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LA LIBERTÀ DEI GENI: COMPLESSITÀ E CONTROLLO DEL GENOMA UMANO
La libertà dei geni: complessità e controllo del genoma umano
25/08/2011 - ore 11.15 Partecipano: Carlo Croce, Direttore del Dipartimento di Virologia Molecolare, Immunologia e Genetica Umana presso l'Ohio State University e del Comprehensive Cancer Center, Ohio State University; Pier Giuseppe Pelicci, Molecular mechanisms of cancer and ageing at IFOM-IEO Campus, Milano. Introduce Marco Pierotti, Direttore Scientifico dell'Istituto Nazionale Tumori di Milano.
Partecipano: Carlo Croce, Direttore del Dipartimento di Virologia Molecolare, Immunologia e Genetica Umana presso l’Ohio State University e del Comprehensive Cancer Center, Ohio State University; Mauro Ferrari, Presidente e Amministratore Delegato del Methodist Hospital Research Institute, Houston (Intervento Video); Pier Giuseppe Pelicci, Molecular mechanisms of cancer and ageing at IFOM-IEO Campus, Milano. Introduce Marco Pierotti, Direttore Scientifico dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano.
MARCO PIEROTTI:
Grazie per l’applauso preventivo. Allora, innanzitutto buon giorno, grazie per aver partecipato a questo incontro che si tiene con gli auspici di “Medicina e Persona” e voglio subito ringraziare il Presidente di questa associazione, Marco Bregni e Giancarlo Cesana che hanno voluto questo incontro. Subito una comunicazione, diciamo, di servizio sul programma: avete visto, era previsto un intervento del prof. Mauro Ferrari. Purtroppo, all’ultimo minuto ha avuto degli impegni a cui non poteva assolutamente rinunciare, ci ha mandato però, anche come segno della profonda affezione che lo lega a questo Meeting, dopo l’esperienza dell’anno scorso, ci ha mandato un video di circa 15 minuti che verrà mandato alla fine. I due relatori, che mi accompagneranno nella declinazione di questa tematica sulla libertà dei geni, sono qui alla mia destra: il professor Carlo Croce che è Direttore di Comprehensive Cancer Center della Ohio University degli Stati Uniti. Credo che tutti conosciate il professor Croce che è milanese di nascita, pochi lo sanno, ancorché romano di crescita, e, diciamo, statunitense di formazione professionale. Credo che anche lui spiegherà o dirà che questo non è affatto un suo tradimento dell’origine, perché ha mantenuto e mantiene strettissimi legami con la comunità scientifica italiana. Carlo ha ricevuto tutti i premi, per scaramanzia non diciamo quello che gli manca, diciamo che forse una delle cause di questa mancanza è anche legata alla sua non appartenenza a lobby che sono importanti anche nella scienza e decidono queste cose. Un altro aspetto della sua personalità interessante, che ha come tema comune il bello della ricerca, il bello della curiosità scientifica, il bello dell’arte: è uno dei più profondi conoscitori dell’arte pittorica italiana del ’600 e ’700 ed è anche collezionista di questa. Il professor Pier Giuseppe Pelicci è il co-direttore scientifico dell’Istituto Europeo di Oncologia. È uno dei cosiddetti golden boys della ricerca italiana. La nostra definizione di boys è abbastanza elastica, visto che i temi anagrafici in Italia sono leggermente più avanzati; scusa Pier Giuseppe se lo preciso, rispetto alle altre comunità scientifiche, comunque, è uno degli scienziati più rappresentativi del nostro Paese. Anche lui ha un curriculum di premi notevoli. E direi che quello che colpisce di entrambi è una genuina curiosità per il sapere, per svolgere e, in questo, cogliere gli elementi di stupore, quello che è la base della nostra vita, e corrispondentemente quelli che sono gli aspetti patologici della vita stessa. Questo accompagnato da una rigorosa onestà intellettuale: laddove anche possono non esserci coincidenze di idee con l’interlocutore, c’è sempre un massimo rispetto. Prima di passare la parola a loro due che vi declineranno il tema proposto, volevo fare un paio di considerazione sul tema stesso, nel contesto più generale del tema del Meeting. La certezza nella scienza o nella pratica scientifica: io credo che se si osserva la realtà, ci si accorge che anche per l’uomo comune la scienza spesso si presenta come una sorta di schizofrenia, ha dei deliri di onnipotenza e posso su questo citare un articolo dell’anno passato di Venter, il cui titolo stesso proclamava la creazione della vita artificiale in laboratorio. In realtà se si analizza questo lavoro, si scopre che di creato non c’è nulla, è solo una sofisticata operazione di assemblaggio di pezzi già creati, quindi non c’è una creazione ma c’è caso mai una grande opera di ingegneria genetica. I media sfruttano spesso (e questo sarà anche un mio ultimo commento) questo fatto di una sorta di mitizzazione della scienza, che poi cade clamorosamente in un relativismo, come quando per esempio l’importantissimo fisico Leonard Susskind, recentemente su Scientific America, sostiene che la realtà della natura è talmente al di là delle possibilità umane di afferrarla che non c’è possibilità per l’uomo di acquisire una vera conoscenza. Altro relativismo che accompagna questa affermazione, lo si coglie recentemente in un articolo di Boncinelli che commenta un lavoro di neuro fisiologi di Cambridge, i quali sostengono che ormai la nostra evoluzione è arrivata a un limite, che la nostra intelligenza non potrà più progredire, vuoi per motivi di massa cerebrale che per motivi soprattutto energetici, perché pur il cervello rappresentando il 2% della nostra massa corporea, consuma il 20% di energia. Ora questi sono probabilmente dei limiti che sono posti da questa continua fragmentazione di visione che pretende di spiegare il reale, separando scienza e fede, che invece John Polkinghorne, famoso fisico, cerca un attimo di ricomporre parlando di fede e di scienza come il nostro occhio, l’occhio sinistro e l’occhio destro: la visione completa l’abbiamo da una sintesi dei due. Per concludere rapidamente e parlando di fisica, la fisica si occupa dell’origine dell’universo, la domanda della scienza della vita riguarda l’origine della vita e dell’uomo. E uno dei capisaldi della visione, diciamo, più consolidata, che viene portata come il paradigma scientifico dell’evoluzione, è che noi siamo figli del caso e prodotti della necessità, cioè figli di mutazione dei geni, il prodotto di quei geni mutati che meglio si adattano a questo ambiente. Ora io credo, e sono a concludere, che i nostri due amici toccheranno questa questione della libertà dei geni e del limite che questa idea di caso pone. Voglio concludere ricordando, forse un po’ provocando, il concetto di caso. Il concetto di caso non è così scontato e quello che mi ha colpito anche recentemente, risentendolo, è quello che diceva don Giussani che assimilava caso… la parola più vicina a caso è avvenimento, e utilizzava questo per ricordare come quel passaggio di testimonianza di fede che lui ha avuto da sua madre, era in realtà il prodotto di un accadimento avvenuto 2000 anni prima, con la nascita di Gesù Cristo e con la sua testimonianza agli apostoli, i quali a loro volto hanno testimoniato questo avvenimento ad amici e altri amici nel corso dei secoli come un fiume che si ingrossa e arriva alla mamma, che trasmette al figlio questa testimonianza. Questo, e concludo, anche per dire che un altro dei punti che contraddistingue un po’ il relativismo dal nostro ambiente scientifico è una sorta di censura, per cui anche tra chi crede fermamente in certi concetti, in un ambiente scientifico sembra che parlare di Cristo, parlare della vita di Cristo, parlare della propria fede, non debba centrare con quello che è il mestiere del ricercatore. Vi ringrazio per questo e io passerei subito la parola allora a Carlo Croce per la sua relazione.
CARLO CROCE:
Quello che cercherò di farvi vedere è come certi preconcetti o certi dogmi nella scienza inibiscono di fatto il progresso della scienza. Voglio farvi vedere qualche evidenza di questo. Da quando sono in America, una delle cose che mi ha interessato agli inizi è stato di vedere se di fatto una malattia importante come il cancro è dovuta a delle alterazioni genetiche specifiche. E su questo tema abbiamo studiato all’inizio una malattia che è chiamata Burkitt’s lymphoma e abbiamo studiato questa malattia soprattutto perché nelle cellule maligne di questa malattia vi erano delle alterazioni cromosomiche che si vedevano nel cento per cento dei casi di questa malattia. Questa malattia è chiamata Burkitt’s lymphoma, è una malattia estremamente aggressiva di cellule che producono anticorpi, che soprattutto coinvolge bambini, ma può anche incorrere nell’adulto. A quei tempi queste alterazioni cromosomiche erano viste come un epifenomeno del processo neoplastico, non come la causa del processo neoplastico, e studiando questa malattia in collaborazione con Riccardo Dalla Favera, Marco Bregni e altri, abbiamo visto che, nel 100% dei casi di questa malattia, vi era una giustapposizione tra i geni delle immunoglobuline e l’omologo umano di un oncogene chiamato MYC. E questa è stata la prima dimostrazione che di fatto, in una mioplasia umana, una alterazione che si verifica durante la vita dell’individuo risulta nell’attivazione di un oncogene e nello sviluppo di una malattia neoplastica, dimostrando che di fatto il cancro, o almeno certe forme di tumore, sono dovute a alterazioni genetiche somatiche che si verificano durante la vita dell’individuo. E dopo questi, dopo questi risultati, abbiamo pensato che fosse possibile identificare geni coinvolti nel cancro, semplicemente guardando a delle alterazioni cromosomiche specifiche che si verificano durante la vita dell’individuo e dopo di che abbiamo scoperto un altro gene, che poi si è visto importantissimo, che io ho chiamato BCL2, che è coinvolto nel linfoma follicolare ma partecipa anche ad altre neoplasie. La cosa interessante di questo gene BCL2 è che funziona in una maniera totalmente diversa dai geni che si pensava causassero la malattia neoplastica nell’uomo. Si pensava che tutti i geni coinvolti nelle neoplasie avessero un effetto sulla proliferazione cellulare, mentre questo gene BCL2 rallenta il processo della morte cellulare, che è un processo fisiologico. Quindi questo gene BCL2 è il prototipo di geni che non coinvolgono la proliferazione, una regolazione della proliferazione cellulare, ma regolano la morte cellulare e questo gene inibisce la morte cellulare. Ora, abbiamo seguito questo tipo di studi per molti anni, e abbiamo identificato un certo numero di oncogeni e di oncosoppressori che partecipano al processo neoplastico. Un oncogene, per definizione, è un gene che deve essere attivato per partecipare al processo neoplastico, quindi potete pensare a un oncogene come all’acceleratore della vostra automobile: se premete l’acceleratore, la macchina va più forte. Nel caso che attiviate l’oncogene, la cellula può crescere più in fretta o – e questa è stata la dimostrazione col BCL2 – le cellule possono morire più in ritardo. Quindi si può avere un’accumulazione di cellule neoplastiche se questo processo di morte cellulare viene inibito. Poi abbiamo continuato questo tipo di studi per molti anni, fino a quando diversi anni fa abbiamo studiato una malattia, che è la leucemia più comune nell’uomo, chiamata Chronic lymphocytic leukemia o CLL. E nella CLL si vedono anche delle alterazioni cromosomiche specifiche, e quella che vedete più frequente, che si verifica nelle leucemie linfoidi croniche, è questa delezione del 13Q 1 4, che si verifica, almeno da un punto di vista cromosomico, nel 55% dei casi. E allora abbiamo cercato di vedere se riuscivamo a trovare un gene in questa banda 13Q 1 4, che è coinvolto nella leucemia linfoide cronica. E siccome queste delezioni, che si vedono in questi pazienti con questa malattia, sono molto grandi, abbiamo cercato di restringere l’area di interesse usando una tecnica, di cui non vi parlo, che è chiamata LOH. E usando questa tecnica siamo riusciti a trovare l’area del cromosoma che è coinvolta in questa delezione, che è presumibilmente coinvolta nella neoplasia, e abbiamo cercato in questa regione se i geni, che mappano in questa regione, sono specificatamente alterati nella leucemia linfoide cronica. Abbiamo lavorato su questo progetto circa 6 o 7 anni, ma nella regione critica non siamo riusciti a trovare nessun gene che fosse coinvolto nella leucemia linfoide cronica. E allora abbiamo cercato di mappare più precisamente dove questo gene sarebbe dovuto essere localizzato. E, non vi voglio annoiare sul metodo che abbiamo usato, abbiamo mappato, usando delezioni molto piccole e traslocazioni cromosomiche, precisamente dove questo gene sarebbe dovuto essere – dove vedete quella freccia verde – e in quella regione non vi era alcun gene. A quei tempi pensavamo che tutti i geni importanti nella biologia e nella medicina umana e di altre specie fossero geni codificanti e per proteine. E in questa regione, in questa regione che abbiamo definito, non vi era alcun gene codificante per una proteina. A quei tempi è stato scoperto che nel verme vi sono dei geni, che sono chiamati geni per il micro RNA, che non sono codificanti, ma questi erano studi sul verme. E allora abbiamo cercato di capire se questi geni del micro RNA fossero localizzati in questa regione cromosomica. E abbiamo trovato che di fatto due micro RNA, uno chiamato MIR 15 e l’altro MIR 16, mappano precisamente in questa regione e infatti queste alterazioni cromosomiche tagliano il precursore per questi due micro RNA, dimostrando che di fatto una malattia neoplastica dell’uomo fosse causata non da alterazioni di geni codificanti per proteine, ma con alterazione di geni che codificano per piccoli micro RNA. Questi RNA sono un piccolissimo… sono costituiti da 21 o 22 nucleotidi. Quindi abbiamo mostrato che di fatto un’altra famiglia di geni, che in questo caso non codificano per proteine, è coinvolta nel processo neoplastico. Dopodiché, dopo questa scoperta che ha dimostrato che una nuova famiglia di geni è coinvolta nel processo neoplastico, abbiamo mappato tutti i geni per i micro RNA e abbiamo visto che di fatto molti di questi geni per micro RNA mappano precisamente in regioni del genoma che vengono coinvolte nelle alterazioni cromosomiche in malattie neoplastiche dell’uomo, dimostrando che di fatto questi geni non sono coinvolti solo nella patogenesi della CLL, ma sono coinvolti nella patogenesi di tumori, di moltissimi tumori umani. Dopodiché siamo andati a dimostrare che di fatto, alterazioni nell’espressione di questi micro RNA, si verificano in tutti i tumori umani: da quello del polmone a quello del seno, a quelli del sistema gastrointestinale. Quindi questi micro RNA possono funzionare o come oncosoppressori – per esempio vengono persi o non vengono espressi, come il MIR 15 o 16 – oppure possono funzionare come oncogeni quando sono sovraespressi, come ad esempio il MIR 155. Alla fine, vedete, al fondo di questa diapositiva vedete una cosa che abbiamo scoperto tanti anni fa. Nel 1989, quando di fatto i micro RNA non erano stati scoperti, abbiamo clonato una traslocazione cromosomica 8 17 e abbiamo clonato al punto di rottura un gene che pensavamo che fosse un oncogene, che abbiamo chiamato BCL3. Ora però, dopo aver pubblicato questo lavoro, che forse non vi faccio vedere qui, dopo aver pubblicato questo lavoro, abbiamo sequenziato questo gene e abbiamo visto che non aveva quello che chiamiamo un Open Reading Frame, in altre parole, non poteva codificare per una proteina, per cui abbiamo abbandonato questo lavoro. Quindi a causa di questo preconcetto che tutti i geni importanti codificassero per proteine, non abbiamo seguito questa linea di ricerca e poi abbiamo visto che di fatto questo BCL3 era il gene per un micro RNA, che è chiamato MIR 142, che è espresso in tutti i lineaggi ematopoietici ad altissimo livello. Quindi se non avessimo, se non avessimo preso in considerazione questo preconcetto, avremmo potuto scoprire micro RNA molto prima di quando questi geni sono stati scoperti nel verme. Dopodiché abbiamo usato, abbiamo sviluppato una tecnica per vedere l’espressione globale di questi micro RNA in tessuti normali e in tessuti neoplastici e abbiamo visto che ciascun tipo di cellule e ciascun tipo di tessuto esprime un pattern specifico di micro RNA. Dopodiché abbiamo usato questa tecnica per vedere, per studiare malattie neoplastiche. Questo è uno studio di circa 50 leucemie linfoidi croniche. E la leucemia linfoide cronica si divide in indolente e aggressiva, e, come vedete qui, queste leucemie si dividono in due gruppi: un gruppo che vedete a destra, l’altro che vedete a sinistra. Uno identifica le leucemie linfoidi croniche aggressive, l’altro definisce le leucemie linfoidi croniche indolenti, quelle che possono non uccidere il malato. E quindi possiamo usare questo approccio nella diagnostica e prognostica tumorale. Ora, come possiamo dimostrare che di fatto questi micro RNA, che scopriamo dalla ricerca, sono di fatto coinvolti nel processo neoplastico? In questo caso studiamo un micro RNA che viene sovraespresso in certi linfomi umani, chiamato MIR155. L’idea era che questo micro RNA, che viene sovraespresso ad altissimo livello nei linfomi, fosse veramente la causa della malattia. Come possiamo dimostrarlo? Possiamo dimostrarlo creando nell’animale da esperimento la stessa situazione che vediamo nell’uomo. Quindi abbiamo creato un topo transgenico per il MIR155, dove si ha una sovraespressione di questo micro RNA nelle cellule che producono anticorpi. E come vedete, questa banda fortissima nera è l’espressione di questo micro RNA nelle cellule B, nelle cellule che producono anticorpi. Quindi, cosa succede a questi topolini che sovraesprimono questo gene per via di questo transgene? A questi topolini, come vedete, viene una milza molto grande, e la milza molto grande è dovuta a una leucemia. Infatti nel pannello A, B, C, vedete le milze di questi topolini a due, tre, quattro mesi, vedete che la struttura della milza è stata distrutta da cellule leucemiche e queste cellule leucemiche sono chiamate pre B, per il loro taglio di differenziazione. Quindi possiamo causare una malattia neoplastica nell’animale da esperimento disregolando lo stesso gene che vediamo disregolato nei linfomi umani. E questa scoperta può essere estesa alla terapia. Prendiamo una leucemia dell’uomo che causa un tumore, quando la iniettiamo in un topo immunosoppresso, come il topo nudo che vedete lì a destra, possiamo sopprimere completamente la crescita di questo tumore, introducendo un anti micro RNA in endovena a questi topolini. Ciò ci può far vedere come possiamo usare nel futuro, micro RNA se sono sottoespressi, o anti micro RNA se sono sovraespressi, nella terapia dei tumori umani. Quindi questo tipo di ricerca, che non sarebbe stata possibile attraverso dogmi, come quello che tutti i geni importanti devono essere geni codificanti per le proteine, ha dimostrato che una nuova classe di geni non codifica per proteine, ma regola l’espressione di altri geni – perché questi micro RNA regolano l’espressione praticamente della grandissima parte dei geni del nostro menoma – e possiamo utilizzare la disregolazione di questi micro RNA per la diagnostica e prognostica tumorale. Vedrete che nei prossimi due o tre anni riusciremo anche ad usare questi micro RNA o anti micro RNA nella terapia delle malattie neoplastiche per l’uomo. Grazie infinite per la vostra attenzione.
MARCO PIEROTTI:
Grazie Carlo. Credo che la tua storia del BCL3 sia quasi paradigmatica per quel concetto che dice che tanta osservazione porta alla verità e tanto ragionamento porta alcune volte a conclusioni errate. Detto questo passerei allora la parola a Pier Giuseppe Pelicci per il suo tema.
PIER GIUSEPPE PELICCI:
Grazie mille Marco e buongiorno a tutti. Quando Marco mi ha invitato a partecipare a questo Meeting ho accettato con molto entusiasmo. Quando poi mi ha detto qual era l’argomento, Libertà dei geni, l’entusiasmo si è un pochino ridotto per due motivi, perché intuitivamente, immediatamente non capivo, uno, cosa c’entrasse la libertà con i geni, e soprattutto, ove c’entrasse, che c’entrassi io con la libertà dei geni. In realtà, riflettendo – non potendo poi dire a Marco che non sarei più venuto -, ho pensato che effettivamente no, è sbagliata, è una reazione non corretta, nel senso che i geni hanno, secondo me, o meglio, la nostra comprensione della funzione dei geni ha una implicazione, o può avere una implicazione molto importante per quello che riguarda la nostra percezione, come individui e più in generale come specie, della libertà. Quindi quello che ho pensato di fare oggi e di condividere con voi sono alcune riflessioni che girano intorno a questa domanda: è proprio vero che quello che siamo, e quello che saremo, e quello di cui ci ammaleremo, è scritto nel nostro DNA, come sembra emergere dallo studio dei geni e dalla genetica, soprattutto nell’ultimo decennio? Questa è la riflessione che vorrei condividere e lo farò prima riassumendo rapidamente in che misura effettivamente quello che abbiamo compreso, ed è tanto, ci può indurre a pensare in questo modo, e dopo condividendo con voi alcune scoperte scientifiche recentissime che, a mio avviso, suggeriscono che ciò non è il caso e che non c’è limitazione nella nostra libertà, per quanto di già scritto c’è sin da quando nasciamo. E che anzi è verosimile che tutta l’evoluzione si basi anche su altre dimensioni, che invece forniscono e danno un ruolo molto più importante alle scelte che l’individuo, all’interno della specie, opera rispetto all’ambiente. Userò come esempi cose che mi sono familiari, perché così almeno giustifico il fatto che sono qua, e quindi uso cose che fanno parte un po’ del mio bagaglio di cultura scientifica. Nell’ultimo secolo indubbiamente la genetica molecolare, lo studio dei geni – genetica significa di fatto studio dei geni – ha portato avanzamenti nelle nostre comprensioni della biologia della vita che sono straordinarie. Tutto è iniziato negli anni ’50 con la definizione da parte di Watson e Crick della struttura del DNA e soprattutto negli anni ’70 con l’esplosione dell’ingegneria genetica, cose che hanno aiutato a comprendere un grande paradigma, e cioè che l’informazione genetica sta tutta in un pacchetto che noi chiamiamo gene. Quel gene è tutto ciò che è necessario per codificare un carattere. Un carattere, per esempio in un fiore, è il colore dei petali. Quindi un gene, un carattere. Questo ha rivoluzionato il nostro modo di approcciare lo studio della vita, ci ha permesso di capire e di dare una sostanza scientifica alla teoria dell’evoluzione di Darwin, perché l’ha spiegata, e ci ha poi condizionato e ha avuto delle implicazioni anche pratiche straordinarie. Cito una delle applicazioni che più ha toccato l’interesse della società e anche del pubblico e cioè che il paradigma per ogni carattere c’è un gene, che è l’unità informativa, si è trasferito anche alle malattie, per ogni malattia c’è una mutazione, dove per mutazione si intende l’alterazione di un gene: quindi un gene sano, un carattere sano, un gene malato, una malattia. Sembrano concetti banali ma hanno cambiato radicalmente il modo di pensare e di vedere, e hanno fornito strumenti straordinari, per esempio per combattere malattie, che testimoniano il fatto che erano corretti, tanto è vero che la loro applicazione è stata vincente. Per esempio, nel campo dei tumori, si è scoperto che alcuni tumori, alcuni Carlo li ha accennati, hanno una piccola variazione in un gene che fa una piccolissima modificazione in una proteina, la quale può essere usata come bersaglio per farmaci specifici. Questo è intuitivo: se il tumore è dovuto a un gene che ha un’alterazione particolare, se uno fa un farmaco contro quell’alterazione particolare, uccide il cancro, non tocca le cellule normali che non hanno quell’alterazione. Semplice, funziona. Funziona, esistono delle grandissime storie di successo che hanno aperto la strada a queste nuove terapie del cancro. Questo lo cito per dire il grande passo in avanti, i grandi risultati. La situazione è chiaramente molto più complessa: pochissimi sono i caratteri che sono controllati da un solo gene. La maggior parte dei caratteri sono controllati da decine, se non centinaia, di geni e non solo, centinaia di geni che interagiscono con altre centinaia di geni. Purtroppo la maggior parte delle malattie non è causata dall’alterazione di un singolo gene, ma è caratterizzata dall’alterazione di molti geni. Nel cancro, ad esempio, più di mille sono i geni che possono essere coinvolti, in ogni tumore ce ne stanno centinaia di geni alterati e ogni tumore è sostanzialmente diverso da un secondo tumore, da un altro tumore. Quindi fase di grande eccitamento, di grande avanzamento, di grande storia di successo. Raggiunto rapidamente il limite, perché c’è una complessità che riguarda la maggior parte dei caratteri e la maggior parte di malattie, ma contemporaneamente c’è stato un altro balzo in avanti straordinario, che, anche questo, ha raggiunto la società, perché se ne è parlato in tutti i giornali: all’inizio del nuovo millennio, la scoperta della sequenza del genoma umano. Cioè, per capirci, quei geni di cui parlavamo, quelle informazioni genetiche, io ho basato la mia carriera per studiarne uno, in tutto sono 30-40 mila, forse di più, 30-40 mila come me per raggiungerli tutti, in una botta sola tutti i 25-30 mila, quanti sono. Questa è la sequenza del genoma umano. Questo avrebbe significato non molto se non ci fosse stata insieme una grande rivoluzione tecnologica, che ha consentito di poterli studiare tutti contemporaneamente. Voi pensate che per sequenziare il genoma umano ci sono voluti una ventina d’anni, milioni di dollari di spese complessive. Oggi si può pensare di farloe in qualche settimana con qualche migliaio di euro. Tutto è successo in dieci anni. Ecco, questa esplosione ha avuto degli impatti enormi sulla medicina, si chiama genomica questa nuova disciplina, che ha portato e sta portando a migliorare la diagnosi, a far sì che si scelga il farmaco appropriato, che si possano sempre più identificare i rischi genetici di malattia: se una donna ha un tumore al seno si può sapere se quel tumore è dovuto a cause genetiche, se le figlie hanno rischio di sviluppare lo stesso tumore ecc. E negli ultimi anni, i giornali sono stati pieni di annunci di scoperte mirabolanti rispetto alla capacità di comprendere quanto dei caratteri, siano essi caratteri di normalità o malattia, siano legati a specifici geni e quindi possano essere riconoscibili nelle persone. Io ho elencato alcune scoperte che sono state annunciate nei giornali con enfasi, tipo la scoperta del gene dell’omosessualità, la tendenza all’avventura, questa è molto recente, i geni della timidezza, della schizofrenia, piano piano si pensa di avere in mano i geni dell’obesità, i geni del diabete, i geni eccetera eccetera. Tutto questo ha creato delle aspettative. Ha creato delle aspettative che in parte dipendono dalla modalità con la quale noi abbiamo visto questa rivoluzione, ma la vera e propria rivoluzione è che la frequenza di nuove informazioni che ogni giorno abbiamo, è inconfrontabile con quella dei precedenti trent’anni, e anche un po’ il modo con cui vengono presentate, che forse riflette anche un’esigenza da parte della società di conoscere. Io ho riportato – io sono un po’ miope, da qui non lo vedo bene – una frase di un articolo di una delle riviste più prestigiose, che all’inizio degli anni 2000 prevedeva che la sequenza del genoma avrebbe consentito, per ogni persona, di sequenziare il genoma, il DNA, di metterlo in un supercomputer, far partire un programma… Questa è futurologia, e potrebbe mandare un film dove uno vede cosa diventerà un uomo con quel DNA, in termini di altezza, di peso, di colore degli occhi… Ricordo che citava capacità, attitudini musicali, o altri, altri caratteri. Ecco la domanda, appunto, che vorrei rapidissimamente commentare è: è veramente così? Siamo proprio sicuri che, sia in termini di carattere che di malattia, noi siamo quello che ci portiamo dietro come regalo della nostra storia pregressa, cioè del nostro DNA? Credo di no. Volevo citare un paio di esperimenti che, secondo me, fanno vedere che in realtà esiste un’altra dimensione che regola fortemente l’espressione dei nostri geni e che probabilmente influenza il patrimonio genetico in maniera tale che questa influenza sia trasmissibile, e che è ipotizzabile che possa avere avuto un ruolo durante l’evoluzione, ed è il tempo e l’ambiente. Vi cito questo esperimento che, secondo me, è molto interessante e che dà una dimensione diversa del ruolo del mutante, cioè dell’alterazione genica rispetto al ruolo dell’ambiente nel determinare dei caratteri. Anni fa, noi identificammo una mutazione, appunto un’alterazione in un gene, il gene si chiama P66, che nel topo – esperimenti come questi si possono fare solo in questi animali – aumenta la vita media dei topi di circa un terzo e riduce la severità e l’incidenza di malattie dell’invecchiamento, comprese sia le malattie degenerative che il cancro. Bingo! Un gene che da solo, mutato, allunga la vita e non ci fa ammalare. Questi esperimenti vengono fatti all’interno, come potete immaginare, di stabulari, di zone molto controllate. Questi topi non è che li teniamo liberi di girare, sono ambienti in cui la temperatura è costante, in cui l’alternarsi della luce e del buio è fissa, il cibo è a disposizione. Stanno come signori questi topi. Ecco, in quelle condizioni questa mutazione allunga la vita e riduce malattie. Ci siamo chiesti cosa succedesse se quegli stessi topi fossero messi in una condizione naturale. Esiste uno stabulario, uno solo al mondo, in Siberia, che invece è all’aperto, quindi gli animali possono vivere in condizioni wild… come si dice, in condizioni naturali per l’appunto: c’è l’inverno, c’è l’estate, nevica, c’è il sole, ecc. Ecco, in queste condizioni gli animali, che nella stabulazione normale, in hotel, vivono un terzo in più, vivevano due o tre mesi e poi morivano, rispetto agli animali normali che invece non solo sopravvivono all’inverno, ma si riproducono, infatti il numero degli animali cresce nel tempo. Quindi la stessa mutazione, in una condizione ambientale allunga la vita e riduce la frequenza di malattie, in un’altra situazione ambientale causa morte: è una bella differenza. Adesso, come fa l’ambiente a influenzare così pesantemente l’attività di un gene e come fa l’attività di un singolo gene a influenzare in maniera così importante la durata della vita, eccetera? Su questa seconda domanda andrò rapidissimo, perché è tecnica. In realtà non è così strano: noi abbiamo, noi e tanti altri laboratori, scoperto che la durata della vita è controllata fortemente dalla disponibilità del cibo: esistono delle vie genetiche, dei geni, che sono sensibili alla quantità di nutrienti, di glucosio, di carbonio, o in generale di calorie che noi assumiamo. E questo gene in qualche modo regola queste pathway. Ora da un punto di vista concettuale, questo è molto facile da capire: durante l’evoluzione, non essendoci i supermercati, il cibo c’era quando ci poteva essere, quindi l’evoluzione è tutta basata sulla capacità dell’animale di adattarsi alla presenza e all’assenza di cibo che fluttua – il leone mangia una volta al mese – e quindi ad adattare l’organismo in maniera diversa alla disponibilità di cibo. E infatti quello che succede è che quando c’è cibo, si attivano diverse vie genetiche, le quali… scusate, quando non c’è cibo – in questo caso nella diapositiva – si attivano certe vie genetiche, che portano sostanzialmente a una sorta di metabolismo ibernato che ha un senso logico profondissimo, che significa: “fermi tutti! Non c’è da mangiare, risparmiamo perché la riproduzione va posposta”. Ma questo è un meccanismo che allunga la vita, la allunga davvero, la mutazione di tutti quei geni prolunga la vita dal lombrico fino ai mammiferi compresi. Quando c’è molto cibo, succede tutto il contrario, il metabolismo è tutto switchato verso l’uso e il tempo diventa invariante: in natura si muore per predazione, non si muore per vecchiaia. Ecco, questo è un esempio interessante, perché ci sta dicendo sostanzialmente che siamo noi che siamo liberi, con la scelta che facciamo sull’ambiente, di determinare l’attività dei geni che ci siamo portati dietro. Dietro abbiamo dei geni che sono capaci di gestire questa situazione, noi siamo capaci invece, con le nostre scelte, di modificare l’attività di questi geni. Faccio degli esempi. Queste pathway di cui ho parlato sono facilmente manipolabili. Caloric restriction: mangiando meno, in tutte le specie su cui è stato testato, si allunga la vita e diminuiscono le malattie. Ultimo, un lavoro bellissimo su Science, uscito un anno e mezzo fa, esperimento durato trent’anni, in Wisconsin: nelle scimmie funziona uguale, funziona anche nell’uomo, mangi meno, vivi di più. Questa è una scelta deliberata che uno può fare, di modificare l’ambiente che attiva quelle pathway. La caloric restriction non funziona se c’è una mutazione in uno di quei geni. Lo si può fare mangiando molecole, cibi che contengono molecole che agiscono su alcuni di questi geni o con farmaci. È uscito un lavoro su Nature, anche questo un anno fa. E questo è un gruppo americano che ha dimostrato che la rapamicina agisce su uno di questi geni e mima esattamente la restrizione calorica o il knock-out di P66, o di altri di questi geni, prolungando le vite e riducendo le malattie. Oppure possiamo fare la scelta deliberata, che è quella che come specie stiamo facendo, che è quella di aumentare le calorie e prendere la strada di quella che chiamiamo sindrome metabolica, per attivare queste pathway, quindi accorciare la vita aumentando il rischio di cose eccetera. Come, e ho finito, meccanicisticamente questo succede? Cioè come è possibile che esista un livello diverso che agisce sulla funzione dei geni e che possa, è la cosa importante, essere trasmesso? Ora, il DNA non è tutto. Perché funzioni il DNA, deve funzionare tutto quello che c’è intorno, che sono delle proteine, che insieme, tutte insieme, si chiamano cromatina, che è come se fosse l’involucro del DNA. Questo è quello che fa funzionare il DNA. Ora, la cromatina non è altro che una piattaforma di trasduzione di segnali che vengono dall’esterno, non c’è niente che si modifica in cromatina che non sia sotto il controllo di una pathway, di un qualche cosa che viene dall’esterno, quindi è come se fosse un contatore di modificazioni dall’esterno. Si chiamano, vengono chiamate in alcune circostanze epimutation, epimutazioni, queste modificazioni della cromatina come conseguenza dell’ambiente, del tempo o del cibo stesso. E la cosa straordinaria è che queste modificazioni della cromatina, che sono segni dell’ambiente, e quindi diverse a seconda dell’ambiente, sono trasmissibili da cellula a cellula e, cosa ancora più interessante, sono trasmissibili anche attraverso le generazioni, fino a quattro o cinque generazioni. E gli individui differiscono per questo tipo di modificazioni. Il nuovo lavoro, bellissimo, di tre settimane fa, su Science, fa vedere che il 5% della struttura della cromatina è diversa da individuo a individuo ed è stabile nel tempo. La cromatina viene influenzata dall’esterno, modifica l’attività dei geni ed è trasmissibile e quindi è verosimile che essa possa rappresentare un livello aggiuntivo sul quale si è evoluta la specie, compresa la nostra specie. Sicuramente ci indica che possa essere il substrato attraverso il quale l’ambiente può influenzare i geni e quindi lo stato di salute o di malattia. Questo ora è percepito come un grandissimo vaso da aprire, da scoprire, ed è appena partito un consorzio, che è la continuazione del consorzio Genoma Umano, il consorzio Epigenoma, che ha come obiettivo quello di sequenziare non più un genoma ma un epigenoma, per creare le basi per poi poter finalmente non solo sapere che l’ambiente influenza i nostri geni ma anche sapere come questo deliberatamente possa essere controllato. Grazie per la vostra attenzione.
MARCO PIEROTTI:
Grazie Giuseppe. Quando mi hai raccontato la prima volta queste storie dei topi, poi hai fatto un commento che voglio qui riportare: forse questo ha significato la fine della dittatura del genoma, nel significare che il genoma è solo metà, probabilmente, delle spiegazioni. La questione dell’obesità è talmente importante che questa settimana il Direttore Harold Varmus del National Cancer Institute americano ha lanciato una campagna contro l’obesità come una delle prime cause di malattia. Come vi avevo detto, appunto, Mauro Ferrari non è potuto venire, però ha mandato un video. Quindi io adesso inviterei la regia, se possibile, a passare il video del professor Ferrari. Grazie.
MAURO FERRARI: (video)
Cari riminesi, mi dispiace moltissimo non essere con voi. In realtà Rimini per me, l’anno scorso, è stata una chiave di volta letteralmente della mia vita e vi racconterò un istantino perché. Però partiamo dall’inizio: purtroppo, come dico, mi dispiace non poter essere con voi. Ci avevo contato fino all’ultimo momento, ma poi alla fine, come si dice in Italia, per impegni istituzionali, non di quelli di cui si parla di solito, non ho potuto unirmi a voi.
Allora grazie per l’invito, grazie per l’occasione, nuovamente, di portare alcune misere considerazioni al vostro, al vostro cospetto. Il tema che mi è stato assegnato, che è stato assegnato alla sessione, è quello della libertà dei geni. Io non sono un gene; al limite sono una proteina. Se dovessi scegliere il tipo di proteina, sarei probabilmente più un ormone che altro, e appunto sono qua a presentarvi alcune ormonate. Una cosa importante che dicono i friulani per quanto riguarda la libertà è la seguente. C’è un libro che è uscito di recente, intitolato Libars di scugnì la, che vuol dire, tradotto liberamente, liberi di dover andare. La storia del Friuli è una storia di emigrazione, è una storia di invasioni, naturalmente – più invasioni di quante ci siano etnie ostili, credo, nella storia del Friuli – ma è certamente una storia di emigrazione. Io sono un emigrato sui generis: da 27 anni sono negli Stati Uniti. Certamente emigrato in circostanze molto diverse da quelle dei miei predecessori friulani, di massima, un’emigrazione fortunata in tanti modi, che ormai è da 27 anni che mi porta qua negli Stati Uniti. Libars di scugnì la, dicono i friulani, liberi di dover andare. Dove sto adesso, a Huston, la città, la popolazione della città è il triplo, se non il quadruplo, di quella del Friuli. Sono all’interno di un centro medico dove, diciamo, il numero dei dipendenti del centro medico è quasi il triplo della città di Udine, capitale appunto del Friuli; e quindi sono dimensioni diverse. Ci occupiamo di medicina in maniera molto innovativa, integrando prospettive diverse – quelle che sono puramente biologiche di scienze di base – con tecnologie avanzate (la nanotecnologia è la cosa di cui vi ho parlato l’anno scorso), la robotica, l’informatica, la matematica e molte altre cose; crediamo di essere all’avanguardia in questo settore. Facciamo parte di un ospedale, di un sistema di ospedali Methodist cosiddetto, che è uno dei principali ospedali del mondo. Quindi, gran fortuna essere qua, gran piacere essere qua e grandissimo privilegio potervi parlare del tema della libertà di dover andare, tema, caro, appunto, ai friulani.
La libertà del dovere, non solo di dover andare, ma di dover fare, di doversi mettere al servizio, di doversi reinventare. In che senso? Primo tema è la libertà di dover andare. Spesse volte sono stato accusato, o diciamo mi è stata presentata la tematica del problema etico che si presenta a chi come me va a fare la scienza altrove, va a fare l’emigrato appunto in altre zone, in altri territori al di fuori dei confini patri. Il problema che viene posto è se si tratti, appunto, di violazione dell’obbligo etico di aiutare la propria comunità. Io a questo rispondo dicendo che, secondo me, se c’è la possibilità di fare una differenza per i nostri fratelli e sorelle in senso biblico, è nostra responsabilità mettersi nella condizione di fare la differenza maggiore, massima, di maggiore beneficio possibile. E se questo richiede spostarsi altrove, con i sacrifici e i benefici che derivano da questo, credo che sia importante che ascoltiamo il richiamo, il richiamo del senso del dovere in tanti modi ed è in questo senso che, sebbene sia negli Stati Uniti da 27 anni, non mi sento, devo dire, forse mi sto facendo degli sconti non dovuti, indebiti, però non mi sento in nessun modo un traditore della patria. Mi sembra di fare quello che si può; bisogna sempre fare quello che si può e gli strumenti che ho a disposizione qui, negli Stati Uniti, sono stati storicamente strumenti certamente molto importanti, difficili da reperire altrove, in Italia, da qualsiasi altra parte.
Libertà di dover andare, ha una seconda dimensione. E di nuovo ha a che fare con il concetto di servizio alla comunità nel senso più vasto possibile. La mia formazione è mista e poco chiara, complicata e confusa, segno appunto del fatto che non sono un gene – i geni, in qualche modo, sono a struttura logica, sono il programma, se vogliamo, della vita – in questo senso non mi sento un gene; mi sento più una proteina che va e fa e quello che succede… soprattutto un ormone che catalizza reazioni in qualche modo, quella cosa che credo mi capiti di fare più spesso. Allora non sono un gene, non avevo programmato niente. Ho cominciato studiando matematica, in realtà prima ancora ho studiato astronomia; poi sono finito a matematica; in qualche modo mi sono trovato nell’ingegneria quando sono andato a Berkeley; ed ero soprattutto all’interfaccia fra diverse forme di ingegneria e di matematica, in particolare della fisica matematica che aveva a che fare con l’evoluzione dell’universo. A un certo punto, l’incontro col dolore, l’incontro con la morte – che è un incontro che purtroppo fa parte della esperienza terrena di tutti, e non c’è modo perché sia altrimenti -l’incontro col dolore forte, mi ha fatto capire, all’improvviso, che occuparmi di cose, di esperimenti su scala cosmica, che richiedevano 800 milioni di anni per sapere la risposta, in qualche modo non mi interessava più. Mi interessava occuparmi della questione della radice del dolore e della morte, delle questioni mediche in particolare, di cancro in particolare, perché questa era la cosa, l’esperienza che avevo avuto nella più prossima vicinanza del cuore e dello spirito.
Il problema tecnico, naturalmente, stava nel fatto che non ne sapevo assolutamente niente, che può qualche volta essere un impedimento ma che, e secondo me questa è la libertà di dover andare, ci porta a riconoscere che, alla fine, quella è una considerazione tecnica, perché ognuno di noi porta quello che ha: chi ha in tasca un sasso, chi ha un bastone, chi altri strumenti; ma quando si tratta di andare in guerra per la causa comune, quello che si ha bisogna tirare fuori e utilizzare. Io sapevo un po’ di matematica, un po’ di fisica, un po’ di tecnologie, in particolare di tecnologie del piccolo. Non c’era il nano ancora, c’era il micro. E abbiamo detto: questo abbiamo, lo mettiamo sul tavolo e vediamo un po’ cosa si può fare. Secondo me questo è un senso – indipendentemente da come l’ho fatto io; probabilmente l’ho fatto malissimo – ma in generale, secondo me, questo è un importante significato, un’importante missione; ognuno di noi ha delle cose diverse, ha delle capacità diverse, degli strumenti diversi, ha delle conoscenze diverse, ma il fatto di essere fatto in un modo o in un altro, di sapere alcune cose o alcune altre, non deve influenzare, secondo me, il risultato finale o il significato fondamentale di quello che facciamo, che è quello di essere al servizio degli altri. Come c’è scritto nel gran bel libro, che è un gran bel libro da leggere: essere a servizio degli altri. Se si riesce in qualche modo a trasformare il proprio dolore interno, le proprie gioie interne, le proprie emozioni interne, qualsiasi queste siano, in energia vitale si è in grado di affrontare il difficilissimo incarico di cercare di essere al servizio degli altri. Questa è l’idea di massima, ma l’obiettivo finale è quello del servizio al prossimo nostro, come noi stessi, come dice appunto il grande libro.
Quindi, libertà di dover andare, secondo me, significa anche dover attraversare diverse discipline, attraversare diverse circostanze e tenere l’occhio fisso sull’obiettivo finale più che su questi artifici disciplinari, scientifici o di altro tipo. E quindi non mi trovo a disagio a essere appunto a capo di un istituto come il nostro Research Institute, dove abbiamo più di mille persone, dove non credo che ce ne siano due che hanno una formazione simile. E mettiamo sotto la grande tenda, c’è chi direbbe tendone, pensando al circo, matematici, fisici, insieme a ingegneri, chimici, alcuni dei più famosi clinici e medici del mondo, per trovare soluzioni innovative ai problemi che attualmente sono irresolubili e irrisolti della pratica clinica.
Terzo aspetto del dover andare è la libertà del dovere, lo dico naturalmente senza riferimento a Kant, a imperativi categorici di cui, da quando ho finito il liceo classico, non mi ricordo più assolutamente niente, ma il terzo senso della libertà del dovere ha a che fare con la liberazione. Qui parlo di libertà nel senso di liberazione, che per me è stata l’esperienza di Rimini dell’anno scorso. Allora io, dopo un certo numero di anni di gioventù nei quali, dove stesse il nostro signore Gesù Cristo e dove stessero i grandi bei libri me ne ero abbastanza dimenticato, confessiamolo, tramite l’esperienza del dolore devo dire che ho iniziato a riavvicinarmi alla chiesa. E’ strano pensare al fatto che allora, quando Maria Luisa era ammalata, il nostro matrimonio, la nostra vita in sé non aveva compreso tanti aspetti religiosi e allora iniziavo, piano piano, visto che mi sentivo riportato verso i temi della fede, iniziavo quando ero in viaggio per lavoro a fare la cosa proibita: qualche volta andavo a messa. E poi con l’intensificarsi della crisi, della crisi che poi è stata la crisi terminale della sua vita, quando c’è poco tempo per raccontarsi storie, alla fine ci siamo rincontrati e lei ha riconosciuto tra l’altro che stava facendo la stessa cosa. Abbiamo iniziato a tornare a messa, ad andare a chiesa, e a vedere e a comprendere le istanze in maniera profonda della vita spirituale. Cosa che è continuata a crescere. Ma io, da professore in università statali notoriamente spretate, negli Stati Uniti, pensate quindici anni di Berkeley, ho sempre avuto un pochino di timore, un pochino di remore e poi il mondo della scienza non è poi particolarmente amico del mondo della religione. Avevo sempre avuto qualche remora, qualche esitazione a parlare della mia vita spirituale in maniera pubblica fino a Rimini e Rimini siete stati voi con il vostro calore, con l’affetto, con le onde mentali che mi sono arrivate mentre stavo seduto sulle sedie dove oggi purtroppo non posso essere, mi sono sentito aprire il cuore e strappare la verità della confessione a tutti della radice reale, dei valori reali, ai quali cerco, nel mio modestissimo, piccolissimo e nanoscopico mondo, di far riferimento. Per me è stata la vera liberazione essere davanti a voi l’anno scorso e devo dire che è stata un’esperienza che mi ha aperto dimensioni nella vita impensabili. Dopo aver parlato con voi durante l’incontro, sono seguite centinaia di lettere, di occasioni, di telefonate, di persone che ho incontrato, con le quali ho condiviso aspetti importanti del loro vivere e del mio e di cose in comune. Questa esplosione di comunanza del sentire e di vera comunicazione è stata una cosa, e continua a essere, una cosa assolutamente travolgente. Devo dire che mi ha permesso di affermare meglio i valori della fede, di riconoscerli in tutto quello che faccio e di perdere la timidezza nel raccontarli, di rendermi conto che in realtà anche l’affermare la propria spiritualità, la propria religiosità, è un dovere e la libertà di avere questo dovere, di affrontarlo è il più grande dono che Nostro Signore ci può fare, perché ci permette di essere in qualche modo degni dell’offerta, della circostanza, della missione, del precetto e degli strumenti dei quali generosamente ci ha muniti. Quindi è stata la svolta della mia vita, Rimini, l’anno scorso, una esperienza assolutamente travolgente, che ha dato vita a mille altre attività che non vi racconterò in dettaglio, se no facciamo notte, e che comunque sono diventate una parte assolutamente dominante del mio vivere. E voglio ringraziarvi anche di questo. Quindi libertà del dovere, libertà del dovere nel servizio al prossimo, libertà del dovere nel non farsi bloccare dalle circostanze… Libertà di dovere affermare e dare testimonianza in tutto quello che si fa, nelle parole e nei fatti, della nostra fede nel Nostro Signore: sono tre temi che sono carissimi e in questo senso ho voluto condividerli con voi una volta di più, nella speranza che, nonostante le mie ormonale, abbiate la cortesia, la generosità per invitarmi ancora a essere con voi a Rimini, il prossimo anno, e magari anche prima, che ne so, e se qualcuno di voi può, non esiti a contattarmi. Le cose che sono nate a Rimini l’anno scorso sono state magnifiche e spero che possano continuare. Detto questo vi mando i miei più cari e affettuosi saluti. La benedizione del Signore sia con voi tutti, credenti, non credenti, miscredenti, troni, dominazioni, cherubini, serafini (serafini si chiamavano, no?) e spero di nuovo di poter continuare la nostra marcia insieme nella manifestazione, nel grande progetto Divino. Vi ringrazio, che il Signore vi benedica.
MARCO PIEROTTI:
Io credo che una testimonianza come questa non richieda ulteriori commenti. Voglio solo raccontare un episodio che mi pare molto importante, soprattutto se contestualizzato in un periodo di difficoltà – che anche il tema del Meeting di quest’anno ha cercato, in maniera quasi profetica di esprimere – dove le certezze economiche, le certezze tecnologiche, scientifiche sembrano tutte crollare di fronte all’avanzamento di questi modelli in crisi. L’episodio che voglio raccontare, e che la dice lunga sullo spirito che è il messaggio che ci trasmette Mauro Ferrari, è il seguente: l’anno scorso e c’era presente anche Marco Bregni, il Corriere della Sera organizzò un dibattito tra lui e un famoso filosofo, di cui per ragioni di rispetto, di privacy, non faccio il nome, ma che è uno dei rappresentanti del cosiddetto pensiero debole. Vennero fuori due visioni: il positivismo di Ferrari e il relativismo negativo, il pessimismo cosmico di questo filosofo. La questione che mi colpì in maniera drammatica fu nel dopo incontro, dove andai a parlare a questa persona, anche per sapere più della sua storia, e scoprii che lui aveva una storia identica a quella di Mauro Ferrari: aveva perso la moglie per un tumore in età relativamente giovane. Quindi l’impressionante è stato come, diciamo, dallo stesso inizio… – e qui ritorniamo al tema del professor Pelicci sulla libertà dei geni, dove conta l’inizio, che dà una modificazione epigenetica o meno a quel gene. Quindi questo gene risponderà in un modo o nell’altro, come appunto dal medesimo inizio dei nostri personaggi la risposta è stata diversa. Vorrei quindi poi concludere dicendo, che l’esistenza diventa un’immensa certezza quando a questa esistenza siamo in grado di dare un significato. Grazie a tutti.
(Trascrizione non rivista dai relatori)