Chi siamo
La libertà di Dio
hanno partecipato: Olivier Clemént, Docente all’Istituto di Teologia di Parigi; Luigi Giussani, Docente di Morale all’Università Cattolica di Milano. Moderatore: Rocco Buttiglione. Durante l’incontro intervento di saluto di S.E. Mons. Giovanni Locatelli, Vescovo di Rimini
Durante l’incontro ha portato il Suo saluto S.E. Mons. Giovanni Locatelli, Vescovo di Rimini.
ROCCO BUTTIGLIONE
La tavola rotonda di oggi ha un’importanza tutta particolare, ci introduce in un certo senso al cuore di questo Meeting, e per il tema e per le persone che avremo con noi oggi.
Ma prima di iniziare abbiamo un ospite che particolarmente caro al nostro cuore: Mons. Giovanni Locatelli, Vescovo di Rimini che è in un certo senso, il padrone di casa che ci ospita in questa città e ci ospita in questa chiesa, a cui noi vogliamo servire con il nostro lavoro culturale e con tutto ciò che abbiamo fatto organizzando questo Meeting. Lo preghiamo quindi di rivolgerci alcune parole.
S.E. MONS. GIOVANNI LOCATELLI
Cari amici, gentilissimi relatori, don Luigi, prof. Clément, autorità, amici tutti, ben volentieri porto il mio saluto di Vescovo di Rimini e la mia benedizione al Meeting che si ripresenta per la quarta volta in questa città; penso con commozione e con ammirazione a quegli alcuni credenti ardimentosi che, pochi anni fa, pensarono questo Meeting. Ecco che ne risultato un avvenimento quasi unico, nel suo genere, al mondo.
Vedo nell’avventura così ben riuscita di questi credenti, e dei tanti che a loro si sono uniti lungo la strada, una parabola molto significata di quanto i cristiani potrebbero fare e saprebbero fare quando si abbandonassero, coraggiosi e inventivi, alla potenza del Vangelo e… osassero!
Meeting ogni anno in crescita! Ecco l’esaltante verità.
Stupendo e rigoroso incontro di personalità, di culture e di popolo, specie un popolo di giovani! Momento di grazia per l’uomo dei nostri tempi!
Ho pregato e fatto pregare per il Meeting. Era il mio dovere di Vescovo della Chiesa ospitante.
La preghiera il supremo e fondamentale dono che la Chiesa può fare ai suoi figli impegnati in cose di rilevante importanza. Mi ritorna insistentemente nel cuore la visione di Mosé orante sul monte mentre, in pianura, si decide- vano grossi eventi umani.
Quanto al tema di questa edizione del Meeting: “ Uomini scimmie robot”: Uomini: se la verità dell’uomo Cristo, allora guardo l’uomo-Dio e adoro e benedico. Mi convinco sempre più che solo l’atteggiamento dossologico risulta chiave capace di introdurre al Mistero.
Dio, il Tutt’altro, il Mistero per eccellenza, lo penetro un po’ adorando; allo stesso modo per l’uomo, mistero come Dio.
“Signore, hai fatto l’uomo poco meno di un Dio”. Ecco l’uomo. Si accostino pure le parole di Pilato: Gesù, incoronato di spine, apparentemente sconfitto, da Pilato indicato come l’uomo: la pienezza dell’uomo.
Scimmie. La parola evoca problemi di origini e di evoluzioni; ipotesi che sono il vanto e la croce delle varie scienze. Avremo mai la risposta certa?
La parola “scimmia” evoca pure il concetto, che spesso diventa tremenda realtà, del “ripetitore” irresponsabile, di uno che scimmiotta, che non sa che copiare; succube di un uomo come lui, eppure quest’altro diventato indebitamente suo leader. Storia dolorosa di milioni e milioni di uomini a ciò ridotti, a volte dalla propria pigrizia o mancanza di coraggio e di speranza; a volte così ridotti da creature folli, capaci di concepire simili sogni di schiavizzazione dei propri simili e pronti a tutto piegare per inverare questi sogni pazzi. I campi di sterminio dell’ultima guerra dicono anche troppo in materia di questi sogni deliranti. Eppure certo che, ora come ora, ci sono campi anche peggiori di quelli il cui solo ricordo ci pare insopportabile. Scimmia. Comunque siano i secoli o i millenni con i loro misteri per noi, l’uomo esce dal cuore di Dio, dall’abisso dell’amore che la comunità trinitaria, Uomo, immagine vera della Trinità. Per l’uomo si tratta di divenire ciò che egli è.
Finalmente, robot. Uomini alla mercé dei computers? Uomini, esentati dalla esaltante e crocefiggente avventura del vivere per rispondere al dettato delle banche dei dati? E da chi verrebbero costruiti quei nastri così onnipotenti e onnipresenti? Dai determinismi, come se l’uomo non fosse veramente libero? Da altri uomini, che si ritengono super-uomini, e che sono interessati a queste schiavitù?
Il Meeting fa bene a spingere a riflettere: troppe stanchezze, delusioni, paure c’inducono a rinunciare alla lotta indispensabile per la salvaguardia della libertà e della dignità.
Se mi è lecito, aggiungerei questa considerazione: l’uomo fa bene ad automatizzare tanto: si creano molti servizi in ogni campo e in ogni senso. Dobbiamo però constatare che tutto ciò non è soltanto innocente e promozionale; finisce per stringere sempre di più un cerchio indebito e inesorabile attorno all’uomo. L’uomo non ha più il suo spazio; ma non è tanto in causa la macchina che l’uomo crea: la fa lui. L’uomo in se stesso invece è in causa, è messo in difficoltà da se stesso. La nostra civiltà leva via il lavoro all’uomo. Ne conosciamo i contraccolpi. La nostra civiltà leva via tanti posti di lavoro proprio per via dell’automatizzazione.
Che farà l’uomo che si ritrova con tanto accresciuto tempo libero, senza averlo cercato tante volte, senza sapere che farsene? Ma la nostra civiltà, con i suoi robot, non cancella solo tanti posti di lavoro, tende a “gommare via” anche spazio per l’uomo in sé. Difatti non c’è posto per i bambini nel nostro mondo: è tranquillamente sbarrata la strada per tanti nascituri, con inquietante tranquillità, che deriva da un dato di costume, di civiltà, si dice addirittura. Cala un sipario di morte per l’anziano e per l’infermo. La vita non è più un canto, è piuttosto una fuga, un non voler pensare.
E intanto le macchine, i robot, si moltiplicano, si fanno potenti. Poche intelligenze – e con quali piani? – a ridosso di mezzi sempre più favolosi. E i tanti? E noi? Staremo a guardare solo?
Concludo. Quel Dio che accompagna e benedice le cose piccole e le cose grandi, e si fa geloso d’amore quando si tratta dell’uomo, sia propizio a questo nostro Meeting. Grazie.
ROCCO BUTTIGLIONE
Dicevamo fin dall’inizio quanto questo sia centrale nel nostro Meeting, e le parole che abbiamo ascoltato ce lo hanno ricordato, reintroducendoci profondamente nel tema che è il nostro. Questa centralità fa in modo quasi che l’interesse della nostra gente, del nostro cuore per un tema così, ecceda le stesse capacità organizzative del Meeting; non posso non ricordare, e mi auguro che la mia voce arrivi fino a loro, le 10.000 persone che non hanno trovato posto in sala e che partecipano ugualmente al nostro incontro dal piazzale antistante.
Uomini scimmie robot. Siamo partiti da una domanda sull’origine dell’uomo: da dove veniamo, dove andiamo. La domanda sull’origine, abbiamo scoperto, contiene una domanda sul destino: ci interessa sapere da dove veniamo per capire meglio ciò che siamo. La domanda sull’origine è in fondo una domanda sul padre. E in questo modo siamo passati dalla scoperta dell’importanza della domanda sull’origine alla scoperta, con la tavola rotonda “E se l’uomo perdesse la domanda”, che la cosa veramente importante non è tanto il principio, quanto la domanda; non tanto la domanda sull’origine, quanto l’origine della domanda: perché l’uomo porta una domanda più grande di sé?
Oggi parleremo di Dio. Se la domanda che l’uomo porta è più grande di ciò che l’uomo è, la risposta può venire solo da qualcuno più grande dell’uomo. La posizione giusta dell’uomo è allora l’attesa della risposta di un Altro. Ma chi è questo Altro a cui diamo il nome di Dio, questa realtà su cui tutta la cultura religiosa e non religiosa si è affaticata nella storia dell’uomo? Chi è questo Altro per il quale siamo, che è la nostra origine, e verso il quale si rivolge continuamente, ma sempre in qualche modo inutilmente, la nostra ricerca? Chi è questo Altro? Che senso ha la nostra libertà se non nel dialogo con questo Altro? Ma se la nostra libertà ha senso nel dialogo con questo Altro, essa ha il senso che le dà questo Altro, nella sua assoluta libertà. Ecco perché parliamo oggi della libertà di Dio, la risposta al problema dell’uomo, la risposta al problema della nostra civilizzazione.
Per questo incontro abbiamo con noi due maestri di straordinaria statura culturale e spirituale. Il primo, Olivier Clément. Francese, convertito al Cristianesimo nella sua forma ortodossa orientale, Clément ha gettato in questi anni un ponte fra l’Occidente e l’Oriente dell’Europa, ha mostrato come la dimensione fondamentale della teologia orientale, della trasfigurazione, della comunionalità del volto interiore dell’uomo, risponde in modo impensato alla esigenza dell’uomo contemporaneo di risignificare radicalmente la propria esperienza, di ritrovare se stesso.
Il secondo dei nostri ospiti è don Luigi Giussani. Milanese, sacerdote, ha studiato ed ha insegnato con passione la teologia orientale e quella protestante ed è attualmente professore di Introduzione alla Teologia e Teologia Morale presso l’Università Cattolica di Milano. Autore di diverse opere di Antropologia e Teologia fondamentale, Giussani è noto, forse e soprattutto per lo straordinario esperimento di una teologia vissuta che mette alla prova le proprie categorie nella vita di un Movimento ecclesiale, Comunione e Liberazione, di cui Luigi Giussani è il fondatore. La riflessione teologica si trasfonde così in una straordinaria pedagogia ed introduzione alla fede cristiana, guadagnando il massimo della vivacità esistenziale e della comunionalità, fin nella sua concezione, e poi nella sua esposizione. Diamo adesso la parola ad Olivier Clément. Clément ci introdurrà nella dimensione meditativa e mistica dell’avvenimento sul quale oggi noi meditiamo. Giussani poi ci offrirà una riflessione che parte piuttosto dall’approfondimento dell’esperienza dell’uomo.
La parola a Olivier Clément.
OLIVIER CLÉMENT
Alla fine di un secolo tragico, e all’inizio di un nuovo millennio, la domanda che ci si pone è una domanda fondamentale: chi è l’uomo?
Si è cercato di spiegarlo in tutti i modi: attraverso i concetti di razza, classe sociale, sesso o volontà di potere, – attraverso le forze e le strutture di “questo mondo”. Queste spiegazioni che vogliono essere totali si sono trasformate in guerre e regimi veramente totalitari, ma anche, sotto l’impulso di una degenerazione delle dottrine freudiane e nietzschiane, sfruttamento commerciale del desiderio, rivendicazione di una “libertà” illimitata e irresponsabile nella quale l’uomo, per dimenticare il nero mare del nulla, diventa schiavo dei propri impulsi contraddittori.
La radice di qualsiasi schiavitù è la morte.
Noi apparteniamo all’epoca post-Hiroschima” in cui la morte non segna più soltanto il destino dell’individuo, ma anche quello dell’umanità. Le armi chimiche e batteriologiche, soprattutto quelle che si servono delle disgregazione della materia, fanno pesare sull’umanità la minaccia di una violenza assoluta, rivelano alla storia il nichilismo dell’epoca moderna. La natura, ciecamente sfruttata, vede sconvolti i suoi ritmi e i suoi equilibri. L’uomo stesso rischia di diventare un fantoccio che subisce manipolazioni psicologiche e biologiche, un oggetto passivo del conformismo sociale, delle mode culturali, del potere e del profitto, e non più oggetto animato dalla libertà. Alcuni però, anzi direi molti, hanno rifiutato e rifiutano di arrendersi. Perché? Perché l’uomo è capace di superare se stesso, di liberarsi dai propri condizionamenti, di muoversi verso la vera libertà, quella della compassione, dell’amore responsabile e creativo? Perché l’uomo talvolta è capace di superare la fame e la paura per permettere all’altro di esistere?
La risposta cristiana è che l’uomo è fatto a immagine di Dio. Egli può nello stesso tempo sfuggire a “questo mondo” e cambiare il mondo perché non è totalmente del mondo essendo radicato in Dio. Non un Dio qualsiasi, ma il Dio vivo che è esso stesso libero amore, che crea a sua immagine le libertà, che libera dalla morte con la croce pasquale, che apre all’uomo, nello Spirito Santo, lo spazio infinito della vera libertà.
I nostri padri nella fede, meditano le parole di Gesù sul vangelo di S. Giovanni: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, hanno sottolineato che l’essere stesso di Dio è comunione. La Trinità è primordiale, Dio esiste solamente come un fatto di comunione. E da sempre questa comunione ha la sua origine in una Persona, il Padre; l’abisso della divinità scaturita dal “Seno del Padre” è un abisso paterno, un abisso d’amore. In ultima analisi, ed è proprio questo il segreto dell’assoluto, la libertà personale e l’amore personale sono identici e costituiscono il vero essere. Il vero essere nasce dalla Persona libera, dalla Persona che ama liberamente, che afferma la sua identità nel rapporto con altre Persone; il vero essere, l’essere assoluto è quello del Padre che ama il Figlio nell’unità dello Spirito, del Padre che ama il Figlio e gli dona tutto quello che Egli è, che gli dà tutto il suo Spirito. Paternità che ama, che libera, che distrugge lo schema hegeliano (e marxista) del rapporto padrone-schiavo, pienezza trinitaria che trionfa del triangolo della gelosia e della violenza mimetica studiata da Freud nel legame famigliare e generalizzato da Girard. La creazione di esseri personali significa la creazione di libertà ad immagine della libertà di Dio. Sant’Ireneo di Lione scrive: “L’uomo è libero sin dall’inizio perché Dio è libertà e l’uomo è stato creato proprio a somiglianza di Dio”. Se Dio, Padre- Figlio-Spirito, è libertà dell’amore, in rapporto a noi può essere solo amore della nostra libertà. La creazione di un essere personale – cioè libero – rappresenta il capolavoro, il vertice della potenza divina, ma nello stesso tempo comporta come una limitazione volontaria di questa potenza per donare all’essere creato lo spazio della sua libertà.
Quando Dio dà origine “fuori” da se stesso all’esistenza di un altro realmente altro, realmente diverso, la sua onnipotenza raggiunge il compimento con la crocifissione nel rispetto appassionato di una libertà. La libera creazione di libertà implica il rischio della Croce, Dio diventa vulnerabile per la sua crea tura, “l’Agnello è immacolato sin dal principio del mondo”, l’Apocalisse; Paul Evdokinov lo riassumeva in queste due formule:
“Dio può tutto, salvo costringere l’uomo ad amarlo”. “Qualsiasi grande amore è necessariamente crocifisso”.
Dio è talmente libero da poter trascendere la sua propria trascendenza, supera l’abisso tra sé e il mondo, per entrare realmente in rapporto con l’uomo, per impegnarsi con uomini e angeli in un autentico dramma d’amore.
I più grandi spiritualisti hanno chiamato questa libertà di Dio “follia d’amore”.
Una libertà simile definisce una totale innocenza: Dio è innocente di tutto il male del mondo, egli si pone di fronte al male come il Cristo dagli occhi ben dati che riceve schiaffi in silenzio. Dio è come impotente quando l’opacità dell’uomo rende il mondo opaco alla luce divina e permette alle forze del caos di scatenarsi. Dio non vuole né il male né la soppressione autoritaria del male – il sogno degli ideologi – in quanto una tale soppressione sopprimerebbe anche la nostra tragica e necessaria libertà, ci renderebbe degli schiavi affascinati. Il male, Dio lo soffre con noi, affinché il “sì” di una donna gli permetta di riprendere dall’interno la sua creazione, per riaprire agli uomini le strade di una libertà liberata – tutta la storia dell’Antico Testamento, le sue elezioni, le sue benedizioni, le sue proposte e i suoi indietreggiamenti costituiscono una sorta di apprendistato di questo “sì”, di questo fiat – “sia fatto secondo la sua paro la”, di questa adesione di Maria con tutta la sua anima e con tutto il suo corpo, adesione attesa, sperata da Dio fin dall’inizio del mondo, “Ecco, sono davanti alla porta e busso …” Maria ha aperto al divino mendicante d’amore – in sé stessa si svolge la tragedia della libertà umana, in Maria la libertà dell’uomo incontra la libertà di Dio – affinché entrambi trovino compimento nell’Incarnazione, la Croce, la Resurrezione.
La libertà di Dio trova in effetti la sua espressione ultima nella Croce. Contemporaneamente di sangue e di lutti. La libertà di Dio, il suo “amore folle” si inscrivono nell’identità impensabile dell’Inaccessibile e del Crocefisso. Il Dio fatto uomo prende su se stesso tutta la nostra schiavitù, prende su se stesso la morte in tutta la sua profondità spirituale: la morte come prezzo del peccato, della separazione, dell’odio e dell’omicidio.
Allora la libertà di Dio, che gli permette di morire tutte le nostre morti, di scendere in tutti i nostri inferni – “se scendo negli inferi eccoti”, dice il salmo, la libertà di Dio diventa sovversione della morte, sovversione dell’inferno. Il Crocefisso è incandescente per il fuoco dello Spirito, al suo contatto i legami della morte e dell’inferno si corrodono. Qui vorrei citare alcuni passi dell’omelia di S. Giovanni Crisostomo che si legge, nelle chiese orientali, nel cuore della notte pasquale: “L’inferno aveva preso un corpo e ha trovato da vanti a sé Dio. Aveva preso il visibile, l’invisibile lo ha travolto. Morte, dov’è il tuo pungiglione? Dov’è la tua vittoria, inferno? Il Cristo è resuscitato e tu sei stato schiacciato.…Il Cristo è resuscitato e la vita regna. Il Cristo è risorto e i morti sono strappati alle tombe …”.
Tutto si capovolge, effettivamente, in questo trionfo della vita, tutta la disperazione, tutta la rivolta, tutte le sofferenze che si frapponevano fra Dio e Dio stesso, tra Dio e il Dio fatto uomo, tra Dio e l’uomo, tutta questa micidiale separazione si consuma fra l’unità del Padre e del Figlio, nel “ritorno” glorioso del Figlio verso suo Padre, agnello caricato di tutto il peccato del mondo. Ormai la vita, la luce, lo Spirito, la vera libertà, che è distruzione della morte scaturiscono per noi non da un Dio esterno, come fosse troppo pieno e troppo pesante, che ci schiaccerebbe, ma da un Dio crocefisso, svuotato, da un Dio riempito d’amore affinché l’uomo trovi in sé lo spazio della sua libertà liberata, della sua libertà divenuta oramai creatrice.
Poiché la Passione è l’evidenza della storia, ma la Resurrezione è il segreto della Fede, il segreto della Chiesa, Cristo non è sceso dalla croce sotto gli occhi di tutti come la gente gli chiedeva in tono canzonatorio. Dopo la sua Resurrezione, non si è manifestato al mondo, ma a quelli che lo amavano, il cui cuore ardeva, come i pellegrini di Emmaus, a quelli che piangevano, i cui occhi si aprivano improvvisamente quando Lui li chiamava per nome, come Maria di Magdala. Nella libertà regale della Fede noi scopriamo che il Crocefisso è il resuscitato, ci resuscita, che il mondo, questa tomba, è in realtà una tomba vuota riempita di luce, di gioia, di dolcezza meravigliosa, in cui più niente è esteriore e ostile quando esistono soltanto volti, quando la terra è un Sacramento, Regno dello Spirito, dell’Alito vivificante. Regno della libertà, perché “là dov’è lo Spirito di Dio là è la libertà”. Mistero della Chiesa, mistero dei figli, mistero della bellezza degli esseri e delle cose salvate malgrado l’errore, la morte, mistero di santi.
Un Cristianesimo post-ideologico deve affermarlo con forza: Dio è la libertà dell’uomo. Se Dio non esistesse, l’uomo sarebbe soltanto un piccolo elemento irrisorio della società e dell’Universo e la fatalità della tragedia greca, il trionfo della morte, la legge di bronzo della sconfitta del disastro regnerebbero su di noi senza permettere alcuna speranza. Se Dio esistesse, ma come despota celeste che dispone sovranamente di noi, l’uomo sarebbe soltanto uno schiavo senz’altra possibilità all’infuori della rivolta. Ma il Dio che si rivela a noi in Gesù Cristo è l’amore crocefisso e segretamente liberatore. Dostoevskij, da vero profeta, ha mostrato, nella “Leggenda del Grande Inquisitore”, che il Cristo ci chiama alla libertà e fornisce a questa il suo contenuto, che consiste nella partecipazione all’amore trinitario. Credendo di insultare Gesù, l’Inquisitore – rappresentante di tutte le idiocrazie, di tutti i totalitarismi – lo celebra in realtà come il fondatore della vera libertà: “Invece della rigida legge antica l’uomo doveva ormai, con cuore libero, discernere il bene dal male, avendo come unica guida la tua immagine”. E questa immagine – che costituisce il suo modello – risveglia nell’uomo la vera vita: “Il cuore (di Cristo) è infiammato d’amore. I suoi occhi emanano (…) la Forza che irradia e risveglia l’amore nei cuori”. Poiché egli ha “sete dell’amore libero e non dei trasporti servili di uno schiavo terrificato”. Nell’orto del Getzemani, e sulla croce, egli instaura in sé, nella sua umanità, offre a tutti la vera vocazione dell’uomo, quella di figlio del sacrificio e della libertà. Libertà dell’uomo. L’uomo, immagine di Dio, non può essere un oggetto, né di manipolazione commerciale, scientifica o ideologica e neppure di conoscenza. Non si può coglierlo privilegiando quella sua specifica dimensione, o quella determinata scienza umana. Certo, non si possono ignorare gli impulsi analizzati da Freud né l’importanza dei rapporti di produzione messi in evidenza da Marx, ma sia per l’uno che per l’altro, l’uomo, come individuo o come collettività, è una realtà delimitata rinchiusa in questo mondo. Non affermava forse Freud che Helmhols era il suo Dio a causa della legge sulla conservazione dell’energia da lui stabilita? Diversamente il cristiano concepisce l’uomo come trascendenza e comunione, liberato grazie alla Resurrezione di Cristo dai determinismi di questo mondo.
La grazia dello Spirito, la sua forza, la sua luce, infrangono i meccanismi di morte di “questo mondo”, mettono fuori discussione la legge della conservazione dell’energia. La persona non è di questo mondo. Le scienze umane non ci dicono cosa sia l’uomo, esse ci mostrano ciò che egli non è, denunciano le menzogne (per fornire un esempio di classe!), strappano le maschere e le pelli morte. Le scienze umane affermano una visione negativa dell’uomo, riflesso della teologia negativa che ci conduce alla rivelazione del Dio personale. Poiché l’uomo non e qualche cosa, è qualcuno. Per citare un’affermazione di un grande mistico e teologo occidentale del XII sec., Richard de Saint-Victor, la persona umana risponde alla domanda: chi? e non alla domanda: che cosa? Essa costituisce, egli dice, “l’esistenza imparagonabile della natura”, cioè tutto ciò che, cosmo o società, può essere concettualizzato e manipolato, tutto ciò di cui si può avere la padronanza, oppure si può trasformare, tutto ciò che avete chiamato qui: la scimmia, il robot.
Ne facciamo quotidianamente esperienza, l’ossessione della limitatezza e della sconfitta spirituale si trasformano dentro di noi in odio e angoscia. Abbiamo bisogno di nemici per farne i capi espiatori di questo orrore segreto, abbiamo bisogno di vittime da tenere in nostro potere e di illuderci per un istante di essere degli dèi onnipotenti e immortali. Dannati dal nichilismo, ci distruggiamo con le droghe, ci disintegriamo nell’erotismo, ci crogioliamo nella derisione e nell’abiezione poiché tutto è niente, poiché, come dice il poeta, “la vera vita è altrove”, ma non ne conosciamo la strada.
Ma, se Cristo è risorto, se il battesimo, l’Eucarestia, le Scritture, l’icona, la preghiera ci rendono partecipi della sua resurrezione, allora, dentro di noi, a poco a poco l’angoscia si trasforma in fiducia, l’odio-amore e la schiavitù, compresa quella di una libertà folle e distruttrice, diventa vera libertà. Sì, siamo finalmente liberi perché ci scopriamo fondamentalmente amati, e per sempre, e perché possiamo amare a nostra volta, e per sempre. Diventiamo umilmente, pazientemente, operatori di comunione umana e di trasfigurazione cosmica. Mentre i potenti di questo mondo si arrabattono immobilizzandosi però assurdamente nell’equilibrio del terrore, noi elaboriamo con la tenacia dell’acqua e della formica i segni della civiltà della vita, dell’amore, della libertà responsabile e creatrice, tre sinonimi dopotutto! Dapprima impercettibilmente, in noi, attorno a noi, a rischio del martirio, un giorno, se Dio vorrà, sul nostro pianeta.
Vorrei terminare presentando tre brevi citazioni apparentemente molto diverse.
Dapprima questo grido di autentico amore: “Ti saluto, tu che sei il tutto”. In Cristo non siamo separati da niente, da nessuno. Ogni volta amato di un amore disinteressato ci rende la freschezza e la bellezza del mondo: nel primo giorno della Creazione, ed è a causa di ciò che noi siamo liberi, intendo della libertà di Dio.
Inoltre queste parole di M.L. King combattente realista, efficace ma sempre rispettoso del prossimo: “Non ci sarà soluzione al problema dell’oppressione finché gli oppressi non saranno in grado di amare i loro nemici”. Poiché nella lotta per la giustizia è necessario spezzare la catena dell’odio e della violenza: allora saremo liberi: voglio dire della libertà di Dio.
Queste parole infine, con le quali un santo russo del XIX sec. Serafino di Sarov, accoglieva coloro che incontrava; a ognuno diceva: “La mia gioia, Cristo è risorto!”. Perché se Cristo è risorto, non abbiamo più paura; qualsiasi uomo è nostro fratello, è la nostra gioia, e siamo liberi, voglio dire della libertà di Dio; della libertà che è amore, amore umile e creatore, della libertà che è Dio stesso, comunicato in Cristo, perché ora non si tratta più di una domanda, non si tratta più di un’attesa, si tratta di un’apertura alla Rivelazione: preghiera, gratitudine, celebrazione. Ricordatevi la fine dell’Apocalisse (sapete che il termine Apocalisse significa molto semplicemente Rivelazione): “Lo Spirito e la spada dissero: “Vieni!”. Che colui che sente dica: “Vieni!”. Che colui che ha sete venga. Che colui che lo vuole riceva l’acqua viva gratuitamente”.
ROCCO BUTTIGLIONE
Ringraziamo, ma voi avete fatto meglio di me, Monsieur Clément per questa esposizione, in cui la sapienza teologica riceve forza dal gusto poetico del linguaggio, e a sua volta lo illumina, in cui abbiamo visto la verità e la bellezza coincidere, in un richiamo dell’uomo al bene ed a se stesso. E passiamo adesso la parola a don Luigi Giussani.
LUIGI GIUSSANI
Io sono abituato a fare scuola; la scuola è composta di giovani, ma mai in numero così grande; perciò mi scuso d’avere osato accettare, dietro l’insistenza degli amici, a cui purtroppo, a un certo punto, non riesco mai a dir di no. Perciò più che una presunzione, la mia, credo che sia una debolezza. Ad ogni modo mi permettono di parlare come se fossi a scuola. Mi rivolgo perciò innanzitutto ai giovani o a quello che di giovane può restare anche negli adulti.
Il tema è grande, perché la libertà di Dio è la libertà dell’uomo. Ora, io ci tengo alla mia libertà; la libertà è un irrinunciabile: non esiste persona, non esiste un io, se non nella libertà. Quando l’uomo è capace di valutare e di giudicare ciò che compie alla luce di quello che in qualche modo riconosce come ideale, questo giudicare è libertà. Se l’uomo non fosse capace di questo, se fosse ridotto in condizioni da aver dettate le cose e perciò di non essere responsabile del giudizio che dà, che uomo sarebbe? E l’uomo deve essere anche, per essere persona, capace di aderire con la sua energia, realizzare un’affezione a ciò che identifica col suo giudizio. La libertà è capacità di giudizio ed è capacità di responsabilità. «L’uomo è libero davanti al suo destino»: è capacità di giudizio, cioè di paragone col destino nel proprio impegno d’uomo, e di affezione al proprio destino attraverso il giudizio che emerge dalla sua coscienza.
La libertà è qualcosa di irrinunciabile. Ma se l’uomo fosse l’esito contingente, effimero, di antecedenti puramente biologici; se fosse, secondo il vecchio paragone, quella goccia d’acqua bianca che, quando l’onda si frange contro lo scoglio, ne sprizza fuori brillando per un istante nella sua apparente libertà totalmente determinata da fattori materiali, meccanici; se l’uomo fosse totalmente derivato dai suoi antecedenti materiali; se l’uomo fosse totalmente ed esaurientemente derivato da suo padre e sua madre – perché padre e madre sono come il punto cruciale dove tutto il cumulo di antecedenti meccanici agisce –, allora tutto ciò che in lui accadrebbe, sia come apparente estrosità o genialità di giudizio, sia come affezione scelta, in ultima analisi sarebbe spiegabile da una osservazione, fosse possibile, capillare dei nessi, delle urgenze che lo spingono fin lì. Il catechismo di una volta diceva, con linguaggio ora certo dissueto, ma con una forza rivelatrice ed asseveratrice imponente, che l’uomo ha il corpo dai suoi genitori, ma «l’anima è infusa direttamente da Dio». A parte il linguaggio scolastico, ciò vuol dire che l’uomo ha qualcosa che non dipende dai suoi antecedenti, non è dato da suo padre e da sua madre: prima non c’era, prima di essere concepito nel seno di sua madre, non c’era, non esisteva; egli non deriva però totalmente ed esaurientemente da suo padre e da sua madre, ma in lui c’è qualcosa che è diretto rapporto con il Mistero che fa tutte le cose, con il principio di tutto, con l’origine di tutto, comunque sia definita. L’uomo non si esaurisce nei suoi antecedenti, ma la sua realtà ha qualcosa che non dipende, usiamo il termine abituale, che da Dio. In lui qualcosa è diretto rapporto con l’infinito, diretto rapporto con il Mistero. Per questo, solo per questo nesso con l’Infinito, con Dio, l’uomo può essere libero di fronte a tutto il cosmo, di fronte all’immane meccanismo del cosmo. In qualunque contingenza il flusso delle cose lo spinga, c’è sempre in lui la possibilità – come è stato detto prima dal professore Clément –, di una trascendenza, per cui può giudicare tutto il cosmo, e di una libertà, per cui nella stringenza delle occasioni può addirittura, col sacrificio e con la morte, scegliere, optare per qualcosa d’altro. Del resto, è uno dei pensieri più noti di Pascal quello in cui dice che, se tutto il mondo in un determinato istante si precipitasse addosso a me per schiacciarmi, io sono più grande di lui, perché io ho qualcosa che sfugge al nesso mortale e lo giudica, lo comprende [1] . È per questo che un’infinità di mondi – continua altrove – non vale il più piccolo pensiero dell’uomo, perché è di un ordine infinitamente diverso e superiore [2].
Ma dove sta l’unica ipotesi che possa spiegare questa libertà di coscienza o questa responsabilità personale verso il destino? L’unica ipotesi possibile è che nell’uomo esista qualcosa che non dipende dal meccanismo delle cose, ma solo da Dio. Allora l’uomo non può ricondursi integralmente alla sua istintività, non è una scimmia comunque evoluta, né può essere ridotto a robot per quanto evoluto, un meccanismo cioè determinato dal potere. Diceva Ungaretti in un suo saggio: «Non si ha nozione di libertà se non per l’atto poetico che ci dà nozione di Dio» [3]. Lui lo chiama «atto poetico», ma nella densità etimologica della parola esso indica la suprema espressività della ragione quando riconosce, coglie, declama il significato della totalità, il significato totale, il senso di tutto, là dove la ragione riconosce la realtà come costruzione unitaria, come disegno unitario, là dove scopre, appunto, Dio come il senso di tutto. Ma allora abbiamo questo paradosso: l’uomo, per essere libero, se vuole essere libero da tutto ciò che lo circonda, fino all’estrema boundary-line (linea di confine, N.d.C.) del cosmo, se vuole essere libero da tutto ciò che esiste attorno a lui nel mondo in cui è immerso, deve essere dipendente da Dio. È la dipendenza da Dio la libertà dell’uomo. Questa è l’unica ipotesi che credo possibile. Tale dipendenza da Dio rende l’uomo indipendente da qualunque potere. Perché la realtà meccanica di tutto il flusso da cui l’uomo fisicamente nasce, a livello umano, si chiama umanità; a livello concreto questa umanità si realizza come società; la società si organizza come Stato; lo Stato sono i potenti: allora l’uomo non potrebbe essere che manovrato dai potenti, senza quella grande ipotesi. Perciò la dipendenza da Dio, paradossalmente, ci salva dall’ottusità delle cose che si muovono come sassi dentro un torrente impetuoso e ci salva dalla scaltrezza e dalla intelligente fame e sete dei potenti.
Però voglio osservare che questa dipendenza da qualcosa che trascende la realtà è contenuto, in un certo vero senso, di una esperienza possibile a tutti: ai bambini no, ma all’adulto sì. C’è forse in questo determinato istante un’evidenza sperimentalmente più grande, più affascinante, più tremenda di questa, che non vi fate da voi? In questo istante non esiste niente di più profondo e tremendo e nello stesso tempo di più evidente per me, che non mi sto facendo io, l’essere non me lo do io. In questo istante ciò che è più mio è qualcosa che mi è dato. Dato: sono fatto! Se io dovessi usare un termine per riferirmi, personalizzando il rapporto, a questa origine, a questa sorgente del mio io in questo momento, dovrei dire: «tu che mi fai». Ed è per questo che la Bibbia chiama Dio «Padre». Ma lasciamo andare, per ora, il termine biblico. È una evidenza impressionante, forse perché da quando ero giovane è uno dei sentimenti che cerco di nutrire e di rinnovare più spesso, che in questo istante io non mi faccio da me; non c’è nulla di più mio, dicevo prima, di più profondo, di più esauriente: sono fatto, cioè sono dato (è un termine anche scientifico: un «dato»). Ma le parole nella loro densità etimologica rivelano più di quanto normalmente sembrano dire. Un dato. Drammatizziamo, o meglio, diamo un livello umano a questa parola «dato», che è già umana: diciamo che è un «dono». Non esiste una parola che in questo momento possa farmi esprimere più intensamente, più densamente, più devotamente, più ammiratamente questo fatto supremo che sta avvenendo in me in questo istante: che io sono fatto. È come se dicessi: «io non sono io, sono tu». Vale a dire, proprio nell’esperienza di questa dipendenza c’è la percezione dell’origine della nostra persona come pura gratuità.
Io sto abbordando il tema dal punto di vista della nostra esperienza di uomini. Da questo punto di vista, non credo che si possa dire qualcosa di più chiaro sul tema «libertà di Dio» che identificare la parola «libertà» con la parola «gratuità». Perché è come se questa parola – «gratuità» – toccasse fisicamente, sperimentalmente, la nostra vitalità di uomini: è la percezione della mia origine come pura gratuità. Che ragione c’era perché io fossi? Che ragione c’è perché io sia? Ragione? È dato! È fortunato chi non sente obiezione al sinonimo: è dono! Comunque, sono fatto, sono dato, sono un dono di Altro – di Altro –, che giustamente si nasconde dentro la parola «Mistero», a cui dico «tu» senza poterne conoscere il volto, senza poterne decifrare i tratti. Il premio Nobel Pär Lagerkvist, interessante per i suoi romanzi, ma anche acuto poeta, dice in una delle sue poesie: «Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco. ⁄ Uno sconosciuto lontano lontano. ⁄ Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia. ⁄ Perché egli non è presso di me. ⁄ Perché egli forse non esiste affatto? ⁄⁄ Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? ⁄ Che colmi tutta la Terra della tua assenza?» [4]. È giusto quello che dice Pär Lagerkvist: per l’uomo, più di così che dire? Che cosa poter dire? Con quell’interrogativo che non è logico, perché è un tremore ed è una debolezza, sensibile, diciamo irrazionale, perché è contro l’esperienza, ma ne è come una deficienza immanente, come un vuoto che d’improvviso subentri?
Ma quello che mi preme molto dire, in questo primo approccio al nostro tema, è che la libertà di Dio, vale a dire questa gratuità assoluta – il cristianesimo la chiamerà «grazia» – che è il mio esistere, il tuo esistere (non solo perché sei venuto all’esistenza, ma ora, ora, in questo istante: l’autocoscienza, per quel poco di trasparenza di cui essa sia capace, non può non vedere questo emergere starei per dire «indebito», vale a dire senza ragioni, l’unica ragione essendo il Mistero da cui emana, perché non si fa da sé, e non è esclusivamente e totalmente frutto di meccanismi antecedenti; infatti li supera, li trascende), la libertà di Dio costringe alla libertà l’uomo, costringe l’uomo a prender posizione. Perché? Perché di fronte all’evidenza del mio essere come dato, della mia persona come dato, come fatto, c’è un’alternativa, che si presenta non solo teoricamente, ma molto concretamente: è in questa alternativa che la libertà dell’uomo è costretta a porsi. Analogamente a quanto diceva il vecchio Simeone “brandendo” Gesù dalle braccia della Madonna, quando esclamò: «Questo bambino sarà come una divisione, una spada che divide, perché farà venire a galla il pensiero segreto dei cuori» [5]. Il pensiero segreto dei cuori di cui parla il vecchio Simeone è la posizione ultima dell’uomo di fronte all’Essere: questo è la libertà, che non si definisce tanto nelle decisioni clamorose che l’uomo prende durante il corso della sua giornata o della sua esistenza, ma nel chiaroscuro profondo, a quel livello semibuio e quasi impercettibile in cui prende posizione di fronte all’Essere, al reale, davanti a sua madre come a Dio, davanti all’oggetto più vicino come al mistero «lontano lontano» (diceva Pär Lagerkvist). È la scelta di fronte all’Essere: è come se uno potesse collocarsi di fronte alla vita, alla realtà, con gli occhi sbarrati, con la bocca aperta di un bambino (ma è un paragone evangelico), oppure col gomito di fronte alla faccia per proteggersi, come ancora fa il bambino quando la madre lo sgrida, quando ha un pericolo davanti.
O un’apertura verso la grande proposta della presenza ineliminabile del reale o un chiamare questa presenza al tribunale del proprio giudizio interessato (fin dove mi interessa e fin dove non mi interessa; se mi va bene o mi va male; se mi conviene accedere o mi conviene obliterare): questa è la vera e terribile e profonda e apparentemente inconsapevole scelta che l’uomo fa, di giorno in giorno, di ora in ora, anche se normalmente, poi, questa scelta assume una stabilità tragica o felice. Così, di fronte all’uomo «dato», all’uomo fatto dal Mistero, dal grande e misterioso «amico» (perché gli dà la vita, gli dà l’essere), di cui parlava Pär Lagerkvist, l’uomo può scegliere la ribellione; dico la ribellione all’esserci, la quale può tradursi anche, molto banalmente, in quella indifferenza dentro lo sguardo a sé, che fa in fondo essere estranea a se stessa la grande maggioranza delle persone (è un’indifferenza nello sguardo a sé dal punto di vista morale, perciò da un punto di vista responsabile), o come un risentimento per essere stati fatti, un risentimento perché si è fatti, perché si è o perché si è fatti così. Nelle antropologie, nelle concezioni dell’uomo che innervano il grande dramma della ricerca esplicativa che caratterizza la storia dello spirito umano, in genere sono tutte negative le interpretazioni sulla consistenza dell’«io», non dell’uomo come «umanità», ma dell’«io». Come in quella bellissima pagina dei Buddenbrook, dove Thomas Mann introduce il grande protagonista, e ultimo, di quella fortunosa famiglia, ricca e fino allora fortunata, Thomas. Egli è ormai il direttore di un immenso impero commerciale, ma deve lavorare 20 ore su 24, è esausto, ha esaurito le forze, si dà soltanto, normalmente, 10 minuti di sosta per prendere un po’ di respiro, sul mezzogiorno. In quei 10 minuti in cui si butta sulla poltrona immagina sempre, proprio per ricostruirsi e per riconfortarsi, quel momento in cui la sua goccia, l’io, Thomas Buddenbrook, si perderà nell’oceano, nel mare dell’essere, perderà i suoi connotati, non sarà più «io», ma si identificherà con l’essere . Questa pagina letteraria traduce un pensiero comune non solo alle filosofie dell’Estremo Oriente, ma in fondo anche a tutte le filosofie occidentali, non solo quella di Spinoza. Lo scetticismo con cui si guarda a se stessi paga il suo tributo regolare a queste negazioni, a queste ribellioni, a questi risentimenti.
Dunque, o ribellione o accettazione: accettare questo dato, accettare questo dono che io sono; allora, è come se, in qualunque ora, un simile livello di coscienza di sé, di autocoscienza, fosse capace di far ritornare dentro uno stupore originale che ha qualche cosa degli occhi con cui Adamo ed Eva debbono aver guardato il mondo la prima volta, che è lo stupore con cui realmente il bambino sa guardar la novità del reale. Io penso spesso: ma se, grottescamente, un bambino concepito nel ventre di sua madre potesse avere la coscienza dei 20 o dei 40 anni, che brivido di tenerezza, di stupore senza sosta, di appartenenza voluta, di gratitudine, non so come dirlo altrimenti, ma che profonda apertura lo caratterizzerebbe nel sentirsi nascere, venir fuori dalla realtà di sua madre, istante per istante, ed esserne alimentato, istante per istante! Ma quello che caratterizzerebbe di più l’esperienza in questo grottesco paragone sarebbe – avesse la coscienza dei 20, o meglio, dei 40 anni – l’assoluta gratuità. L’assoluta gratuità, lo abbiamo detto anche prima, è senza ragione. Ma qual è la ragione più grande che ci sia, se non la realtà? Se la libertà è riconoscere ciò che è vero, il vero è la realtà in quanto abbracciata, riconosciuta. L’origine, quello che chiamiamo «Dio», la libertà di Dio è questa totale gratuità per cui noi siamo («In Lui siamo, esistiamo, ci muoviamo» [7]). È come se io, in un determinato momento fossi colmo di gioia, di felicità, oppure di dolore e di nostalgia, e allora mi mettessi a cantare: il canto non aggiunge nulla a me, per modo di dire, ma è come una sovrabbondanza di quella pienezza che io sto vivendo. L’analogia è piena d’ombra fino, se volete, a far sorridere, però è come se realmente io fossi il canto di quella compagnia assoluta che è l’essere, come ci è stato ridescritto in modo così affascinante prima dal professore Clément.
Dunque, ecco la conclusione concreta, pratica: accettare il mondo e l’uomo così come la libertà di Dio li ha fatti, così come questa scaturigine di gratuità assoluta li ha formulati, accettarli con oggettività e secondo la totalità dei loro fattori: questo è l’atteggiamento che religiosamente diventa immediato, urgente. Per questo l’uomo religioso non ha assolutamente timore e tremore per nessun progresso, e attende con gioiosa e curiosissima attesa tutto quello che il Creatore ha collocato, come possibilità, nelle viscere di ciò a cui ha dato vita – senza paura di nessuna ipotesi di lavoro, purché sia sottesa da questa lealtà, da questo amore all’oggettività e da questa totalità. Del resto, nella storia della Chiesa ci sono degli esempi spettacolosi in questo senso. S. Agostino parlava delle rationes seminales [8], quasi che Dio avesse costruito il mondo, creato il mondo, semplifichiamo ulteriormente, come un seme, con dentro la potenzialità di sviluppo di tutta la complessità posteriore: sarebbe, come dire, un anticipo di 1.300 anni dell’ipotesi evoluzionista. S. Agostino certo non ne avrebbe avuto paura. S. Tommaso d’Aquino [9], nei suoi Quodlibetales, si poneva, 300 anni prima di Galileo e di Copernico, in pieno sistema tolemaico, prima di Dante Alighieri, la domanda: se la scienza scoprisse nel futuro che non è il sole a girare attorno alla terra, ma la terra a girare attorno al sole? E tranquillamente rispondeva che questo avrebbe potuto benissimo essere, perché non avrebbe toccato le intuizioni che fissano le categorie della filosofia profonda o della teologia ultima, in quanto sarebbe stata una verità appartenente a un altro livello. Si noti la larghezza di mente, l’apertura d’animo di questo “oscurantismo medioevale”, come ancora si osa definirlo, senza alcun paragone più aperto, coraggioso e spericolato nelle sue “ipotizzazioni” di tutta la cultura di oggi!
C’è una sola cosa che è insopportabile all’uomo religioso: l’unica cosa insopportabile all’uomo religioso è che, in nome della cosiddetta scienza, storia, biologia, psicologia, sociologia, eccetera, si riduca l’uomo, vale a dire si obliteri, si emargini o si risolva in altro quel fattore per il quale egli è libero, quel livello della natura in cui la natura diventa libera, immagine del Mistero che la fa, cosciente di sé, autodeterminantesi, libera. È contro questa riduzione che noi ci erigiamo, e basta! Diceva Ernst Bloch, agli inizi di questo secolo: «La scienza troppe volte racconta una infinità di piccole verità in funzione di una grande menzogna»; e la grande menzogna è quella che io ho chiamato «riduzione dell’uomo». Del resto, se la ragione è coscienza della realtà, e non a priori proiettato sul reale per costringerlo forzosamente a propri progetti, quindi a proprie fantasie; se la ragione è coscienza critica e sistematica della realtà; se la ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori, c’è, nella nostra esperienza di uomini, che è il punto di partenza della vita della ragione, qualcosa di più commovente e di più imponente che l’irriducibilità dell’io? Il mio io non si può ridurre ai 94 o più, come volete, elementi; il mio io, in tutta la storia e in tutta l’eternità non sarà riconducibile a nient’altro. Questa irriducibilitá dell’io, contenuto e cuore dell’esperienza di noi stessi, è la grande conferma o il grande riverbero di quella partecipazione diretta al Mistero che fa tutte le cose di cui abbiamo parlato. Al fondo, dunque, il rapporto con l’infinito, chiuso fra cose mortali: «Anche il cielo stellato finirà ⁄ Perché bramo Dio?» [10], diceva Ungaretti. E ancora questo brano dell’incerto Pär Lagerkvist: «Se credi in dio, e non esiste un dio, ⁄ allora è la tua fede miracolo anche maggiore» – c’è qualcosa di assolutamente misterioso in te; ma lo dice alla fine – «allora è davvero qualcosa di incomprensibilmente grande. ⁄ Perché giace una creatura nel fondo delle tenebre ed invoca qualcosa che non esiste? ⁄ Perché così avviene? ⁄ Non c’è nessuno che ode la voce invocante nelle tenebre. ⁄ Ma perché la voce esiste?» [11]. E la domanda è già la dirompente risposta. Noi ci ribelliamo esclusivamente alla riduzione di quello che è l’uomo: questo frutto o fiore della gratuità e della libertà di Dio vive di questa gratuità, vive tanto più quanto più la coscienza di questa dipendenza, di questa grazia di cui è immagine e segno, gli detta il sentimento del vivere.
la libertà di Dio – che erompe innanzitutto in quella gratuità per cui l’essere umano, l’“io”, l’uomo, tu, io esistiamo, e che si palesa, viene come a fior d’acqua nell’esperienza attenta dell’autocoscienza – abbia, con l’uomo che crea, dei “comportamenti” che occorre elencare, per comprendere di più che cosa sia. Ci sono nell’uomo-creatura due segni strani e corrispondenti: il primo segno è l’istinto di conservazione e il secondo è l’amor proprio, l’attaccamento a sé. Questo è il segno della positività della vita che Dio dà. La libertà di Dio crea dicendo (ma “dicendo” dentro la carne e le ossa dell’uomo, dentro il cuore dell’uomo, inscrivendolo fisicamente nel corpo e nel cuore dell’uomo): «la vita che ti ho data è come una promessa, e io la manterrò». Nella banalità, che non è più banalità, della loro presenza questi due aspetti dell’attaccamento a sé sono come l’impulso di parola, la prima parola che la libertà di Dio dice all’uomo: «ciò che ti do è positivo, manterrò la promessa». Pavese nel suo diario scrive: «Com’è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?» [12]; e non ebbe nessuno ad aiutarlo a dare la risposta, quasi ovvia: che questa attesa è la struttura stessa in cui l’uomo è stato formulato. Il primo segno che inerisce alla creatura che Dio crea è questa assicurazione di positività. L’attesa, nelle sue varie forme, dalla curiosità all’esigenza, è come la voce di questa positività, di questa promessa di positività, di questa assicurazione di compimento che è nell’uomo creato. Ma l’uomo trema, ha paura; anche di fronte a questo segno che porta in sé, trema e ha paura, tanto che così facilmente Leopardi può essere seguito, pur se non con l’intensità drammatica delle sue parole: «a me la vita è male» [13].
Per assicurare l’uomo, per confortare l’uomo a credere, ad aderire con la totalità della sua lealtà al segno che la libertà di Dio ha creato in lui e con lui, Dio si è coinvolto con l’uomo come esistenza e come storia. È entrato come un fattore, alla pari degli altri fattori, nell’esistenza storica dell’uomo, scegliendo dapprima un uomo e poi tutti i suoi discendenti, un popolo. L’idea di alleanza, che significa appunto questo coinvolgersi di Dio con la storia di quell’uomo e della sua discendenza, sottolinea non solo questo aspetto sorprendente e tremendo della libertà di Dio – che Dio si coinvolga con la vita dell’uomo come un fattore della sua vita –, ma anche che questa libertà usa un metodo per noi strano. Non dovrebbe essere strano, perché l’affezione, l’amore, i progetti che facciamo seguono anch’essi questo tipo di scelta! La categoria della «elezione» è parte integrante delle caratteristiche con cui la libertà di Dio si muove nella vita che ha creato; vi si coinvolge partendo da persone o da luoghi prescelti, preferiti diremmo noi, ma è una preferenza in funzione di tutto. Questo coinvolgimento della libertà di Dio con l’uomo tocca il vertice quando personalmente – personalmente! – Dio diventa compagno all’uomo. Il coinvolgimento del Mistero personale di Dio dentro una realtà umana, un uomo, Cristo: questo diventa il punto culminante ed evidenziante il significato di tutta la storia, cioè di tutto il disegno di Dio. La libertà vertiginosa di questo fatto investe non solo quel momento, ma tutta la storia. La sua presenza personale penetra tutta la storia, dentro la realtà degli uomini. E anche qui la categoria della elezione gioca: la libertà di Dio realizza la sua presenza attraverso degli uomini che la sua presenza ha cambiato, degli uomini cambiati dalla sua presenza. Il cambiamento di questi uomini diventa il segno di questa sua presenza, diventa il segno efficace di questa sua presenza. Diceva San Tommaso che l’Essere è là dove agisce. La sua presenza, la presenza del Dio fatto uomo si rivela attraverso questi uomini cambiati. Il segno adeguato di questo cambiamento è quella capacità di unità, agli uomini impossibile, che si chiama, con un nome intero, Chiesa: Paolo VI l’ha chiamata, in un suo discorso, «una entità etnica – cioè un popolo – sui generis» [14].
La libertà di Dio, nel generare questa sua presenza o questo suo «corpo» nel mondo, usa un modulo umano semplicissimo – ed è un’ultima caratteristica del comportamento della sua libertà con l’uomo creato. Come fa l’uomo ad accorgersi di quella presenza? Come fa l’uomo ad accorgersi di quel segno? La parola «incontro» indica la modalità originale con cui la proposta che Dio fa di sé, in Cristo, diventa esistenziale, cioè diventa persuasiva ed operativa per l’uomo. Così, attraverso l’apparentemente fortuito – che appare come fortuito perché l’incontro è un momento fortuito, non previsto, non creato, non progettato –, l’uomo si trova abbracciato e ad abbracciare la totalità, il Dio fatto Uomo, nel mistero del Suo corpo sensibile che è la Chiesa. Così, come l’istante è la soglia dell’eterno, un incontro resta funzione della partecipazione dell’uomo al disegno totale, funzione della totalità.
A dire il vero, non solo la libertà di Dio nell’uomo che crea afferma la positività dei suoi intenti nella natura stessa dell’uomo; non solo, per rafforzarlo nella titubanza e nella paura che l’uomo prova, Dio s’accompagna a lui nel cammino, iniziando una pedagogia universale attraverso l’amicizia con un uomo, Abramo, e un popolo che ne sarebbe disceso; non solo, arrivando al culmine espressivo, ad “esaurire” la sua infinitezza, in un certo senso, Dio personalmente diventa uomo tra gli uomini e vi rimane, creando, dentro il grande fiume dell’umanità, questa corrente che veicola il senso della totalità, perché veicola Cristo, [che è] la Chiesa; non solo la libertà di Dio utilizza come strumento di conquista dell’uomo alla verità la casualità dell’incontro, ma pone una condizione: la condizione è il dolore. La libertà di Dio come mistero creatore è soprattutto in questa parola che trova l’urto della domanda più drammatica e spesso anche resistente. Il mistero della Croce risponde a questa domanda, risponde con un fatto, perché Dio stesso lo abbraccia: se fosse un male il dolore, Iddio non lo avrebbe potuto abbracciare. Il dolore diventa la prova che sollecita la libertà dell’uomo ad esplicitare sempre più abbondantemente e chiaramente la sua partecipazione alla realtà di Dio. È la condizione, il dolore, perché la libertà dell’uomo si spalanchi sempre più a Dio e così realizzi la condizione perché la promessa della vita si compia. Il dolore è un’obiezione solo per chi non lo accetta; accettarlo, infatti, come condizione che la libertà di Dio pone, come mistero della libertà di Dio, è trasformarlo in grandezza, in pace e perfino in letizia, come dice San Paolo: «Sovrabbondo di gioia nel mio dolore» [15]. Ricorderò sempre, perché forse è stato nei primi tempi in cui ero prete, una donna che mi venne al confessionale dicendo: «Ho avuto due figli; mio marito è morto, uno dei figli è impazzito e ha ammazzato il fratello, e adesso è nel manicomio giudiziale». La chiesa era tutta nuda e spoglia, ma aveva un grande crocifisso dietro l’altare; e io, dopo qualche momento di silenzio (perché, che cosa si può dire di fronte a simili situazioni?), le ho detto: «Signora, si alzi e guardi il crocifisso che sta dietro l’altare, e se ha qualche cosa da obiettare glielo dica». La signora non si mosse, e dopo un po’ di secondi disse lentamente: «Ha ragione». L’ipotesi più razionale è ciò che rende più umano ciò che si fa, è ciò che spiega in modo più umano, e quindi rende più umano il comportamento che ne consegue. Questa è l’ipotesi giusta di fronte al dolore. Accettarlo in nome del Mistero, che lo fa come condizione del nostro cammino, è mutarlo: diventa grandezza, pace e letizia. Del resto, non è l’assenza di dolore che rende felici. «Proprio nel cuor del piacere scatta qualcosa d’amaro, che nello stesso godimento morde» [16], diceva Tito Lucrezio Caro nel suo De rerum natura. Non è l’assenza di dolore che rende più nobili, più umani, più compiuti, più leali verso il destino, come dice Eliot: «In tempo di prosperità il popolo dimenticherà il Tempio, e in tempo di avversità gli sarà contro» [17].
Quello che invece vorrei notare è che c’è un aspetto del dolore infinitamente più drammatico, tragico, doloroso: non c’è niente di più mordente, di più tendenzialmente umiliante, ma proprio di più doloroso nella vita, di quel dolore che si chiama il male, cioè il peccato. Il mistero del peccato originale, questa permissione del male che nel disegno della libertà di Dio è stata fatta così grandemente entrare nello svolgimento del cammino umano, ci fa toccare il fondo del paradosso che ai nostri occhi la libertà di Dio crea. Il mistero della libertà di Dio nel suo culmine sta proprio dirimpetto al nostro male, al peccato, e il culmine della libertà di Dio, più grande e più alto ancora della creazione, è la misericordia. La definizione che di sé ha dato il Dio vivente non è “il Creatore”, ma è Cristo, la misericordia. Il Padre lo ha trattato da peccato [18], Egli si è fatto peccato, ha preso i peccati di tutti noi… La misericordia: questa vittoria sulla morte dello spirito, questa vittoria sulla negazione dell’uomo! La vastità di questa parola, i confini verso cui questa parola si spinge non sono da noi pensabili. C’è una sola frase di S. Paolo che ci dà una misura: «Il Signore vuole che tutti gli uomini siano salvi» [19], e poi un’altra: «Per chi lo riconosce, tutto coopera al bene» [20], e il commento di S. Agostino è chiaro: «Anche il male» – per chi lo riconosce, per i Santi, per coloro che lo riconoscono – . C’è un solo peccato che non si può perdonare: il rifiuto consapevole, il peccato contro lo Spirito; il rifiuto consapevole: ma sembra un’ipotesi quasi impossibile! Perciò questa parola, oltre che definire il mistero di Dio più di qualunque altra parola, anche descrive, forse, un orizzonte così grande da essere totale.
Dunque, dico terminando, la libertà di Dio costringe alla libertà l’uomo, abbiamo visto prima, alla scelta; e l’accettazione implica l’adesione a tutte le caratteristiche che abbiamo enucleate brevemente. Ora, questo è l’imperativo della vita, l’umano nella vita: accettare la realtà così come la libertà di Dio l’ha immaginata e creata. Tutto è amore, tutto è grazia. «Tutto è amore» [21], diceva Santa Teresina del Bambin Gesù, e «tutto è grazia» [22], echeggiava Bernanos. La libertà è la capacità di affermare l’essere, è la capacità di affermare il reale. Per questo l’accettazione di ciò che Dio ha fatto, di ciò che Dio, il Mistero, ha creato – il Mistero che ci si è rivelato, che ha detto «io», «io sono la via, la verità e la vita» [23]; accettare ciò che in Cristo è stato creato, questa è la libertà dell’uomo. Affermare l’essere! Volevo soltanto dire, per concludere, che ciò educa a una cosa che è come non più esistente nella cultura e nell’educazione di oggi: educa alla totalità. La totalità è l’esigenza suprema della ragione e della libertà. Accettare la creazione della libertà di Dio, accettare la libertà di Dio nella sua opera gratuita, nella sua grazia, secondo tutta la gamma del suo svolgimento, accettare questo fa vivere nella totalità. Questo è anche il criterio supremo per giudicare noi di fronte a Cristo: la totalità, che non dimentica e non rinnega nulla. C’è un modo molto semplice per capire se una posizione sia errata, per capire l’errore: l’errore, presto o tardi è costretto a dimenticare o a rinnegare qualcosa. «Bisogna essere fedeli alla terra» [24], diceva Nietzsche: «bisogna essere fedeli alla terra», certo, all’esistenza terrena, ma nella totalità dei suoi fattori! Quando si legge, in un articolo apparso sul Corriere della Sera un po’ di tempo fa: «L’uomo completo non paventa la morte, al modo di chi è totalmente attaccato al sé particolare; l’uomo completo non si identifica con l’onda, che cerca d’opporsi al mare, ma si identifica col mare, in cui le onde eternamente si disfanno e rinascono», vien da dire: ma questa è pura immaginazione e fantasia, così contraria allo sguardo della ragione! È identico alla pagina dei Buddenbrook di Thomas Mann. C’è una cosa più evidente, nella esperienza della nostra realtà personale, un fattore più imponente di questo: l’irriducibilità del nostro io? Altro che onda che si sfascia, che si lascia andare nel grande mare, altro che goccia che si identifica con la totalità! L’«io»! Una spiegazione non può dimenticare o rinnegare nessuno dei fattori evidenti della nostra esperienza (a parte il fatto che questo rappresenta il fattore più teneramente vicino al nostro cuore, anche se è il più discusso dalla nostra stessa capacità di amare). Come è diverso quel Dio che conta i capelli del capo, come dice il Vangelo, quel Dio che dà peso eterno anche a una parola detta per scherzo, quella concezione dell’uomo che fa gridare a S. Paolo la formula culturalmente più rivoluzionaria, a mio avviso, di tutta la storia culturale mondiale: Omnis creatura bona, «ogni creatura è bene»[25].
Ma per accettare il disegno di Dio e lasciarsi educare a questa totalità occorre una strana virtù, che è l’umiltà. L’umiltà è fatta di due fattori in uno: il senso del proprio nulla (nihil sum sine Te, dice una preghiera medioevale, ma è ripetuta anche nel Veni Sancte Spiritus: niente sono senza di Te), e perciò l’assoluta assenza di ragione per qualunque pretesa, e nello stesso tempo una certezza baldanzosa nella grande promessa di cui si è costituiti e che si è resa oggettiva compagnia per tutta la propria vita e per tutta la storia dell’uomo. È soltanto questa umiltà che si lascia educare ad uno sguardo totalizzante, che non dimentica e non rinnega nulla; ed è solo in questa umiltà che è possibile la tolleranza, una convivenza tollerante, perché tutte le vie – tutte le vie! – appartengono al disegno di Dio. E perciò è in questa umiltà che l’uomo guarda all’esperienza di qualunque suo fratello con una simpatia che va alla ricerca di ciò che Iddio gli comunica attraverso lui. «Occorre accogliere l’ospite, il padrone – diceva Claudel –, colui che è più me stesso di me» [26]. La libertà di Dio si percepisce quasi come un viso che si veda solo in questa cosciente accoglienza. Allora non c’è più la possibilità che la libertà di Dio diventi obiezione attraverso i limiti per cui sembra farci passare; non son più limiti, sono sponde di un alveo, sono termini di un cammino, sono tutta positività, sono passaggio alla Resurrezione totale. Allora la libertà di Dio diventa una familiarità, una familiarità intensa, una familiarità così personale, una familiarità che la Bibbia non può altro che identificare, come immagine, nell’uomo e nella donna che si amano e che stanno camminando insieme, l’uno appoggiato all’altra, come dice il salmo: «A te si stringe l’anima mia e la forza della tua destra mi sostiene» [27]. Non più alternativa, ma la compagnia che permette all’uomo di essere sempre più se stesso. Questa è la libertà di Dio.
ROCCO BUTTIGLIONE
Ringraziamo don Luigi Giussani e Olivier Clément per questo momento straordinario che ci hanno permesso di vivere, un momento di alta cultura e insieme di grande densità esistenziale, dove la teologia diventa ricerca vissuta di Dio guidata dalla parola e dalla rivelazione di Dio. Su questa linea il Meeting continua.
[3] G. Ungaretti, «Ragioni d’una poesia», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1992, XCVI.
[4] P. Lagerkvist, «Uno sconosciuto è il mio amico», in Poesie, Guaraldi-Nuova Compagnia Editrice, Rimini/Forlì 1991, 111.
[8] Cfr. sant’Agostino, De Genesi ad litteram libri duodecim, IV, 33; IX, 17; X, 20. Cfr. anche sant’Agostino, Confessiones, XIII, 4; De Trinitate Dei, III, 8, 13; 9, 16; VI, 7, 8; De Civitate Dei, XI, 21; XII, 2.
[9] Cfr. san Tommaso, Summa Theologiae I, q. 32, art. 1, ad 2m; in lib. De Caelo et mundo I, 1,3; II, 1,17.
[13] G. Leopardi, «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia», v. 104, in Cara beltà…, BUR, Milano 1996, 69.
[14] Paolo VI, La proiezione dell’Anno Santo nell’avvenire della Chiesa, Udienza generale del 23 luglio 1975, in L’Osservatore Romano, 25 luglio 1975, 1.
[26] Cfr. P. Claudel, Vers d’Exil. «Invano sono fuggito: dappertutto ho ritrovato la Legge. Bisogna cedere infine! O porta, bisogna far entrare l’ospite; cuore fremente, bisogna accettare il padrone, ∕ Qualcuno che sia dentro di me più me stesso di me».