiama appunto: “La macchinizzazione dell’uomo e l’umanizzazione della macchina”. Questo è il nostro tema. Questo incontro nasce da due uomini appassionati, due uomini pieni di passione, passione per l’uomo, passione per l’elemento irripetibile che ogni uomo è, che ogni donna è, che ogni persona è, che ogni vivente è, una passione per l’essere umano e per la sua vita, per il senso della vita, perché tra funzionare o esistere, com’è intitolato il libro di Miguel Benasayag, c’è una grande differenza, passione perché la singolarità dell’essere vivente, la sua unicità, il suo essere sempre in relazione con altri, la sua irriducibilità è qualcosa di cui dobbiamo diventare coscienti ora più che mai. Il rischio, ma è più di un rischio, è quello di essere assimilati sempre più a macchine e di muoverci e funzionare come macchine e per contro di avere a che fare sempre più spesso nella nostra realtà con macchine invasive, ma indispensabili. Già, indispensabili, ma a che prezzo? Miguel parla spesso di ibridazione, ma nei suoi studi mette anche in mostra i rischi e le alterazioni neurofisiologiche di questa ibridazione, Paolo Benanti, di Human Enhancement, di potenziamento dell’umano attraverso vari supporti chimici, organici e inorganici che fanno parte del nostro vissuto e non sono più solo soggetti o oggetti di film distopici.

Passo ad una veloce presentazione dei nostri due grandi ospiti, grandi amici appassionati qui a fianco a me oggi.

 

Miguel Benasayag: per la prima volta qui con noi al Meeting. Chiedo di fargli un applauso grande, molto grande. È nato in Argentina dove ha studiato Medicina e nello stesso tempo ha militato nella guerriglia guevarista durante il periodo della dittatura: arrestato tre volte, è stato torturato e ha passato quattro anni in prigione. Miguel, grazie alla sua doppia nazionalità franco-argentina, è approdato in Francia nel 1978 dove, pur continuando la sua attività di militante, ha cominciato la sua attività clinica e di ricercatore richiamandosi alla corrente dell’antipsichiatria e alla psicanalisi fenomenologica sotto la guida del filosofo e sociologo Pierre Ansart presso l’università di Parigi 7. Intorno alla metà degli anni Ottanta fonda insieme ad altre personalità il collettivo “Malgré tout” e contribuisce a scrivere il Manifesto della rete di resistenza alternativa. Oggi vive a Parigi, dove continua il suo lavoro di psicanalista e ricercatore nell’interfaccia tra epistemologia e biologia, con particolare attenzione ai problemi dell’infanzia e dell’adolescenza. È autore di molte opere di successo, molte delle quali tradotte in italiano, tra cui: “Il cervello aumentato l’uomo diminuito”, “Oltre le passioni tristi”, citato più volte qui al Meeting in questi giorni anche dal cardinal Zuppi nell’incontro principale sul tema del Meeting, “Funzionare o esistere”, “La tirannia dell’algoritmo”, “La singolarità del vivente”.

E poi passo a Paolo. Paolo è già alla sua quarta partecipazione al Meeting, è un francescano del terzo ordine regolare, è docente presso la Pontificia università gregoriana dove si occupa di etica, bioetica ed etica delle tecnologie, in particolare internet e l’impatto della trasformazione digitale, le biotecnologie per il miglioramento umano e la biosicurezza, le neuroscienze e le neurotecnologie. Nel 2008 consegue il dottorato in Teologia morale presso la Pontificia università gregoriana con una tesi dal titolo: “The cyborg. Corpo e corporeità nell’epoca del postumano”, con cui ha vinto il premio Bellarmino-Vedovato nel 2012. Ha fatto parte della task force “Intelligenza artificiale” per coadiuvare l’Agenzia per l’Italia digitale, è membro della Pontificia accademia per la vita con particolare mandato per il mondo delle intelligenze artificiali ed a fine 2018 è stato membro del gruppo di trenta esperti selezionati dal Ministero per lo sviluppo economico per elaborare la strategia nazionale per le nuove tecnologie come intelligenza artificiale e blockchain. È autore di diverse opere tra cui: “Postumano, troppo postumano”, “Realtà sintetica. Dall’aspirina alla vita: come ricreare il mondo?” Digital age. Teoria del cambio d’epoca. Persona, famiglia e società”, “Ricordare troppo. Eccessi di memoria da Borges alle neuroscienze”, Human in the loop. Decisioni umane e intelligenze artificiali”, in uscita.

Quello che vorremmo fare noi qui oggi con questo titolo e con questo tema: La macchinizzazione dell’uomo e l’umanizzazione della macchina, è far dialogare, sentire i nostri due ospiti, i nostri due amici su sei temi che appariranno e li facciamo comparire alle nostre spalle.

L’ESSERE UMANO È IN CRISI?

In quale aspetto si connota questa crisi dell’umano? Paolo..

 

Paolo Benanti: Bene. Buongiorno, ben trovati. Per me è sempre una gioia essere qui con voi.

Dunque, a questa domanda si potrebbe rispondere in varie maniere. Proviamo a ricostruire un po’- come dire?-le tracce archeologiche di questa crisi.

Dal punto di vista di chi si occupa delle tecnologie è chiaro che una prima sfida della macchina all’umano c’è senz’altro nell’Ottocento, quando con la rivoluzione industriale si è instaurata una competizione tra il muscolo dell’uomo e questa nuova forma di energia flessibile e portatile che ha dato luogo all’industrializzazione ed ecco che con le grandi industrie, con la rivoluzione industriale, il muscolo dell’uomo si è trovato in competizione con la forza della macchina, ma è durante la seconda guerra mondiale, quando di fatto gli sforzi bellici hanno riunito le più grandi intelligenze per cercare di coadiuvare le nazioni, che c’è stata un’altra rivoluzione forse più silenziosa, ma non meno efficace, che abita le tasche di ciascuno di noi. È stato lì che Edward Shannon improvvisamente ha avuto bisogno di trovare una nuova categoria per rispondere ad un quesito tecnologico: come possiamo far sì che un messaggio da Londra arrivi a Washington e da Washington arrivi a Londra in maniera sicura? È stato lì che ha teorizzato una nuova categoria dell’esistere che è stata l’informazione. Ora la storia è anche abbastanza buffa, perché quando l’ha dovuta scrivere appena hanno desecretato i lavori che stavano facendo, lui si ricorda di un’indicazione che gli viene data da quello che era il suo mentore di dottorato, il quale gli disse che se voleva che le persone non gli facessero troppe domande doveva usare l’entropia. E allora che cos’è l’informazione? L’informazione per Shannon è qualcosa che serviva al diavoletto di Maxwell, colui che aveva teorizzato per primo l’entropia, per capire quale molecola di gas caldo far passare o non far passare all’interno di una scatola chiusa, cioè nell’Ottocento la fisica si occupa di cose che non si vedono e ha bisogno di esperimenti mentali per cercare di spiegare quello che analizza. Perché col calore, con il lavoro non si riesce a tirare fuori tutto? Maxwell ha provato a spiegarlo con questo esperimento dell’entropia e del diavoletto, ma Shannon, con una brillante operazione-come dire?-intellettuale, pone un’altra domanda: di che cosa ha bisogno quel diavoletto per capire quale molecola far passare e quale no? La risposta che dà Shannon è un bit di informazione: 1 passa, 0 non passa e improvvisamente ordine e disordine sono associati a informazione e rumore. Da quel momento tutto ciò che produce una differenza può essere capito come un’informazione. Quella differenza che fa la differenza-sto citando Shannon- può creare l’informazione, è generata dall’informazione ed ecco che la rivoluzione industriale conosce una nuova accelerazione, perché la differenza che fa la differenza è un concetto fondamentale per governare il comportamento di una macchina e una delle prime realizzazioni che fa Shannon è un piccolo topolino meccanico che si chiama Teseo, volutamente ispirato al personaggio mitologico, che sbattendo con il suo muso sulle pareti di un labirinto, attiva dei relais, crea una differenza e cambia direzione e botta dopo botta il topolino esce dal labirinto. Non è molto differente dai robottini che utilizziamo per spazzare in casa e non cito marche in questo momento, ma insomma li ritroviamo oggi in vendita ovunque. Che cosa accade? Che per la prima volta nel 1948 una macchina non è solo un muscolo, ma sembra avere una qualità che fino ad ora era solo di un essere vivo ed intelligente. La macchina ha uno scopo, trova l’uscita, l’informazione messa in relazione alla macchina le dona una capacità che prima era solo del vivente, quella di avere una finalità. Passano gli anni, questa cosa viene sempre più implementata, viene teorizzata da un piccolo gruppo interdisciplinare americano, denominato “ciberneti”. Noi siamo così abituati a questo modo di progettare la macchina che non ci facciamo più caso. Quando attraversiamo le porte di un ascensore, se attraversiamo un fascio di luce, quello genera un’informazione e cambia il comportamento delle porte dell’ascensore, che si aprono, sembrano intelligenti. Ecco, la diffusione nella tecnologia civile trasforma la nostra relazione con la macchina e improvvisamente nel 1982 accade un’altra cosa: il primo gennaio 1983 la famosa rivista Time, invece di eleggere come uomo dell’anno 1982 una persona, elegge la macchina dell’anno, il computer e nell’editoriale che accompagna quella rivista c’è scritto che è brillante, sempre pronto, educherà i nostri figli e si vede sulla copertina un uomo grigio, un po’ piegato, ingobbito su se stesso e questo che sembra ormai un pezzo di archeologia, questo vecchio computer sul tavolino, acceso e colorato. Andiamo avanti con il tempo e nel 2000 grazie alle grandi piattaforme del digitale iniziamo ad avere una capacità di calcolo ed una serie di dati mai avuti prima e una serie di algoritmi matematici capaci di predire quello che accadrà nel futuro. Le intelligenze artificiali iniziano a funzionare, si apre la primavera dell’intelligenze artificiali. Nel 2020 durante la pandemia la gran parte di noi ha vissuto in questo mondo discreto del digitale e abbiamo scoperto come di fatto questo digitale sia un nuovo grande continente da colonizzare in cui esistono anche altre soggettività che sono gli algoritmi. Questo breve panorama serve per dire che l’uomo si trova di fronte ad un’altra specie sapiens, questa volta una macchina che ci pone una domanda fondamentale sulla nostra specificità. Prima eravamo gli unici sapiens sulla terra, ora che abbiamo una macchina, chi siamo noi?

 

Marco Aluigi: Chi siamo noi? Miguel, l’essere umano per te è in crisi?

 

Miguel Benasayag: Buongiorno, prima dico che io parlo una lingua personale che è l’itagnolo, dunque è più o meno comprensibile. Tu hai fatto bene a parlare di essere umano, di umanità, perché l’uomo, non so se è un po’ conflittuale dire uomo, ma è certo che l’umanità si trova in una crisi enorme, strutturale, del suo modo di abitare il mondo, di stabilire rapporti con le altre specie, con l’ecosistema. Noi stiamo uscendo più o meno, di questo siamo coscienti, da quello che chiamiamo antropocene, da questa epoca, come diceva Paolo, dove l’uomo comincia a diventate così importante, così pesante per il pianeta, che modifica assolutamente tutto il pianeta con la sua azione, lo modifica malgrado lui, lo modifica distruggendo anche. Oggi l’emergenza è chiedersi qual è il posto, quale la possibilità oggi per l’umanità di arrivare ad una nuova alleanza, come diceva Prigogine, ad un nuovo modo di abitare il mondo. In questo senso effettivamente la rivoluzione digitale arriva in un momento dove veramente i cambiamenti e, come dice Simondon, il modo dell’individuazione, il modo di esistere stanno cambiando assolutamente e dunque la questione, come Paolo diceva, non è tanto cos’è la macchina, ma la potenza del digitale obbliga a domandarsi cosa è il vivente. Non parlo solo dell’essere umano, ma del vivente in generale. Qual è la singolarità del vivente, perché siamo a tal punto affascinati dalla possibilità della macchina che dimentichiamo di vedere qual è la nostra singolarità, del vivente e dentro il vivente, dell’umano. In questo senso non è possibile guardare il futuro con uno specchio retrovisore, non possiamo dire che era meglio prima. Tutto questo è una bugia, noi dobbiamo guardare la realtà attuale il futuro dicendo come l’umanità, come il vivente potrà condividere il mondo con questa potenza immensa del digitale e questa è la sfida: come noi riusciamo ad ibridarci, perché per il momento siamo piuttosto colonizzati, non perché la macchina lo voglia. La macchina non vuole niente, riesce sì a schiacciare le qualità, le competenze di qualità del vivente, ma il fatto è che noi non sappiamo cosa fare con questa potenza. Se a casa mia, dove io vivo al sesto piano e c’è un ascensore, io lo utilizzo, non utilizzo più i miei muscoli e non è colpa dell’ascensore che io diventi handicappato. Lo stesso avviene con il mondo digitale, è una potenza terribile, ma anche l’assimilazione del cervello con la macchina ci pone delle domande. Jean Pierre Changeux, il grande scienziato francese, ha scritto quaranta anni fa: “L’uomo neuronale”, in cui afferma che noi oggi siamo incapaci di discendere dal mentale al neurale. Il neurale funziona come una macchina a stati discreti, come un computer e questa è diventata la nostra realtà. Siamo tutti convinti che tra la macchina e l’essere vivente ci sia semplicemente una differenza quantitativa. In che cosa consiste invece la differenza qualitativa? C’è una differenza qualitativa o no? Cercare questo è una sfida urgente.

 

Marco Aluigi: Manderei l’altro blocco, il secondo tema e ridirei come regole di ingaggio di provare a stare in un tempo di cinque minuti.

ARTEFATTO/TECNICA: partiamo da te questa volta, Miguel. L’uomo ha sempre cercato di costruire oggetti per modificare la realtà e per migliorarla, ora anche per riprodurla daccapo, sintetica. Che rapporto ha questo oggi con la tecnica e le nuove tecnologie? Hai già iniziato prima un pochino a rispondere.

 

Miguel Benasayag: In realtà l’uomo costruendo questa tecnica costruisce sé stesso, modifica sé stesso. L’uomo prima della scrittura non è lo stesso dell’uomo dopo la scrittura, anche neurofisiologicamente. Tutti questi cambiamenti sono co-cambiamenti, sono coproduzione. Il problema oggi è che la macchina funziona perfettamente, riesce a fare un sacco di cose, per esempio chiudere la porta dell’ascensore, ma la questione non è tanto se la macchina funziona bene o male, la questione è che il vivente in generale e l’umano in particolare hanno una natura che non è solamente quella di funzionare, ma di esistere. Esistere vuol dire questa angoscia esistenziale di essere qui, cercando il senso, di essere senza sapere perché siamo qui sempre con questi dilemmi etici, politici in ogni senso, dunque questo spazio del non funzionamento vi lascia soli davanti all’esistenza. Questo per la macchina è assolutamente impossibile, non ha niente a che vedere con la macchina e in questo senso noi dobbiamo fare molta attenzione a questo desiderio di diventare sempre più macchina. Esiste anche un’estetica del diventare macchina, dell’adattarsi all’ambiente, ma in realtà il vivente non è un essere adattivo, si adatta o non si adatta in una co-costruzione con il mondo. Voglio dire che per il vivente e per l’essere umano in particolare la falla non è un difetto, è il nostro rapporto con l’esistenza, il nostro rapporto con sé stessi, con la storia, è una falla strutturale, mentre per la macchina non ci sono falle, ma difetti, funziona o non funziona. È qui che noi dobbiamo fare attenzione in questo rapporto con la macchina, soprattutto quella digitale, perché la macchina digitale è una rottura in rapporto alla tecnologia, noi dobbiamo pensare al software, non all’hardware. Il software è una macchina molto speciale, la macchina di Turing è una macchina senza corpo, senza spazio, dunque non ha niente a che vedere con noi.

 

Paolo Benanti: L’evoluzione dell’uomo con l’artefatto è da sempre. Io spezzerei innanzi tutto una lancia per una visione positiva della tecnologia, perché forse oggi sentiamo troppi profeti negativi sull’artefatto tecnologico. Abbiamo avuto grandi filosofi all’inizio del Novecento come Gehlen, che vedevano nell’artefatto tecnologico un segno della carenza umana, come se fossimo una realtà venuta fuori male, per cui non corriamo veloci come il ghepardo, non ci arrampichiamo come le scimmie, non nuotiamo come il delfino, mentre l’artefatto tecnologico sarebbe quello che ci sviluppiamo da soli per evitare questa nostra inferiorità, ma una specie inferiore non si capisce come realizza tutto questo. Come siamo chiamati a capire l’artefatto tecnologico? Vi racconto questo episodio da vita da frate. Sono andato a trovare i miei confratelli in Sri Lanka e una delle cose più affascinanti che mi hanno fatto fare è avermi portato all’orfanotrofio degli elefanti, perché dopo la guerra civile molti elefanti, che crescono solo in branco, erano rimasti orfani ed essendo molto importanti simbolicamente per lo Sri Lanka, vengono allevati in questi orfanotrofi e lì ho potuto allattare un cucciolo. Immaginate un essere grande come una piccola 500 che aspira 25 litri di latte in un attimo. Esperienza unica, ma nella famosa memoria da elefante quel cucciolo non mi si scorda più ed è pieno di storie in Sri Lanka di questi pachidermi di tre tonnellate che corrono in mezzo alla gente per andare a dare un bacio con la proboscide a chi un giorno ha fatto loro una cosa gentile. Ecco, io e voi non siamo fatti così, non abbiamo un sottostrato neuronale che ci basta per ricordare tutte le nostre esperienze. Rispetto alla nostra biologia siamo un po’ un’eccedenza. L’eccedenza che siamo, se vogliamo non perdere qualcosa di quello che ci diciamo oggi ha bisogno di qualcosa di speciale, ha bisogno per esempio di carta e penna. La tecnologia è qualcosa che facciamo per sostenere questa nostra eccedenza, non per andare incontro ad una nostra mancanza. La storia dell’uomo è la storia di questa eccedenza, tanto è vero che uno dei primi usi della nostra tecnologia è stato per qualcosa che non serve a niente, non ha uno scopo come la zappa, ma è come un fiore, è pieno di senso ed è stata l’arte. Abbiamo imparato a creare delle cose artificiali che stavano al fianco del naturale e abbiamo diviso la realtà fra naturale e artificiale. Oggi siamo un po’ provocati anche da questo, perché a Pasqua del 1856 un giovane studente del Royal College of Chemistry appena fondato, durante le vacanze prova a creare il chinino in laboratorio per aiutare le truppe inglesi che stavano nelle zone coloniali a non ammalarsi di malaria. Fa un pasticcio, non ci riesce, il suo nome è William Perkin e mentre pulisce il pastrocchio che ha fatto scopre che la sostanza che ha generato colora benissimo il cotone bianco. Il padre, un commerciante di tessuti, capisce che quel colorante che all’epoca non c’era, il blu di Perkin, il malva, ha un potere commerciale enorme, lo brevetta e nascono così i coloranti sintetici. Eravamo abituati a dividere il mondo fra naturale ed artificiale e improvvisamente nasce questa nuova sostanza che è il sintetico e che non è né naturale né artificiale fino in fondo. Un diamante sintetico è indistinguibile da un diamante naturale se non fosse che per due caratteristiche: non ha difetti e per legge ha inciso il numero di serie con un laser e questo ci ha un po’ scombussolato le carte e oggi noi creiamo vernici sintetiche, alimenti sintetici, la vita sintetica. Sint 2.0 è il primo essere vivente creato in laboratorio che non esiste in natura, grazie ad un codice genetico fatto in maniera sintetica e qui torniamo alla storia di prima, perché quando Shannon ha creato il concetto di informazione, ricordate la differenza che fa la differenza, un premio Nobel per la Fisica, un certo Schroedinger afferma che tutto ciò che non si degrada, cioè che ha un’entropia negativa, perché Shannon era partito da Maxwell e l’entropia, deve avere una qualche informazione al suo interno. Egli allora teorizza che l’essere ad entropia negativa per eccellenza, cioè il vivente, deve essere basato su un cristallo aperiodico che contiene e trasferisce questa informazione. Nel 1949 due giovani studenti di Medicina, Watson e Crick, ascoltano Schroedinger, leggono Shannon, cercano questo cristallo aperiodico. Nel 1953 non l’hanno trovato, ma hanno trovato una doppia elica che è la base informativa di tutta la vita. A partire dal ’53 anche il vivente è qualcosa che codifica ed elabora informazione e codificando ed elaborando informazione noi abbiamo creato una vita sintetica indistinguibile dalla vita vera, ma fatta dall’uomo e allora dove arriva il limite del nostro fare e che cosa vuol dire essere vivi rispetto all’essere prodotti?

 

Marco Aluigi: Ecco, questo secondo me è uno degli scopi di questo incontro, cioè quello di far nascere delle domande su quello che ci sta succedendo, non solo di dare delle risposte.

Passerei al prossimo tema: REALTÀ/IMMAGINAZIONE. Tornerei di nuovo da Miguel.

Con il linguaggio, una caratteristica che distingue l’essere umano dagli altri esseri viventi, l’uomo ha la capacità di esprimere il reale e l’irreale. La macchina, con la sua logica binaria fatta di 0 e 1 riesce ad esprimerlo? E soprattutto è in grado di farne esperienza diventando cosciente? Questo è uno dei terrori che nell’immaginario anche solo delle generazioni precedenti, dal film “Terminator” in poi, dove si vede questa macchina che ad un certo punto diventa cosciente e distrugge tutto il resto, ci fa porre questa domanda.

 

Miguel Benasayag: In realtà il linguaggio immaginario non ha niente a che vedere con l’informazione che una macchina digitale può trasmettere. In questo senso veramente non vedo come possa esistere un immaginario senza corpi, senza angoscia, senza desiderio, per questo tutta questa fantascienza con la macchina che scaccia il genere umano, risulta molto comica, perché se noi ci lasciamo schiacciare dalla macchina, non è colpa sua. La macchina non desidera niente, non vuole niente, non ha coscienza. Avere una capacità di auto rappresentazione, di auto correzione non vuol dire avere conoscenza. La conoscenza animale e umana è tutt’altra cosa. Tu dicevi che è importante farsi le domande su tutto e la prima è se stiamo delegando troppo delle funzioni umane, della cultura del vivente alla macchina. Delegare le funzioni alla macchina implica sempre un rischio di diventare noi meno potenti, meno capaci di fare le cose, meno capaci di immaginare. Veramente confondere il linguaggio e l’immaginario con un codice deve essere oggetto di domanda. C’è un godimento nel diventare macchina? Come dicevo prima io lavoro in questo momento con un ricercatore che è in Giappone e che sta costruendo dei robot in grado di rispondere. Ci sono anche dei robot che fanno psicoterapia e qui secondo me c’è un problema sindacale! Dunque lui mi diceva che molti giapponesi preferiscono parlare, comunicare, scambiare informazioni con il robot piuttosto che con un umano. La ricerca che noi abbiamo intrapreso non è per vedere che cosa fa il robot di incredibile, ma per vedere che cosa fa nel cervello, come lo modifica, come il robot percepisce la realtà, che modella per punti la realtà che invece è un continuo, un flou. Questo flou per la macchina non esiste. Che cosa accade? Accade che la persona che è in rapporto troppo stretto con la macchina modifica il suo modo di percepire il mondo, di auto percepirsi e di riflettere, adattandosi alla macchina. In questo adattarsi la macchina non vince, non desidera niente, ma sei tu che ti auto schiacci perdendo la tua dimensione.

 

Marco Aluigi: Fai spesso l’esempio dell’abitudine all’orientamento con il GPS.

 

Miguel Benasayag: Sì. Abbiamo fatto una ricerca che non costava niente e per questo l’abbiamo fatta! Quando si fa una ricerca sui limiti non piace per niente, perché oggi non c’è più limite, tutto è possibile. Se tutto è possibile niente è reale. Ebbene, noi abbiamo fatto una piccola ricerca intorno al navigatore, abbiamo comparato un gruppo di autisti di taxi a Londra con un altro a Parigi, perché sono due città labirintiche. Il gruppo di Londra continuava a guidare senza navigatore, il gruppo di Parigi invece usava il navigatore. In breve, dopo tre anni tutti i membri del gruppo di Parigi avevano i nodi sottocorticali che registrano il tempo e lo spazio atrofizzati, mentre quelli di Londra no. Se c’è il navigatore e io posso delegargli questa funzione, perché continuare ad avere il problema di perdermi? Il fatto è che avere questi nodi atrofizzati significa effettivamente non potere più orientarsi nel tempo e nello spazio. Gli esseri umani che hanno questi nodi ben sviluppati non sono cittadini, ma in genere contadini o indios e sono capaci di orientarsi in un posto in cui non sono mai stati perché riescono a capire, a catturare dei segni che li informano dove più o meno si trovano anche se non sono mai stati lì. I miei colleghi ricercatori prendono atto che c’è una delega sempre più ampia al computer, quindi una mutazione. In questo senso effettivamente non si tratta per niente di essere tecnofobi, semplicemente si tratta di chiedersi come si possa utilizzare la macchina senza atrofizzarsi, senza perdere tutte quelle funzioni che fanno di me un essere vivente, come posso non essere colonizzato dalla macchina malgrado la macchina.

 

Marco Aluigi: Tu stai ponendo un tema che è quello della consapevolezza dell’essere umano.

 

Miguel Benasayag: La domanda che noi dobbiamo farci oggi non è che cosa può fare la macchina, ma cos’è questa cosa un po’ “deficiente” che siamo noi umani davanti a questa macchina ammirabile. Ho partecipato ad una riunione in cui c’era il campione coreano che è stato battuto dalla macchina nel gioco del Go. Eravamo nove ricercatori e dovevamo discutere sulla differenza tra il coreano e la macchina. Il coreano era presente, mentre la macchina si vedeva in foto. Esteticamente c’era una differenza evidente, ma gli altri otto ricercatori e il coreano dicevano che l’unica differenza era quantitativa. Io, passando per il pazzo che dice una cosa diversa, avevo l’idea della differenza vera tra il coreano e la macchina. Ebbene, la prima differenza è che la macchina non ha vinto, perché non ha giocato. Giocare, vincere sono cose che hanno un senso semplicemente per il vivente e per l’umano in particolare. La macchina funziona. Se voi pensate alla relatività di Galileo, per esempio, il mio ascensore non sale e non scende. Salire e scendere è un senso che io posso dare a questo movimento meccanico, ma per sé l’ascensore non sale e non scende, salire e scendere ha un significato per il vivente.

 

Marco Aluigi: Grazie, Miguel, si è capito molto bene questo punto.

In due minuti su questo, Paolo, anche se è impossibile, ma ci dobbiamo provare aiutandoci a stare un po’ nei tempi.

 

Paolo Benanti: Va bene. Proviamo a vivere questo lusso di chi può fare solo domande senza essere obbligato a dare risposte, che è un po’ quello che diceva Rilke ad un giovane poeta: ”Vivi oggi le domande”, cosa secondo me importante, perché riguarda la ricerca di senso. Allora due cose, due pensieri. Il primo è sul linguaggio. Abbiamo passato gli ultimi 50 anni almeno, da Chomsky in poi con la famosa svolta linguistica, a chiederci perché noi abbiamo un linguaggio diverso da una serie di altri esseri viventi. Tutti gli esseri viventi comunicano. Conosciamo addirittura tipi di scimmie che fanno il verso di arriva il leone per prendersi la banana di un’altra scimmia. Non siamo neanche gli unici che dicono menzogne, però siamo l’unica specie che ha un linguaggio che si definisce sintattico. Ho fatto parte dei miei studi in America, frequentavo tanto gli immigrati italiani e c’era gente che dopo 50 anni in America non era in grado di dire “orange” e diceva “orangio”, però non confondeva mai il soggetto con il complemento oggetto. Perché abbiamo questo linguaggio sintattico? Si è scritto che il nostro sistema neuronale funziona in questa maniera, ma è come se voi prendendo un martello vi chiedeste perché il manico è fatto così, perché la nostra mano lo afferra. Utilissimo, ma non avete ancora risposto alla prima e principale domanda: a che serve? A che serve il nostro linguaggio sintattico? È una tecnologia sviluppata dall’uomo, tanto è vero che l’Italiano è diverso dal Francese, che è diverso dal Giapponese, che è diverso dall’Inglese. Per fare che cosa? Se io vi dico: “Sono triste” vi faccio vedere qualcosa di invisibile dentro di me, la parola istruisce la vostra immaginazione. Posso fare un po’ il cattolico? Per parlare di Dio abbiamo bisogno della parola, perché altrimenti non lo vediamo, ecco che allora la tecnologia del linguaggio rende visibile l’invisibile, ma rendendo visibile l’invisibile, rende visibile anche quello che ora non c’è più. Diceva Bertrand Russell che nessun cane può dire di essere figlio di due poveri cani, ma onesti. Se noi parliamo di Napoleone è perché la parola rende visibile qualcosa di invisibile e così abbiamo la storia. Il linguaggio dunque è quella realtà tecnologica che istruisce l’immaginazione. Che vuol dire? Qui faccio solo la domanda.

Invece la seconda questione riguarda la macchina e la coscienza. Per dare una brevissima risposta riprendendo quello che dice Miguel, perché la macchina che ha vinto a Go non ha vinto la partita? Perché la macchina può fare una cosa che l’uomo non può fare, cioè può essere spenta e riaccesa, cosa che non vale per l’uomo. Ecco una differenza fondamentale. Nella teoria della computazione noi sappiamo che la macchina di Turing può computare solo quei problemi, la faccio breve e difficile, ma per capirci, che sono dotati di una capacità di interrupt, di essere interrotti. Siccome la coscienza è un processo continuo e non ha interrupt non ha un processo Turing computabile. Fine.

 

Marco Aluigi: Il nostro prossimo tema: CONFLITTO/SOCIETÀ.

Come trovare oggi regole comuni ed efficaci in questo contesto? Come costruire sentieri di concordia sociale? C’è una conflittualità sempre più social, ma sempre più reale. È pieno ovunque di hater, di un odio sempre più acceso. È un’età della rabbia, come la definirebbe Pankaj Mishra. Che ne pensi Miguel?

 

Miguel Benasayag: Penso che sia normale che ci troviamo in un’epoca di molta violenza, di molto odio, perché in effetti non è una bugia che il futuro sia una minaccia assoluta. Parlando con qualcuno della mia generazione dicevamo che quando noi eravamo giovani per noi significava avere un futuro fantastico di giustizia e di amore. Io sono stato prima batterista in un gruppo hippy, poi guerrigliero per un futuro perfetto, poi medico per migliorare il mondo e mi trovo adesso davanti ad un fallimento assoluto, dove il futuro è pura minaccia, quindi è normale che ci siano odio, rancore, violenza. La questione è come noi possiamo resistere a questo e in questo senso la questione della comunità è come possiamo fare a sviluppare legami con gli altri e con l’ambiente, ma quando abbiamo paura non abbiamo il desiderio di legarci a qualcun altro. Quando abbiamo paura ci chiudiamo in noi stessi e cerchiamo l’identità, di qui tutta la problematica identitaria. Abbiamo bisogno di un nemico, che è, lo dico per i colleghi, il miglior ansiolitico che esista. Quando hai un nemico non hai più angoscia, tutto il mondo è ordinato, per questo l’odio è normale in una società che ha paura. E come non averne? Dunque la questione della comunità è come sviluppare uno zoccolo comune, dove si trova questa comunità possibile? Qualcuno dice che la dimensione comune è data dalla nazionalità, un altro dalla religione. Gli universalisti continuano a dire, come quattro o cinque secoli fa, che c’è un uomo unico con cui tutti gli altri uomini e donne devono misurarsi. Questo umanesimo nel Terzo Mondo si chiama colonialismo, per esempio. C’è anche il relativismo, c’è l’individualismo e allora come si fa per costruire una comunità? Io penso che la dimensione comune non sia un a priori, ma che possiamo costruirla insieme dentro un progetto condiviso. Noi dobbiamo fare molta attenzione, perché è molto facile cadere nel godimento dell’odio, che è veramente ansiolitico. Noi dobbiamo fare attenzione perché ciò che è comune non è mai dietro, ma davanti a noi dentro una costruzione condivisa. Questa è l’unica cosa che oggi può assumersi la sfida nei confronti di un mondo così. Comune non significa soffocare la conflittualità, al contrario la conflittualità è ciò che permette di sviluppare la vita. Occorre impedire che tutto sia lotta, che tutto sia opposizione. Come fare questo? Dobbiamo farlo ciascuno nel proprio territorio, nel proprio lavoro, cercando di produrre comunità dentro un progetto condiviso.

 

Paolo Benanti: Il futuro non è più quello di una volta, però è anche vero che abbiamo altri attori. Provo a rispondere brevemente raccontandovi un’altra storia, perché secondo me è interessante. La storia che vi racconto è quella di colui che è il grande motore di investimento dietro la Silicon Valley, Peter Thiel, il grande venture capitalist che sta dietro alla trasformazione delle società di informatica nei colossi che conosciamo oggi. La storia di Peter Thiel comincia quando va a Stanford all’università e conosce un filosofo cattolico un po’ eretico che è René Girard, che è stato espulso da quella che era la comunità europea e insegna in America. Insegna la teoria mimetica, che spiega i conflitti. Dice che ciascuno di noi non desidera la cosa per la cosa, ma la desidera perché qualcun altro che ce l’ha è per lui un simbolo che la rende desiderabile. Traduce questa immagine da Caino e Abele, dalla Bibbia, si scorda un po’ della lettera agli Ebrei, perché dice che uno ha pagato il sacrificio per tutti e che sostanzialmente simbolo dopo simbolo noi invidiamo l’altro per avere la cosa che ha lui, prima lo ammiriamo poi lo invidiamo e quindi nasce il conflitto. Peter Thiel, di origine sudafricana, è illuminato da questa teoria mimetica e la prima cosa che fa è fondare PayPal e per evitare il conflitto al suo interno cambia i ruoli apicali una volta ogni sei mesi, così nessuno può invidiare nessuno. Nel frattempo conosce e siamo attorno al 2008, un giovane brillantissimo, un po’ nerd, che si chiama Marc Zuckerberg, fondatore di Facebook, e si illumina: Facebook è la realizzazione informatica della teoria mimetica, dove io posso guardare l’altro, ammirarlo e poi invidiarlo e ucciderlo. Peter Thiel, che è un investitore, decide di monetizzare questo meccanismo umano ed ecco che con i social network noi creiamo dei meccanismi che ci fanno prima seguire gli altri, followers al posto dei discepoli e poi ce li fanno odiare con quelli che in termini tecnici si chiamano shitstorm, le ondate d’odio. Il tutto con una piattaforma che drena ricchezza in questo nostro moto di agitazione sociale.

E allora aumenta il conflitto nella società? Certo. Se nel 2008 con la primavera araba Twitter sembrava lo strumento che ci avrebbe liberato, nel 2020 con la rivolta di Capitol Hill ci siamo resi conto che Facebook e le altre piattaforme sociali guadagnano iniettando l’odio nella società. Di fatto che cosa fa la piattaforma? Ci fa creare delle bolle di antagonismo, ci polarizza e crea un guadagno da questa polarizzazione. Pensate a tutto quello che è successo con i vaccini, a tutto quello che sta succedendo con le grandi questioni che agitano la società. Allora qual è la soluzione? Che fare? Questa è la parte della domanda. Fatemi fare un po’ l’eticista. Se nel Novecento le aziende che prendevano delle risorse comuni, le trasformavano e scaricavano nell’ambiente i residui le abbiamo tassate, come le grandi centrali a carbone, un’azienda che prende un bene comune che è la concordia sociale e ci guadagna scaricando l’odio e la discordia, va tassata, deve pagare, per risarcire in parte quella conflittualità che inietta nella società come prodotto di scarto del suo funzionamento. Non è solo un’assenza di futuro, ma è anche che qualcuno sta guadagnando su questa situazione.

 

Marco Aluigi: Come vedete gli stimoli e i punti di contatto fra quello che stanno dicendo sia Miguel sia Paolo sui temi che stiamo trattando sono incredibili e aprono domande che faranno parte delle prossime giornate.

Lanciamo il prossimo tema: SINGOLARITÀ/TRASCENDENZA.

La singolarità è la teoria del transumanesimo di Ray Kurzweil, che con l’upload della coscienza umana su supporti digitali vorrebbe evitare la morte e garantire ad un essere umano non più umano, digitalizzato, una vita eterna virtuale e digitale. La singolarità del vivente di cui parli tu, Miguel, invece è tutta un’altra cosa. Di cosa stiamo parlando?

 

Miguel Benasayag: La singolarità dal punto di vista matematico è un punto di inflessione, un punto dove le cose non sono più come prima, è quello che…? chiama una catastrofe, non in senso morale, ma nel senso di un cambiamento radicale che ordina tutto in un altro modo. Il transumanesimo parla di una vita senza morte, ma è una non vita, senza limiti. In questo senso nella Critica della ragione pura di Kant, nell’introduzione, esiste uno sviluppo molto interessante, dove Kant criticando Platone dice che una colomba potrebbe pensare che se non avesse l’aria potrebbe volare molto meglio, ma in realtà senza aria si schiaccerebbe a terra. La colomba confonderebbe i limiti con il confine. Il limite invece struttura uno spazio, una vita, mentre il confine ci impedisce di sviluppare la nostra potenza. Per esempio un confine sarebbe attaccare l’ala della colomba e impedirle così di volare. Dunque nella nostra epoca tutti i limiti che strutturano la vita e la società sono considerati come dei confini, quindi bisogna abolirli tutti. Una volta nel grande teatro Olympia di Parigi c’era una riunione in cui io parlavo per ultimo. Prima c’era Laurent Alexandre, un ricercatore francese, medico, autore di un libro dal titolo: “La morte della morte”, che sosteneva che non moriremo più ed anche lì fra i convenuti c’era qualcuno che sarebbe vissuto mille anni. Questo messaggio secondo cui non ci sono limiti, ma solamente confini, è una barbarie. La vita senza limiti si chiama cancro, un pensiero senza limiti si chiama psicosi, una lingua senza limiti si chiama barbarie. Il problema non è tanto se noi possiamo sviluppare dei nuovi possibili, ma quali sono i limiti che riordinano questo mondo in cambiamento. È vero che noi siamo in un momento di risimbolizzazione, il modo di essere, di esistere cambia, le cose che fino a ieri erano normali oggi non sono più considerate tali, ma dentro questa nuova potenza, questa nuova possibilità, la singolarità non può essere il passaggio ad un mondo senza limite. Se tutto è possibile niente è reale. La singolarità deve consistere nel conoscere che questa particolarità che fa il vivente e l’umano dentro di lui non è costruibile come la macchina. Noi possiamo smontare il microfono, per esempio, e rimontarlo, ma neanche un bambino di cinque anni può pensare di smontare un gatto. Questa singolarità della finitudine del vivente non è un confine, ma il limite che permette di dare senso al qui e ora. Noi dobbiamo rientrare in amicizia con questa finitudine, che non vuol dire rispettate una morale fatta di regole, non innovare, non cambiare. Finitudine vuol dire il limite che protegge il vivente e dentro questo limite effettivamente ogni confine può essere oltrepassato. La trascendenza non è il mio soggetto, ma in ogni caso penso che ogni trascendenza debba essere vissuta non come un al di là dove veramente non c’è più limite, ma come un elemento della trascendenza dentro l’immanenza, come qualcosa che può trascendere l’immaginario, il possibile qui e ora.

 

Marco Aluigi: Paolo, la singolarità e la trascendenza.

 

Paolo Benanti: Innanzi tutto sottolineo quest’ultima cosa che ha detto Miguel perché è la traduzione della passione per l’umano, dire che la trascendenza è qui e ora è la passione per l’umano.

La seconda cosa che vorrei dire: torniamo sempre all’origine dell’informazione per capire come oggi la trascendenza sia diventata questa ulteriorità dell’informazione. Perché? Tutto nasce come il test di Turing che abbiamo sentito nella lettura iniziale. Turing si è chiesto quando una macchina sarà intelligente come l’uomo. Lo sarà quando vincerà il gioco dell’imitazione che si faceva in società. Una persona fa finta di essere un’altra persona ed io facendo delle domande devo indovinare chi è. Turing lo modifica un po’ e mette una macchina e una persona dietro una parete, oltre il muro e quando io dalle domande non so riconoscere più chi è l’uomo e chi è la macchina, allora la macchina sarà uguale all’uomo. Questo tipo di domanda però è qualcosa che cambia radicalmente un nostro modo di essere, una postura che abbiamo come occidente rispetto alla realtà. Perché? Perché da una parte c’è il pregiudizio del falsario, se una banconota da 5 euro falsa è indistinguibile da una banconota vera, quella banconota vale 5 euro? Se un robot è indistinguibile da una persona è una persona? Qual è il problema? Ce lo spiega Platone nella Repubblica quando dice che noi siamo tutti dentro una caverna e vediamo delle immagini che ci confondono. La vera conoscenza non è accontentarci di quelle immagini, ma vedere che cos’è che le proietta. Noi oggi ci stiamo accontentando di qualcosa che sia sufficientemente simile per confondere i nostri sensi. Il problema è della trascendenza che scompare, di un cielo che è diventato un cloud, della speranza nel futuro che è diventata un backup. Se una volta io pronunciavo la parola salvezza intendevo l’ aspettare un già e non ancora, oggi salvare significa non perdere più niente del nostro passato, significa chiedersi se si è fatto il backup. Questa inversione di direzione del tempo fa sì che scompaia tanto la singolarità per cui la copia è identica all’originale. Se vuoi il mio file mp3 la copia deve essere uguale al mio, non c’è un’unicità e scomparendo questa, scompare anche questa unicità che è trascendenza nell’immanenza, come diceva Miguel.

 

Miguel Benasayag: Volevo dire una cosa. In realtà noi dobbiamo fare un nuovo test di Turing per vedere se la macchina è veramente capace di essere stupida come gli umani. Il giorno in cui la macchina riuscirà ad essere stupida come noi, dunque ad essere schiava delle passioni e dei desideri, allora questo giorno sarà inquietante. Durante il tempo in cui la macchina calcola meglio di me non c’è problema. La stupidità è veramente questa caratteristica che non permette di amare, di creare, di fare dell’arte e per il momento felicemente la macchina non riesce ad essere così stupida.

 

Paolo Benanti: Se mi consenti una battuta direi che quindi quello che è pericoloso non è l’intelligenza artificiale, ma la stupidità naturale.

 

Marco Aluigi: Bella, bella anche questa.

Siamo arrivati all’ultima parola, l’ultimo tema che vorremmo affrontare insieme e che io considero decisivo non meno degli altri, ma che penso sia già in parte emerso negli interventi fatti fino adesso, quindi vi prego di lanciarla:

UN’ALLEANZA PER L’UMANO

Qui siamo al Meeting per l’amicizia tra i popoli. Il Meeting nasce proprio con l’idea di un’amicizia possibile fra tutti, fra uomini diversi di ogni genere, razza, cultura, tradizione, animati però da una domanda fondamentalmente di senso. La sfida che abbiamo oggi è come si possono ripensare i processi educativi, sociali, produttivi, ma soprattutto come valorizzare l’importanza delle relazioni e dell’amicizia fra gli uomini oggi, come qui, come noi in questo momento, perché se l’umano è in crisi per rispondervi ci vuole un’alleanza, ci vuole una possibilità di una risposta. Che cosa pensi Miguel di questo?

 

Miguel Benasayag: Penso che noi dobbiamo dimenticare tutte le utopie di un amore universale che si realizzerà nel mondo. Noi abbiamo pensato male l’umano, abbiamo pensato che fosse capace di lasciare indietro tutta la negatività, la stupidità, la violenza che fa parte di noi, dunque l’amicizia, l’amore, la creatività, la giustizia non sono possibili se noi vogliamo soltanto questo, cioè la luce senza l’ombra. La sfida è proprio questa: come possiamo, dopo secoli in cui abbiamo inseguito un mondo di luci assolute senza nessuna oscurità, pensare ad un essere umano vero, che non è solamente amore, amicizia, ragione, ma anche odio, conflitto, negatività. Per cercare una possibilità di costruzione, in modo che non tutto sia distruzione, noi dobbiamo assumere in modo maturo questo essere umano completo, senza tagliargli i lati che noi consideriamo come non positivi. Penso sia questa la sfida per arrivare a concepire la nostra realtà in questa totalità che ingloba anche la negatività.

 

Paolo Benanti: C’è il timer che incombe su di noi. Sono d’accordo con tutto questo che nella tradizione credente si chiama dramma del peccato. Io aggiungerei un’altra cosa: la macchina è qualcosa che si usa, che ha uno scopo. Ecco, l’amicizia nasce quando l’altro non ha più uno scopo ma un senso. Che vuol dire? Che dobbiamo tornare a riscoprire che se io tocco un oggetto tocco qualcosa, se tocco una persona tocco qualcuno e sono toccato. Il nascere di questa reciprocità fa sì che io un pezzo di ferro lo possa usare, una persona la debbo accogliere e quel tu chiede a me di capire di nuovo chi sono io. Non capiamo l’uomo forse perché non c’è un tu umano che interroga il chi sono io. Perdonatemi, faccio un po’ il partigiano, questo è tanto San Francesco, che per tutta la sua vita ha chiesto chi sei tu e chi sono io. Faccio un po’ meno il partigiano: ho visto la mostra di don Giussani ieri ed anche lui ha parecchi passaggi fra il tu e l’io. Forse l’esperienza di chi ha provato a cercare la sua umanità fino in fondo, un tu che ci provoca, che ci fa fare scelte scomode che magari ci costano care come può essere la scelta di una guerriglia, la scelta di un partner per tutta la vita, che non è detto che sia meno scomoda, è l’unico modo, questo della reciprocità, per scoprire chi sono io e qual è il valore del tu.

 

Marco Aluigi: Grazie infinite perché la premessa che abbiamo richiamato all’inizio di due uomini appassionati è emersa in tutta la sua forza e c’è un punto. Il titolo del Meeting di quest’anno, come sapete, è “Una passione per l’uomo”. La parola passione condivide l’etimologia con altre parole. Dentro c’è il significato che immaginiamo tutti, quello della passione amorosa, erotica, qualcosa che arde, il fuoco, ma c’è anche il tema del patire, della sofferenza. C’è inoltre il tema della pazienza, perché la radice etimologica le tiene dentro tutte queste tre cose. Una pazienza ad attendere, che non è l’attesa di un autobus che non arriva, di un treno che arriva in ritardo. No, si tratta di una pazienza, di un impegno, quello che Miguel diceva in francese: “être en pied”, esserci, continuare a guardare e cercare un senso che nella vita ci può essere e su questo costruire un’amicizia che cambia il mondo.

Data

25 Agosto 2022

Ora

12:00

Edizione

2022

Luogo

Auditorium Intesa Sanpaolo D3
Categoria
Incontri