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LA LIBERTÀ NELLO SPAZIO PUBBLICO
Partecipano: Alessandro Barbano, Giornalista e Scrittore; Sabino Cassese, Professore di Global Governance alla School of Government, LUISS “Guido Carli” di Roma; Joseph H.H. Weiler, University Professor at NYU Law School and Senior Fellow at the Center for European Studies at Harvard. Modera Davide Perillo, Direttore di Tracce.
La libertà nello spazio pubblico
Ore: 11.30 Salone Intesa Sanpaolo A3
LA LIBERTÀ NELLO SPAZIO PUBBLICO
Partecipano: Alessandro Barbano, Giornalista e Scrittore; Sabino Cassese, Professore di Global Governance alla School of Government, LUISS “Guido Carli” di Roma; Joseph H.H. Weiler, University Professor at NYU Law School and Senior Fellow at the Center for European Studies at Harvard. Modera Davide Perillo, Direttore di Tracce.
DAVIDE PERILLO:
Buongiorno a tutti e benvenuti a questo incontro: “La libertà nello spazio pubblico”. Parlare della libertà nello spazio pubblico è un modo per declinare il titolo del Meeting, questo è il motivo per cui facciamo un incontro su questo tema oggi. Perché se «le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice», capite che sviluppare questo ha dentro di per sé il problema del rapporto tra la persona e la comunità che lo circonda, tra l’io e la storia e quindi tra la libertà e appunto lo spazio comune, la comunità. E questo è il motivo per cui ci occupiamo di questo tema oggi, non è un caso secondo me che questa frase che dà il titolo al Meeting fu detta da don Giussani all’apice di un momento storico particolare come il Sessantotto. Il Sessantotto è stato un momento in cui la tensione tra questi due poli, l’io e la società, il desiderio di compimento dell’io e la problematicità del rapporto con una società da cambiare, appunto la libertà e lo spazio pubblico, ha dato luogo a fenomeni le cui conseguenze viviamo ancora oggi. Chi ha visto la mostra sul Sessantotto, avrà visto che è proprio uno dei fili conduttori questa tensione. È poi un tema assolutamente attuale. Abbiamo qui al Meeting un ciclo su cosa significhi oggi essere italiani, chi ha partecipato ai primi incontri ha visto che stiamo seguendo questo filone, ma anche ieri, perché questa questione si allarga a questioni che sono attualissimi, a vicende che sono attualissime. I fortunati che sono riusciti ad entrare nell’aula dove c’è stato il Moot Court, il processo simulato su una questione grande come la libertà religiosa, hanno visto di che si tratta. Due dei protagonisti di ieri tra l’altro sono sul palco anche oggi tra noi. E li salutiamo con un applauso cominciando da Sabino Cassese, professor Cassese, giudice emerito della corte costituzionale, giurista di fama assoluta, editorialista del Corriere della Sera, amico del Meeting perché ormai non è la prima volta che viene a trovarci, che ci aiuta a ragionare su questi temi e su altro. E invece un amico di lungo corso del Meeting è Joseph Weiler, di cui forse posso permettermi di non presentarlo perché orami è veramente di casa. Abbiamo fatto i conti prima, sta celebrando in questo momento il suo trentesimo intervento al Meeting e oggi pomeriggio farà il trentunesimo parlando dello strano caso di Mosè. E l’altro ospite, Alessandro Barbano, giornalista, scrittore, saggista, è autore di un libro appena uscito per Mondadori che si intitola Troppi diritti: l’Italia tradita dalle libertà, che è un titolo che già dice molto, e che ci aiuterà ad approfondire questo tema. Però io vorrei iniziare proprio chiedendo al professor Cassese di introdurre il tema del rapporto tra la libertà e lo spazio pubblico e quindi anche tra il titolo del Meeting e il problema di cui ci occupiamo oggi. Prego.
SABINO CASSESE:
Un giorno del 1969 nei corridoi della Cattolica, dove dominava la rivoluzione – aggiunge don Giussani – don Giussani sente un ragazzo di Varese che dice: «Se non troviamo le forze che fanno la storia noi siamo perduti». E qui don Giussani ha l’idea di quel motto che è il motto del Meeting di quest’anno. Io non credo che don Giussani sapesse che due secoli prima un grande illuminista Diderot, francese, avesse scritto: «La felicità si coltiva contribuendo alla felicità degli altri, vale a dire coltivando la virtù». Ora mi sono chiesto: come si coniuga il tema che noi dobbiamo discutere – la libertà nello spazio pubblico – con quel motto di don Giussani che è il motto del Meeting di quest’anno? E vi vorrei proporre una riflessione proprio sul legame tra questi due elementi. La libertà ha due dimensioni: c’è una dimensione negativa e una dimensione positiva. La libertà nella dimensione negativa è la possibilità dell’uomo e della donna di fare delle scelte prive di interferenza da parte di altri e quindi si parla di diritti di libertà. Poi c’è una libertà positiva, che invece è l’opportunità che ciascuno deve avere di fare delle scelte per costruire uno spazio pubblico e questa si declina in termini di doveri dell’uomo libero. La cosa interessante che quasi tutto il pensiero moderno si è fatto affascinare dal primo profilo della libertà e non dal secondo. Io invece vorrei farvi vedere in che cosa consiste il primo e in che cosa consiste il secondo e come l’uno si lega all’altro. Il primo profilo è in un certo senso per noi più difficile da capire, perché noi viviamo in un contesto di libertà e quindi rispetto alla libertà ci troviamo nello stesso modo in cui si trova l’uomo rispetto all’aria che respira: se ne rende conto solo quando l’aria gli manca. E quindi per far capire che cosa vuol dire la libertà io debbo, in quel senso negativo, ricordarvi due episodi del passato che, così, ho scelto a caso: il primo di un passato lontano, 1789, è Cesare Beccaria, il più grande illuminista italiano, l’uomo ammirato da Voltaire, da Caterina la zarina della Russia, che scrive Dei delitti e delle pene, un libro famoso che però non può pubblicare nello stato di Milano in cui viveva – siamo prima dell’Unità d’Italia – perché non gli viene consentito e lo può pubblicare anonimo in un’altra città, in un altro stato, la città è Livorno. L’altro episodio è raccontato da un grande storico dell’arte tedesco che si trovava in Italia negli anni Trenta e che va a trovare Benedetto Croce, in quel momento il più grande e rispettato filosofo italiano. È il 1932, e Croce gli dice che, poiché voleva ricordare l’anniversario della morte di Goethe, ma che non gli era permesso di farlo in pubblico, aveva invitato una serie di amici in casa e gli aveva tenuto una conferenza su Goethe. Vedete, questi due esempi sono due esempi di libertà di stampa e di libertà di parola non consentiti dalle autorità e quindi non consentiti in rapporto verticale: Stato – cittadino. Quello che ho detto, e cioè che oggi per noi la libertà è come l’aria che respiriamo e quindi non ci rendiamo conto della sua importanza, non vuol dire che la storia delle libertà sia terminata, perché ci sono anche le libertà future. Noi siamo abituati alla libertà in un territorio: c’è la libertà degli italiani, la libertà dei francesi, ma gli italiani liberi e i francesi liberi non si debbono interessare della libertà dei libici o dei siriani o dei somali? Perché la libertà non è un bene comune? E poi noi dobbiamo preoccuparci dei nuovi pericoli delle libertà del passato: pensate che ci sono dei governanti in Ungheria, in Turchia, in Polonia, alcuni di questi ammirati da alcuni importanti politici italiani, che si vantano di aver costruito delle democrazie illiberali, cioè delle democrazie che non sono costruite sulla libertà. E noi in questo senso abbiamo una salvezza nel patrimonio comune che abbiamo nell’Unione europea delle libertà. Ecco, questo è il primo senso delle libertà nello spazio pubblico. C’è poi un secondo senso delle libertà nello spazio pubblico che non riguarda il rapporto verticale, lo Stato che limita le libertà, ma riguarda il rapporto dell’uomo libero rispetto a un altro uomo libero, che riguarda lo spazio pubblico che è comune, collettivo, dialogante e che comprende una prospettiva completamente diversa, che non è la prospettiva dei diritti, ma è la prospettiva dei doveri. È la prospettiva, per intenderci, che è sintetizzata da quella bella frase dettata da Simonide per l’Epitaffio delle Termopili, dove dice: «Straniero annuncia agli Spartani che noi qui giacciamo in ossequio alla parola data». E uno scrittore ha fatto notare che Nelson, davanti a Trafalgar, nel 1805, non invitò i suoi marinai a comportarsi da eroi, ma li ha pregati di ricordarsi che ogni marinaio inglese doveva fare il suo dovere. Ecco, pensate che la nostra costituzione menziona nove volte la parola responsabilità e sette volte la parola doveri. Noi tutti abbiamo diritto di voto, ma votare è un dovere civico. Noi tutti abbiamo diritto al lavoro, ma ognuno di noi ha il dovere di svolgere una funzione che concorra al progresso della società. I genitori debbono preoccuparsi dei figli, mantenerli, nutrirli ed ducarli, ma la costituzione dice che questo è un dovere e un diritto, invertendo il rapporto tra diritti e doveri che era stato introdotto per la prima volta nel 1795 dalle costituzioni Termidoriane. E, recentemente, un giurista italiano ha ricordato un episodio che lui ha vissuto, di un nostro grande filosofo del diritto, Bobbio, che negli ultimi anni della vita soleva interrompere con una certa rudezza chi fosse venuto a parlare del suo celebre libro L’età dei diritti, dicendo (Bobbio è morto novantenne): «Se avessi ancora il tempo e le energie scriverei piuttosto l’età dei doveri». Ecco, noi abbiamo declinato in tutti questi anni sempre i diritti senza i doveri e una delle persone che è seduta a questo tavolo, Barbano che ascolteremo più avanti, ha scritto un libro intitolato Troppi diritti. Pensate soltanto a una cosa: io ho detto prima, tutti abbiamo diritto al voto, il voto è un diritto civico, ma il trenta per cento degli italiani che hanno diritto al voto non lo esercita, quindi hanno un diritto, ma dimenticano che legato a questo diritto c’è un dovere, che è un dovere rispetto allo Stato, rispetto agli altri, perché debbono collaborare con gli altri nella scelta degli eletti e quindi nella scelta dei parlamentari. E questo è il motivo per il quale tutti i grandi storici che negli ultimi tempi si sono interessati a questo tema che è evocato da quel motto di don Giussani, cioè il tema della felicità, hanno detto che la felicità è anche, dipende dalla qualità della vita di relazione, dal modo in cui noi viviamo con gli altri e quindi si capisce quello che ha detto don Giussani e cioè: «Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice». Grazie.
DAVIDE PERILLO:
Io invece volevo chiedere a Barbano di approfondire questo tema toccando un altro terreno, perché questa questione che riguarda lo spazio comune si sta allargando a questioni che fino a poco tempo fa non c’erano o non erano così intense, così sentite, pensiamo a tutti i problemi che pone la tecnologia, per esempio lo spazio digitale. Allora volevo chiedere a lui che si occupa molto da vicino di diritti e di doveri anche in questo campo, di farci capire meglio che sfide implica questa dialettica tra io e spazio pubblico all’interno di queste novità che la storia ci pone.
ALESSANDRO BARBANO:
Lo spazio digitale è centrale oggi allo sviluppo delle democrazie. Credo che l’impatto che ha avuto la comunicazione digitale sulle democrazie è uno dei problemi sotto gli occhi di tutti. Uso la parola democrazia perché il luogo fisico in cui si compone la libertà attiva e passiva di cui parlava il professor Cassese è proprio una democrazia compiuta e oggi la crisi delle democrazie evidentemente è fortemente in relazione con la crisi della libertà e con il ruolo che le tecnologie hanno avuto nella comunicazione. Internet oggi è un dato acquisito, nel ‘95 molto meno ma in questi venti anni è stato salutato, assecondato, promosso nei primi quindici anni in maniera acritica e assolutamente ottimistica, nella prospettiva che avrebbe avvicinato i cittadini alla stanza delle decisioni, aumentato la conoscenza, ridotto lo spazio fisico nella capacità dello spazio virtuale di assumere le informazioni prescindendo dagli spostamenti fisici, aumentato la democrazia in qualche modo rendendola più partecipativa, più orizzontale, disintermediato anche in parte la società. Oggi scopriamo che assieme a tutti questi vantaggi che ci sono indubbiamente, perché non siamo passatisti e non possiamo parlare delle tecnologie con la prospettiva di chi dice sono il diavolo riavvolgiamo il nastro della storia e torniamo indietro, però oggi sappiamo, di fronte alle crisi delle democrazie per l’impatto che le tecnologie hanno e il loro non governo, sappiamo che c’è un lato oscuro della comunicazione internettiana. Sappiamo che nello spazio internettiano si rubano i contenuti, quindi si viola il diritto di autore, quindi si precarizza la dimensione del lavoro; sappiamo che si viola lo spazio privato della privacy, spesso con ferite inguaribili ai diritti individuali di libertà. Sappiamo che si promuove una certa volgarità nello spazio pubblico, per cui il trash si impone come la cifra di un’opinione pubblica internettiana, dove le emozioni prevalgono sul logos; sappiamo da ultimo che si condiziona l’esito delle elezioni. Questo è un dato che la cronaca e l’analisi giornalistica e politologica delle ultime competizioni elettorali negli Stati Uniti, in Russia anche in Italia e anche in molte democrazie che non sono sotto il faro dell’opinione pubblica occidentale ma sono democrazie nascenti o democrature in Asia, dove la manipolazione dei contenuti internettiani è decisiva per l’esito degli avvicendamenti al potere. C’è un prezzo che non avevamo considerato, un prezzo della libertà che le tecnologie fanno pagare. La prima domanda che secondo me ci si deve porre rispetto a questa constatazione è se tutto ciò fosse inevitabile, cioè se il lato oscuro delle tecnologie sia destinato ad imporsi al destino, allo sviluppo delle democrazie e a condizionarle in una maniera così grande che oggi ci sono moltissimi giovani che vanno convincendosi che le democrazie non siano lo strumento migliore di governo per una comunità, per un Paese. Voglio qui utilizzare per semplificare il pensiero di un filosofo contemporaneo come Emanuele Severino. Lo utilizzo come schema per ragionare su quanto è accaduto. Severino dice che la tecnica è figlia della cultura, che la cultura inventa la tecnica per realizzare i suoi scopi, però a un certo punto la tecnica, come tutti i figli, compie il suo parricidio, ammazza il padre e in che modo? Imponendo i suoi scopi agli scopi della cultura così che gli scopi della cultura finiscono per diventare gli scopi della tecnica. E quali sono, si chiede Severino, gli scopi della tecnica? La tecnica non ha scopi, la tecnica ha un unico scopo, quello di riprodurre se stessa infinite volte, imporre la dimensione quantitativa dei click internettiani alla dimensione qualitativa delle democrazie, che invece selezionano e discriminano per qualità sulla base dei valori che, diciamo, assumono come propri. Tutto questo, secondo Severino, è un processo ineluttabile, perché la forza della tecnica è destinata a prevalere sulle energie e sulla capacità di governo della cultura. C’è un altro schema che ci può, diciamo, essere utile. Ed è lo schema di un pensatore contemporaneo che ha ispirato molto il mio libro, che è il professor Magatti, che è stato il preside della facoltà di Sociologia della Cattolica di Milano, che ha scritto nel 2009 un bellissimo libro che si chiama Libertà immaginaria. Questo libro parla un po’ anche del Sessantotto, cioè racconta che cosa è accaduto nelle società europee occidentali a cavallo del dopoguerra e la contemporaneità. Anche qui lo sintetizzo in maniera molto giornalistica, quindi mi scuso con l’autore e con chi l’ha letto per questa semplificazione. Magatti dice che dopo la Seconda guerra mondiale e i grandi disastri dei totalitarismi del Novecento, il capitalismo, per tornare a produrre ricchezza, ha bisogno di società ordinate. E le istituzioni repubblicane, cioè la democrazia nascente, si pone al servizio di questa prospettiva e quindi costruisce società con una forte carica istituzionale e anche una forte morale comune in grado di costruire discipline sociali, e poi redistribuisce la ricchezza che il capitalismo produce, attraverso il Welfare. Questo schema, dice Magatti, funziona fino al 1968, di cui parleremo nei prossimi giorni; poi ad un certo punto questo schema si rompe. Si rompe per una serie di motivi ma si rompe anche perché, spiega Magatti, il capitalismo si accorge che per produrre più ricchezza non ha più bisogno di società ordinate ma ha bisogno di società disordinate, perché la monoporzione dell’ipermercato, diciamo, produce più profitto della spesa famigliare. E allora cosa fa il capitalismo? E qui uso una provocazione molto forte: inventa il divorzio. Questa è mia, non è di Magatti. È evidente che il divorzio, io personalmente lo considero un diritto e una conquista della società occidentale, ma come ogni diritto, come ogni espansione di diritto, anche il divorzio ha un prezzo. E se il divorzio non si connette ad una responsabilità sociale, è evidente che il divorzio ha dentro di sé una possibilità e una carica di frantumazione sociale. Se diventa un’estetica della relazione concepita in maniera edonistica, quindi come un’occasione, una possibilità dell’umano e non come un rimedio ad un punto di crisi della società famigliare, il divorzio introduce evidentemente un punto di frattura nel presidio decisivo che rappresenta la famiglia in una società, e quindi anche in una società. Che cosa voglio dire con questo? Voglio dire che ogni espansione dei diritti ha un prezzo. I diritti sono stati il carburante attraverso cui le democrazie si sono imposte sulla scena del mondo negli ultimi due secoli, sfidando prima le autorità e le verità di fede del’Ancien Régime, le monarchie assolute, dove non c’erano evidentemente cittadini, c’erano solo sudditi, poi le verità e le autorità ideologiche dei totalitarismi; ma quando si sono imposte sulla scena del mondo le democrazie, i diritti, in assenza di un’autorità da sfidare e in assenza di un bilanciamento ineliminabile con i doveri di cui parlava il professor Cassese, sono diventati un fattore di disgregazione. Le più grandi infelicità del passato nascevano da una scarsità di diritti, le più grandi incapacità del presente nascono da un eccesso di diritti che la tecnica evidentemente potenzia estendendo la sfera del possibile, cioè trasformando ciò che fino a ieri era impossibile in qualcosa che diventa improvvisamente possibile. E il diritto copre questo spazio, questa area, questo perimetro, legittimandoselo e trasformando ciò che è possibile in giusto, semplicemente perché è possibile. Ecco, io credo che questo schema serva a comprendere una serie di processi che evidentemente sono avvenuti in Occidente. Magatti racconta, per esempio, che il capitalismo, di fronte alla necessità di produrre profitti, con l’atomizzazione sociale, finisce per sposare, per fare un patto con quei movimenti antagonisti del capitalismo che erano il Sessantotto, i movimenti, diciamo, che si proponevano in chiave anticapitalistica ma che puntavano a una soggettivizzazione, ad una individualizzazione della società. E quindi questo matrimonio tra il capitalismo e i movimenti sessantottini produce, spiega Magatti, una sorta di eterogenesi dei fini: declina la libertà in consumo, produce la società liquida di fronte alla quale noi ci troviamo. Se applichiamo questo schema ai processi di comunicazione, noi ci rendiamo conto che abbiamo fatto degli errori di valutazione, secondo me, nel valutare il potenziale di rischio che l’espansione dei diritti, attraverso anche l’uso della tecnica, determinavano per le democrazie. Quando nel ‘92, chiedo scusa, nel ‘92 attraverso l’introduzione di Maastricht e nell’’89, dopo la caduta del muro di Berlino, si impongono sulla scena del mondo, centrali tecnocratiche e centrali finanziarie la cui forza e la cui leva è più grande della stessa statualità, mettendo in crisi la dimensione dello Stato nazione, c’è chi si rende conto che in assenza di un governo globale di questi processi di finanziarizzazione, le basi della democrazia nazionale sarebbero state minate. È esattamente quello che è accaduto, se noi leggiamo in controluce le crisi della finanza che hanno attraversato il primo decennio del Ventunesimo secolo e se noi leggiamo in controluce l’impatto che le tecnologie hanno avuto nel condizionare il destino delle democrazie nella comunicazione. Lo stesso processo di crisi dell’Europa può essere letto in questa prospettiva: nella difficoltà di fare quel salto dalla dimensione nazionale alla dimensione sovranazionale. Ecco, però attenzione: se tutto questo è vero, la soluzione non è evidentemente quello di riavvolgere il nastro della storia all’indietro e di immaginare di alzare dei muri, costruire dei dazi, costruire delle nicchie di antico sovranismo e di vecchia statualità, nei quali proteggerci dalle nostre paure. Questa non è una soluzione, questo è un rimedio peggiore del male, che ci porta evidentemente in una prospettiva peggiore dei limiti che abbiamo fin qui descritto. Dobbiamo intervenire, io credo, sugli errori che si sono prodotti. Con riferimento, e chiudo, al tema del governo della comunicazione internettiana, io credo che abbiamo alcune strade: Internet funziona nel mondo in modi diversi. Funziona in Cina sotto l’ombrello e il controllo pervasivo dello Stato, cioè sostanzialmente in una posizione di totale subalternità; funziona in Europa all’incontrario, cioè in una posizione di egemonia, in grado di condizionare la vita stessa delle democrazie, cioè in assenza di un controllo fiscale, in assenza di regole del lavoro che garantiscano, diciamo, la qualità e la dignità di chi partecipa a questi processi e non la precarizzazione, evidentemente; in assenza di un diritto d’autore, in assenza di una tutela della privacy, in assenza di una responsabilità dei provider. È evidente che tutto questo porta alla giungla che è sotto gli occhi delle ultime competizioni elettorali avvenute in Occidente. Oppure funziona come funziona in alcune democrazie nascenti asiatiche, dove a seconda che il governo delle fake news venga assunto dall’autocrate di turno o piuttosto dal movimento di opposizione, il destino del potere muta casacca. È evidente che noi dobbiamo riuscire a riporre un governo delle opportunità che la tecnica e l’innovazione ha garantito alla modernità, senza cadere in uno statalismo che limita la libertà, ma attribuendo ai soggetti, che assumono la responsabilità di governo della rete, dei limiti, dei vincoli e delle responsabilità in grado di tutelare la libertà di tutti coloro che, con la rete, vengono in relazione. E qui mi fermo perché, magari, sui rimedi in concreto possiamo tornare dopo. Grazie.
DAVIDE PERILLO:
Volevo chiedere a Joseph Weiler se è d’accordo con questa analisi, se è d’accordo sul fatto che lo spazio comune sta diventando, anche attraverso le tecnologie, sempre più una giungla, e come ci interpella questa dinamica, se è vera.
JOSEPH H.H. WEILER:
Sono d’accordo con Sabino nell’analisi della libertà passiva e attiva, negativa e positiva, perché se c’è solo negativa o passiva manca qualcosa. E concordo con Barbano che c’è un lato oscuro di Internet, e che per l’eccesso dei diritti si paga un prezzo. Su altre cose non sono d’accordo: io vedo un collegamento molto, molto debole fra la libertà nello spazio pubblico e la felicità. Abbiamo mille esempi di persone che hanno vissuto, che vivono in regimi repressivi che non garantiscono la libertà nello spazio pubblico, ma interiormente sono liberi. È nelle nostre società, che suppergiù garantiscono una libertà ampia nello spazio pubblico, che interiormente non sono persone libere per niente. Cosa vuol dire essere libero interiormente? Perché, anche se la libertà nello spazio pubblico è garantita, posso essere schiavo della mia passione, della mia ambizione, della mia carriera, del mio ego, della mia fama. Nessuno impedisce la mia libertà nello spazio pubblico, ma in realtà non sono un uomo libero. Prendiamo l’esempio della piazza pubblica moderna, che è l’Internet. È vero che c’è questa tecnologia, ma l’effetto del lato oscuro è che siamo schiavi di Facebook e Twitter: questa è l’immagine dell’uomo moderno. Non avrà questo lato oscuro se le persone non saranno schiave di Facebook, di Twitter, di tutte queste reti, e questa è una scelta personale di ognuno. Non si può dare la colpa alla tecnologia. È lì, è una tentazione, ma in fin dei conti io non sono libero se ossessivamente guardo Facebook, guardo Twitter. Solo così si producono questi aspetti negativi. E allora il mio primo punto è che la felicità si ottiene dalla libertà interiore, dalla liberazione della persona nei confronti di se stessa, prima che verso gli altri; e solo in secondo luogo entra in gioco il collegamento fra felicità e libertà nella piazza pubblica. Non vorrei essere mal capito: è essenziale nella nostra società garantire la libertà nella piazza pubblica, però io ritengo che questo non garantisca in nessun modo la felicità della persona. Secondo punto dove non sono del tutto d’accordo con i due altri relatori: quella insistenza sul diritto. Tutto il discorso sulla libertà era: diritto, eccesso di diritto, non troppo diritto, come conciliare i diritti eccetera. E quasi non si sente il discorso del dovere, della responsabilità personale. Il diritto è sempre l’abilitazione della persona a fare quello che vuole fare, e manca il discorso del dovere e della responsabilità personale. Veramente, il discorso pubblico, anche quando parliamo della libertà, è molto sbilanciato in favore del diritto invece che in favore del dovere e della responsabilità. Di nuovo, se prendiamo il lato oscuro di Internet, il lato oscuro di Internet è che le persone che partecipano in questa nuova piazza pubblica fanno quello che vogliono: bugie, calunnie, eccetera. Lì la soluzione non può essere solo un regolamento dello Stato: deve essere un regolamento interiore, il senso interiore del dovere, della decenza, e non solo verso gli altri ma verso noi stessi in maniera propria. Il terzo punto: di solito, quando parliamo della libertà, lo schema tradizionale è che c’è il potere pubblico e c’è la libertà individuale. Negli ultimi dieci-quindici anni, sempre più il problema della libertà nello spazio pubblico non è il potere pubblico vis-à-vis dell’individuo, ma un individuo vis-à-vis di un altro individuo. E questo è un problema molto più difficile, perché abbiamo la tecnologia giuridica e filosofica per capire come bilanciare il potere pubblico o l’interesse pubblico vis-à-vis dell’individuo; molto, molto più difficile è trovare una soluzione a come riconciliare una libertà individuale di una persona che va in conflitto con una libertà anche fondamentale dell’altra persona, come abbiamo visto ieri nel processo simulato. Grazie.
DAVIDE PERILLO:
Queste annotazioni del prof. Weiler direi che portano la questione su un terreno molto sentito, molto concreto: quello della persona. Allora volevo chiedere al prof. Cassese, innanzitutto, se condivide questo e poi se possiamo iniziare a inoltrarci verso una risposta all’ultima questione che poneva Weiler: come si può aiutare una persona a recuperare questa consapevolezza della necessità di un rapporto vero con l’altro.
SABINO CASSESE:
Io penso che ci siano due profili in quello che ha detto adesso Joseph Weiler. Il primo: se noi continuiamo a concepire la libertà solamente sotto il profilo negativo, è chiaro che questo comporta soltanto l’astensione di un altro. Ma se noi la concepiamo in un altro modo, cioè sotto il profilo positivo, questo comporta un dovere di qualcun altro. Pensate soltanto a una libertà: la libertà dal bisogno. La storia del mondo, nell’ultimo secolo, è stata dominata dal bisogno di liberare le persone dalle necessità essenziali della vita. La libertà dal bisogno era il grande sogno di Beveridge, quello di assicurare la salute, l’istruzione, il lavoro, la protezione sociale. Ora, per fare questo bisogna, dall’altra parte, garantire un servizio sanitario nazionale, un servizio scolastico aperto a tutti, una garanzia del lavoro – pensate per esempio in Italia alla cassa integrazione straordinaria – e infine un sistema pensionistico. Ma tutto questo come si riesce a ottenere, se non coniugando quel diritto con un dovere di tutti di pagare i costi di queste attività? Io ho citato questi quattro settori perché, se voi andate a prendere il bilancio dello Stato italiano, vi rendete conto che il settanta per cento della spesa dello Stato italiano se ne va per questi quattro settori che io ho appena indicato. Il che vuol dire che dietro a questi diritti ci sono dei doveri di contribuire alle spese che sono necessarie per assicurare questi diritti, e c’è quindi quello che i giuristi chiamano un’obbligazione tributaria, che è un obbligo, un dovere del cittadino verso degli altri cittadini – in questo caso, che passa attraverso lo Stato e arriva ad altri cittadini. Qui io vedo il bilanciamento tra quei due elementi che citava prima il prof. Weiler: il fatto, cioè, che ci siano degli individui che non debbano dialogare più soltanto con lo Stato, chiedendo allo Stato «liberami dalla censura», per esempio, oppure «dammi la possibilità di parlare in pubblico», ma debbono dire allo Stato «crea le condizioni perché altri assicuri a me questa libertà dal bisogno». Vedete quindi che a questo punto la configurazione dei diritti diventa più complicata, perché ha molte facce: una prima è verso lo Stato, una seconda è verso gli altri individui, e una terza è attraverso lo Stato rispetto agli altri individui.
DAVIDE PERILLO:
Ma se questa consapevolezza appunto del dovere, cioè se la bilancia è molto sbilanciata come adesso dalla parte del diritto e questa consapevolezza del dovere è da recuperare, che cosa può aiutare questo lavoro di ripresa di consapevolezza? Lo chiedo a Barbano prima.
ALESSANDRO BARBANO:
Le culture, il pensiero politico, perché ha ragione il professor Weiler, è nella dimensione individuale che si gioca il rapporto fra il mezzo e il fine, fra l’oggetto e il soggetto. Però si gioca in un modo piuttosto che in un altro a seconda della, come dire, della cultura in cui questa sfida è inscritta. È il pensiero civile e il pensiero politico che cambia le coordinate degli atteggiamenti individuali, anche l’atteggiamento dell’uomo rispetto all’uso del telefonino. Quindi è evidente che sono due livelli e due momenti, quello individuale e soggettivo del rapporto con la tecnica e con la libertà e quello civile universale, che sono in relazione tra di loro. Allora voglio fare alcuni esempi che si collegano al discorso fatto prima in maniera un po’ astratta. Se l’Irlanda viene intimata, consentitemi il ribaltamento grammaticale, dall’Europa di riscuotere le tasse da Apple e l’lrlanda si rifiuta di riscuotere le tasse da Apple e dice: «No, non le voglio le tasse da Apple, perché pur di avere Apple sul mio territorio è evidente che io sono disponibile a trasformarmi in un paradiso fiscale», che cosa vuole dire, vuole dire che la forza finanziaria e tecnocratica della centrale internettiana è prevalente rispetto alla forza politica di governare il mezzo. Secondo esempio. Il destino di una giovane campana che ha diffuso sei sue immagini molto private sulla rete a dei suoi amici e questi suoi amici sono diventati sei milioni di amici, e quando questa povera ragazza ha cercato di fermare evidentemente questa gogna che si è aperta nei suoi confronti, sto parlando di un caso di cronaca reale, purtroppo si è trovata difronte alla difficoltà di dover citare Facebook a Palo Alto, perché il foro competente nel rapporto tra il cittadino e la centrale internettiana era Palo Alto. La Corte suprema americana ha stabilito di recente, con una sentenza destinata a fare storia, che il foro competente nel rapporto fra il cittadino e Facebook non è più la sede legale della multinazionale ma il luogo in cui si determina il reato, in cui vive la vittima, subisce il reato, questa però purtroppo non è una circostanza che in Europa è ancora presente, per cui tutte le controversie individuali tra i privati e le grandi multinazionali internettiane si svolgono su un terreno globale dove il cittadino non arriva. Terzo, le regole del lavoro. Noi su internet abbiamo persone che smanettano cinque, sei, sette, otto, dieci ore e producono azioni che simulano il lavoro, che somigliano al lavoro ma che non sono lavoro, perché non hanno la dignità del lavoro. Ebbene queste azioni, nel loro sviluppo orizzontale, però giustificano l’unico profitto verticale in capo al monopolista di turno. Mentre in Europa e in Italia si discuteva su quanti muri alzare nel mediterraneo per fermare una barchetta con sessantasei clandestini, il parlamento europeo ha bocciato una direttiva che si proponeva di imporre ai grandi aggregatori internettiani il pagamento, il riconoscimento del diritto di autore. È passato la vulgata secondo la quale il diritto di autore era un bavaglio alla libertà di espressione. In realtà quella norma era centrale per consentire la tutela e la protezione del lavoro giornalistico e della libertà di espressione. È stata raccontata all’incontrario. Purtroppo l’opinione pubblica se n’è completamente disinteressata e quella delibera è stata bocciata per la pressione delle centrali internettiane sui politici del parlamento europeo, dove al momento, diciamo, le forze populiste, per così dire, sono minoritarie. Immaginiamo cosa potrebbe essere il voto sulla stessa direttiva dopo le elezioni del 2019, se purtroppo la sfida del populismo dovesse imporsi alla democrazia europea. Questa è una questione centrale che riguarda la libertà nello spazio pubblico e nella democrazia, però occorre che i cittadini comprendano che la protezione dell’opinione pubblica è un patrimonio a cui è connesso il destino delle democrazie. Ultimo, la responsabilità dei provider.
Io mi sono trovato per sei anni a governare un giornale e, come direttore di un giornale, avevo, rispondevo di responsabilità civile, penale e deontologica. I provider non rispondono assolutamente di nulla, cioè tutto quello che transita sulla rete purtroppo non soggiace alla responsabilità di chi organizza e di chi lucra grazie alla rete. Allora è evidente che la sfida si gioca sul piano individuale, come dice il professor Weiler, ma il piano individuale è fortemente condizionato da una deregulation che è figlia di una mancata consapevolezza che l’impatto delle tecnologie e l’espansione dei diritti ad esse connessi, non regolati e non bilanciati, ha prodotto sulle democrazie. Io credo che questa questione sia centrale al destino delle democrazie nei prossimi anni. Grazie.
DAVIDE PERILLO:
Voglio chiedere a Weiler se per aiutare a sviluppare la libertà interiore di cui parlava, le regole bastano, se è solo una questione di regole.
JOSEPH H.H. WEILER:
Se mi permette, prima voglio qualcosa a Sabino Cassese. Quello su cui ho messo un po’ di scetticismo era il rapporto fra la libertà e la felicità. Prendiamo questi fattori che tu a giusto titolo hai menzionato: l’istruzione pubblica, il sistema sanitario etc. Prendiamo i paesi nordici, la Finlandia, Danimarca, la Svezia, la Norvegia etc. Penso che si sarà d’accordo che su tutti questi fattori quei Paesi sono più sviluppati dell’Italia: le pensioni sono migliori, i sistemi sanitari sono migliori. Però gli italiani sono più felici e questa non è demagogia, è veramente un’osservazione di un ebreo errante che ha vissuto in tanti Paesi. La felicità…, queste cose sono importanti, nella loro assenza è difficile che la persona sia veramente felice, ma sono sicuro che vivere in Italia, essere italiano, renda più felici.
L’altra cosa riguarda il collegamento delicato fra la libertà nello spazio pubblico e la libertà interiore, cioè pensare non solo qual è il mio dovere verso l’altro ecc. (la libertà positiva), ma qual è il mio dovere verso me stesso. E questo è la libertà interiore, perché possiamo veramente essere un sistema come i Paesi occidentali, dove c’è grande spazio di libertà nello spazio pubblico, ma questo non significa che le persone siano veramente libere. Chi sta dieci ore davanti a Internet non è libero, è schiavo di una ossessione. Dove può darsi che ci sia, Barbano, una sfumatura di differenza tra noi? La tua tendenza è dire: colpa del provider, colpa dell’autorità pubblica che non regola sufficientemente, ecc. È vero fino a un certo punto. È anche colpa nostra, colpa nostra, di ognuno di noi. Questa è la libertà interiore, prendersi le proprie responsabilità e non sempre riversarle su «quell’altro e quell’altro».
DAVIDE PERILLO:
Professore, a questo punto domanda diretta: ma cosa educa, cosa aiuta ad educare questa libertà interiore, perché poi mi sembra che sia un punto di condensa del discorso che stiamo sviluppando.
SABINO CASSESE:
Al professor Weiler io debbo ricordare che quando si riunirono i costituenti americani, scrissero all’inizio che loro volevano assicurare la libertà e la possibilità delle persone di ricercare la felicità (to pursuit the happiness). La domanda è: ma a quale felicità si riferivano? A quella individuale di cui parla il professor Weiler o si riferivano a qualcosa di diverso, una sorta di felicità collettiva, a qualcosa che non riguardava quella generazione, ma che riguardava le generazioni dei due secoli successivi, perché sono passati due secoli? Quello che voglio dire è che in quella frase, che appunto è il motto del Meeting di quest’anno (le forze della storia che rendono l’uomo felice), non c’è l’indicazione di una felicità puramente individuale, c’è l’indicazione di una felicità collettiva, di cui individualmente si partecipa e in cui, come dire, è prospettata una partecipazione non di una generazione, ma di più generazioni successive. Io credo che questa sia la chiave per capire la relazione tra libertà e la felicità.
JOSEP H. H. WEILER:
Io non pensavo di parlare solo sulla felicità personale. Solamente volevo dire che anche la felicità collettiva, la felicità di una società, di una famiglia, di una tribù, di una nazione, ecc., non è garantita solo dalla libertà nello spazio pubblico. Pensare: «sì, garantiamo in modo ottimale questa libertà così garantiamo la felicità collettiva», secondo me è discutibile, e penso che solo una società di persone felici sarà una società felice.
ALESSANDRO BARBANO:
Io non so dire, mi riesce difficile dire che cosa sia la felicità, mi riesce più facile dire che cosa non sia la felicità. Certamente non è un dividendo diretto connesso agli appetiti di minoranze organizzate ristrette dal sovranismo nel tempo e nello spazio del presente. Questo sono sicuro che non lo sia. Penso più, come spiegava il professor Cassese, che la felicità debba intendersi (in chiave collettiva, naturalmente e in chiave civile e politica), come un interesse indiretto sul futuro delle generazioni, cioè un investimento su una prospettiva di crescita che riguarda la comunità. E allora, se questo è, ha ragione il professor Weiler: non ci divide nulla, perché occorre una estetica dei doveri, occorre… non un’etica dei doveri… Lei, quando diceva «noi non dobbiamo agire bene perché la nostra libertà confligge con quella dell’altro; dobbiamo agire bene perché la nostra libertà non deve confliggere con la nostra coscienza interiore», mi trova totalmente d’accordo: è un principio kantiano, che condivido in pieno. Ma allora, occorre però, perché questo si produca, che in democrazia e all’interno di una società secolarizzata dove gli atteggiamenti cambiano soprattutto attraverso il pensiero civile e politico, che il pensiero lo assuma. L’estetica dei doveri e quindi l’idea di un senso del dovere come elemento di una missione che appartiene alla vita, è qualcosa che il pensiero politico occidentale ha completamente dimenticato e qui ritorna, evidentemente, la declinazione di consumo della libertà di cui parlava Magatti nel suo bellissimo libro. Grazie.
DAVIDE PERILLO:
Credo che sia venuta fuori con sufficiente completezza la complessità di questo rapporto, di questo binomio tra la libertà e lo spazio pubblico, soprattutto tra quello che la comunità e l’io possono reciprocamente darsi e devono reciprocamente darsi. Però, permettetemi una annotazione, perché in questa alternativa, in questa confluenza tra una prospettiva kantiana e una prospettiva biblica, rimane aperto il fascino di una grande questione: che cosa aiuta, al di là delle regole o insieme con le regole e al di là della coscienza individuale e insieme alla coscienza individuale, a ricercare la felicità, a trovare la felicità, ad essere felici? Questa è la grande questione e credo che sia bello affrontarla, aiutati da interlocutori come gli ospiti di oggi, affrontarla all’interno di una realtà come il Meeting che in fondo nasce come spazio pubblico, aperto a tutti, ma che ha un solo scopo: rendere libero chiunque, aiutare a crescere nella libertà chiunque passi di qui, chiunque partecipi anche soltanto per un incontro come questo alla realtà del Meeting. Io credo ci sia un fascino enorme nella prospettiva aperta dai nostri interlocutori di oggi, un fascino proprio perché quando si parla di questo tema, del rapporto tra l’io e la comunità, non saranno mai le strutture, non sarà mai nessuna struttura ad assicurare le indispensabili necessità di cui abbiamo parlato oggi. È piuttosto una sfida per ognuno di noi, per ognuno di noi personalmente, per ognuno di noi insieme, ogni volta recuperare queste ragioni e queste modalità di poter vivere insieme nello spazio comune, con le caratteristiche che ci hanno detto i nostri ospiti di oggi, che ringrazio con un applauso ulteriore.
(trascrizione non rivista dal relatore)