La luce splende nelle tenebre. La testimonianza della Chiesa ortodossa russa negli anni della persecuzione sovietica

 

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«Incomincio ora ad essere un vero discepolo. Nessuna delle cose visibili o invisibili mi trattenga dal raggiungere Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, la lotta con le belve, […] i più malvagi tormenti del demonio piombino su di me, purché io raggiunga Gesù Cristo!
Nulla mi gioverebbero il mondo intero e i regni di questo secolo. Quanto è per me più glorioso morire per Cristo Gesù, che regnare su tutta la terra, fino agli estremi confini! Infatti quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita? [cf. Mc 8,36] Io cerco Colui che è morto per noi; io voglio Colui che per noi è risorto. Ecco, è vicino il momento in cui io sarò partorito! […] Non impedite che io nasca alla vita! […] Lasciate che io raggiunga la pura luce! Giunto là, io sarò veramente uomo. Lasciate che io imiti la passione del mio Dio!» (Sant’Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, cc. 5-6 passim).

Con queste parole S. Ignazio di Antiochia, morto a Roma nel Colosseo intorno all’anno 150, esprime il significato del proprio martirio: compimento pieno della vita umana perché via all’incontro pieno con Cristo e all’imitazione della Sua passione. Sono parole vere per la Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi, poiché essa è sempre madre feconda di nuovi cristiani e di nuovi martiri (testimoni!) di Cristo.

Ecco perché la mostra “La Luce splende nelle tenebre. La testimonianza della chiesa ortodossa russa negli anni della persecuzione sovietica” –organizzata in collaborazione tra l’Università Umanistica Ortodossa San Tichon di Mosca e la Fondazione Meeting di Rimini– si presenta non solo come una inedita possibilità, per il pubblico italiano, di conoscere da vicino settant’anni di sofferenza e persecuzione e insieme di luminose testimonianze di fedeltà a Cristo e al Suo Vangelo, ma anche come l’occasione per ciascuno di noi di porsi davanti all’esigenza fondamentale della fede, alla “pretesa” di Uno che afferma: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà” (Mc 10,29-30).

La mostra, articolata in otto sale che seguono l’ordine cronologico, presenta le diverse fasi e i diversi aspetti del tentativo di distruggere la fede sistematicamente perseguito dal potere bolscevico; ma il percorso storico è intrecciato con le vicende personali di alcuni martiri (canonizzati dalla Chiesa Ortodossa Russa), che costituiscono come dei “punti di luce” capaci di mostrare come nessun potere abbia potuto arrestare la presenza di Cristo alla Chiesa, né distruggere totalmente quella percezione di sé come rapporto con il Mistero, che sola permette di affermare un io irriducibile.

Questo percorso verso una maggiore consapevolezza di sé e del proprio Destino –compiuto dai martiri di cui si presenta la vita, ma anche da innumerevoli altri– costituisce la sfida di questa mostra. Una sfida che ha innanzitutto coinvolto un ampio numero (più di 70) di studenti russi, ucraini e italiani. Sotto la guida di storici e docenti, gli universitari hanno studiato le vicende della Chiesa Ortodossa Russa sotto il regime sovietico, ma soprattutto hanno accettato il confronto con un mondo distante dalla loro esperienza diretta nel tempo (e, per gli studenti italiani, anche nello spazio e nella visione culturale ed ecclesiale), lasciandosi interrogare da una realtà –quella del martirio/testimonianza– che sempre meno è apparsa come una prospettiva remota e sempre più come una concreta modalità di affronto della vita.

Un’impresa tutt’altro che facile, che tuttavia si è rivelata sempre più sorprendente e provocante, come –ad esempio– quando si è potuto realizzare un seminario di cinque giorni che all’inizio di marzo ha visto convergere a Mosca più di 40 studenti italiani e ucraini insieme ai loro colleghi russi. In quei giorni ciascun gruppo ha presentato agli altri le figure di martiri su cui aveva lavorato nei mesi precedenti, dando vita a un confronto vivace e tutt’altro che scontato tra modi di sentire e di comprendere la storia e la fede assai diversi tra di loro, ma anche costruendo cammini di vera amicizia che continueranno durante il lavoro al Meeting. Sempre più chiaramente appare che questi mesi di preparazione della mostra, così come il viaggio a Mosca, non sono stati semplicemente occasioni di impegno per un lavoro intenso e condiviso, ma per ciascuno dei partecipanti si sono tramutati in una domanda radicale e ineludibile sulla propria vocazione. Così è capitato che qualcuno ammettesse, all’inizio di ottobre, di non essersi mai confrontato con i Martiri e con il martirio e di non aver mai trovato interessante questo tema, per riconoscere dopo qualche mese come questa dimensione fosse già presente –come esigenza di scelta nei confronti del potere– nella sua vita di studente. Oppure che qualcuno confessasse di aver scoperto –partecipando a una Divina Liturgia a Mosca– cosa significasse pregare e commuoversi per una Presenza durante la celebrazione dell’Eucaristia. O, ancora, che qualcuno decidesse di mettersi a studiare il russo perché ha riconosciuto –negli incontri fatti e nelle cose viste a Mosca– un richiamo irriducibile a un semplice sentimento passeggero.
Per questo possiamo dire che questa mostra ha già causato non poche “perturbazioni” in chi l’ha seguita e preparata. E che per tutti rappresenta una provocazione avvincente: quella a lasciar parlare una cultura e un’esperienza di Chiesa che hanno forme di espressione assai diverse da quelle cui siamo abituati, nella certezza di poter riconoscere una risposta plausibile e desiderabile anche da noi per superare quell’“emergenza uomo” che già era stata teorizzata dal grande George Orwell proprio a partire dalla sua conoscenza del comunismo, quando scriveva:

«La prima cosa che devi capire è che qui non c’è posto per i martiri […] Nel Medioevo vi era l’Inquisizione. Un autentico fallimento. Dichiarò di voler sradicare l’eresia e finì per renderla immortale. Per ogni eretico bruciato sul rogo, ne sorgevano migliaia di altri […] Più tardi, nel XX secolo, vennero quelli che chiamavano totalitari: i nazisti in Germania e i comunisti in Russia. Nella lotta contro l’eresia, i russi furono anche più feroci dell’Inquisizione. Ritennero di aver imparato dagli errori del passato: erano convinti, per esempio, che non si dovessero assolutamente creare dei martiri. Pertanto, prima di sottoporre le proprie vittime a un processo pubblico, impegnavano ogni mezzo per distruggerne la dignità. Ne fiaccavano la resistenza con la tortura e l’isolamento, finché non si trasformavano in tanti esseri meschini e miserabili pronti a confessare qualsiasi cosa gli si mettesse in bocca […] Noi non distruggiamo l’eretico per il fatto che ci resiste. Anzi, finché ci resiste non lo distruggiamo. Noi lo convertiamo, penetriamo nei suoi recessi mentali più nascosti, lo modelliamo da cima a fondo. Estinguiamo in lui tutto il male e tutte le illusioni, lo portiamo dalla nostra parte, anima e corpo, in conseguenza di una scelta sincera, non di mera apparenza. Prima di ucciderlo, ne facciamo uno di noi… Il comandamento dei dispotismi di una volta era: “Tu non devi!”. Il comandamento dei totalitari era: “Tu devi!”. Il nostro è: “Tu sei!”» (da: 1984).

QUESTA MOSTRA È DISPONIBILE IN FORMATO ITINERANTE. CLICCA QUI PER TUTTE LE INFORMAZIONI