LA LETTERATURA DELL’INFANZIA: CERTI E FANTASIOSI

La letteratura dell'infanzia: certi e fantasiosi

23/08/2011 - ore 11.00 Partecipano: Antonio Faeti, Scrittore e Saggista; Renata Rava, Coordinatrice Didattica della Scuola Primaria Sacro Cuore di Milano; Raffaella Zardoni, Illustratrice. Introduce Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.

Partecipano: Antonio Faeti, Scrittore e Saggista; Renata Rava, Coordinatrice Didattica della Scuola Primaria Sacro Cuore di Milano; Raffaella Zardoni, Illustratrice. Introduce Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.

 

DAVIDE RONDONI:
Buongiorno, ben trovati per questo appuntamento, che è un appuntamento che abbiamo deciso di fare qui al Meeting nel momento in cui abbiamo posto alla attenzione di tutti il tema della certezza o meglio il tema della vita, dell’esistenza che diventa un’immensa certezza. La certezza non è una cosa ferma, essere certi non significa essere immobili, ma la certezza è esattamente questo movimento per cui la vita, per cui l’esistenza svela il proprio essere, la propria consistenza, la propria stoffa. Chi ha visto per esempio lo spettacolo di ieri sera, molto bello tratto dal testo di Chesterton, ha visto come la certezza del re dipende da una piccola cosa che vede, che intravede e da una storia che ha alle spalle e che quindi lo fa diventare certo fino a gettare il cuore oltre le apparenti sicurezze o a gettare il cuore in maniera certa e coraggiosa anche in un momento, come gli viene detto, in cui la notte è sempre più nera e il mare sempre più grosso. Allora, quando ci siamo posti il tema in questi termini, appunto dell’esistenza che si svela come certezza, che diventa un’immensa certezza, io ho suggerito agli altri amici: dedichiamo un punto d’attenzione, con persone esperte, a quel modo in cui una persona comincia a porsi, a prendere posizione di fronte alla vita, che è il momento appunto dei primi anni, dell’infanzia, su cui appunto tanta letteratura, tanta pubblicistica, tanta televisione, tanta fiction, tante immagini, tante proposte arrivano ai nostri figli. Chi frequenta minimamente, penso molti di voi lo facciano, il mondo della letteratura per l’infanzia – io l’ho toccato brevemente con due piccoli libri – si accorge che è un marasma infinito di proposte, un marasma infinito di possibilità, entusiasmante e a volte anche avvilente. Per questo abbiamo chiamato tre persone per poter dare una occhiata dentro questo mondo che permette ai nostri figli, ai bambini di essere sicuramente fantasiosi, sicuramente stimolati nell’immaginazione, ma essere fantasiosi vuol dire o seguire l’immaginazione per crescere nella certezza, oppure ci può essere un contrasto tra l’accesso alla fantasia e l’esistenza come certezza. Insomma vorremmo parlare di questo rapporto un po’ misterioso tra l’esistenza come certezza e la fantasia. Io poi sono molto curioso di ascoltare le persone che abbiamo invitato, per cui ho solo posto il problema e, come voi, sono curioso di ascoltare loro che ne sanno più di me sicuramente.
Il primo a parlare sarà il professor Antonio Faeti, che ringrazio molto di essere con noi, non solo perché è unanimemente considerato in Italia il maggior esperto di queste cose, ma anche devo dire, per la piccola ma intensa frequentazione che abbiamo avuto in alcune occasioni, perché viviamo nella stessa città, perché è molto simpatico, molto colto e sempre un po’ spiazzante. Lo ringrazio di aver accettato il nostro invito e sono curioso di ascoltarlo. Lui parlerà per primo, poi le altre persone le presenterò nel momento in cui darò loro la parola. Professor Faeti.

ANTONIO FAETI:
Grazie. Non credo, nei miei 72 anni di vita, essendo entrato di ruolo diciannovenne come maestro nel ’59, di avere mai visto una platea così, ed ho parlato un po’ dappertutto, quindi mi sento come Calvero in Luci della ribalta, potrei tranquillamente vedere dove la pulce va da una mano all’altra. In occasione di questo incontro per me pieno di emozioni per tantissimi motivi, ho portato un talismano di carattere rondoniano. Comincerò col leggere una poesia nella quale si incontrano la certezza e la dimensione immaginativa, che connotano la letteratura per l’infanzia, la grande esclusa, la povera, negletta, ma tanto presente, tanto formativa e comunque imprescindibile e viva della sua stranezza, della sua alterità. L’ha scritta un poeta che non ha fatto a tempo a invecchiare: la tubercolosi l’ha portato via molto presto. È il poeta della sospensione tra immaginario e certezza. È il poeta dei rimpianti e delle rose non colte. E questo della paradigmaticità del non cogliere le rose, sembra essere uno dei grandi temi della letteratura per l’infanzia. Jo, non sappiamo se diventerà una grande scrittrice, sappiamo che salta bene i cancelli. Un borbottone toscano, massone, bestemmiatore, garibaldino, scellerato, tabaccone, ha trovato nel vescovo di Bologna, Cardinal Biffi, l’ermeneuta più raffinato, più intenso, più bravo. In Paperino sono nascoste delle parabole. Tintin è il più ideologico dei personaggi mai apparsi nella letteratura per l’infanzia. Due dei tre libri più famosi dell’Italia che compie 150 anni – Cuore e Il Giornalino di Giamburrasca – ignorano l’esistenza di Dio, sono prima della predicazione paolina, non ce ne è traccia in nessuno dei due. Questo terrificante ambito di misteri, di contraddizioni, trova nella poesia “La più bella” di Guido Gozzano tutto se stesso nella propria complessità, nella variegazione, nei rischi, nelle maledizioni, nella dimensione psico-affettiva tremenda e salutare. “La Più Bella” di Guido Gozzano:
«Ma bella più di tutte l’Isola Non-Trovata: / quella che il Re di Spagna s’ebbe da suo cugino / il Re di Portogallo con firma suggellata / e bulla del Pontefice in gotico latino. / L’Infante fece vela pel regno favoloso, / vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Hera / e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso / quell’isola cercando… Ma l’isola non c’era. / Invano le galee panciute a vele tonde, / le caravelle invano armarono la prora: / con pace del Pontefice l’isola si nasconde, / e Portogallo e Spagna la cercano tuttora. / L’isola esiste. Appare talora di lontano / tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero: / "…l’Isola Non-Trovata!" Il buon Canarïano / dal Picco alto di Teyde l’addita al forestiero. / La segnano le carte antiche dei corsari. / …Isola da – trovarsi? …Isola pellegrina?… / È l’isola fatata che scivola sui mari; / talora i naviganti la vedono vicina… Radono con le prore quella beata riva: / tra fiori mai veduti svettano palme somme, / odora la divina foresta spessa e viva, / lacrima il cardamomo, trasudano le gomme… S’annuncia col profumo, come una cortigiana, / l’Isola Non-Trovata… Ma, se il piloto avanza, / rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell’azzurro color di lontananza…».
È lei, è proprio così: la grande esclusa, la sempre dimenticata, la mai abbastanza studiata. Ecco un appunto: esisteva un giornale cattolico, si chiamava “Il Vittorioso”, non aveva referenze militari. “Il Vittorioso” pur tacendosi chi era, i lettori sapevano che era Gesù. “Il Vittorioso” usciva giovedì, lo prendevamo in parrocchia, a Porta Castiglione, i santissimi Giuseppe e Ignazio, perché i giacobini bolognesi avevano costretto i gesuiti a scappare verso la collina, si erano fermati lì nella chiesa di San Giuseppe ed erano diventati Giuseppe e Ignazio. E, siccome usciva il giovedì, ebbi a scoprire con un amico che il martedì arrivava già al distributore. Mi sembrava che fosse troppo aspettare “Il Vittorioso” due giorni: l’andavo a prendere. Una storia comincia nel numero 50 del 16 Dicembre 1951. È disegnata da Gianni de Luca, meraviglioso disegnatore che ho già potuto onorare con una mostra a Bologna, nella mia città. Si chiamava “Gli Ultimi sulla Terra” ed era la vicenda di un aereo che in pieno clima di terrore nucleare ammara su un’isola deserta e vive, fa vivere, lascia vivere in un residuo di speranza. Nell’ultimo quadretto un sacerdote che è sempre stato con loro diretto in una zona di missionariato, quindi ha il casco ed è bellissimo, come tanti belli disegnati da il sommo Gianni de Luca. L’ho copiato pari pari. Don Claudio abbraccia un pugile nero che gli è vicino. Intanto compare la parola FINE come nei film. Il pugile nero dice “Saremo, una leggenda, una leggenda, perché no? Saremo la leggenda di coloro che credettero di essere rimasti soli sulla terra”. Don Claudio sulla parola FINE nel fumetto ha scritto: Soli non si rimane mai, ricordalo Sam, non lo siamo mai stati. C’è sempre stato qualcuno a vegliare sulla nostra salvezza.
7 Ottobre 1951: inizio. 16 Dicembre 1951: fine. Dove vado a parare? Penso che il 17 Agosto 2011 Alberto Bevilacqua ha ricordato come indimenticabile sul “Corriere della Sera” nella sua formazione di ragazzo Jacovitti, il grande Jac de “Il Vittorioso”. Vado a parlare in una zona che è stata quella che nei miei 25 anni di cattedra universitaria mi ha sempre accompagnato. Cosa facciamo quando non porgiamo libri ai bambini? Come li lasciamo quando l’isola non trovata per molti di essi trovata non sarà mai? Quando l’azzurro mare di Tenerife per molti di loro non brillerà, non avrà colori? Li lasciamo in una alterità sgomenta, povera, miserevole sul piano immaginativo. Di che cosa li priviamo? Li priviamo della possibilità di giocarsela. E’ come che non avesse senso, e ce n’ha, ed è enorme, e ce n’ha specialmente sotto le parole formulate alla base di questo Meeting, ovvero il fatto di giocarsela come il beneficiario vero della parabola dei talenti. Però chi non ha mai sentito le parole dell’“Isola del Tesoro”, chi non ha mai visto arrivare quel pirata maledetto, strano, di animo perverso, ma furbo, esploratore, attento: “Diglielo a quel tuo dottore che il rum libera dalla peste e col rum ci guarisci la febbre gialla”. Noi alla fine non sappiamo chi è davvero diventato Jim. Non sappiamo neanche chi è davvero diventata Jo. Non sappiamo se gioverà a Pinocchio l’essere diventato di carne, il compatire come era quando era di legno. Certo, col “Vittorioso” sappiamo che non si è mai né gli ultimi né i soli sulla terra. Con Gozzano sappiamo che i profumi dell’isola non sono invano seduttivi; sappiamo che ad un certo punto risponderanno, che ci arriveremo. E allora l’ennesima invocazione, con una mano sul cuore: ci sia questa lettura, ci siano i classici e ci sia quella vecchia ad alta voce, quella di quell’isola come Fahrenheit 451 – che il grado di calore a cui brucia la carta – prima che Truffaut ne facesse un film in effetti si chiamava con un titolo “Gli Anni della Fenice”, gli anni in cui i dittatori vincono davvero, perché i dittatori vincono sempre solo quando non ci sono abbastanza libri a combatterli. Cosa leggeva Hitler? Hitler, i filosofi tedeschi, Nietzsche, ehi… era un imbianchino viennese: leggeva i romanzi rosa. Abbiamo avuto un dittatore perché i romanzi rosa possono produrre i dittatori. Possono, però, non obbligatoriamente producono. Su cosa mi fermo? Se c’è una cosa che un cattolico impara da subito; anche un ebreo quando si prepara per il Bar mitzvah – ma siamo in tema di record: assegniamocelo almeno questo a noi cattolici, il privilegio dell’ermeneutica, la scienza dell’interpretazione imparata da piccoli. La meraviglia della letteratura per l’infanzia è che non vuol mai dire nei suoi capolavori qualcosa di assertivo, lascia sempre una sorta di appetito dubbioso, una sorta di domanda imperitura. Perché i miei bambini accanto all’“Isola del Tesoro”, cioè un accreditato capolavoro, mi dicevano sempre il libro più bello era “L’avventuroso Signor Teffan” e questo Teffan era un micidiale svedese dei fratelli Fabbri, uno dei libri più noiosi e brutti che io abbia avuto tra le mani in tutta la mia vita di studioso della letteratura per l’infanzia. Ma era l’isola non trovata di quella quinta e mi sono piegato, mi sono inginocchiato di fronte alle miserie concettuali del signor Teffan. La grande esclusa al Meeting di Rimini, sono proprio possibili i miracoli, ah ah! è proprio vero. Grazie. Grazie.

DAVIDE RONDONI:
Grazie, Professor Faeti. Poi riprenderemo magari alla fine qualche cosa che ha detto. La parola adesso a Raffaella Zardoni la cui carica, il cui mestiere si dice illustrator, cioè ‘illustratrice’, in italiano è illustratrice, però illustrator è di più perché… adesso capiremo anche perché, perché non è appena un’illustratrice, è qualcosa di più di una che fa illustrazioni e l’abbiamo chiamata per questo.

RAFFAELLA ZARDONI:
Rondoni mi aveva chiesto, quando mi aveva invitato, di rispondere a questa domanda: qual è il tuo lavoro e cosa cerchi? Il mio lavoro è disegnare e cerco la vita. Potrei dire altre cose, ma in fondo sarebbero risposte ad altre domande, quando l’hai scoperto? Quando hai iniziato? Vorrei invece usare questi pochi minuti per dire delle cose che mi stanno a cuore e che ruotano intorno alla seconda domanda “che cosa cerchi?” “Cerco la vita”. Questo brano che leggo non appartiene ad un libro per ragazzi, è tratto dall’autobiografia di Israel Zolli, ebreo nato in Ucraina, che divenne rabbino capo di Roma e si convertì al cristianesimo dopo la seconda guerra mondiale. Mi piace come descrive la coincidenza tra guardare, contemplare e cercare: “lo ricordo oggi, come se si trattasse di cose di ieri, un bimbo dell’età di tre quattro anni seduto su un panchettino con davanti una sedia in funzione di cattedra, alle prese col libro di preghiere del padre, un volume di 1200 pagine. Vi avverto che il piccolo lettore è analfabeta eppure verso le 10 di mattina voi lo troverete immancabilmente al lavoro. Il bimbo alza con estrema delicatezza una pagina, la guarda e la svolta e ripete per la seconda, terza, decima, centesima pagina. Si tratta del suo gioco preferito? Forse. Ma egli non guarda semplicemente, quasi contempla. È raccolto nel suo lavoro. Si direbbe che cerchi qualche cosa che ancora non ha trovato. Osserva il testo talmudico troneggiante in mezzo alla pagina e contornato dalle versioni aramaiche e dai commenti. Osserva, medita e cerca. Cerca qualche cosa che non ha smarrito ma che evidentemente può tuttavia trovare”. Cosa cerca? Il bisogno di storie è dell’uomo, da Omero a Harry Potter. Jan Rawlings è divenuta miliardaria grazie ad un’eccezionale fantasia. È incredibile la quantità di invenzioni che ha seminato nei suoi libri. Quello che è accaduto gli anni scorsi con Harry Potter, succedeva con le uscite delle Cronache di Narnia di Lewis come attesa, code davanti alle librerie e commenti sui giornali. Con le differenze di un mondo meno globalizzato. Da sempre attraverso i racconti si sono tramandati i valori, il significato delle cose, ciò che ci sta più a cuore. E forse oggi il bisogno di storie è ancora più acuto, per l’insofferenza che la nostra società ha maturato verso l’argomentazione logica. “Con le argomentazioni non si acchiappa neanche una mosca” diceva Michael Ende, quello che convince ed interessa l’uomo è ciò che si manifesta nella persona. Le verità devono essere vissute attraverso l’umano. Si deve provare la sensazione di vivere qualcosa realmente. Il romanzo, il racconto e l’immagine portano ipotesi come verificabili, le chiamerei strade, come dice in una poesia Emily Dickinson: “non esiste veliero rapido come un libro per trasportarci in Paesi lontani, né corriere che eguagli una pagina di vibrante poesia. Il viaggio è possibile a tutti, non vi è imposto alcun pedaggio. Tanto modesto è il mezzo che porta l’animo umano”. Tolkien nel suo Saggio sulla fiaba, a cui farò più volte riferimento, chiama sub-creazione la capacità dell’uomo di creare storie ed è un’attività a cui l’uomo ha pieno diritto, essendo stato fatto ad immagine e somiglianza di un Dio creatore. Penso che non sia solo un diritto, è un talento che deve essere trafficato. Peter Seewald durante un’intervista chiese al Cardinale Ratzinger: “Quante vie ci sono per arrivare sino a Dio?”. Non sapevo davvero cosa mi avrebbe risposto, commenta: una sola, parecchie. Al Cardinale non fu necessario molto tempo per rispondere, disse: “tante quante sono gli uomini”. Non poche di queste vie si trovano nei libri, per questo devono essere sempre scritte nuove storie, strade aeree che non richiedono alcun pedaggio. Chissà quali di esse potranno essere utilizzate da Dio stesso, viandante fra gli uomini. Ad esempio l’ultimo volume di Harry Potter è stato tradotto in italiano liberamente, on line, nel giro di un mese, in un forum ogni giorno qualcuno aggiungeva una pagina e man mano si commentava la trama. Io adoro le storie, adesso si sa che il libro contiene due citazioni del nuovo testamento: “l’ultimo nemico ad essere sconfitto sarà la morte” e “dov’è il tuo tesoro lì sarà il tuo cuore”. Ma allora no. In quei giorni mi colpì moltissimo che entrambe le frasi fossero state notate e commentate dai ragazzi traduttori e lettori per la loro bellezza e misteriosità. E’ l’interesse che hanno saputo suscitare anche messe così, come sassolini tra gli altri sulla strada. Devono essere scritte nuove storie che comunque ancora ripercorrono i più antichi desideri degli uomini, il desiderio di visitare mondi sconosciuti, di istituire una comunione con gli altri esseri viventi, alberi e animali. “L’uomo che si accontenta di essere solo se stesso è come in prigione – scrive Lewis – i miei occhi non mi bastano, voglio vedere attraverso gli occhi di altri. E mi dispiace che gli animali non possano scrivere libri. Mi piacerebbe sapere come si presentano le cose agli occhi di un topo o di un’ape. Percepire il mondo olfattivo carico delle informazioni e delle emozioni che può avere per un cane. Ma questo desiderio credo che sia di un adulto, penso che un ragazzo voglia solo essere amico di un cane. Chi non ha provato a guardare negli occhi un gatto per creare un contatto? Confusamente consapevole che ciò che ci ha separati, in uno stato di precario armistizio, verrà prima o poi risolto”. Ề il desiderio di istituire una comunione tra gli altri uomini, tra generazioni e nella famiglia. Oggi è molto presente il tema dell’incomunicabilità nella famiglia, a me piace quando ritrovarsi tra genitori e figli è come un bonus in un happy end, come in “Piovono polpette”, che è un film. Tra le prime invenzioni di Flint, lo scienziato protagonista, c’era stato il traduttore di pensieri di scimmia. Nella penultima scena, Sam, l’amica di Flint, ha l’idea di usarlo affinché padre e figlio si possano finalmente comprendere. Come sono queste strade? è una bella sintesi il titolo di questo incontro “certi e fantasiosi”. Certi, “le fiabe dicono più che la verità e non solo perché raccontano che i draghi esistono, ma perché affermano che si possono sconfiggere”. Questa frase di Chesterton, Neil Gaiman l’ha posta come esergo a Coraline. “Perché affermano che i draghi si possano sconfiggere”, il lieto fine, l’improvviso capovolgimento gioioso è necessario alla storia come la giustizia e la verità, anzi direi che è parte della giustizia e della verità. Il lieto fine non smentisce l’esistenza del dolore e del fallimento, ma smentisce, nonostante le apparenze contrarie, l’universale sconfitta finale. Per quanto spaventose siano le avventure o terribili gli avvenimenti, nel momento in cui avviene il capovolgimento la storia provoca un’interruzione del respiro, una commozione che ci porta vicini al pianto, una visione di gioia che, per un istante, travalica i limiti del racconto e svela l‘aspirazione del cuore. Un testo che riesca tanto non può dirsi del tutto non riuscito. Questa è il lieto fine di Tata Matilda.
[proiezione filmato] Certi e fantasiosi, fantasiosi lo apro con una sequenza di Miyazaki, il più grande creatore di storie viventi. Ho scelto Porco rosso perché è ambientato in Italia.
[proiezione filmato] Tolkien contesta la coincidenza tra fantasia e irrazionalità, la fantasia è una naturale attività umana che di per sé non distrugge e neppure reca offesa alla ragione, anzi dichiara che in un mondo in cui la ragione venisse meno non ci sarebbe più fantasia ma solo morbosa illusione. Questo tema viene svolto da Ende nel suo capolavoro La storia infinita, purtroppo la versione cinematografica è pessima, in cui è descritta la rovina dell’impero di Fantasia. Distruzione che non è causata dalla guerra o da un nemico, ma dal diffondersi nell’impero di varchi di nulla, all’aspetto appare come una nebbia, che attraggono le creature di Fantasia e le rovesciano nel nostro mondo. Ma ciò che in Fantasia è buono arriva a noi come incubo, fantasma e suggerimento di morte, grigio attraente bordo tra i due mondi. Mi sembra di scrivere come sia percepito oggi il confine tra la vita e la morte, vista la terribile facilità con cui viene attraversata anche dai ragazzi. Per Ende sarà un figlio degli uomini, affatto coraggioso, che potrà salvare Fantasia, come per Lewis saranno i quattro fratelli Pevensie che salveranno Narnia e in Tolkien i quattro amici Hobbit distruggeranno l’anello di Mordor. Nelle storie non è un problema essere piccoli e neanche la sproporzione tra il compito e la propria età o forza. Nelle storie il problema è crederci, avere fede che sia possibile. Siamo creatori e siamo liberi, faccio due esempi su questa libertà di figli. Fa’ ciò che vuoi, è il motto impresso sull’aurum, il medaglione che l’infante imperatrice dona a Bastiano. Michael Ende disse una volta che il ragazzo è potuto tornare nel suo mondo solo dopo averlo deposto e che quindi “fa’ ciò che vuoi” è un imperativo valido solo in Fantasia. Leggendo il libro ho sempre pensato che, per tornare al nostro mondo, Bastiano dovesse solo ritrovare sé, gli altri e l’amore per suo padre, in fondo compiendo il motto di Fantasia nella frase di Agostino “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Lucas, il creatore di Star Wars, in un’intervista afferma che Anakin Skywalker sarà corrotto dal lato oscuro perché da bambino ha abbandonato la madre per seguire Qui-gon. Io credo che il compito dell’uomo sia quello di andare e la responsabilità, come ci disse una sera don Giussani, sia di andare fino ad arrivare, perché sempre in questa terra i passi fatti sono travolti da un’oscurità, fermandosi prima non si capirebbe più nulla, per capirli occorre vederli tutti nell’unità generata dalla luce del sole finale. E al termine dell’epopea di Star Wars, Anakin, il crudele Dart Fener, morirà buono. Anche nel Signore degli anelli, la gloria dell’ultimo giorno non è per nulla offuscata dagli errori di Frodo o di Theoden, mentre rimane la compassione dell’hobbit che non ha voluto che Gollum fosse ucciso. Per Tolkien appartiene alla vita la debolezza e la possibilità dello sconforto o della disperazione, ma devono essere contrastati e una volta imparato a farlo, forse, tutto andrà meglio del previsto. Proporrei il discorso di Aragorn all’apertura del nero cancello di Moria. [proiezione filmato].
Siamo creatori, ma siamo liberi di creare qualsiasi cosa? No. Scrivendo, disegnando e leggendo sappiamo quando stiamo lasciando i confini del lecito e tanto più è grave quando lo si fa per vie che saranno percorse da bambini. Perché è misterioso come e quando le immagini si imprimono nell’animo dei ragazzi. Su questo termino con due esempi che mi accompagnano e spero possano essere utili anche a voi. Ritorno a Zolli che abbiamo lasciato intento alla lettura del libro del padre, ragazzino undicenne aveva come compagno di scuola un bambino cristiano. Sulle pareti bianche della cucina dell’amico c’era un crocifisso. Questo suo primo incontro con la figura di Cristo, giovane uomo, il cui volto non poteva essere quello di un assassino, lo accompagnò negli anni, divenendogli abituale come un amico. L’anno scorso, in occasione della canonizzazione di Newman, mi ha colpito un episodio simile letto nella sua autobiografia: “a Littlemore, sfogliando dei vecchi quaderni di scuola, trovai il mio primo quaderno di versi latini. Nella prima pagina avevo disegnato una figura in cui ora non riesco a vedere altro che un rosario con attaccato una crocettina. Non avevo ancora dieci anni. Il disegno mi tolse il fiato dalla sorpresa, è strano che tra mille oggetti che cadevano sotto i miei occhi di bambino proprio questo mi si fissasse nella memoria al punto di diventare cosa mia”. Non aveva idea di dove potesse aver veduto una corona del rosario e perché lo avesse colpito. Eppure la figura di Gesù per Israel Zolli e la devozione a Maria per Newman furono fondamentali nella loro conversione e nella loro vita. La responsabilità in questa, apparentemente scanzonata, società, di ciò che impressiona l’animo dei ragazzi è grave e nostra. Grazie.

DAVIDE RONDONI:
Ringrazio molto Raffaella, sia per quello che ha detto sia perché facendo quello che ha fatto ci ha subito mostrato come fosse vera la frase del professore di poco fa: “abbiamo il privilegio dell’ermeneutica”. E quello che Raffaella ha fatto è stato esattamente un esempio nitido e acutissimo di cosa vuol dire il principio dell’ermeneutica. La parola adesso a Renata Rava, che è responsabile della scuola primaria del Sacro Cuore e quindi potrà dirci qualche cosa anche dal punto di vista di chi si trova a, diciamo così, perdonatemi il termine che è orrendo, a gestire questa serie anche di cose che abbiamo toccato, visto dentro il contenitore o l’ambito dei rapporti, non sempre facile, che è quello della scuola.

RENATA RAVA:
Sono stata preceduta da due interventi magistrali in cui mi sono ritrovata tanto e il mio intervento sarà più descrittivo. Quando ho pensato alla letteratura per l’infanzia, quello che desideravo comunicare è che esperienza fa un bambino, una persona quando legge, quando incontra della letteratura e sono andata con la memoria a me, a me bambina, e se mi permettete parto da qui, perché ricordo il primo libro che per me è stato significativo e lo ricordo legato proprio a un episodio strano. Non so se fu per il compleanno o l’onomastico, ma sicuramente ero una bimbetta fra gli 8-9 anni. Non amavo leggere, facevo fatica. Forse oggi sarei stata una delle tante “dis”. Per il compleanno mi ritrovo un libro. Non vi dico l’astio, l’irritazione per quello che doveva essere qualcosa che mi dava gioia, e che invece era un libro, che apparentemente consisteva per me in una fatica. Bene, ho accennato questo aspetto perché è segno dell’imprevisto, perché quel libro li è stato il primo. Che cosa è successo?
Quella lettura è stata una novità introdotta nella mia realtà quotidiana, che ricordo perché è stata l’improvviso, non previsto, accadere di una eccezionalità: partecipare a una avventura non mia, non vissuta direttamente da me o dalle persone che mi circondavano.
Leggere si è rivelato così una storia in cui venivo coinvolta: il mio io, il mio cuore, è stato reso partecipe di un mondo lontano, estraneo, che pian piano diventava mio, fino alla scoperta di una corrispondenza: in quel libro c’ero io.
Bastiano all’inizio della sua avventura, ne La Storia Infinita, dice: “in un libro c’è una storia tutta intera. Ci sono personaggi che io non conosco ancora e ci sono tutte le possibili avventure e gesta e battaglie, e qualche volta ci sono delle tempeste di mare oppure si arriva in paesi e città lontani. Tutte queste cose in qualche modo sono già nel libro. Per viverle bisogna leggerlo, questo è chiaro. Ma dentro ci sono fin da prima. Vorrei proprio sapere come”.[1]
Qualcosa di nuovo, a me ignoto, portava in sé qualcosa di mio.
Da allora in ogni libro cerco questa opportunità o, come dice Calvino, questo piacere[2] e catalogo così le mie letture: quelle in cui accade questa esperienza e quelle che mi lasciano indifferente, annoiata.
I libri che ricordo sono quelli che ridestano e rinnovano la mia umanità fatta di desideri, sentimenti, ragione, volontà, brame e miserie. Così, riconoscendomi nelle vicende narrate, mi conosco e la lettura rende esplicita e profonda la consapevolezza della mia natura più di quanto io stessa provi e viva nell’affaccendarsi ordinario di cui vivo. Come osserva Lewis “i miei occhi non mi bastano, voglio vedere attraverso gli occhi degli altri”.[3] Leggere mi fa crescere, la vita che incontro leggendo incrementa la mia persona, apre la conoscenza e muove l’animo.
Sono oggi un’appassionata lettrice, con una fortuna in più: aver ricevuto il dono di una compagnia di amici e di maestri che mi ha indicato, suggerito e fornito di che leggere, per esempio i libri del mese.[4] I libri si consigliano agli amici.
La mia esperienza come maestra e direttrice, nel confronto continuo con genitori e colleghi, è quella di offrire ai bambini della buona letteratura, di donare racconti e libri a favore della vita e della crescita.
La scelta di che cosa si legge ai bambini o si propone di leggere, quindi, è fondamentale e ha a che fare con l’educazione del cuore. Come in tanti altri ambiti, il compito del genitore e del maestro è la comunicazione di sé, di ciò che nella propria esperienza si è maturato come essenziale e che sempre più consapevolmente si desidera proporre ad altri.
Per questo parto da me, dalle letture che amo, che mi ridestano un gusto, che mi fanno respirare, che mi fanno vedere una strada possibile, che contengono un’attrattiva vincente.
Osserva una maestra: “ciò che riesce a legarci ad un libro è l’esperienza di incontro con qualcosa che riesce a trasmetterci ciò a cui noi teniamo, troviamo parole che fanno emergere la nostra umanità e per questo segnano, diventano immagini che non ci mollano. È questo che auguro ai miei alunni, di trovare libri che rimangono attaccati addosso”.[5]
Ciò che l’adulto propone non può essere ciò che è banale, ma deve essere ciò che parla all’uomo dei grandi temi della vita e delle questioni più acute della coscienza umana. È quindi importante non essere superficiali, approssimati o indifferenti nella scelta di cosa offrire, così come penso che un bambino possa e debba avere libera scelta ed iniziativa nella sua lettura personale. Occorre, infatti, salvaguardare e rispettare l’alterità del bambino, anche piccolo, e non chiudersi fra le quattro mura del già noto.
Lewis, nel suo saggio critico sulla lettura, si pone la domanda su come riconoscere un buon libro e individua come criterio, per distinguere tra i “molti” quei “pochi” che lo sono, l’esperienza che corrisponde alla parola piacere, l’esperienza per cui “quello che si è letto è costantemente e profondamente presente alla mente”.[6]
La prima esigenza umana, della ragione e del cuore, è il destino. A ciascuno di noi preme sapere come andrà a finire e desideriamo che vada a finire bene: la sicura espressione del vissero felici e contenti non è infantile o formale, ma è sostanza e condizione di ogni agire umano.
E’ la certezza che le forze del male non prevarranno,[7] la certezza di un destino buono, di un’ultima positività che trionferà su tutto, del cavaliere che sconfigge il drago, del buono che prevale sul malvagio, della resurrezione che vince la morte.
L’opzione per la vita, per la luce nella penombra, è contenuta in tanta letteratura per l’infanzia: le fiabe classiche sono paradigmatiche al riguardo.
Tolkien sintetizza tale valore escatologico scrivendo che “la consolazione delle fiabe, la gioia del lieto fine o più correttamente della buona catastrofe, dell’improvviso capovolgimento felice, questa gioia è una grazia improvvisa e miracolosa, non nega l’esistenza del dolore e del fallimento, essa nega la sconfitta finale e universale ed è in quanto tale un evangelium”.[8]
Le fiabe, i romanzi d’avventura hanno protagonisti, siano grulli o superdotati, capaci di spendersi per l’ideale e di muoversi con decisione: sono esempi di moralità. E’ emblematico che in alcuni libri i protagonisti cambino lungo lo snodarsi della vicenda e prendano coscienza della loro reale identità: dal Brutto anatroccolo a Pinocchio e a Frodo. C’è sempre un viaggio da compiere, un cammino che chiede fatica, offerta e spoliazione. In altri racconti, anche molto letti, cresce solo la quantità di eventi, ma non c’è, per il protagonista, cambiamento.
Il terzo aspetto è il valore dato alla realtà materiale, alla circostanza, a quello che c’è o che si incontra. Cose e persone possono essere la risorsa per il protagonista; il suo modo di porsi nei confronti di chi incontra, per esempio la vecchina apparentemente insignificante, è condizione perché la realtà si sveli come un potente dono per sé. L’amicizia diventa possibile dove sembrava impossibile e “c’è sempre qualcuno che aiuta il protagonista a combattere contro il cattivo”.[9]
Nel rispetto e nell’amore alla realtà, alle sue leggi, ad esempio nell’attenzione a non infrangere i limiti di tempo e spazio, all’uomo si svela la salvezza.
Nella letteratura prende corpo la verità della realtà personale, naturale e storica.
La narrativa, le fiabe, i romanzi classici continuano a parlarci nel tempo, in mille vicende, della verità, delle esigenze ultime del cuore e della possibile realizzazione del nostro desiderio ultimo attraverso il sorprendente incontro con un’eccezionale presenza che si fa vicina.
“Le fiabe sono vere, sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita”.[10]
L’esperienza dell’uomo è certa se c’è unità tra conoscenza ed affetto. Se la verità fosse un’affermazione, non sarebbe di per sé certezza: la certezza chiede un legame affettivo con il vero.
Che cosa accade nella lettura? Qual è il legame affettivo che rende possibile un’esperienza di certezza nell’incontro con l’opera letteraria?
La verità è incontrata non come una cosa detta, una predica o una spiegazione, ma è contenuta in un pezzo di vita, in un evento, in un’avventura, in una storia: è una verità incarnata.
Benson nella prefazione al Padrone del Mondo scrive “mi è sembrato che il mezzo migliore per esprimere valori e principi che mi stanno a cuore e che io credo veri ed infallibili fosse quello di tradurli in avvenimenti che possano commuovere”.[11]
Questa possibilità di incontrare una verità in modo significativo e incidente è particolarmente godibile dai bambini, da tutti i bambini.
A questo proposito Ada Negri ricorda il primo anno del suo insegnamento in una scuola elementare:
Urlavo, urlavo sempre, tanto da diventare rauca. Riuscivo ad addolcire la voce solo in fantastici racconti coi quali godevo calmare la loro irrequietezza: il tuffo nel meraviglioso li rinfrescava, li rendeva miti come agnelli; ed io ne approfittavo per giungere attraverso la favola a insegnar loro, di sorpresa, cose a cui non avrebbero, altrimenti, prestato attenzione.[12]
È un’esperienza condivisa da tanti insegnanti, scrive una maestra: “coraggio, lealtà, desiderio di appartenenza, riconoscimento del valore di sé, rispetto ultimo dell’altro: vengono fuori parole senza bisogno di mettergliele in bocca”.
Ci sono oggi tanti testi che si prefiggono di affrontare esplicitamente problematiche di ecologia, multicultura, integrazione, disagio, allo scopo di favorire il rispetto di alcuni valori. Personalmente li sento fittizi e moralistici, perché pongono l’attenzione su aspetti che sono conseguenze di una posizione umana e non valori a sé stanti. Non sono in generale testi amati dai bambini.
Il legame affettivo è, ancor di più, qualcosa di molto concreto: è il rapporto personale che introduce alla lettura. E’ il momento atteso della mamma o del babbo che leggono, della maestra a cui preparare il posto e a cui stare vicino, della compagnia gratuita e libera che si intercala al lavoro dell’adulto e del bambino.
La verità prende voce in quella relazione: adulto e bambino sono insieme, condividono gli stessi sentimenti; protagonista è la voce che si modula, che dà peso alle parole, che fa temere e che rincuora.
La narrazione più che nella parola consiste nel muovere irrequieto degli occhi, nell’agitar delle braccia, negli atteggiamenti della persona tutta che si alza, gira intorno per la stanza, si inchina, si solleva, facendo la voce ora fiacca, ora concitata, ora paurosa, ora dolce, ora stridula, ritraente la voce dei personaggi e l’atto che essi compiono. Della mimica della narrazioni è da tener molto conto, e si può esser certi che a farne senza, la narrazione perde metà della sua forza ed efficacia.[13]
La certezza accresce, si desidera ancora, si desidera che riaccada di nuovo così, in quel modo, con quelle parole, con quel rito. Nella vita della classe il libro di narrativa è un filo che tiene insieme le giornate.
Riportano le maestre: “la lettura è un momento in cui sono certa che i bambini sono presenti interamente e liberamente”, “attraverso il libro si vive, si scopre, si teme, si reagisce, si chiede aiuto, come nella vita reale. Anzi, con il libro il bambino vive qualcosa che forse non ha mai vissuto personalmente, ma che fa parte dei suoi bisogni ed esperienze, magari anche più profonde o nascoste”, “ascoltare la lettura dell’insegnante significa sentirsi creati, i personaggi e la storia costruiscono un mondo di pensiero e di visione delle cose” e ancora “la lettura in classe è un’esperienza che va oltre le persone, sia del bambino sia dell’insegnante, perché il libro è un’altra cosa per entrambi”.[14]
Il bambino che ascolta è così efficacemente descritto:
Qualcuno avrà notato con quale ipnotica lentezza battano le ciglia di un bambino che ascolta un vecchio rievocare… non è di ilarità la sua espressione. C’è in lui la tensione immobile degli animali in muda, degli insetti in metamorfosi: è forse simile agli usignoli in pieno canto che, si dice, hanno una forte temperatura e il piumaggio tutto arruffato: Egli sta crescendo, in quegli attimi; sta bevendo con voluttà e tremore alla fontana della memoria: l’acqua fulgida e cupa da cui ha vita la percezione sottile.[15]
La lettura è legame affettivo perché ci sono io, bambino, che leggo, la lettura mi prende (“non sento la mamma che mi chiama”, “se leggo non ho bisogno di bere, di mangiare”)[16] , muove in me qualcosa.
L’immedesimazione (“sento la voce dei personaggi”) e il gioco che ne segue, il disegno non richiesto esprimono il bisogno di far proprio, di stabilire un nesso fra sé, il proprio contesto e quanto vissuto leggendo. “Avventura, fantasia, sentimenti, sport: ciascuno sceglie ciò che è più vicino a quello che ama, a quello che desidera. Qualcuno leggendo vuole ridere, un altro piangere, c’è chi vuole tremare di paura o volare in mondi impensati. Il lettore entra nel libro al punto di identificarsi con i protagonisti e le vicende: « Io sono Beth », «io somiglio a Jo», «Boka è in gamba, vorrei essere come lui». Addirittura capita che l’immedesimazione sia tale da desiderare di riviverla fuori dal libro, così il cespuglio del Sacro Cuore diventa l’armadio di Narnia, ingresso nel mondo fantastico”.[17]
Non si legge per restare quello che si è, ma per diventare qualcosa d’altro, leggere è occasione di paragone e di giudizio.
Il lettore convalida l’opera, interpreta e svolge il potenziale che l’opera contiene. Nasce del nuovo.
Il legame affettivo si crea per una bellezza, la bellezza della lingua: suoni, parole e senso sono un’unica esperienza. Ci sono sul mercato libri brutti perché la forma linguistica non è curata, si privilegia il parlato, si forgiano termini, si stropicciano nomi: il gioco linguistico, di per sé interessante, appesantisce il testo.
Di contro altri libri, apparentemente meno consoni, si rivelano belli e linguisticamente piacevoli. Certe sonorità, certe ripetizioni, la musicalità di certe espressioni, un lessico interessante sono di per sé occasioni che veicolano senso. “Il ritmo delle parole da me lette ad alta voce colgo essere per loro fonte di comprensione del contenuto, ma anche di arricchimento del lessico. Quest’ultimo aspetto l’ho colto in terza, quando leggevo loro Pinocchio: Collodi non ha un linguaggio così immediato per loro eppure, a poco a poco, se ne sono impadroniti, fino a cogliere immediatamente la sottile ironia, certi giochi di parole dell’autore e termini sino a quel momento sconosciuti come principiare per dire iniziare”.[18]
Florenskij parla del valore magico della parola, “ogni parola è una sinfonia di suoni: reca potenti depositi storici e racchiude un intero mondo di concetti”.[19]
Le parole sono dense: nomi, aggettivi, elenchi di verbi, proverbi e modi di dire, metafore.
“Fu nelle fiabe che io intuii per la prima volta la potenza delle parole e la meraviglia delle cose, pietra e legno e ferro; alberi ed erba; casa e fuoco; pane e vino” racconta Tolkien.[20]
La forma coopera al senso, la parola esprime più di quanto appare, evoca, lancia oltre e pesca indietro, è memoria e ricordo.
La fantasia è parte della realtà. Tolkien ha sottolineato l’apporto della fantasia alla conoscenza del reale: “la Fantasia è una naturale attività umana. Certo essa non distrugge e neppure offende la Ragione. Quanto più la ragione è acuta e chiara tanto meglio opererà la fantasia”.[21]
“Preferisco le storie fantastiche” scrive un bambino “perché nelle storie vere a volte il lieto fine non c’è, non è sicuro che il cattivo perda sempre”.[22]
Desideriamo qualcosa di più vero di ciò che è reale, qualcosa che ci mostri la verità di quello che è reale. Non esiste confusione fra fantasia e realtà.
Il mondo fantastico, infatti, apre la strada alla novità, a nuove possibilità, all’imprevisto, al non noto, all’accadere dell’eccezionale. Nel mondo fantastico c’è sempre qualcosa di strano, può accadere di tutto e non ti immagini mai quello che può succedere: mondi nuovi, personaggi strabilianti, persino qualcosa di pericoloso.
La fantasia, il creare o far intravedere Altri Mondi era il cuore del desiderio del Fiabesco. E io desideravo i draghi con un desiderio profondo. Certo timoroso com’ero non desideravo di averli nelle vicinanze, non volevo che potessero introdursi nel mio mondo relativamente sicuro, nel quale era possibile, per esempio, leggere storie con la mente tranquilla, liberi dalla paura. Ma il mondo che conteneva anche la possibilità d’immaginare Fafnir era più ricco e più bello, per quanto pericoloso fosse. Chi abita in pianure fertili e tranquille può sentir parlare di colline tormentate e del mare senza messi e anelare ad essi nel suo cuore. Perché il cuore è forte anche se il corpo è delicato.[23]
Ciò che è misterioso contiene altro rispetto a ciò che conosco, contiene qualcosa che posso anche temere ma che mi affascina e di cui ho nostalgia.
Il magico contiene uno spazio di libertà in cui il desiderio cresce, è possibile ciò che desidero.
L’attrazione per la magia, per il superpotere, direi anche per il pericoloso, è un’ulteriore espressione dell’ampiezza della nostra ricerca.
Certo, oggi il bambino vive tutti i condizionamenti del nostro tempo, non è esente da confusione e da squilibri. La prima condizione sfavorevole è la banalità, l’ovvietà, l’indistinto: più che l’eccesso di fantasia prevale il proliferare insulso di fantasticherie. “La fantasia può essere portata all’eccesso. Può essere malfatta. Può essere piegata ad un cattivo uso. Può persino illudere le menti dalle quali sorge”.[24]
C’è poi il gusto del macabro, del mostro, diffuso nelle serie sui vampiri e negli horror. L’uomo ha sempre avuto l’esigenza di dare una forma simbolica al male, di contenerlo. Questo contenitore è la possibilità di limitarlo e quindi di poterlo dominare e distruggere. Questo bisogno viene oggi usato e indotto, commercializzato: è un prodotto di consumo, una emozione esasperata perseguita e staccata dalla conoscenza, una lussuria spirituale la chiama Lewis.
Una parte del mondo editoriale approfitta di questo dato di natura in modo perverso e fa cassetta.
Forse più sottile è “lo spaventoso sottobosco di storie scritte o adattate per i bambini edulcorate o espurgate, stupide, vere scemenze prive di intreccio”[25] e quelle letture apparentemente corrette e buone, la cui filosofia, anche esplicita, promuove un uomo capace autonomamente di bene, pace, uguaglianza, non violenza, integrazione.
Ma questi sono errori facilmente riconoscibili se sottoposti al vaglio dell’esperienza dell’adulto e del bambino stesso.
La fantasia piace al bambino perché il bambino è in una posizione aperta di fronte all’accadere del nuovo: il se non ritornerete come bambini indica una posizione necessaria al riconoscimento del nuovo, alla vera novella.
Il bambino è in questo senso il vero uomo, colui che è profondamente uomo, perché in lui è più nitido il bisogno e più facile l’adesione ad altro da sé, come osserva magistralmente don Giussani “il cuore di un bambino è fatto per scoprire, per starci a godere, per viaggiare per tutto l’universo senza posa, mai stanco e sempre lieto, in pace, curioso e soddisfatto”.[26]
Il bambino ama godere, ama il gioco, la lettura è un gioco che ricrea, che permette di staccarsi dalla realtà e tornarci più certi di una nuova possibilità.
Un’amica, nei momenti di impotenza di fronte al profondo dolore dei figli nell’esperienza dell’affido, legge storie. Il gigante egoista ha dato loro speranza.
Vorrei soffermarmi su un aspetto che determina e condiziona spesso il rapporto del bambino con la narrativa.
Per alcuni bambini si frappone, infatti, un ostacolo: non sanno leggere. La fatica della decodifica è troppo alta per permettere l’accesso a questo bene. “Leggere è brutto!” dice qualcuno, “io non sono capace” aggiunge un altro.
“A volte la fatica è tale che sembra quasi impossibile riuscire a pensare che dentro a quelle parole possa esserci un guadagno”, “la lettura inoltre richiede una posizione del corpo tendenzialmente statica e, per molti, anche questo è uno scoglio” osservano le maestre.
La responsabilità nell’insegnare a leggere è della scuola, ma è la compagnia personale di un grande, maestro, genitore o amico che introduce a leggere.
La comunicazione avviene da persona a persona, in un dialogo che costruisce, che non si accontenta delle affermazioni (questo libro è bellissimo, forza, leggi) ma che, oltre a proporre, accompagna.
Racconta una mamma di una bimba che non ama leggere: “a volte mi tira matta, per cui prendo il libro in mano e inizio a leggere io qualche pagina a voce alta, in quell’istante in cui il libro è momento di dialogo privilegiato con me, tutto cambia. E finisce che lei si legge da sola due capitoli di fila”.
Non c’è un modello assoluto fisso ma ci sono esperienze fatte di giudizio e di gesti che si offrono e che si calano nel concreto della realtà che l’altro è. Servo io, adulto interprete ed inventore, che cerco di far sì che quello che propongo abbia un significato per l’altro. Questo conferma me e permette all’altro di crescere.
A volte, invece, mutuiamo dei giudizi senza criticità; ad esempio, personalmente, non valuto corretta l’eccessiva preoccupazione che i bambini abbiano a leggere tanto. Preferisco pensare alla proposta di lettura fatta ai bambini come alla proposta di un assaggio che possa far crescere l’appetito. La strada non è uguale per tutti: l’esperienza significativa di lettura personale accade spesso più tardi, non si tratta solo di favorire una buona abitudine.
Il bambino che abbiamo davanti è un uomo che cresce ed è in quel bambino che si rinnova la storia con la certezza e la fantasia che solo il grande autore, nostro Signore, può avere.
“Misterioso è il narratore di fiabe; leggenda popolare, vediamo scritto in un libro, ma si sa che ogni vicenda perfetta è la vicenda di un uomo solo, che solo l’esperienza preziosa, caduta in sorte a un essere singolare, può riflettere, come una coppa fatata, il sogno di una moltitudine.
L’evento irripetibile è storia universale, la massima profondità massima superficie”.[27]
Educare significa aiutare l’animo dell’uomo ad entrare nella totalità della realtà.
La letteratura è una strada.
Proporre, accompagnare e godere del cammino dell’altro, anche attraverso l’ambito letterario, è compito di genitori e maestri. Ci auguriamo di essere per i bambini un aiuto, una presenza benevola, di cui il Padre si serve per realizzare la fantasiosa storia di ciascuno, una presenza che offre opere ed autori capaci, come scrive Rialti, di “esporre l’uomo alla trascendenza, all’infinita bellezza della grande storia provvidenziale nella quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”.[28]
In quel libro pian piano c’ero io e trovare in qualcosa di ignoto ed estraneo qualcosa che mi riguardava è stata l’esperienza più significativa che ricordo. E così da li ho iniziato a leggere e sapevo cosa cercavo nei libri. Cercavo quell’esperienza, quell’esperienza di umanità, quello che desideravo, i miei sentimenti, la mia ragione, la mia volontà, le mie brame, i miei tormenti. Quello che leggevo via via mi svelava quello che io stessa ero, ancora più che quello che andavo facendo. Da allora l’esperienza della lettura è questa e catalogo così un po’ i libri che leggo: quelli che apportano alla mia persona una coscienza maggiore, un moto dell’anima e un’incidenza sulla mia vita e quelli che mi passano addosso, che non lasciano segno. Come tanti di voi ho avuto la fortuna di amici che mi hanno indicato, che mi hanno suggerito delle letture. I libri si consigliano agli amici e questo aspetto penso sia anche l’esperienza della scuola, l’esperienza anche della famiglia, l’esperienza educativa: comunicare ciò che per sé è significativo, offrirlo all’altro perché l’altro possa fare la sua verifica e nel percorso che fa l’altro io stessa sono come confermata nell’esperienza. Quindi questa è la prima cosa che così mi sento di dire per me e di suggerire anche a voi: che si tratta di scegliere che libri dare in mano ai bambini, non perché un bambino non possa leggere di tutto, anzi penso che ci sia proprio una iniziativa libera che deve essere salvaguardata nella lettura, sia perché c’è proprio una alterità del bimbo anche piccolo che va rispettata, sia per non chiudersi nel già noto. Però penso che l’esperienza che ciascuno di noi fa e quindi anche nell’ambito di quello che si legge, quello che dà respiro a noi, quello che rappresenta una strada, che contiene un’attrattiva è oggetto dell’offerta che viene fatta anche ai bambini. Per questo non penso che sia indifferente ciò che proponiamo, non si tratta semplicemente di leggere ma si tratta di che cosa val la pena leggere. Quello che per me, per la mia esperienza è più significativo, è proprio l’esperienza della persona, questa umanità che cerca il suo destino. Tanta, tanta letteratura per l’infanzia, penso soprattutto alle fiabe, contiene questa verità, le fiabe sono vere si diceva già prima, e questa verità riguarda innanzitutto il destino, è già stato ben detto: il lieto fine, le forze dell’inferno non prevarranno, c’è qualcosa, c’è un bene che vince, il buono sul cattivo, il cavaliere sul drago. Questo vittorioso di cui parlava il professor Faeti, questa resurrezione che vince la morte. Io penso che questo sia il messaggio più grande che nella letteratura e nella letteratura proprio per l’infanzia sia contenuto. Ed è su questo che va fatta anche una scelta. Lewis distingueva la scelta dei libri tra i pochi e i molti. Cristina Campi addirittura parla di quadrifogli, quadrifogli in un prato, e bisogna magari cercarli insieme questi quadrifogli. Che cosa caratterizza questo annuncio della verità e questo compito che è riservato a ciascuno nelle storie, questi protagonisti che possono essere anche grulli o possono essere degli eroi, ma che hanno un compito, un viaggio da compiere? Questo compito chiede impegno, chiede sacrificio ma è ricco di una presenza che nella realtà continuamente si fa strada e si fa vicino ed aiuta e viene in soccorso e fornisce tutti i mezzi, tutte le possibilità perché questo cammino si realizzi. Ecco, se questo è come un contenuto di verità che va ricercato in ciò che proponiamo ai bambini, io penso che quando si parla di certezza, oltre alla verità, si parla di un legame affettivo, si parla di qualcosa che unisce la persona, nella sua intelligenza ma anche nella sua interezza e quindi nella sua affettività. I libri commuovono e non è questione di sentimento. Allora penso la letteratura, oltre ad avere questo contenuto di verità, può essere un legame affettivo con il vero. E la cosa più concreta è che il legame affettivo è il rapporto con chi ti propone e ti legge qualcosa. Si crea tanto l’attesa in classe del momento in cui la maestra legge e i bambini vogliono sedersi vicino alla maestra e le preparano il posto perché è proprio quel rapporto, quella relazione che permette una certezza, è quella voce, la voce, qualcosa di concreto, non è soltanto qualcosa che è affermato, ma che è incarnato in quel legame. E la voce l’abbiamo vista prima magistralmente ascoltando quelle poche battute dal professor Faeti, la voce ti prende, ti conduce e vuoi che si ripeta, che accada di nuovo e vuoi che succeda nello stesso modo: i bambini amano che si ripeta un certo rito, anche nella lettura, perché si crea un legame, è quel legame di cui hanno bisogno. E poi il legame affettivo c’è perché questa verità non è semplicemente affermata, detta, ma è incarnata dentro un pezzetto di storia, è dentro un evento, è dentro un accadimento. Se fosse soltanto detta non sarebbe non solo accolta ma neanche ascoltata. Diceva Ada Negri nelle sue esperienze iniziali che, avendo a che fare con una classe abbastanza difficile, una masnada di bimbetti irrequieti, “Urlavo, urlavo sempre, tanto da diventare rauca. Riuscivo ad addolcire la voce solo in fantastici racconti coi quali godevo calmare la loro irrequietezza. Il tuffo nel meraviglioso li rinfrescava, li rendeva miti come agnelli e io ne approfittavo per giungere, attraverso la favola, a insegnar loro di sorpresa cose a cui non avrebbero altrimenti prestato attenzione”. Coraggio, lealtà, desiderio di appartenenza, riconoscimento dell’altro anche del nemico, vengono fuori parole, quando si legge, senza bisogno di mettergliele in bocca, dice una maestra. È così evidente l’esperienza che si fa perché non è esplicita, è implicita. E poi penso che il legame affettivo che si crea, si crea perché ci sono io che leggo, ci sono io che sono preso da quello che leggo. Quanti bambini quando leggono si isolano, o meglio sono totalmente presi e un bambino dice “sento le voci di chi parla”, “vedo i luoghi in cui è ambienta la storia”. E ne nasce immediatamente l’immedesimazione, arriva il disegno anche non chiesto, si va in cortile e si gioca a I ragazzi della via Paal e uno vuole essere Boka, si riconosce in quello, e quell’altro dà il nome al cespuglio del Sacro Cuore e lo fa diventare l’armadio di Narnia. C’è una immedesimazione che crea un legame fra quello che leggo e quello che sono io e il mio contesto. E poi penso che il legame affettivo, parlando di letteratura, sia proprio anche un legame con la magia della parola: il suono, la forma, veicolano un senso. C’è una bellezza della lingua che facilita la comprensione, che accompagna nella memoria. “Qualcuno avrà notato con quale ipnotica lentezza battono le ciglia di un bambino che ascolta, non di ilarità è la sua espressione. C’è in lui la tensione immobile degli animali in muta, degli insetti in metamorfosi. È forse simile agli usignoli in pieno canto che si dice hanno una forte temperatura e il piumaggio tutto arruffato. Egli sta crescendo in quegli attimi, sta bevendo con voluttà e tremore alla fontana della memoria l’acqua fulgida e cupa da cui ha vita la percezione sottile”, dice Cristina Campo. Ma anche il Tolkien dice: “Fu nelle fiabe che io intuii per la prima volta la potenza delle parole e la meraviglia delle cose, pietra, legno, ferro, alberi ed erba, casa, fuoco, pane, vino. La parola esprime più di quanto appare, evoca, lancia, pesca nella memoria”. Io penso che la certezza che comunica la letteratura a un bambino è grande, è un’esperienza grande e non a caso per alcuni è il momento proprio, come diceva Ada Negri, rappacificante. Matilde, una cara amica, mamma affidataria, in tanti momenti difficili e dolorosi nella storia dell’affido legge storie. Il principe felice, meglio ancora Il gigante egoista hanno consolato e ridato speranza a tanti bambini, in tanti momenti di alcuni bambini. E la fantasia, la fantasia è parte della realtà ma perché è così naturale, così bella per un bambino. Intanto faccio mia la nota di Pietro, di terza, che dice “preferisco le storie fantastiche, perché nelle storie vere a volte il lieto fine non c’è”, non è sicuro che il cattivo perda sempre. È un più vero di ciò che è reale. Ma che cosa prende il bambino? Io penso che sia la novità, la possibilità di un nuovo, di qualcosa di imprevisto, qualcosa che accade, che è eccezionale e che certo contiene anche un pericolo proprio perché non è noto. Può succedere di tutto, eppure è proprio questo temere che a volte mi affascina e ho nostalgia. Tolkien stesso diceva: “io desidero nelle storie i draghi”, perché c’è questo mistero che contiene altro rispetto a ciò che conosco. Il magico, la fantasia contengono uno spazio di libertà maggiore in cui è possibile ciò che desidero. La categoria della fiaba non è la possibilità ma il desiderio. E quindi l’attrazione per il magico, per il fantastico, anche per il superpotere e quindi anche per quello che c’è di pericoloso in questo, non è che un’ulteriore espressione dell’ampiezza della nostra ricerca. Non voglio essere ingenua, certo i bambini vivono tutti i condizionamenti dell’oggi e quindi anche confusioni e squilibri. Vi voglio accennare quelli che vedo. La prima condizione secondo me è la banalità, l’ovvietà, l’indistinto; più che eccesso di fantasia prevale il proliferare insulso di fantasticherie. La fantasia può essere portata all’eccesso, può essere malfatta, piegata a un uso cattivo. E poi c’è il gusto del macabro, del mostro, la serie vampiri, horror. L’uomo ha sempre avuto l’esigenza di dare una forma simbolica al male e anzi, questo è una possibilità per contenerlo, per affrontarlo, per dominarlo. Però questo bisogno oggi viene usato, commercializzato, indotto, è un prodotto di consumo che fa leva su una emozione esasperata e perseguita, staccata dalla conoscenza. Là dove nella fiaba c’è unità della persona, fra la sua affettività e la sua ragione, qui l’emozione cavalca sciolta, è una “lussuria spirituale”, la definisce Lewis, approfitta di un dato naturale in modo perverso e fa cassetta. “E poi forse più sottile è lo spaventoso sottobosco di storie scritte o adattate per i bambini, edulcorate, spurgate, stupide, vere scemenze prive di intreccio”. Non sono parole mie, non oserei, ma di Tolkien. O quelle letture apparentemente corrette, buone, la cui filosofia anche esplicita crede in un uomo capace autonomamente di bene, pace, uguaglianza, ecologia, non violenza, integrazione, ridotti a norme. Ma questi errori sono facilmente riconoscibili se sono sottoposti al vaglio della nostra esperienza, della nostra personale esperienza. Io torno al fatto che la fantasia piace al bambino perché il bambino è in una posizione più aperta di fronte a ciò che accade, ha più chiaro più nitido il suo bisogno ed è più facile aderire ad altro da sé. “Il cuore di un bambino è fatto per scoprire, per starci a godere”, dice Giussani, “per viaggiare per tutto l’universo mondo senza posa, mai stanco e sempre lieto, in pace, curioso e soddisfatto. Il bambino ama godere, ama il gioco e la lettura è un gioco che rinfresca, che ricrea, che permette di staccarsi dalla realtà per tornarci poi più certi di una nuova possibilità”. Chiudo dicendo che per alcuni bambini c’è un ostacolo, non sanno leggere. Il 26% della popolazione scolastica nella scuola dell’obbligo è al di sotto della minima capacità di lettura. Certo, c’è una responsabilità della scuola, tanti bambini dicono “leggere è brutto, io non sono capace”, e la scuola si deve incaricare di insegnare a leggere. Ma rimane, come dicevo anche nella mia esperienza, una difficoltà per alcuni. E allora, c’è una compagnia da fare, una compagnia personale, di un grande, maestro, genitore, amico, che introduce, che si fa vicino perché può esserci la difficoltà ma il cuore lo desidera comunque. Questa è una opportunità: vedere con gli occhi degli altri, come diceva prima Raffaella, è per tutti una possibilità. E quindi io vorrei così dire che non c’è un modello assoluto, non è che dobbiamo far nostri anche degli slogan come “nell’età scolare bisogna leggere tanto, bisogna leggere di tutto”, non penso che si tratti di questo, penso, come dicevo prima, a un assaggio, che faccia venire appetito di quello che è possibile leggere. E quindi quello che vivo io, e che penso che sia per tutti, è che il giudizio e il gesto accompagnino, si offrano al bambino e si calino nel concreto della realtà che l’altro è, che il singolo bambino è. La lettura, tra l’altro, si scopre secondo me nella sua sostanza non nei primi anni, nei primi anni ci si imbeve della lettura degli altri, ma la lettura autonoma è una scoperta che non per tutti accade nello stesso momento. Ecco dicevo, è un uomo quello che abbiamo davanti, è un bambino che va introdotto alla realtà, ed è in quel bambino che si rinnova la storia con la certezza e la fantasia che solo il grande Autore, Nostro Signore, può avere. “Misterioso è il narratore di fiabe, leggenda popolare vediamo scritta in libro, ma si sa che ogni vicenda perfetta è la vicenda di un uomo solo, che solo l’esperienza preziosa caduta in sorte a un essere singolare può riflettere, come una coppa fatata, il sogno di una moltitudine. L’evento irripetibile è storia universale, la massima profondità, massima superficie”. Ecco, sostenere e accompagnare il bambino, l’uomo ad entrare nella totalità della realtà. La letteratura è una strada e quindi a ciascuno di noi il compito di proporre, di farsi vicino, di trovare modi per vivere nel presente quella compagnia e godere del cammino dell’altro anche se è diverso. Questo è il nostro compito e l’augurio è che ciascuno di noi possa essere quella presenza, quell’aiuto benevolo che nelle storie sempre accade e che il Mistero usa per fare sì che ciascuno trovi il suo compimento. E per chiudere ripensando a quell’isola misteriosa, mi venivano in mente le frasi di una storiella, la piccola grande storia di un nostro amico: “c’è laggiù quella terra che cerchi tu e ci arriverà chi mi seguirà”. La letteratura è un invito alla trascendenza. Grazie.

DAVIDE RONDONI:
Grazie anche a Renata per il suo intervento, così largo anche nella sua preoccupazione, nella sua attenzione. Io sono molto contento, ho iniziato dicendo che ero molto curioso su questo incontro perché non sapevo cosa sarebbe successo, come nei veri incontri. Se lo sai prima che gusto c’è? Sono molto contento non solo perché, come avete notato, tutti e tre i relatori hanno citato tre poeti, Gozzano, Dickinson e Campo. Non è un vanto di categoria, sono molto contento perché questo incontro è per tutti un invito al lavoro, non solo nel senso che io mi impegno e spero di poterlo fare insieme agli amici che sono qui, ma perché al Meeting ci sia anche nei prossimi anni in qualche modo un’attenzione a quello di cui oggi abbiamo discusso. Giustamente il professor Faeti ha detto “al Meeting finalmente parliamo di queste cose” e secondo me questo è l’inizio, per cui vediamo come fare e lo dico anche come possibile suggerimento a tutti. E’ un invito al lavoro perché abbiamo toccato una serie di cose e anche di possibilità espressive, il film, il disegno, il racconto, che sono un campo di lavoro che è una prateria aperta per chi abbia voglia di lavorare e non solo di lamentarsi. Nella vita ci sono due posizioni: chi si lamenta di quello che fanno gli altri e di chi fa, cioè di chi lavora, e quindi credo sia un grande invito al lavoro. Ma, per concludere, volevo rifarmi alla mia minima esperienza di scrittore per l’infanzia. Ho fatto un romanzuccio e un libruccio di poesie per i ragazzini, e facendolo mi sono accorto che aveva ragione, e quello che ho ascoltato oggi me l’ha confermato in qualche modo, anzi l’ha approfondito non solo confermato, aveva ragione un grande scrittore che si chiama Baudelaire, Charles Baudelaire, che non è esattamente uno scrittore per bambini, come sapete, che però diceva una cosa molto importante: “La letteratura non ha fine morale”. Lui non sopportava gli scrittori che avevano fini morali, diceva “non voglio avere per amico uno scrittore che ha vinto un premio alla morale dato dallo stato”, non avrebbe sopportato Gomorra, per intenderci, per tradurre in termini di quello che è oggi la letteratura che fanno leggere nelle scuole, e diceva: “perché la letteratura ha solo un compito, che non è fare la morale, ma rispettare le condizioni della vita”. E quello che abbiamo sentito oggi anche negli accenni, nei racconti che anche Raffaella ha riportato, è che appunto l’uomo ha bisogno di storie, non che gli venga raccontata una morale o gli venga fatta una predica, ma ha bisogno di storie per riconoscere le condizioni dell’esistenza. E le condizioni dell’esistenza sono quelle appunto che si trovano alla fine di quell’essere vittorioso, “non siamo mai soli, non siamo gli ultimi”. Questo non è vero perché lo dice il prete, è vero perché è vero, perché è una condizione della vita: non è vero che sei solo, e non è vero che sei l’ultimo. E la letteratura richiama sempre questa realtà a riguardare, a riconoscere la vita per quello che è, non per quello che dovrebbe essere. Tant’è vero che anche la questione che giustamente è stata accennata, che “l’uomo tende a un destino, per questo ama il lieto fine”, lo sa anche un bambino che le storie non vanno a finire tutte bene nella realtà, e allora non è che la letteratura serva per illudere, stia in un posto dove c’è sempre il lieto fine, non è che vogliamo prendere in giro i ragazzi. Ma il piacere del lieto fine significa che le cose possono anche non funzionare, ma quello che non deve andare a finire male sei tu, cioè il tuo desiderio di un compimento. Per questo ami il lieto fine, non perché pensi che le cose vanno tutte bene, perché non è vero che le cose vanno tutte bene, ma anche quando le cose vanno male o quando le cose non funzionano fino in fondo, quello che non deve andare a finire male è il tuo desiderio di un destino per te, perché sennò sarebbe tutto una favola, nel senso negativo della parola. Per questo dicevo la letteratura, anche per l’infanzia, non solo la grande letteratura come Baudelaire, grande nel senso per adulti, ma anche la letteratura per l’infanzia ha questo grande compito, che è quello di rispettare le condizioni della vita. In questo senso, diceva giustamente il professore, il privilegio dei cristiani non è di avere un’altra morale da mettere in gioco in mezzo a tutte quelle degli altri, dei maghetti, dell’orrore, della finta, non è giochiamo anche noi la nostra carta morale in mezzo a tutti gli altri che fanno la morale, perché tutti fanno la morale, tutti fanno la morale ai bambini, anche gli adulti purtroppo. Il nostro compito non è mettere anche noi la nostra cartina morale, ma invece aiutarci a rivedere quali sono veramente le condizioni della vita. Quali sono le condizioni vere della vita. Cioè abbiamo il privilegio dell’ermeneutica, cioè abbiamo il privilegio del fatto che il Cristianesimo ci svela la vita com’è, per questo la possiamo raccontare. Questo è l’unico privilegio che abbiamo, non è di fare una parte, è solo per dare un piccolo indizio del grande lavoro che ci aspetta e a cui questo incontro, come poi tutto il Meeting, invita a fare. Io ringrazio ancora i nostri ospiti, ringrazio anche voi per la pazienza che avete avuto nell’ascolto e credo che sia un buon inizio anche questo incontro.

[1]M. ENDE, La storia infinita, Milano, Tea Due, 1988, pp. 16-17.

[2]“Il primo vero piacere della lettura d’un vero libro lo provai abbastanza tardi: avevo dodici o tredici anni, e fu con Kipling, il primo e soprattutto il secondo libro della giungla. Non ricordo se ci arrivai attraverso una biblioteca scolastica o lo ebbi in regalo. Da allora in poi avevo qualcosa da cercare nei libri: vedere se si ripeteva quel piacere della lettura provato con Kipling”.[manoscritto inedito] in ITALO CALVINO, Sulla fiaba, Milano, Mondadori, 2009, p. XII.

[3]C.S. LEWIS, Lettori e letture, Milano, Vita e Pensiero, 1997, p.19.

[4]Il movimento di Comunione e Liberazione suggerisce mensilmente delle letture a scopo educativo.

[5]Nel testo sono raccolti interventi e osservazioni degli insegnanti e degli alunni della scuola primaria Fondazione Sacro Cuore di Milano.

[6] C.S. LEWIS, Lettori e letture, p. 27.

[7]Mt 16, 18.

[8]J.R.R. TOLKIEN, Il Medioevo e il fantastico, Milano, Bompiani, 2004, p. 225.

[9]Cfr. nota 5.

[10]I. CALVINO, Sulla fiaba, p. 38.

[11]R. BENSON, Il padrone del mondo, Milano, Jaca Book, 1987, p. VII.

[12]A. NEGRI, La cacciatora ed altri racconti a cura di A. ARSLAN e A. FOLLI, Milano, Scheiwiller, 1988.

[13]PITRÈ cit. in I. CALVINO, Sulla fiaba, p 53.

[14]Cfr. nota 5.

[15]C. CAMPO, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987 p. 14.

[16]Cfr. nota 5.

[17]Ibidem

[18]Ibidem

[19]P. FLORENSKIJ, il valore magico della parola, Milano, Medusa, 2003, p. 81.

[20]J.R.R. TOLKIEN, Il Medioevo e il fantastico, p. 217.

[21]J.R.R. TOLKIEN, Il Medioevo e il fantastico, p. 213.

[22]Cfr. nota 5.

[23]J.R.R. TOLKIEN, Il Medioevo e il fantastico, pp. 202-203.

[24]Ibidem p.213.

[25]Ibidem p. 203.

[26]L. GIUSSANI, Realtà e giovinezza. La sfida, SEI, Torino, 1995, pp 78-79.

[27]C. CAMPO, Gli imperdonabili, p. 29.

[28]E. RIALTI, «L’Osservatore Romano», 14-01-2008.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2011

Ora

11:15

Edizione

2011

Luogo

Sala C1
Categoria
Incontri